Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 23 Febbraio 2007 01:05

Resuscitando sensi (Faustino Ferrari)

Bisogna che torniamo a dare spazio al silenzio in noi. Se vogliamo che nella nostra vita ci sia resurrezione dei sensi e dei significati.

Giovedì, 22 Febbraio 2007 00:19

In margine al caso Welby (Giordano Muraro)

Alcune riflessioni sui caso Welby e sui molti interrogativi che pone, per andare oltre l’emozione e comprendere meglio il principio del rispetto della vita.

La Chiesa ortodossa russa e la sfida missionaria

Fedeli alla tradizione, audaci verso il mondo

di Adalberto Mainardi *

Dopo l’esperienza tragica dell’ateismo di Stato, nuove opportunità si aprono per l’annuncio del Vangelo. Ma come testimoniare la comune passione per Cristo senza tradire il cammino verso l’unità?

«La fonte del Vangelo si è gonfiata d’acqua e ha ricoperto la terra, dilagando fino a noi»: all’alba della storia della Rus’ cristiana, Ilarion di Kiev (XI secolo) guarda con stupore alla corsa del Vangelo che giunge al popolo dei «russi», e vede già aprirsi gli «ultimi tempi».

Mille anni dopo, la Federazione russa è la più estesa formazione geopolitica del globo terracqueo, e con i suoi 143 milioni di abitanti forma un composito mosaico di etnie, credi e religioni; dopo la drammatica esperienza dell’ateismo di Stato, la Chiesa ortodossa russa è tornata a essere un punto di riferimento per la ricostruzione morale del Paese. Quali sono oggi le sfide per la Chiesa russa? Quale il linguaggio per annunciare il Vangelo in una società ancora segnata da una transizione incerta, da nuovi conflitti tra culture e religioni? E soprattutto, come le Chiese possono vivere questo annuncio senza contraddire il cammino comune verso l’unità?

Sono tutte domande a cui si è cercata una risposta al XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (14-20 settembre 2006), organizzato dal Monastero di Bose con il Patriarcato di Costantinopoli, il Patriarcato di Mosca e la partecipazione di autorevoli rappresentanti delle diverse Chiese ortodosse, della Riforma e della Chiesa cattolica. La seconda sessione del Convegno era infatti dedicata alle «Missioni della Chiesa ortodossa russa» negli immensi spazi del Nord e della Siberia, fino alla Cina, al Giappone e all’Alaska. Quello che sembrava un cristianesimo perfettamente inculturato, ma anche chiuso nella sua forma bizantino-slava, si è rivelato capace di un’esperienza attualissima di ascolto della ricerca di Dio che abita ogni uomo e ogni cultura. «Fino a poco tempo fa», osservava Alexander Schmemann, il grande teologo russo emigrato negli Stati Uniti, «in Occidente era opinione diffusa che il movimento missionario fosse passato a fianco del cristianesimo “statico” dell’Est senza esercitare alcun influsso». Un pregiudizio che il convegno di Bose aiuta a superare.

È in epoca moderna che le esplorazioni nel lontano Oriente mettono a contatto la Russia ortodossa con le popolazioni nomadi dell’Asia centrale, della Siberia, fino agli indigeni della Kamcatka (korjaki, itelmeni, cutkci), dell’Alaska. Se l’equazione tra Stato russo e ortodossia (un’ortodossia che Pietro il Grande aveva completamente asservito allo Stato) trasforma spesso la missione cristiana in uno strumento al servizio della colonizzazione, la storia dei santi missionari russi offre un modello alternativo di incontro tra popoli e culture.

L’archimandrita Spiridone, missionario in Siberia all’inizio del Novecento, avvertiva acutamente l’inconciliabilità tra l’annuncio del Vangelo ai poveri e una predicazione che spesso finiva per essere un momento della russificazione. Nel suo diario annotava la risposta di un Lama: «Se i cristiani credessero e vivessero così come il Cristo ha insegnato, non sarebbe più necessario che predicassero, perché la realtà è più forte delle parole». È inevitabile che gli evangelizzatori siano anche portatori di una determinata cultura; ma l’Evangelo - che è Gesù Cristo - trascende ogni inculturazione, rimane un’istanza di purificazione e rinnovamento in ogni cultura, la apre all’incontro con l’altro.

È proprio questa trascendenza del Vangelo, questa rinnovata apertura delle tradizioni alla novità dell’annuncio cristiano, che ritroviamo nell’esperienza missionaria dei monaci, i primi evangelizzatori delle terre russe: nel XIV secolo Stefano di Perm’ inventa un alfabeto, traduce la Bibbia e la liturgia per le popolazioni zyriane del Nord; tra XVIII e XIX secolo, l’eremita German incarna l’ideale di Cristo tra gli indiani aleuti dell’Alaska; l’archimandrita Makarij (Glucharev) traduce la Bibbia in lingua altaica per le tribù dell’Altaj e contemporaneamente (per la prima volta!) in russo… Il metropolita Innokentij Veniaminov traduce il Padre nostro per gli indiani di Unalaska chiedendo «il nostro pesce quotidiano». Senza utilizzare il termine, i santi missionari russi praticano un’inculturazione del Vangelo capace di diventare dialogo tra le culture, seme di una nuova creazione.

Ma qual è il valore per l’oggi di questa esperienza? Per la Chiesa ortodossa russa la risposta a questo interrogativo sta nella difficile ricerca di un equilibrio tra fedeltà alla tradizione e audacia evangelica di fronte alle nuove sfide.

In una società civile ideologicamente disorientata, disillusa dall’Occidente e a volte attratta dal ritorno del mito autoritario, l’ortodossia rappresenta in Russia un ideale positivo per la ricostruzione di un’identità nazionale e culturale. Se tuttavia la percentuale di quanti si dichiarano ortodossi tocca il 70-80 per cento, analisi sociologiche più dettagliate mostrano che solo il 10 per cento crede alla resurrezione dei morti, e un numero ancora inferiore frequenta regolarmente la chiesa (2 per cento).

Secondo l’arcivescovo Ioann, presidente del Dipartimento missionario del Patriarcato di Mosca e presente al convegno di Bose, uno dei compiti primari della missione è non solo «il lavoro missionario con coloro che cercano Dio, ma anche con coloro che, pur essendo già battezzati, non hanno ricevuto un adeguato insegnamento sui fondamenti della fede e della vita cristiana». Nel mondo contemporaneo, ha proseguito l’arcivescovo, «dove i processi di globalizzazione, la frammentazione sociale, le turbolente migrazioni di massa sono accompagnati dalla pressione della violenza, dell’estremismo e delle tensioni etniche e confessionali, la testimonianza e l’annuncio della riconciliazione è divenuto uno dei fondamenti cruciali della missione ortodossa». È perciò essenziale saper attingere dal Vangelo la creatività necessaria a una nuova inculturazione.

In questo senso è sintomatico che l’identificazione tra ciò che è russo e ciò che è ortodosso, oggi volentieri propagandata dai mass media in Russia, provoca simmetricamente il rigetto dell’ortodossia nelle popolazioni non russe delle Repubbliche centroasiatiche o siberiane, che dopo l’ateismo sovietico ritornano al paganesimo (o all’islam) quale elemento fondante della cultura autoctona.

Questo quadro aiuta anche a comprendere meglio le tensioni sorte tra Chiesa ortodossa russa e Chiesa cattolica sul tema dell’evangelizzazione. La graduale ripresa dell’attività pastorale della Chiesa cattolica in Russia negli anni Novanta ha infatti coinciso paradossalmente con un raffreddamento delle relazioni con la Chiesa ortodossa. Il Patriarcato di Mosca in più occasioni si è ufficialmente lamentato che gruppi cattolici, nel contesto di un rinnovato impegno nell’evangelizzazione, agissero in modo poco rispettoso verso la millenaria tradizione ortodossa russa, fino a forme di proselitismo che contraddicevano l’ecclesiologia di «Chiese sorelle» proclamata dal Concilio Vaticano II. Il Patriarcato si è sovente richiamato alle direttive della commissione pontificia Pro Russia (1992), che chiede ai cattolici «una reale sollecitudine verso i loro fratelli ortodossi» per «preparare con loro l’unità voluta da Cristo». Concretamente, questa sollecitudine avrebbe dovuto tradursi in un costante coordinamento di ogni iniziativa caritativa e missionaria con i vescovi ortodossi locali. «L’attività della Chiesa cattolica in territori profondamente segnati dalla presenza della tradizione ortodossa» deve infatti esercitarsi «secondo modalità sostanzialmente diverse da quelle della missione ad gentes».

Occorre inoltre tener presente il fenomeno delle sètte straniere (Moon, Aum Shinri-kyo, Sri Chinmoy, Scientology e altre ancora), presenti in modo massiccio in Russia dai primi anni Novanta. Questa situazione fluida e spesso confusa ha condotto nel 1997 - per la pressione di nazionalisti e comunisti - a una nuova legge «sulla libertà di coscienza», che di fatto impedisce l’attività missionaria degli stranieri e priva di riconoscimento giuridico le associazioni religiose esistenti da meno di quindici anni. Se le conseguenze più restrittive della legge, spesso in contrasto con la Costituzione, sarebbero state sostanzialmente ridimensionate dai decreti attuativi, l’idea stessa di una «testimonianza comune» dei cristiani era però compromessa. Presso gli ortodossi riprendevano forza gli antichi pregiudizi anticattolici, mentre autorevoli esponenti della Chiesa cattolica ritenevano del tutto incompatibili evangelizzazione ed ecumenismo.

Le relazioni tra le due Chiese si sono ulteriormente raffreddate quando Giovanni Paolo II, nel gennaio 2002, ha eretto in diocesi le Amministrazioni apostoliche nella Federazione russa, con sede a Mosca, Saratov, Novosibirsk e Irkutsk, in un contesto ecumenico deteriorato dalle irrisolte tensioni tra greco-cattolici e ortodossi in Ucraina. Nel 2004, dopo la visita del cardinal Walter Kasper al patriarca di Mosca Alessio II, è stata istituita una commissione mista cattolico-ortodossa per valutare i singoli episodi che potessero essere interpretati come proselitismo di una Chiesa nei confronti dell’altra.

Non sembrano esserci soluzioni immediate o a basso prezzo a questa dolorosa incomprensione. L’unica via per un rinnovato incontro nella carità e nella verità è quella di una comune conversione al Vangelo. Solo allora sarà possibile anche una missione non soltanto spoglia di ogni spirito di proselitismo, ma anche di quella competizione che non è evangelica, perché umilia e non riconosce la qualità ecclesiale di una Chiesa sorella.

«Oggi ci troviamo a uno spartiacque, all’inizio di una nuova epoca», ha detto a Bose padre Georgij Kocetkov, rettore dell’Istituto ortodosso cristiano San Filaret di Mosca: occorre «saper rinnovare ogni cosa, lasciare che il Signore faccia ogni cosa nuova (Ap 21,5)». Proprio in questo senso il metropolita Anthony (Bloom), recentemente scomparso, parlava di missione: «Dobbiamo riscoprire il nostro essere missione in modo nuovo: non dobbiamo metterci nella condizione di insegnare agli altri uomini, ma noi stessi dobbiamo diventare altri, diventare uomini nuovi. Così che la gente, guardando a noi, cominci a interrogarsi, a chiederci conto della speranza che vede in noi». Se i cristiani cominceranno a mettere in pratica il Vangelo gli uni verso gli altri - prima di ogni antagonismo reciproco - il Vangelo stesso susciterà la novità capace di attrarre ogni uomo, ogni cultura.

* monaco di Bose

(da Mondo e Missione, Gennaio 2007)

Mercoledì, 21 Febbraio 2007 01:10

I volti storici di Gesù (Bruno Secondin)

B - I SUOI VOLTI STORICI

di Bruno Secondin

Quale immagine di Cristo è l'autentica?

H. Küng, nel suo noto libro Essere cristiani, ce ne offre una sintesi suggestiva.

"È il giovane imberbe, bonario pastore dell'arte paleocristiana o il barbuto trionfante Imperator o Cosmocrator della tarda iconografia relativa al culto imperiale, aulico-rigido, inaccessibile, minacciosamente maestoso sullo sfondo dorato dell'eternità? E' il Beau-Dieu di Chàrtres o il misterioso Salvatore tedesco? E' il Cristo re e giudice del mondo, troneggiante in croce sui portali e nelle absidi romaniche, o l'uomo dolente raffigurato con crudo realismo nel "Christus in Elend" di Dürer e nell'unica crocifissione superstite di Grünewald? È il protagonista della "Disputa" di Raffaello, dall'impassibile bellezza, o l'umano moribondo di Michelangelo? E' il sublime sofferente di Velàsquez o la figura torturata dagli spasimi di EI Greco? Sono i ritratti salottieri, impregnati di spirito illuministico, di Rosalba Carriera e di un Fritsch, in cui muove un elegante filosofo popolare, o le edulcorate rappresentazioni del cuore di Gesù nel tardo barocco cattolico? E' il Gesù del diciottesimo secolo, il giardiniere o farmacista che somministra la polvere delle virtù o il classicistico Redentore del danese Thorwaldsen. che scandalizzò il suo compatriota Kierkegaard eliminando Io "scandalo della croce?"

È il Gesù umano, mite ed esausto, dei nazareni tedeschi e francesi e dei preraffaelliti inglesi o è il Cristo, calato in ben altre atmosfere, degli artisti del ventesimo secolo, i vari Beckmann, Corinth, Nolde, Maserel, Rouault, Picasso, Barlach, Chagall?

Né meno diverse sono le teologie che sottendono le immagini. Quale cristologia è l'autentica?

È, nell'antichità, il Cristo del vescovo Ireneo di Lione o del suo discepolo Ippolito (antipapa di Callisto), quello del geniale compilatore greco Origene o dell'eloquente giurista latino Tertulliano? E' il Cristo dello storiografo e vescovo costantiniano Eusebio o quello di Antonio, il padre del deserto egiziano; quello di Agostino?

E nel medioevo, il Cristo del neoplatonico Giovanni Scoto Eriugena o quello dell'acuto dialettico Abelardo, quello delle tanto commentate sentenze di Pietro Lombardo o quello delle prediche sul Cantico dei cantici di Bernardo di Clairvaux? E' il Cristo di Tommaso d'Aquino o quello di Francesco d'Assisi, quello del potente Innocenzo III o quello degli eretici valdesi e albigesi da lui combattuti

E', nell'età moderna, il Cristo dei riformatori o quello dei papi romani, quello di Erasmo di Rotterdam o quello di Ignazio di Loyola, quello degli inquisitori spagnoli o quello dei mistici spagnoli da loro perseguitati? È il Cristo dei filosofi-teologi dell'idealismo tedesco, di Fichte, Schelling, Hegel, o quello del teologo-antifilosofo Kierkagaard? E' quello della scuola cattolica, storico-speculativa, di Tübingen o quello dei teologi gesuiti e neoscolastici del Vaticano I, quello dei movimenti di risveglio protestante nel secolo XIX o quello dell'esegesi liberale dei secoli XIX e XX, quello di Romano Guardini o quello di Karl Adam,di Karl Barth o di Rudolf Bultmann, di Paul Tillich, di Teilhard de Chardin o di Billy Graham?

Quante le teste, tante le immagini di Cristo? La devozione continua ancora oggi a fornire le più disparate risposte alla domanda: quale Cristo? Che cosa significa Cristo per me?"



I

Il rischio di deformazioni

Come si vede, in circolazione ne esistono mille diversi volti, a volte addirittura contraddittori. C'è il Cristo semplice della pietà popolare e c'è il Cristo sofisticato degli studiosi; c'è il Cristo tranquillizzante di certo cristianesimo borghese e c'è il Cristo rivoluzionario dei moti di ribellione; c'è il Cristo delle "barricate" e quello "socialista" caro a tanta tradizione popolare italiana, e c'è il Cristo tutto spirituale dei movimenti carismatici. Ognuno lo ha "scritto" o dipinto o scolpito o cantato con volti diversi.

La maggior parte di queste immagini sono legittime, nella misura in cui mettono in luce un aspetto vero di Cristo. Ma c'è anche il rischio di una manipolazione. Soprattutto esiste il rischio che siano i cristiani stessi, nella loro ricerca di Cristo, a manipolarlo o deformarlo, magari anche inconsciamente, con la scusa di attualizzarlo o di modernizzarlo.

Un rischio sempre presente, soprattutto nei momenti di transizione culturale come il nostro: per incarnarlo in nuove culture, rischiamo di snaturarlo o di falsificarlo. Per farne una proiezione di sé, la giustificazione dei nostri progetti e delle nostre opzioni, un ideale ritagliato a nostra misura e per nostro consumo.

Ma nonostante questo rischio di manipolazione, anche la nostra epoca deve "dare il nome" a Gesù (Mt 16,13-16).

Lasciarsi guidare dalle ragioni che dall'alto ci vengono suggerite, ma anche lasciarsi provocare dalle nuove condizioni culturali, che "possono stimolare lo spirito ad una più accurata e profonda intelligenza della fede. Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, della storia e della filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini" (GS 62).

II

... I suoi ritorni

Che si stia vivendo una stagione cristologica particolarmente produttiva, forse in parte anche creativa e paragonabile alla stagione dei grandi concili o al tempo della scolastica migliore, sono in molti a sostenerlo. Sintomi ve ne sono tanti, sia sul piano della ricerca teorica, sia nell'ambito dell'esperienza vissuta e perfino anche nell'espressione artistica.

In fondo la nostra epoca, connotata da una profonda transizione culturale, per naturale esigenza comporta un'ulteriore elaborazione di tutte le sintesi teoriche e una nuova ricognizione degli orizzonti di riferimento attraverso il ritorno al fondamento.

Come premessa diciamo anche che una tale "concentrazione cristologica" - dopo qualche anno di enfasi ecclesiologica - potrebbe anche rischiare di mettere in ombra una necessaria attenzione al tema "Dio", a motivo dell'assorbimento del tutto in Gesù Cristo. Un'afasia sul Dio Padre di Gesù Cristo la si nota comunque nella teoria e nella pratica: molti possono essere detti "cristomonisti" puri. Perfino il concilio Vaticano Il è apparso a qualcuno come tendente al "cristomonismo".

Le varie tappe del passato e del presente rappresentano ciascuna uno stadio del divenire e del realizzarsi della spiritualità cristiana, un atteggiamento della coscienza collettiva nel suo prendere posizione davanti al mistero di Cristo.

Il Gesù della nuova "religiosità"

È apparso di recente uno studio molto ampio e documentato del teologo francese J. Vernette sulla presenza di Gesù nelle molteplici forme di ricerca religiosa del nostro tempo che egli chiama con espressione sintetica "nuova religiosità" Questo studio ha evidentemente una prospettiva più che altro europea (e francese in particolare). Ma dimostra bene come di fatto numerose "religioni selvagge" stanno fiorendo all'interno del deperimento delle grandi forme ecclesiali istituzionali.

1.CARATTERISTICHE GENERALI

Possiamo evidenziare, nel quadro d'insieme, alcune figure "cristologiche" emergenti:

- Ritorno delle questione religiosa come centrale nel senso della vita: Gesù e il suo messaggio ri-divengono una referenza per la condotta individuale e sociale;

- L'universalismo delle religioni e nomadismo religioso: Gesù si incontra in ognuna delle tappe dell'itinerario: un Gesù dai molti volti;

- Modificazioni delle strutture istituzionali di certe religioni stabilite, per creare spazi di "accoglienza" per le nuove sensibilità: il discorso dottrinale su Gesù si modifica, si fa meno rigido; la metà dei cattolici europei non crede nella divinità di Gesù;

- Estensione del pluralismo religioso, verso un pensiero aperto e tollerante: Gesù diviene un pezzo mobile e banalizzato che si fa entrare nel puzzle religioso più diverso;

- Apparizioni di "nuove religioni", trasversali rispetto alle tipologie esistenti, in nome della religione universale come esigenza di una nuova era (che sarà quella dell'Acquario).

Qual è la fisionomia dominante di Gesù Cristo in questa deriva del fenomeno religioso? Per Vernette si tratta di due grandi famiglie spirituali, due visioni globali della persona di Gesù.

La prima famiglia è costituita dai dissidenti del tronco biblico e giudeo-cristiano. L'intento è di vivere con decisione e conversione totale per Gesù, "accettare Gesù come salvatore", "dire di sì a Gesù". Chiaramente il registro ascetico è dominante, in atteggiamento anche di contro-cultura verso le tendenze permissive della società e anche della chiesa.

La seconda famiglia ha la tendenza a "leggere" il ruolo di Cristo in Gesù di Nazaret, e quindi ad interpretarlo in prospettiva cosmica, in chiave di interpretazione, di maestro e guida. L'incarnazione di Dio in Gesù non è che un caso particolare: la manifestazione di uno "strato" (incarnazione) del divino cosmico.

Gesù fa parte dell'energia cosmica, dell'unità sostanziale dell'universo. E il linguaggio usato è quello simbolico ed esoterico, con grande importanza all'elemento femminino, ai poteri psichici, di guarigione, medianici.

2.IL JESUS MOVEMENT

Un interessante momento di questa "Gerusalemme selvaggia" può essere considerato il Jesus Movement. E' in America dell'ovest - a San Francisco specialmente, rivelatosi in questi decenni come "laboratorio" del prossimo futuro - che nasce, sulle speranze e i sogni falliti di rivoluzione e libertà istintuale, un nuovo interesse per Gesù. Gli studiosi indicano gli anni di nascita intorno al 1966/1967:, e il momento culminante verso il 1971. Molti "figli dei fiori", delusi dalla droga e dal sesso libero, scoprono in Gesù un nuovo ideale e una maniera originale di vivere liberi e alternativi.

Quello che nel 1971 la rivista internazionale"Time" chiamerà Jesus' revolution, comprende tutti i movimenti giovanili che dal 1967 si diffondono in America dall'ovest all'est e poi passano in Europa: è tutto un arcipelago di movimenti e manifestazioni ambivalenti ed entusiasti, che hanno lo scopo di ritrovare un senso alla vita e di superare nella presentazione di Gesù i vecchi schemi.

3.ALCUNI GRUPPI PIU' NOTI

Il fenomeno è stato studiato e si distinguono alcuni gruppi più significativi:

a. Hippies cristiani. Sono l'ala più dinamica e spettacolare del movimento. Si distinguono: "Jesus people" - "Jesus freaks" - "Street Christians" e altri. Sono fondamentalisti: l'unica via di salvezza è tornare a Gesù e a Dio; entusiasmarsi soprattutto per Gesù, come ce lo presentano i "libri sacri".

b. Straigt People (gente diritta, onesta): è di carattere borghese. Sono giovani inseriti in campus universitari, organizzano grandi manifestazioni, propongono un cambiamento radicale, ma di carattere più che altro intimista.

c. Movimento carismatico: da non confondere con l'attuale "movimento carismatico". E' una frangia che cerca di valorizzare nella vita cristiana il dono dello Spirito santo e il ruolo dei carismi

Possiamo anche aggiungere i Children of God, che deriva dagli hippies, ma è finito in sètta.

4.OSSERVAZIONI

Tutto il fenomeno è interessante, anche se oggi ormai è superato. Si tratta di un Dio sperimentabile in diretta, cosmico, che si può vedere in faccia. I suoi effetti però perdurano, in quanto ha messo in circolazione la "protesta" contro il Cristo "ecclesiale" definito e congelato in schemi intoccabili e monopolizzato dalle chiese.

Sottolineiamo alcuni aspetti peculiari, circa la figura di Gesù, che:

- Appare come simbolo di un senso pieno e totale della vita: come amico, uomo libero, capace di emozioni comuni, controcorrente;

- E segno della gioia di vivere, del primato della prassi sopra gli schemi teorici, della festa e dell'utopia (rimane dimenticato/rimosso il fatto doloroso della sua morte);

- E via per un contatto immediato con il divino: e ciò porta all'entusiasmo, all'attesa collettiva del suo ritorno. Amare Cristo è entrare nell'avventura della sua attesa;

- Appare come profeta in difesa dell'uomo, di tutti gli uomini, specialmente dei socialmente emarginati, di coloro che sono alla deriva sociale.

5. ALCUNI LIMITI

Non mancano però dei problemi che bisogna sottolineare:

  • Indifferenza per la divinità di Gesù;
  • Superamento della relazione tra Cristo e la sua chiesa attraverso gli "strumenti salvifici" l'essere "chiesa" si riduce al fare esperienza "insieme";
  • Prevalenza dell'emotivo, dell'irrazionale, della soddisfazione dei bisogni di gratificazione, ricerca di "consolazione" dopo il crollo dei miti e dei progetti collettivi che si sono rivelati un fallimento (per es. Vietnam, New Deal, ecc.).

Comunque sta di fatto che attraverso questo movimento Gesù è diventato un prodotto di consumo, rompendo il "monopolio religioso/chiesastico" della sua figura e del suo messaggio. Questa dilacerazione dei confini antecedentemente riconosciuti - cioè la proprietà della figura di Cristo riservata alle organizzazioni "costituite" - è una delle matrici dell'attuale fede in Cristo ma non nella chiesa.

III

... Nella cultura

Il nostro secolo è forse uno dei più ricchi di presenza cristologica nella letteratura e nello spettacolo. Basterebbe citare dei nomi come: Mauriac, Papini, Bulgakov, Dostoiewsky, Green, Böll. Bernanos, Dürrenmatt.

Chi non conosce i nomi e le opere famose di Pasternak (Doctor Zivago), Burgess (L'uomo di Nazareth; originale Jesus Christ and the Love Game), Silone (L'avventura di un povero cristiano), Messori (Ipotesi su Gesù)? Oppure Lettere di Nicodemo di Dobraczynski, Una favola di Faulkner, Getsémani di Saviane, Il grande pescatore di Douglas?

Salvo qualche eccezione, non si tratta di opere esplicitamente dedicate a Gesù, ma piuttosto all'esperienza di odissea, di smarrimento, di misterioso viaggio di ritorno alle sorgenti, ai significati primari, alla salvezza oltre il vuoto e il fallimento o la morte. Si definiscono come testimonianze sul Jesus redivivus.

Per un primo orientamento in tutto questo settore ci appare interessante da segnalare la duplice antologia di J. Imbach su Dio e su Gesù Cristo nella letteratura contemporanea. In questo secondo testo egli studia una trentina di autori (romanzieri), riportandone anche dei testi suggestivi, e analizzando il contenuto delle opere secondo sei categorie interpretative: romanzi tradizionali su Gesù, rispecchiamenti, tracce, attualizzazioni, atteggiamenti, istantanee.

Ancora un filone interessante che sarebbe da analizzare nel campo della letteratura è quello dell'epica e del simbolico, come si trova per esempio nelle opere letterarie di E Kafka, Thomas Mann, J.R.R, Tolkien, J. Barth.

Per gli spettacoli e i films: fin dalle origini dell'arte cinematografica si trovano opere su Gesù Cristo: nella linea tradizionale, perché non si osava andare oltre i canoni della religiosità diffusa. Spettacoli tradizionali si sono realizzati anche nei tempi a noi più vicini: esempio Il Re dei re, La tunica, il segno della croce. Ma chi non conosce le opere di Bresson, Au hazard, Balthazar, o Nazarin di Buňuel?

Una menzione a parte meritano alcuni lavori cinematografici:

- Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1965), da leggersi in legame con La ricotta (1962). Gesù è il profeta del sottoproletariato, Pasolini ha in mente il suo Friuli, la religiosità e la mentalità dei friulani dove lui era cresciuto. E' un Gesù rigoroso, tagliente, anti-sistema.

- Il Messia di Rossellini (1975): è un Gesù modesto e comune, dalla parola sapiente; ma non sembra affatto essere il salvatore atteso.

- Gesù di Nazareth di Zeffirelli (1977). Il giudizio su questo lavoro non è unanime. E' certo un Gesù familiare, in cui molti si ritrovano. Predominano delle scene raffinate ed eleganti nelle immagini. Non abbiamo accenti di reazione violenta contro i potenti. Sembra che il mistero sia appiattito e semplificato a livello di romanzo per il grosso pubblico.

Un'osservazione generale: tutti oscillano fra l'introspezione dei sentimenti più genuini di un personaggio così misterioso e la spettacolarità plateale e a volte decadente o kitsch. Al di là delle molte critiche che si possono fare, è certo che tali spettacoli fanno grande effetto sul pubblico. Inoltre si deve sottolineare che spesso le tendenze teologiche o culturali del momento si riscontrano nei prodotti, in maniera spesso fin troppo evidente: così è stata per la polemica antiborghese. per il superman, per l'uomo affascinante e misterioso, per il ribelle contro l'abuso del sacro, ecc.

Un caso a parte è costituito dalla Sindone: le ricerche scientifiche di questi anni, specialmente dopo la sua "esposizione" nel 1977/'78, ne hanno fatto un elemento di spettacolarità del tutto originale. Dobbiamo tener presente che non è tanto in gioco il "mistero" della morte del Signore, quanto la possibilità di poter "ricostruire" la sua immagine, con tutte le risorse tecniche attuali: ciò è molto conforme all'attuale cultura dell'immagine. Anche Dio diviene "immagine" suggestiva e reale, sia attraverso il cinema, che attraverso la traccia della Sindone".

... nei movimenti ecclesiali

Uno dei fenomeni più interessanti e fecondi della vita della chiesa negli ultimi vent'anni è il moltiplicarsi di gruppi, di movimenti, di associazioni: con vari interessi ecclesiali e differenti modalità di approccio all'esperienza religiosa e all'incontro con Cristo. Nella storia della chiesa il fenomeno di questo genere si è ripetuto altre volte: e sempre in situazioni di transizioni culturali, di ripensamento sulle vecchie formule e di creazione di nuove sintesi vitali. In ognuno di questi tornanti storici, questi gruppi e movimenti hanno dovuto anche misurarsi col "volto ereditato di Cristo" e quindi inventare nuove vie di approccio al suo mistero e alla sua sequela. Così è stato nei secoli III e IV, XII e XIII, XV e XVI, XIX e XX.

Molto si parla e anche si discute circa la "funzione ecclesiale" di queste nuove esperienze di apostolato, di evangelizzazione o di spiritualità. Molto meno si studia la differente prospettiva teologica - nel nostro caso cristologica - che li anima. Sarebbe invece un campo molto interessante, anche se molto difficile da esplorare data la reticenza e la "segretezza" che molti fra essi praticano per quanto riguarda lo schema teologico di tutta l'esperienza. Si conosce solo quello che gli stessi movimenti "permettono" che filtri. Quindi non sempre si tratta di elementi oggettivi e sostanziali.

Facciamo qualche accenno alla "cristologia " fenomenologicamente prevalente nei vari gruppi (alcuni solo).

- Rinnovamento carismatico: Gesù è soprattutto il Risorto, il Signore vivente e veniente, suo dono prezioso è lo Spirito con i carismi; egli comunica a noi anche il potere contro il "male". L'assemblea di preghiera (schema centrale) è una esperienza di lode al Signore nella gioia e in clima di attesa dei suoi doni di luce e di grazia.

- Neocatecumenato: il centro dell'annuncio del kerigma è Gesù Cristo, colui che è Parola totale, adempimento delle promesse, padrone della nostra vita. C'è una centralità dell'esperienza pasquale come è stata vissuta dal popolo ebreo e da Cristo stesso: il credente se ne deve appropriare. La croce, la sofferenza, il "servo" sono enfaticamente sottolineati. La "comunità" si riunisce attorno alla Parola e alla pasqua.

- Comunione e liberazione: Gesù Cristo è un "Qualcuno" che si è incontrato, che ci prende per mano, che ci dà la possibilità di una storia nuova. ci "pianta" in una storia nuova. Nella chiesa si vive e si cammina per una conoscenza reciproca in lui e per una presenza specifica caratterizzata e fondata sulla sua presenza . La comunità ecclesiale è sua presenza in mezzo alla storia.

- Comunità ecclesiali di base (CEB): al di là della loro molteplicità e diversità, possiamo notare questi elementi che le caratterizzano come "presenza di Cristo": l'ascolto della Parola, la centralità dell'eucaristia, la sottolineatura dei titoli cristologici: povero, emarginato, servo, paziente, profeta, sapienza del popolo, testimone di pace e giustizia, liberatore.

- Focolarini: sono noti alcuni elementi come: "Gesù in mezzo", Gesù abbandonato, la meditazione della "parola di vita".

- Cursillos de cristiandad: loro scopo è dare all'adulto battezzato la possibilità di riascoltare il lieto annunzio del Vangelo del Signore, e di poterlo vivere in comunità attraverso incontri periodici e verifiche (ultreya, per es.).

- Movimento oasi: si propone di far vivere all'insegna del cristianesimo "senza sconti"; chiede di servire Cristo, essere disponibili per Cristo, consegnarsi a Cristo, rispondere sì a tutto quello che dice, che fa, che chiede, comunque lo chieda; e servire gli altri, tutti gli altri.

- Comunità dell'arche (di J. Vanier): condividere la povertà e l'infelicità del povero e del minorato psichico e fisico, nel quale è presente Gesù.

- Fraternità Charles de Foucauld: privilegiano specialmente alcuni elementi dell'esperienza storica di Gesù di Nazaret: Betlemme, Nazaret, la croce (salvatore nella sofferenza e nell'abbandono). La centralità dell'adorazione eucaristica nella semplicità è un'altra caratteristica nota.

- Gruppi di volontariato (es. in Italia Gruppo Abele, Capodarco, ecc.): Gesù è sentito come l'amico dei poveri e degli esclusi, il "simbolo" di tutti gli ultimi dei senza dignità. La sua dimensione umana concreta (uomo povero, fuori delle sicurezze, affidato a Dio) è molto accentuata. Vi è anche la ricerca di un senso totale della vita al servizio dei suoi "poveri".

Osservazioni: come si può notare, ogni gruppo o movimento - seppure attraverso differenti accentuazioni - persegue un suo approccio all'esperienza di Gesù Cristo. Alcuni sono più a carattere misticheggiante, altri più a carattere sociale: ma tutti fanno asse portante sulla sequela di Cristo, in un contesto di comunità, di evangelismo più o meno fondamentalista, con alcune accentuazioni ecclesiali specifiche, oscillando tra solidarietà con gli ultimi e "comunità calorosa".

Questa ricchezza di esperienze e di itinerari può considerarsi oggi un fenomeno interessante e forse anche una provocazione per tutti gli schemi di spiritualità, che sono accentuatamente individualisti, e mancano più o meno vistosamente della dimensione comunitaria, del riferimento alla dimensione ecclesiale al mistero, dell'attenzione intelligente alla storia, specie la storia dei "senza dignità".

Si può anche notare che delle dimensioni costitutive e permanenti del mistero cristiano (trinitaria - ecclesiale - biblica - dogmatica - storica - antropologica - escatologica) questi movimenti ne mettono in rilievo soprattutto alcune, anche se centrali:

- ecclesiale: tutto ciò che è chiesa è generato dalla forza/presenza di Cristo;

- antropologica: Gesù Cristo rinnova dal profondo l'uomo e lo "spiega" (cf. GS 22);

- storica: ogni approccio a Cristo deve essere "contestuato" per essere vero.

Delle altre dimensioni solo alcuni accentuano quella biblica. Problema, in particolare, ci sembra facciano:

- La mancanza di approfondimento del contesto storico-sociale del Cristo, per cogliere la forza del cambio e il senso "innovativo" di certe sue maniere di fare. Di fatto nei movimenti spesso Cristo è destoricizzato;

- L' eccessiva preoccupazione "ecclesiocentrica": per esigenze di farsi "riconoscere" e ottenere l'approvazione. Pare che la maggiore preoccupazione sia quella di essere "del numero" di quelli che sono lodati e "invitati" nelle occasioni solenni.

Si è trattato sin qui di un universo disorganico, pervaso da fermenti, ma anche da mode, consumista, ma anche tormentato da inquietudini. ricco (di entusiasmi e giovanilismo, ma anche alla ricerca dei significati meno effimeri.

Tuttavia già ci consente di affermare la centralità della figura di Cristo nella nostra stagione culturale ed ecclesiale. E allo stesso tempo tutto ciò postula una verifica, a più ampio raggio, della stessa centralità, attraverso lo studio dei grandi gruppi religiosi, le grandi correnti ideologiche, i principali protagonisti del discorso religioso, in particolare nell'ambito cristiano.

I tempi della liturgia cattolica non sono solo il ricordo delle tappe storiche della salvezza, ma anche l’esercizio per ripercorrerle nel cammino della propria esistenza all’ interno di una comunità. Ogni tempo liturgico è ordinato appunto allo sviluppo di una particolare dinamica salvifica.

Santa Caterina da Genova non amava espressioni quali “lo faccio per Dio” oppure “non la mia volontà ma quella di Dio”.

La libertà, un frutto acerbo
di Antonio Bonora




La Bibbia non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita attraversata dal dolore e di vincerlo.

Il male/dolore nell’Antico Testamento non è tanto una imperfezione o un limite della creazione, ma è una conseguenza di una libera scelta umana.

Il dolore, la malattia sono l’esperienza umana del male; il male, d’altro canto, non è una “cosa” che semplicemente accade o sta davanti all’uomo, ma è l’emergenza di uno scarto o un ostacolo che si frappone tra l’originario desiderio di vivere e la sua realizzazione. E dunque solo a partire dalla dimensione dell’uomo come libertà, cioè come desiderio di vivere, che può essere pensato sensatamente il tema del male.

Il male/dolore diventa allora scandalo, problema, interrogativo sul senso stesso dell’esistenza. Non si tratta soltanto di chiedersi come superare, vincere o eliminare il male/dolore, ma piuttosto come passare dal non-senso al senso del vivere umano. Ma poiché il male/dolore non è una “cosa” o un ‘oggetto”, il problema del senso non riguarda il male/dolore in sé, bensì la relazione dell’uomo con il senso della sua vita, cioè con Dio. Non si tratta, dunque, di ”spiegare” il male/dolore, ancor meno di giustificarne la sensatezza, ma di trovare un senso per l’uomo che è aggredito e torturato dal male/dolore. Non si tratta di “capire” il male/dolore, ma di comprendere che senso ha l’esistenza umana attraversata e contrassegnata dal male/dolore.

Tentiamo quindi, con timore e tremore, di interrogare la parola di Dio su questo tema tanto grave e imbarazzante. Non andiamo alla ricerca di un farmaco che elimini il male/dolore dalla faccia della terra né speriamo di trovare una formula che bandisca il male/dolore, ma desideriamo scoprire un senso che ci aiuti a integrare e, nello stesso tempo, a esorcizzare il male/dolore nella nostra vita. Il cristiano dovrebbe caratterizzarsi per quel che Paolo chiama il «discernimento degli spiriti» (1Cor 12,10) o la capacità di «discernimento del bene e del male» (Eb 5,14). Il male/dolore comincia ad essere superato, non incute più angoscia quando il credente ne discerne il volto e non si lascia soggiogare dalla paura che rende schiavi. Togliere la maschera al male/dolore, guardarlo in faccia è già il primo passo per esorcizzarlo ritrovando non il vuoto, ma la figura vivente del Dio crocifisso.

Il male non possiede una propria realtà in senso vero. Anche la Bibbia professa, da un capo all’altro, la fede in Dio che chiama all’esistenza e conserva in vita ogni cosa come essenzialmente buona. Già dalla prima pagina biblica si canta la bellezza/bontà del creato su cui Dio stesso emette un giudizio: «E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono/bello» (Gen 1,31). La finitudine e creaturalità non è identificabile come male. La realtà è creata buona da Dio. E al culmine della sua libera attività creatrice, Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), come essere capace di apertura e di incontro con lui. Il senso della creazione si realizza soltanto quando appare l’uomo, libertà dialogante con Dio; altrimenti creare sarebbe un puro produrre, un fare qualcosa che serva da mezzo per un fine. L’uomo invece è creato per se stesso, per essere partner di Dio. Il comandamento di Dio (Gen 2,16-17), posto insieme con la creazione dell’uomo, fa capire che solo nella prospettiva dialogica dell’alleanza si attua il senso del mondo, precisamente attraverso l’uomo. L’essere-creato raggiunge perciò il suo senso nella dimensione della libertà umana: è perciò un essere Storico, aperto al dialogo con Dio ma anche dischiuso alla possibilità del male, cioè del rifiuto e della chiusura a Dio e ai fratelli.

Il racconto della caduta (Gen 3) illustra plasticamente come il male/dolore non sia derivato dall’azione creatrice di Dio, ma sia emanazione di una libertà creata. Il male, dolore non è una imperfezione o un limite della creazione, ma è conseguenza di una libera scelta umana.

In Dio non c’è la vita e la morte, il bene e il male, il si e il no, ma soltanto la vita, il bene, il sì. Soltanto Dio è veramente buono: «Gli disse Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, all’infuori di uno solo: Dio» (Mc 10,18). E nella sua bontà Dio dà «cose buone a quanti gliene fanno richiesta» (cfr. Mt 7,11). Egli è la luce che riscalda e fa vivere (cfr. Sap 7,27-30).

La fede di Giobbe

Non è, dunque, possibile parlare del male se non in modo indiretto, poiché propriamente soltanto il bene è comprensibile e, alla fine riconducibile al Creatore. Il male è assurdità, insensatezza, contraddizione. Potremo parlare del male come della “periferia” della realtà, che è bontà creata e salvezza. Stando alla Bibbia non dobbiamo perciò disgiungere il discorso sul male/dolore dalla rivelazione della bontà di Dio che vuole salvarci dal male/dolore per la vita eterna. Giobbe non è un trattato teorico sul problema del dolore e del male, ma è il dramma di un uomo in conflitto col suo Dio e immerso nel dolore.

Giobbe è un giusto che soffre ogni forma di dolore, fisico e spirituale. Il dolore lo isola in una crudele solitudine; anche Dio sembra averlo abbandonato e l’abbandono di Dio è ciò che lo fa soffrire di più. Le domande più angoscianti fluiscono dal cuore di Giobbe: perché Dio, giusto e buono, non interviene a favore del giusto sofferente? Perché Dio si comporta come nemico dell’uomo? Dov’è mai la santità di Dio, dal momento che egli sembra trattare innocenti e malvagi alla stessa maniera? Alla fine, la riuscita positiva del piano di Dio dimostra che anche la prova, per quanto oscura e dolorosa, era compresa in un piano d’amore divino. Giobbe vive la prova nella fede nuda: «Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore» (1,21). La fede di Giobbe è un atto di abbandono fiducioso, filiale e obbediente, nelle mani di Dio: prefigurazione di Gesù Cristo e preludio alla fede cristiana dei martiri.

Il tunnel del dolore


L’amore di Dio per l’uomo non è onnipotenza che impedisce il dolore, ma è libertà che “dona” e “toglie” senza abbandonare mai e, alla fine, “ridà”. Nel gioco delle due libertà, divina e umana, il dolore è il prezzo dell’amore, la condizione nella quale l’uomo matura la sua libera dedizione a un Dio buono dentro un mondo limitato e sconvolto dall’Avversario. La vittoria sul male/dolore è un atto finale d’amore libero di Dio, cui corrisponde un libero affidarsi dell’uomo al datore di ogni bene. Tutta la parte dei dialoghi di Giobbe con gli amici ha affrontato il male/dolore come un problema da risolvere in sede teoretica. Nella sua risposta (cc. 38-41) Dio lascia da parte i pressanti interrogativi affluiti sulle labbra di Giobbe. Egli prende per mano il suo servo Giobbe e gli fa percorrere il meraviglioso giardino dell’universo, ove si dispiegano armoniosamente la sua potenza e la sua sapienza, la sua fantasia e la sua delicata bontà. Dai misteri quotidiani della creazione Giobbe impara a riconoscere il suo posto, i suoi limiti, la sua ignoranza e la via per vivere felice. E impara che il senso della sofferenza è il mistero stesso di Dio, non si trova perciò in una soluzione dottrinale astratta né in una risposta emotiva o consolatoria.

Alla fine Giobbe non ha una definizione del male/dolore da proporre né una rigorosa argomentazione teorica da far valere, ma l’esperienza di un incontro personale con Dio: «Ora i miei occhi ti vedono» (42,5). L’alternativa che Giobbe pone, di fronte al male/dolore, è questa: o tutto è assurdo, compreso Dio, oppure tutto ha un senso nel mistero di un Dio buono, compreso il male/dolore. Giunto al termine della sua avventura spirituale, Giobbe comprende che il mondo è tanto cattivo e pieno di male che non può non esserci un Dio buono!

Il dramma sacro di Giobbe non risolve definitivamente, sul piano teorico, il problema del dolore, che resta una questione aperta. Ma questo libro biblico ci insegna che il problema del male/dolore è legato alla questione su Dio. E Giobbe, alla fine, si arrende non al male/dolore, ma a Dio. Proprio questa “resa” a Dio lo abilita a “resistere” ostinatamente al male/dolore.

Il male/dolore è mistero, anzi, spesso appare un enigma irrisolvibile e inintelligibile. Appare assurdità pura. L’Antico Testamento ha lottato intellettualmente per tentare di capire qualcosa del mistero del male/dolore: la teoria della retribuzione (i giusti sono felici, i malvagi sono infelici), la concezione del valore pedagogico del dolore, la protesta radicale contro il dolore innocente e contro l’immagine di un Dio che arbitrariamente e crudelmente è causa di male/dolore, la rassegnazione quasi fatalistica, la rinuncia ad ogni schema razionale e l’affidamento di sé al Dio nascosto, l’idea di un soffrire in rappresentanza e al servizio di altri, il dolore come solidarietà sono tutti modi con i quali l’AT ha affrontato lo scoglio resistente del male/dolore. Il credente ammette che Dio persegue progetti di salvezza anche attraverso il tunnel del dolore.

L’AT, dunque, non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/ dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita pure nel dolore e di vincere il male/dolore. Mai si rinuncia a vincere il dolore per la speranza nell’aldilà; mai ci si consegna senza resistenza al dolore fatale; mai ci si abbandona a un destino assurdo. La lotta contro il male/dolore è espressione sia del desiderio inestinguibile di vivere sia del rifiuto di qualsiasi giustificazione del male/dolore. Tutti i grandi eroi della storia del popolo israelitico hanno subito dolori, delusioni, persecuzioni, insuccessi, ma hanno sempre imitato il patriarca Giacobbe che ha lottato con Dio. Giacobbe esce cambiato e sofferente dalla lotta con Dio, ma ha vinto guadagnando il senso della sua vita.

La legge di Dio

Quali sono i fondamenti biblici della legge morale?

(estratti)
di Paul Beauchamp

Paul Beauchamp, gesuita, è autore di un'opera esegetica senza confronti: D’une montagne à l’autre. La loi de Dieu. Andando felicemente al di là del semplice resoconto storico-critico dei testi, l’opera sollecita tutte le dimensioni umane e culturali in gioco nella Bibbia, con l'intento di trascinare il lettore «fino al fondo delle Scritture», quando vivere si confonde col credere e il comprendere. In questo libro, Paul Beauchamp riprende l’insegnamento della «Legge di Dio», da Mosè sul Sinai sino alla bassa collina di Galilea del Discorso della Montagna. Siamo invitati a rileggere il Decalogo alla luce delle stesse Scritture. Come distinguere il bene dal male? Come vivere insieme? Non è possibile nessuna morale senza memoria narrativa, quella dei peccati, del male commesso, delle ingiustizie, ma anche della speranza che la Legge stessa fa emergere di una mancanza sempre riproposta. In questa mancanza, inerente a ogni legge morale, Paul Beauchamp rivaluta la portata detta lettura che dei «dieci comandamenti» fa Gesù.


Gesù toglie dai propri comandamenti le clausole, pur provenienti dalla Torà, che temperano o ritardano il compimento del Decalogo e lo interpreta sulla base di esigenza che la sua lettera non farebbe supporre. Ai suoi occhi, gli inizi del male sono passibili delle stesse pene che la loro estrema conclusione, ed egli propone gesti così sproporzionati che si espone al rimprovero di proporre un'utopia, anzi un'utopia così eccessiva che rischia di non far neppure iniziare il cammino. Non dimentichiamolo: chiunque parla si assume un rischio. Rischio di essere preso alla lettera quando non dovrebbe, di vedere le sue parole stravolte, sfigurate dalle tendenze meno buone di coloro che le ascoltano, incamerate dallo spirito già ribelle alla maniera in cui gli uccelli si impadroniscono dei semi appena seminati (Mc 4,4.15). Gesù non sfugge a questo rischio. La parola di Gesù, come avviene, del resto, di ogni parola, non fa che affidarci allo Spirito.

Dove rifugiarsi davanti alle sue parole? Non abbiamo rifugi da proporre. Ma raccogliamo grazie a questi versetti di Matteo un raggio di luce: indipendentemente dalla fatica che fa inevitabilmente lo storico a ricostruire le parole di Gesù attraverso gli scritti evangelici che è impossibile immaginare che la violenza che si esprime in un tale discorso sia imputabile a qualcun altro che a Gesù stesso. L’acquisizione di questa conoscenza non è priva di costi. Detto questo, si possono ravvisare parecchie risposte. Conosciamo il rifiuto puro e semplice, fondato sia su una diagnosi di mancanza di realismo, sia sul timore di un sovvertimento o del fanatismo. Critica indubbiamente più grave: i richiami di Gesù perverrebbero ad una dismisura che orgogliosamente non terrebbe conto dei limiti umani.

Precetti, o «consigli»?

Si può anche tentare di minimizzare la pressione dei precetti. Riconosciamo almeno che si dovrebbe smettere di qualificare come «consigli» questi comandamenti di Gesù. San Paolo, sì, dà un «consiglio» (I Cor 7,25) che porta al volontario celibato. Egli lo distingue formalmente da un ordine del Signore (cf 7,10), perché non vi sono su questo punto nè ordini… e neppure consigli del Signore da trasmettere. Altrove Gesù valorizza la condizione degli «eunuchi a causa del Regno dei cieli» (Mt 19,12). Questa condizione si fonda su un richiamo, ed anche su un «dono» personale, e non su un suggerimento rivolto a tutti. Bisogna sottolineare che il Discorso della Montagna non lascia alcuno spazio a questo indirizzo. Non ne lascia neppure all'effettivo abbandono di tutti i beni a favore dei poveri, invito che va distinto da un'esigenza universale. Al contrario, Matteo 5 si rivolge ad ogni discepolo ed è accolto anche dalla cerchia più vasta della folla. In conclusione si tratta del destino di questa folla. Le solenni parole che concludono il Discorso e valgono per la totalità del suo contenuto non lasciano spazio ad alcun dubbio: costruire altrove che su queste parole significa esporsi ad una «grande rovina» quando verrà la prova. Ciò che viene dettato allo scopo di evitare di perire in una catastrofe tutt'altro che ipotetica, non potrebbe essere chiamato un consiglio. Si tratta al contrario di condizioni sine qua non per il compimento del Decalogo. Chi non vuole andare oltre, non porterà mai a termine.

Il celibato definitivo, l'abbandono di ogni proprietà (a favore non della comunità - che ne diverrebbe ricca - ma dei poveri) sono indirizzi che la tradizione della Chiesa ha chiamato «consigli», perché sono aperti, per chiamata e dono di Dio, soltanto ad individui che, se formano tra di loro un gruppo, non vi entrano che per libera scelta. Bisogna cogliere che, nel Discorso della Montagna, è in gioco ben altro. Le sue prescrizioni non formano un programma opzionale proposto alla generosità di individui distinti da una particolare vocazione. Esse si rivolgono ad un popolo.

In realtà, l'istanza che qui si esprime parla allo stesso livello di quella che enunciava la Torà. La modestia delle circostanze - una «montagna» sotto i cieli temperati della Galilea, una folla attirata da un profeta e che fa circolo attorno a qualche discepolo - non basta a far dimenticare il contesto del Sinai, che riuniva un popolo, perché questo quadro sinaitico, se è soltanto suggerito nello scenario, è pienamente nelle parole pronunciate da Gesù. Certamente l'intero Israele non è riunito attorno alla piccola montagna, ma soltanto il «sale della terra», cioè poca cosa, ma colui che parla prende le distanze dalle autorità riconosciute del popolo, per poco aggressivo che sia, il momento, il suo discorso. I suoi precetti non sono delle semplici garanzie supplementari per ottenere il Regno: «Non entrerete» (5,20) egli dice, se non le metterete in pratica.

Cosa più profonda è che mettere in discussione il regime matrimoniale e il regime penale, è colpire la società là dove essa si trova. Gesù non propone una migrazione interna, come quella degli Esseni di Qumrân, o, più vicino a noi, quella dei Mormoni. Egli presuppone al loro posto il Tempio e il suo altare, il sinedrio e gli altri tribunali (5,22-25.40). Gerusalemme rimane «la città del gran Re» (v. 35), i suoi discepoli sono supposti esservi a casa propria. Non si tratta di un modo di vivere considerato superiore ad altri, ma del «Regno dei Cieli». L'espressione «Io sono venuto» (5,17) non può significare altro che l'apertura di un momento decisivo della storia «Non può rimanere nascosta la città collocata sul monte»: se questa città, invece di assumere il ruolo di un semplice paragone, era la città che la legge di Gesù si apprestava a reggere, e che splenderà davanti a tutti i popoli come annunciavano i profeti, allora sarebbero confermati gli altri indizi. È un'intera società che deve vivere secondo la legge di Gesù, è ad essa che egli pensa «vedendo le folle» (5,1); sono queste stesse folle che, già attratte verso la parola per aver veduto quello che egli aveva operato presso i malati (4,23-25) ed ora «vivamente colpite dal suo insegnamento» (5,28), lo «seguono» (8,1).

Come vivere

(...) Il lettore del Discorso della Montagna, portato inconsciamente dal vocabolario e dalle immagini, si accorge subito di respirare all'aria aperta, davanti al ciclo, la terra, la montagna, in mezzo alla pioggia, ai torrenti, ai venti che si scatenano, oppure sotto il sole che «splende per i buoni e per i malvagi». Il tratto stilistico che maggiormente colpisce in questo testo è senza dubbio la sua capacità di richiamare tutto ciò che tocca il corpo, i corpi fisici, il corpo sociale, così come il mondo in cui questo corpo vive. Parla di erbe che crescono spontaneamente, cardi e rovi, ma anche di uva e di fichi. Parla degli animali, che appartengono a tutte le specie: temuti come il serpente e il lupo, disprezzati come i cani e i porci, poco augurabili come la tignola o il verme, apprezzati come il pesce, l'agnello, l'uccello.

Non siamo sempre in campagna: una città è visibile di lontano perché s'innalza sulla montagna, è Gerusalemme, «città del Gran Re». Il santuario, le sinagoghe, il tribunale, il sinedrio: ecco le principali istituzioni. Lungo le strade e agli incroci, i grandi personaggi ostentano la loro preghiera, gli amici si salutano tra di loro, li si riconosce da questo. I debitori insolventi sono portati in prigione dalle guardie, ci si scambiano ingiurie: «idiota», «rinnegato». Nella città, la gente cammina sul terreno così com'è, con i suoi rifiuti, come per esempio il sale inutilizzabile. Nella casa c'è il mobile su cui brilla la lampada. La camera è segreta, con le sue tende tirate. Il granaio contiene ciò che l'uomo ha ammassato dopo aver raccolto ciò che aveva seminato. Il suo tesoro è al riparo: denaro, stoffe preziose ma deperibili. Il fumo si alza dal forno dove bruciano le erbe. Il padre dà ai suoi figli del pane. È l’universo del «pane quotidiano».

L’occhio: esso è la lampada del corpo, perché la lampada mostra la strada a chi cammina. È occhio destro o sinistro, sano o no, e può essere una lampada senza luce. Il «capello» basta per parlare all'uomo della sua dipendenza. L'aspetto di chi digiuna è tetro, a meno che si lavi e si profumi, perché vi sono due categorie di digiunatori come vi sono l'uno e l'altro occhio, l'una e l'altra mano, l'una e l'altra guancia. Vedere, è vedere con il corpo e con lo spirito, e in ciò sta la differenza.

Che l'effetto del testo, a chi si lasci penetrare senza pregiudizi da ciò che le parole dicono ai cinque sensi del corpo, sia di tale respiro non si deve spiegare esclusivamente con l'ipotesi di condizioni di vita, che sono rimaste o diventate poco tormentate, della comunità di Matteo, destinataria di questo vangelo. Tuttavia questa interpretazione completa un'altra lettura, che vede piuttosto in questo testo la commemorazione di una tappa della vita di Gesù: là c’è il suo primissimo discorso che è preceduto, in fatto di parola pubblica, da una sola frase («Da allora Gesù cominciò a medicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”»: Mt 4,17)! Questa prima tappa, nel dispositivo di Matteo, non conosce ancora i confronti. Essa offre al desiderio degli uomini un progetto di vita, ma l'orizzonte di un mortale corpo a corpo con le forze del male rimane ancora invisibile. Compiere, è compiere sino alla fine. Ma questa «fine» rimane fuori campo. C'è stato un tempo in cui Gesù parlava così. L'inserimento del Discorso nel racconto obbliga a non perdere di vista questa dimensione. Torneremo su questo: l'analisi delle fasi della storia di una vita lascia ancora uno spazio libero per la croce. La prospettiva mantiene la croce in un avvenire indefinito. Fu così, per qualche tempo, nella vita di Gesù e dei suoi. Questa considerazione dà tutta la sua forza alla svolta intrapresa con il cammino verso Gerusalemme. Gesù non affronta l'avversario prima del tempo, e questo tempo gli è fissato dal Padre, in maniera tale che gli è percepibile nelle pulsazioni del suo stesso ritmo.

La considerazione del Gesù storico, se gli dà un potente rilievo, non esaurisce l'effetto del messaggio. Dopotutto il compimento non dà verità alla morte stessa che alla condizione di avere prima attraversato la vita. Nella comunità toccata dal Vangelo, come nelle nostre, non tutti certo morranno «a causa di Gesù», ma tutti dovranno vivere secondo quello che lui ha detto, e, se lo fanno e muoiono in tanta pace come i patriarchi, si dovrà proprio parlare di pienezza. Il nostro testo non glorifica né il martirio di Gesù né quello dei suoi.

Legge perfetta di libertà

In conclusione, ciò che in modo pressante invita a interpretare il Discorso della Montagna come una legge per un popolo, viene da più lontano che il ragionamento e la sapienza dell'esegesi. È la considerazione della storia umana. L'umanità può sì sopravvivere a metà del pendio nel suo richiamo verso la giustizia, e persino non può dire diversamente ma essa ridiscende se vi si ferma, e ridiscende verso la morte. Per pressanti che siano i precetti di Gesù, essa può sempre non ascoltarli. Ma tantomeno essa può chiudere le orecchie al grido di allarme sempre più chiaro che le invia il suo stesso pericolo di morte. La nostra umanità sa che cosa è avvenuto della violenza delle età primordiali e del primo diluvio, quello di Noè. Ella sa di essere tra la vita e la morte (ef Dt 30). Come l’esperienza di una morte universale dell’umanità precedeva l’insistenza stessa di Israele, così l'idea del rimedio non è offerta oggi soltanto a coloro che credono nel Dio della Bibbia. L'umanità sa che a proposito di guerre e di pace deve cambiare le sue leggi se vuole sopravvivere. In una misura non trascurabile, essa lo fa. Ma possono bastare le leggi?

Se i precetti di Gesù non sono consigli, sono delle leggi? Se fossero leggi come le altre, questo significherebbe che invece di essere incise sulla pietra le sole dieci parole del decalogo, le parole di Gesù sarebbero incise anch'esse sulla stessa pietra, ma inserite tra le righe delle due tavole.

Così il contenuto, l'enunciato sarebbe cambiato, ma non il veicolo, non la modalità, non l’enunciazione. È un fatto che molti intendono così la legge di Gesù. Quando essa non porta ad un rifiuto immediato, questa lettura nel senso materiale toglie tutte le forze necessarie per portarla a compimento. Le conseguenze possono essere ancora più perverse, e più mortali.

Già Geremia annunciava una nuova alleanza, nuova proprio in questo, cioè che le sue leggi non sarebbero scritte stilla pietra (Ger 31,33). Non voleva dire che esse sarebbero ormai scritte sulla carta, ma «al centro» dei destinatari nel loro profondo. Per questo motivo grandi dottori, come sant'Agostino e san Tommaso, hanno insegnato che i precetti del Discorso della Montagna valevano «per la disposizione di spirito». Essi non dettano i gesti che descrivono, ma pongono l'obbligo di andare, in caso di necessità, lontano come essi suggeriscono, senza conformarvisi materialmente. È una risposta di buon senso. Gesù stesso, che ha adempiuto la totalità della propria legge nella Passione, non ha fatto vedere nei suoi gesti la realizzazione letterale di ciò che aveva insegnato: colpito su una guancia, non ha teso l'altra guancia, ma ha domandato «perché mi percuoti?» (Gv 18,23). (...)

Senza coercizione esterna

I cristiani sono portati a lamentarsi! Essi hanno il diritto di gemere, non soltanto per l'evidente difficoltà di mettere in pratica ciò che Gesù vuole, ma della difficoltà, perfino, di comprenderlo. «Entrate per la porta stretta», dice Gesù (Mt 7,13), l'altra conduce alla perdizione. Ma non avendo nessuno mai trovato difficoltà particolari ad attraversare una porta stretta, non sarebbe per questo motivo che Gesù aggiunge: «pochi la trovano»? «Trovare» il passaggio, a tutti è potuto capitare di sperimentarne la difficoltà. Tale sarebbe dunque il problema, ed è questo al momento di cui occupiamo. Un'altra parola serve, secondo il nostro parere, allo stesso scopo.

Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi (7,6).

La Sapienza o i proverbi sono spesso paragonati a metalli preziosi (Prv 8,11; 20,15), e l'accostamento di un oggetto prezioso con un grugno di un porco associato alle immondizie è una incongruità ancora più grande in questo contesto letterario: «un anello d'oro al naso di un porco, tale è la donna bella ma priva di senno» (Prv 11,22). La migliore applicazione di Mt 7,6 varrà per le parole stesse del Discorso della Montagna, indicato qui come l'insegnamento che non si può sprecare, che non bisogna ostentare senza la protezione del pudore e di una relazione autentica, come parola che non può circolare a qualunque condizione: gli abusi sono fin troppo prevedibili. Esse possono servire a a rafforzare l’uomo, senza vantaggio per lui, la sua disperazione davanti alla legge. Ma vi è di peggio.

Il peggio è di ottenerne l’osservanza attraverso la costrizione. Quanto stupore hanno suscitato il grande spirito di sacrificio, gli oblii di sé collettivi suscitati, nel XX secolo come mai prima, dalle ideologie imposte a delle società per mezzo della forza e della paura, con efficacia ancora maggiore quando questa forza aveva saputo rendersi invisibile! La povertà, la castità, l'obbedienza hanno potuto sembrare praticate insieme e nello stesso momento da delle masse, per alcuni anni. Nelle fasi di attuazione della loro utopia, queste società offrivano, e prima di tutto a se stesse, la messa in scena di un «siate perfetti» anche sul terreno di queste virtù, al prezzo di un coraggio e di un eroismo che, quando non tentavano i cristiani, li inducevano per lo meno ad interrogarsi su se stessi. Ma come si sarebbe potuto applicare «che la tua mano sinistra ignori ciò che fa la tua destra» (6,3) in una organizzazione predisposta al contrario di questo precetto? La cosa più grave è proprio che la costruzione imposta in vista della dimostrazione pubblica delle virtù conduce inevitabilmente a fingerle. «Che alla tua destra come alla tua sinistra, il tuo prossimo possa sapere tutto di te!».

L'allarme è dato già nel Nuovo Testamento, e non è originariamente rivolto alla società civile, ma alla società celestiale. Una scena degli Atti degli apostoli è stata, riteniamo, scritta apposta per sottolineare come il legame della coercizione e della menzogna è svelato e denunciato in modo diretto e dall'alto, da questo stesso Spirito che è donato a Pentecoste. Era, per la prima comunità, il momento dell'utopia, realizzata prima di tutto attraverso la condivisione dei beni. «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, …quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35). Ma due sposi, di nome Anania e Saffira, non depongono tutto il denaro della vendita, avendo messo da parte il resto e dissimulando questa sottrazione. Pietro designa allora in tutta chiarezza lo spazio in cui avrebbe dovuto agire lo Spirito. Questo luogo è la libertà: «prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione?» (5,4). La necessità di spossessarsi per condividere non era scritta sulla pietra, come lo era la legge del Sinai. I due disgraziati si credevano condannati da un'istanza immaginaria: il loro sentimento di colpevolezza confuso con lo sguardo altrui. Cercando la giustizia attraverso questa via, Anania si sentirà dire: «Tu hai mentito allo Spirito Santo» (v. 33). L'uomo allora è fulminato insieme alla moglie, cosa che ci permette di collocare il racconto nel suo posto preciso, cioè in simmetria con la legge della prima alleanza. Chi la trasgrediva moriva; chi la trasgrediva nei grandi momenti della sua fondazione poteva morire senza l'intervento degli uomini, colpito dal cielo. Le Spirito conduce fino ad un estremo che l'antica legge non formulava, anche se era, in fondo, l'anima. Ma questo estremo non può essere raggiunto che nella libertà, a tal punto che l'ostacolo alla libertà corrompe la legge di Cristo alla stia radice. Questa corruzione è sanzionata come lo era sul Sinai, poiché la Pentecoste, la venuta della legge nuova nello Spirito, è un nuovo Sinai.

Detto questo, l'aneddoto sconvolgente degli Atti resta un «racconto delle origini» con i limiti di questo genere, in cui tutto è fortemente organizzato intorno ad un solo asse didattico, cosa che oggi ci porta una luce indispensabile.

Lo schematismo non impedisce al racconto di lasciar trasparire i limiti della situazione. Possiamo domandarci perché la comunità adottò un principio di proprietà collettiva che non si fonda su alcun insegnamento del fondatore, nè quando questa pratica fu abbandonata. Il gruppo non l'abbandonò forse dopo aver preso consapevolezza della fragilità del suo fondamento? Non l'abbandonò dopo aver preso consapevolezza dei suoi effetti, scoperto il legame della pressione sociale con la menzogna? Sarebbe doloroso che questo passo degli Atti non fosse interpretato che a titolo di incitamento alla virtù della generosità. Tuttavia, volontariamente o no, lo storico Luca lascia filtrare qualche chiarimento. Già vedere tutto questo denaro «ai piedi degli apostoli» si fonda fortemente sull'immagine di un potere. Più precisa è l'informazione fornita sul primo uomo che rispose a questo impulso: «Giuseppe, detto dagli apostoli Barnaba... era un levita» (4,36). Essendo dato che della tribù di Levi era scritto: «solo alla tribù di Levi egli non diede eredità» (Gs 13,14; cf 14,3s) e: «il Signore, Dio di Israele, é la loro eredità» (Gs 13,33), il fatto che uno dei suoi membri dia il segnale della rinuncia individuale e della proprietà collettiva non è forse fortuito: i Leviti potevano considerarsi come chiamati ad essere segno, anche attraverso la loro situazione economica, del legame dell'«intero Israele». Se questo era il caso, ne conseguirebbe che questo tentativo di condivisione (senza futuro per ciò che concerne la Chiesa come tale) sarebbe più vicino ad una forma ispirata ad un giudaismo marginale, anteriore al Vangelo, che non all'insegnamento diretto di Gesù. La discesa dello Spirito, che diede alle comunità il potere di innovare, non poteva togliere loro la possibilità di tornare sui propri passi. È commovente pensare ai loro tentennamenti, alla loro ricerca.

Le posizioni di san Paolo in materia di mutua assistenza economica confermano la lezione dell'episodio di Anania e Saffira, e mostrano che la comunità di Corinto vive già sulla base di altri principi rispetto a quella di Gerusalemme: non la messa in comune di tutti i beni, ma «la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza» (2 Cor 8,14). Anche questo non è ottenuto sotto coercizione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza perché Dio ama chi dona con gioia» (9,7s).

Conclusione... o transizione

Lo stile dei precetti di Gesù ha come conseguenza di impedire al soggetto della legge di iscrivere la propria osservanza nell'immagine proiettata da se stesso. Così il taglione espone come su uno schermo l'illusione visiva di una giustizia per equivalenza, mentre questa equivalenza, questa giustizia, non possono esistere che su questo schermo, nell'immaginario. Nelle parole «occhio per occhio, dente per dente», citate da Gesù, tutto si esprime a livello di immagine: il volto, immagine di Dio, il volto con gli occhi, con i denti. Volto al quale si rivolge l'odio che offende: «Io non posso più vederlo»... Volto su cui la giustizia crede di potersi soddisfare: che il suo occhio perduto rifletta, per il mio, il rifiuto che è nel mio sguardo! E molte volte, tracciando di noi stessi un'immagine che non raggiungiamo, la legge non ci mette nella tentazione di odiare noi stessi invece di odiare il male? Il nostro io ideale odia il nostro io reale. Noi siamo così cacciati, esclusi da questo centro, da questo inizio in cui Gesù ci insegna a vedere l'ingresso dentro di noi dell'opera divina. Nessun’altra perfezione ha senso, se non quella che ci colloca al posto giusto, come figli: questo significa «perfetti come il Padre vostro». Perfetti, di essere figli. Ma fuori da questo centro, da questo inizio che è la nostra identità perché esso è la nostra origine, la nostra resistenza, incapace di riconoscersi, si trasforma in menzogna, e usa la legge per accusare colui che, proprio come noi, non è all'altezza delle sue attese: essa usa la legge per accusare il fratello. Noi potremmo fare una glossa di quanto detto illustrando alcune parole della lettera di Giacomo. Ciò che egli chiama «la legge perfetta della libertà» (Gc 1,24) non acquista senso che per condurre a delle azioni. Chi evita di agire «...somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio» (Gc 1,23). Ecco quest'uomo duplicato di fronte alla sua immagine, estraneo a se stesso per non aver trovato attraverso «la legge perfetta della libertà» il punto da cui questa libertà nasce. Una conseguenza insopprimibile del suo sdoppiamento è ciò che la rende accusatore. È radicalmente impossibile che egli sfugga a se stesso senza volgersi contro il vicino. Per quanto egli ammiri la legge nella quale si rispecchia, e senza che la sua cattiva coscienza lo guarisca, si potrà dire di lui con Giacomo: «Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge» (Gc 4,11).

Colui che sparla del fratello è anche colui che lo disprezza nel suo cuore perché lo vede lontano dal mettere in pratica i precetti di Gesù. L'eremita Antonio (il sant'Antonio delle celebri «tentazioni») ci ha lasciato a proposito di questo versetto una lezione più profonda della sua leggenda…

Dei fratelli si recarono presso l'abate Antonio e gli dissero: Dicci una parola, come essere salvi? Il vecchio disse loro: Voi ascoltate la Scrittura? È bene che lo facciate. Essi ripeterono: Ma noi vogliamo sentirla da te, Padre! Allora il vecchio disse loro: Il Vangelo dice: se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra, porgigli anche l'altra. Essi dissero: Non possiamo fare questo. Il vecchio disse loro: Se non potete porgere l'altra guancia, accettate almeno che vi si colpisca su una guancia. Non possiamo nemmeno questo. Se voi non potete nemmeno questo, non restituite il male che avete ricevuto. Ed essi dissero: Non possiamo nemmeno questo. Allora il vecchio disse al suo discepolo: Prepare loro una piccola pappa di farina, perché sono malati. Se non potete questo e non volete nemmeno quello, io che cosa posso fare per voi? Voi avete bisogno di preghiere. (J.C. Guy, Parole des Anciens. Apophtegmes des P.P. du désert, Ed. du Seuil).

Antonio introduce così lo spirito di Gesù nella lettera di Matteo, imitando il suo movimento graduale per rovesciarlo verso il basso. Da parte sua, la lettera di Giacomo, benché risparmiando in modo sorprendente reminiscenze o evocazioni della persona di Gesù, costituisce un documento prezioso, perché è uno dei più vicini, nel Nuovo Testamento, all'ambiente di Matteo, al punto di fornirci alcune chiavi per meglio comprendere il Discorso della Montagna. La «legge perfetta» è la legge compiuta, cioè condotta a questo estremo che solo Gesù può farci raggiungere. Né Giacomo né Matteo ricorrono allo Spirito per darvi principio. Né l'uno nè l'altro costruiscono il loro progetto attorno al tema di una legge divenuta interiore. Per l’uno come per l'altro la legge richiede atti fisici, condizione perché «essi vedano le vostre opere buone...» (Mt 5,16). E ancora, né l'uno nè l'altro presentano la pratica della legge come il risultato di un dono gratuito di Dio. Sta all'uomo trovare in sé il punto d'origine della giustizia. Ad altri testimoni di Gesù, ad altri testi, anche in Matteo (11,25-27; 19,26), sarà dato di sviluppare le conseguenze: il punto di origine della giustizia è colui in cui la giustizia ci viene dall'esterno, e a titolo di dono. La discrezione di Matteo, in questa materia, è impressionante: solo un 'analisi particolareggiata della struttura (della struttura scritta) del Discorso permette di scoprire che il «Padre nostro» ne occupa esattamente il centro. Nel cuore dell'insegnamento di Gesù si fa sentire la chiamata rivolta ai figli perché domandino al Padre di «vivere sulla terra» il suo insegnamento. Che l'uomo ne sia capace con le sue sole forze resta un problema, ma non dobbiamo trattarne qui.

L’originalità delle parole di Gesù rimane insostituibile. Le sue parole rivestono di immagini azioni paradossali, come il servirsi di una mano prima per tagliare l'altra e poi per gettarla lontano. È così reso sensibile che la giustizia non è fatta per rimanere nel cuore, ma per diffondersi instancabilmente al di fuori. La forza degli imperativi rende impossibile confonderli con suggerimenti facoltativi; il surrealismo delle situazioni aumenta in noi il desiderio di inventare senza limite. Allo stesso tempo obbligazione e libertà, «legge della libertà», dice Giacomo. No, Gesù non ci dice chi noi dobbiamo salutare o non salutare per strada, né che cosa fare se uno ci schiaffeggia. Le sue iperboli sono, molto più di quanto si potrebbe credere, vicino al linguaggio di quei rabbini dallo spirito libero, e bisogna essere grossolani per non coglierla.

L'episodio di Anania e di Saffira, per il fatto che si colloca nel tempo e nel luogo stesso in cui è donato lo Spirito, cioè nel tempo di Pentecoste, non ci permette di chiudere gli occhi sulle nuvole cariche di tempesta che la piccola montagna di Galilea inevitabilmente attirerà. Impossibile dimenticare il rischio di essere esclusi dal Regno, l'orizzonte della geenna del fuoco, l'alternativa di perdizione o di vita. Coloro che trasmettono, come possono, le richieste di Gesù, si vedono rimproverare talora di attenuarle per timidezza, talora di non renderle più praticabili. Dimenticano, si dice loro in quest'ultimo caso, che Gesù ha detto: «Il mio carico è leggero» (Mt 11,30)? Ma ciò che si dimentica sin dal principio, è il carico schiacciante che, in ogni modo, l'umanità deve portare soltanto per vivere, poiché per vivere le è necessario vivere insieme. La legge è percepita come durezza. Ma ciò che le colpe dell'uomo infliggono all'uomo non è durezza, è orrore. Ed esso aumenta, e nello stesso tempo si rende più visibile sotto i nostri occhi. Chiamiamo follia ciò che Gesù ci domanda. Ma l’umanità non sarà salvata dalla sua follia se non da un'altra follia. Già ai tempi di Gesù, era troppo tardi perché l'umanità interpretasse il decalogo attraverso dei compromessi.

Troppo tardi. La portata del Discorso della Montagna apre soltanto quando la si mette a confronto. Dove crediamo che abbiano potuto scomparire, quando Gesù parla, gli splendori del tuono e dei lampi che, sul Sinai, riempivano Israele di terrore? La storia cambia. Lampi e tuoni sono passati dallo scenario all'interno delle parole dette. La prima legge era accompagnata dalla violenza: «Voi vi avvicinaste e vi portaste ai piedi del monte; il monte ardeva nelle fiamme che si innalzavano in mezzo al cielo; vi erano tenebre, nuvole e oscurità» (Dt 4,11). Dio, che è Uno, non dispone di due fuochi e, per lui, le due montagne sono una sola. Egli non ha ritirato il suo fuoco dalla modesta montagna di Galilea. Ma è per noi che questo fuoco è doppio, benché non possa che bruciarci. Per quanto noi restiamo fuori dalle parole di Gesù, il fuoco delle sue parole ci spaventa e ci può anche distruggere; per quanto, e nella misura in cui noi vi entriamo, il fuoco ci riveli la sua vera natura, il cui nome è pronunciato con tanta discrezione: il fuoco è amore, il fuoco è spirito. Il fuoco è uno, solo noi cambiano. Di violenze non ce ne è che una nell'uomo, pervertito o convertito.

(da Il mondo della Bibbia, 51)

Riflessioni sul progresso
di Pierre Teilhard de Chardin





Oggi è diventato “di moda” schernire o sospettare tutto ciò che assomiglia a una fede nell’avvenire.

Dubbio mortale, se si fa ben attenzione, poiché tende direttamente ad uccidere, assieme al gusto di vivere, la forza viva dell’umanità.

Ben fondati nella storia generale del mondo, quale la paleontologia ce la fa conoscere, per un intervallo di trecento milioni di anni, noi possiamo, senza smarrirci nei sogni, affermare le due seguenti proposizioni:

a) In primo luogo l’Umanità lascia ancora apparire in sé una riserva, un potenziale formidabile di concentrazione, cioè di progresso. Pensiamo all’immensità delle forze, delle idee, delle persone non ancora scoperte o captate o sintetizzate… “Energeticamente” o biologicamente, il gruppo umano è ancora giovanissimo, freschissimo.

b) La Terra è ben lungi dall’aver terminato la propria evoluzione siderale. Possiamo certamente immaginare ogni sorta di catastrofi capaci d’interrompere bruscamente questo splendido sviluppo. Ma da trecento milioni di anni la vita si eleva paradossalmente nell’improbabile. Non è forse questa un’indicazione che essa progredisce sorretta da una qualche complicità delle forze motrici dell’Universo?….

La vera difficoltà posta dall’Uomo non è di sapere se costui rappresenti la sede di un progresso continuo, ma piuttosto di sapere come questo progresso potrà continuare a lungo alla stessa velocità senza che la vita esploda o faccia esplodere la Terra sulla quale è nata. Il nostro mondo moderno si è fatto in meno di diecimila anni; e in duecento anni è cambiato più rapidamente che durante tutti i millenni precedenti.

Il Progresso, se dovrà continuare, non si farà da solo. L’evoluzione, per lo stesso meccanismo delle sue sintesi, si carica sempre più di liberta.

Quali debbono essere, in pratica, le nostre disposizioni rispetto a questa marcia in avanti?

Io ne vedo due che possono essere riassunte in cinque parole: una grande speranza in comune.

a) Una grande speranza, in primo luogo. Essa deve nascere spontaneamente in ogni anima generosa in presenza dell’opera stessa; e rappresenta anche lo slancio essenziale senza il quale nulla potrà farsi. Un gusto appassionato di crescere, di essere, ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Via dunque i pusillanimi e gli scettici, i pessimisti e i tristi, gli stanchi e gli immobilismi!

b) In comune. Anche su questo punto, la storia della Vita parla in modo deciso. Una sola direzione fa salire; quella che conduce a una maggiore sintesi e a una maggiore unità per mezzo di una maggiore organizzazione. Via, quindi, anche qui, i puri individualisti, gli egoisti che ritengono di potersi sviluppare escludendo o diminuendo i loro fratelli, individualmente, razionalmente o razzialmente. La Vita porta verso l’unificazione. La nostra speranza sarà operante solo se si esprimerà in una maggiore coesione e in una maggiore solidarietà umana.

L’avvenire della Terra è nelle nostre mani. Che cosa decideremo? Una scienza comune ravvicina soltanto la punta geometrica della intelligenza. Un interesse comune, per quanto appassionato possa essere, non congiunge gli esseri che in modo indiretto, e in un Impersonale spersonalizzante.

Noi non abbiamo bisogno di un testa a testa o di un corpo a corpo, ma di un cuore a cuore.

Il principio generatore della nostra edificazione non deve essere ricercato, in ultima analisi, nella sola contemplazione di una medesima verità, e neppure nel solo desiderio suscitato da un qualche cosa, ma nell’attrazione comune esercitata da un Qualcuno, identico per tutti.


Estratti di una conferenza tenuta a Pechino, all’Ambasciata di Francia il 3 marzo 1941.

N.B. Questo testo si trova in: L’avvenire dell’Uomo, Opere vol. VI, Milano il Saggiatore 1972, pp. 103-130 passim.

Come disciplinare la vita
(esperienza spirituale monastica)

di P. Adriano Dall'Asta OSB


Premessa

Non è facile affrontare in modo esauriente tutta la ricchezza di stimoli provenienti dal tema proposto: "Come disciplinare la vita". Occorrerà quindi necessariamente operare delle scelte tralasciando inevitabilmente qualcosa.

Un altro aspetto da tener presente all'inizio di questa riflessione è la "terminologia": "disciplina", "disciplinare" sono vocaboli che noi moderni usiamo dandone un'accezione generalmente giuridica, normativa, anzi molto spesso ricordano qualcosa di duro e di penoso necessario, d'altra parte, per crescere. Nella vita religiosa (o "vita consacrata") all'interno del Cristianesimo ed in modo particolare nel Cattolicesimo, questa parola è addirittura passata ad indicare una precisa pratica ascetica penitenziale (la flagellazione), e questo praticamente fino al Concilio Vaticano II.

In origine, nel senso latino classico e presso i primi scrittori cristiani (Tertulliano, Cipriano, Agostino...) il termine indicava insegnamento, educazione, modo di vivere, dottrina, usanze, regola di vita, ordine e, di conseguenza anche l'insieme di correzioni e di pene atte a garantire l'attuazione di tutto questo (cfr. latino "Disco" = imparo, da cui "discipulus" = discepolo).

In ambito monastico questo linguaggio si affermò facilmente data la struttura stessa della vita in comune, ma col tempo si accentua l'accezione di "castigo", soprattutto col finire dell'epoca patristica, pur trovandosi autori che usano il termine in senso spirituale o intellettuale (Guglielmo di St. Thierry).

Verso la fine del sec. XIII il termine cessa di arricchirsi e designa solamente la buona condotta.

Per la riflessione sul modo in cui il Monachesimo cristiano può costituire una "disciplina di vita", mi rifarò pertanto allo sfondo biblico e tradizionale dei primi secoli della Chiesa per metterne in luce la dimensione spirituale e morale positiva.

Le parti di questa relazione:

1. Il "Vangelo": norma suprema di vita cristiana e annuncio di libertà.

2. Il Monachesimo cristiano: realizzazione concreta del vangelo..

3. La Regola di S. Benedetto (RB): un modo per "disciplinare la vita".

1. Il "Vangelo", norma suprema di vita cristiana e annuncio di libertà

Il Cristianesimo è racchiuso sostanzialmente in una frase scritta nel Vangelo di S. Marco (1,15): "Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo". VANGELO significa "buona notizia" per l'uomo da parte di Dio. Se è un lieto annuncio significa che Esso contiene una risposta (una Parola) per una situazione in cui c'è l'attesa di una salvezza.

Tutta la narrazione della vita di Gesù Cristo, nei 4 Vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) e in tutti gli scritti del Nuovo Testamento vuole dimostrare che Gesù stesso è questa "buona notizia" per l'uomo: in Lui Dio, Creatore e Padre dell'umanità, si è definitivamente rivelato, si è fatto conoscere nel suo Amore eterno.

C'è un'altra pagina del Vangelo, di Luca, questa volta (4,16-21), in cui è spiegato in cosa consiste questo lieto annuncio. Gesù si presenta, in mezzo ai suoi compatrioti, come l'inviato del Padre, il Messia (l'Unto = il consacrato), venuto per liberare l'umanità da ogni forma di schiavitù annunciando la Grazia del Signore, cioè la sua Misericordia. Accogliere Gesù Cristo, credere in Lui, nella sua Parola e cambiare per mezzo suo, significa FEDE. La fede fa diventare di conseguenza FIGLI di DIO (Giovanni, 1,12-13), cioè partecipi della stessa Vita di Dio. Ma vivere in questa fede, cioè essere “Cristiani”.. da atto iniziale personale (ascolto, illuminazione) deve continuare attraverso il seguire il Signore Gesù ogni giorno nella vita (Luca 9,23...) sorretti dalla forza della Sua Parola che provoca di conseguenza alla CONVERSIONE, cioè alla disponibilità quotidiana a lasciare il male, l'egoismo che sempre ci accompagna. Da qui il senso della "rinuncia" essa non è solo frutto della volontà di seguire Gesù, ma è soprattutto esigenza di fedeltà all'Amore di Dio (Matteo 6,24). In questo senso bisogna leggere il "DISCORSO DELLA MONTAGNA" (Matteo cc. 5-7). Qui sta la radice dell'esigenza di "disciplinare" la vita in chi segue Gesù. cioè si mette alla sua scuola come discepolo (cfr. Matteo 9,28-30). In realtà, Gesù in tutta la sua esistenza e soprattutto con la sua morte, realizza pienamente l'Alleanza di amore che Dio già nell'Antico Testamento aveva stipulato con il popolo d'Israele, ma le cui esigenze di fedeltà erano state più volte dimenticate (Libro dell'Esodo e soprattutto Deuteronomio 4,6-4,12 e 7,7-12). La vita del Cristiano allora non cresce a causa degli sforzi della volontà umana, non è primariamente un impegno etico, quanto piuttosto rapporto di amore con il Padre mediante l'ascolto della Parola del Figlio Gesù, custodia di questo Patto di Alleanza, risposta ad una chiamata ad entrare in comunione con la Trinità mediante lo Spirito Santo (cfr. Lettera ai Romani c. 8). In questo modo ogni ascesi o disciplina nella vita cristiana è finalizzata alla libertà, prerogativa dei "figli di Dio" (Giovanni 1,12-13 e 8,31-32).

2. Il Monachesimo cristiano: realizzazione concreta del Vangelo

Ogni Monachesimo, all'interno delle diverse religioni, nasce come genere di vita fissato in funzione di uno scopo spirituale, diversamente definito, trascendente l'orizzonte terreno e che viene considerato come necessario per dare unità (o senso) alla propria esistenza. (cfr. Dict. Spir. t. X, "Monachisme").

Nel Cristianesimo la vita monastica nasce accompagnata più o meno dalle medesime caratteristiche antropologiche e spirituali delle altre culture ( cfr. i terapeuti, gli esseni, gli encratiti, manichei ...), così come vi troviamo analoghe esigenze ascetiche (continenza, digiuni, essenzialità di vita, cenobitismo o eremitismo). Tuttavia diciamo subito che se ne distacca quanto alle motivazioni di fondo. A questo riguardo presento solamente qualche fonte monastica (una goccia nell'oceano di questa letteratura) per dimostrare la specificità del Monachesimo cristiano.

- "Quanto a noi, è per amore del Signore e del bene che osserviamo la continenza, santificando in noi il tempio dello Spirito Santo". (Clemente di Alessandria, II secolo).

- "...Non erano ancora passati sei mesi dalla morte dei genitori e, come al solito, andava in chiesa; mentre camminava e meditava fra sé e se, pensava a come gli Apostoli avessero lasciato tutto per seguire il Salvatore come quelli di cui parla negli Atti, venduti i propri beni, portassero il ricavato e lo deponessero ai piedi degli Apostoli perché fosse distribuito a chi ne aveva bisogno... entrò in chiesa e proprio in quel momento veniva letto l'Evangelo e senti il Signore che diceva al ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi, vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli" (Mt 19,21)... Antonio subito uscì dalla Chiesa, donò alla gente del villaggio i beni che aveva ereditato dai genitori... Entrato di nuovo in chiesa, come senti il Signore che diceva nel Vangelo: "Non preoccupatevi del domani" (Mt 6,34) non potè restare più oltre, ma uscì... si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa, vigilando su se stesso e sottoponendosi ad una dura disciplina..." (S. Atanasio, Vita di Antonio, IV secolo).

- "Ai suoi discepoli insegnava anzitutto a rinunciare ai propri beni e a se stessi, e a seguire il Salvatore che dà questo insegnamento, perché è così che si porta la croce" (Vita Prima di S. Pacomio, IV secolo).

"I monaci sono persone che non prendono quasi affatto parte alle cose della terra. Ogni loro preoccupazione è di cantare giorno e notte le lodi di Dio. Non possiedono nulla dì quei beni fragili, di cui il principe del mondo si serve per prendersi gioco degli uomini... Dio solo è il termine cui tendono tutti i loro desideri e vi si tengono inseparabilmente uniti a pietra ferma e solida. Conducono una vita nascosta in Gesù Cristo..." (S. Gregorio Naz. Poemata, IV secolo).-"Viviamo (i monaci) disinteressatamente l'amore fraterno; temano Dio nell'amore, amino il loro abate con affetto sincero umile, assolutamente nulla antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti alla vita eterna" (RB LXXII, 8-12; VI secolo). Da queste testimonianze tratte dal Monachesimo cristiano dei primi secoli appare evidente la motivazione che spinge uomini e donne ad abbracciare questa forma di vita: è la risposta ad una chiamata che nasce dall'ascolto del Vangelo di Gesù Cristo. Come nell'esperienza di Antonio, "padre dei monaci" l'aver ascoltato con fede il Vangelo nella sua Comunità Cristiana ha provocato in lui la decisione a lasciare tutto per amore del Cristo, così è stato per ogni monaco. Anche se con differenti tradizioni legate alla cultura locale (monachesimo orientale Basiliano e monachesimo occidentale in gran parte benedettino), l'unico Vangelo è stato ed è tutt'ora alla base della decisione di chi entra in un Monastero cristiano. In secondo luogo è necessario ricordare che la forma concreta di questo seguire Gesù Cristo si è servita dello strumento della "Regola". All'inizio del monachesimo ogni carità aveva una sua Regola dettata da un capo "carismatico" e che spesso nasceva dai quesiti che i discepoli ponevano al loro Padre spirituale (cfr. le due Regole di S. Basilio). Spesso queste regole più antiche non intendevano risolvere tutti i problemi pratici della comunità, erano semplicemente un "ri"dire il Vangelo stesso, o tutta la Scrittura, perché si era consapevoli che quella era la vera norma. In questo contesto infine vanno inserite tutte le prescrizioni, le "osservanze" da praticare per formare l'uomo di Dio.

Un'ultima considerazione

Monachesimo cristiano, cosi inteso nei suoi tratti molto generali, non è solo una "disciplina di vita" per chi risponde alla chiamata del Signore per questa via, ma nella Chiesa e tra gli uomini, anche non credenti, possiede una forza simbolica: esso, cioè, è un appello vivente per l'uomo ad unificare la sua esistenza a partire dal proprio cuore, rientrando in se stesso per scoprirvi proprio li la luce di Dio e, di conseguenza, vivere pienamente l'esistenza quotidiana.

3. La Regola di S. Benedetto: un modo per disciplinare la vita

Dopo questo sguardo così veloce sul Monachesimo cristiano, soffermerò ora l'attenzione su una delle sue forme storiche più famose ed affermate in Occidente: la tradizione benedettina.

Conosciamo l'autore di questa Regola dalla sua vita narrata dal Papa S. Gregorio Magno in una delle sue, opere: il Libro dei "Dialoghi" (anni 593-594).

Benedetto nasce a Norcia in Umbria da una famiglia I di origine romana. Mandato a Roma per gli studi, ben presto l'abbandona disgustato e cerca sulle montagne di Subiaco, nella solitudine, per tre anni, un'altra vita.

Qui dà inizio alla sua esperienza monastica raccogliendo attorno a sé i primi discepoli, fondando i primi monasteri. In seguito si trasferisce a Montecassino dove porta a compimento il suo cammino e stende definitivamente la Regola in cui certamente raccoglie il frutto maturo del suo cammino personale e delle esperienze positive e negative accumulate in precedenza. Le date tradizionali della sua nascita e della sua morte sono il 480 e il 547 circa. La Regola inizia la sua decisiva diffusione in Europa dal IX secolo in poi, non solo per gli interventi imperiali, ma soprattutto per il suo equilibrio e discrezione rispetto a tutte le Regole monastiche precedenti e seguenti (cfr. ad esempio la Regola di S. Colombano fondatore di Bobbio). Benedetto raccoglie nella sua Regola il meglio della tradizione monastica precedente: la spiritualità dei Padri del deserto, Cassiano, S.Basilio Magno, S.Leone Magno, la Regola del Maestro… In realtà non inventa nulla di nuovo anche sul piano ascetico e disciplinare, ma organizza la sua comunità in modo completamente personale mettendo in evidenza la sua conoscenza profonda della S. Scrittura, lasciando trasparire spesso la sua personale esperienza spirituale. Non è semplice suddividere la RB secondo uno schema preciso, ma possiamo per comodità suddividerla almeno in tre sezioni.

1. Sezione “dottrinale/spirituale”, Prologo e cc. da 1 a 7;

2. Sezione organizzativa della vita comunitaria. cc. 8-66; 

3. Conclusione: cc. 67-73.

Prologo e cc. 1-7

Il Prologo è la chiave di lettura di tutta la Regola poiché i temi qui presentati sono ripresi in vari modi nei primi 7 capitoli e costituiscono lo sfondo spirituale del resto degli argomenti. "Ascolta o Figlio gli insegnamenti del Maestro...": sono le prime parole che indicano subito la prospettiva con cui disporsi nell'intraprendere la vita monastica secondo S. Benedetto (cfr. la fonte sono i libri "sapienzali" della S. Scrittura e S. Basilio). La conversione è la prima conseguenza di questo atteggiamento; la guida nel cammino è Cristo che chiama in mezzo alla folla il suo operaio, paragonato anche ad un "soldato" che combatte per il suo re, ma è anche un discepolo che entra nella "Scuola del servizio del Signore" il cui insegnamento è il Vangelo e il cui obiettivo è l'Amore, cioè entrare in comunione con il Padre. La prima cosa da chiedere a Dio in questo cammino è che Lui stesso porti a compimento questa "opera" nel sito discepolo.

CC da 1 a 7 seguono i capitoli che presentano i fondamenti spirituali che fanno da struttura in questo "edificio" o "scuola". Cap. I: anzitutto il tipo di monaco, il "cenobita"; Cap. II: poi stabilisce la funzione della guida, "abate" (rappresentante di Cristo); Cap. III: la funzione del dialogo in comunità; Cap. IV: gli strumenti dell'arte spirituale; Capp. V-VI-VII: obbedienza, silenzio e umiltà, le principali "virtù" che Benedetto chiede ai suoi discepoli.

Organizzazione della vita comunitaria (cc. 8-66)

Preghiera e "Lectio Divina' ; i responsabili dei vari servizi e gli aiutanti dell'Abate; "codice penitenziale"; il lavoro, l'uso degli oggetti, la "proprietà privata"; i servizi domestici; alimentazione e abbigliamento; i viaggi; l'ospitalità; accoglienza e formazione degli aspiranti alla vita monastica; la Quaresima; l'ordine nella Comunità.

Conclusione: cc. 67-73

Sono molto probabilmente capitoli aggiunti da Benedetto alla fine della sua vita ispirandosi soprattutto a S. Agostino. Qui è esposto l'ideale benedettino della vita cenobitica allo stadio definitivo. Riguardano un'aggiunta sui fratelli che tornano dai viaggi, l'obbedienza impossibile, i rapporti reciproci tra i monaci, il senso vero della Regola. Questa conclusione, in particolare il cap. 73° collegato con il titolo della Regola, riportato da alcuni codici. "Si chiama Regola per il fatto che dirige il comportamento di coloro obbediscono", ci può dare l'idea della. relativizzazione del concetto di "legge" per Benedetto. Egli non la esclude, ma la colloca giustamente all'interno dell'itinerario verso la libertà che consiste nella carità perfetta (vedi la conclusione del cap. VII sull'umiltà: "Saliti, dunque, tutti questi gradini dell'umiltà, il monaco arriverà subito a quell'amore di Dio che, perfetto, scaccia ogni ti-more, e attraverso dì esso comincerà a custodire senza sforzo alcuno, quasi naturalmente e per abitudine, tutto ciò che prima osservava non senza paura, non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo..."

Alcuni esempi di osservanze tratte dalla Regola

Prima sezione:

"Il quinto gradino dell'umiltà consiste nel manifestare all'abate, attraverso un'umile confessione, tutti i pensieri malvagi che sopraggiungono e quanto di male si è commesso nascostamente..." (VII, 44...).

Seconda sezione:

"...appena cominciato il Gloria, tutti si alzino in piedi in segno di onore e di adorazione alla Trinità Santa..." (IX, 7).

Cap. XLIII, il ritardo all'Ufficio divino e alla mensa...

Cap. XXIII, senso della scomunica.

Cap. XXVII, l'Abate, anche per i casi più gravi, abbia cura degli scomunicati, anzi per essi applichi il rimedio più efficace: la preghiera.

Cap. XXXI, il cellerario e il senso delle cose.

Cap. I.VIII, la Professione monastica simbolo di tutta l'esistenza del monaco e del Cristiano.

Conclusione

Leggiamo nel libro III dei "Dialoghi" di S. Gregorio Magno che un eremita viveva vicino al Monastero di Benedetto. Un giorno decise di incatenarsi nella sua grotta, per non poterla lasciare mai più. Lungi dall'ammirare questo gesto, "l'uomo di Dio" inviò uno dei suoi discepoli a portare al solitario questo messaggio: "Se tu sei vero servitore di Dio non ti le-gare con una catena di ferro. Legati con la catena che è Cristo!". Mi sembra che, a questo punto, possiamo riassumere così il modo in cui Benedetto offre la sua "disciplina di vita" non solo ai monaci, ma ad ogni Cristiano e ad ogni uomo.

- Ascolto attento di Dio attraverso la sua Parola mediata dalla Comunità e dall'Abate per vivere costantemente da discepolo (conversione);

- Percorrere la strada della storia personale e comunitaria, nella accoglienza della quotidianità della vita (rapporti umani, lavoro, cose, sofferenze...).

Search