Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 10 Febbraio 2008 21:00

Imâm (Maria Domenica Ferrari)

IMÂM

di Maria Domenica Ferrari




Parola dalle molteplici implicazioni politiche e religiose, una delle più fraintese in Occidente.

Alla voce imâm nel mio dizionario leggo: capofila, imam, esempio, califfo, comandante (dell'esercito), guida (per i viaggiatori), cammello che marcia in testa agli altri, regola, strumento di precisione, squadra, filo a piombo, regolatore, compito, posizione di colui che prega Dio nella direzione della Mecca, decreto di Dio.

Il significato principale della radice ’mm è: stare davanti a, dirigere, assumere la direzione della preghiera.

Imâm è perciò la parola che designa colui presiede la preghiera, compito che può svolgere qualsiasi musulmano pubere, anche schiavo.

Nei primi tempi era Muhammad a presiedere la preghiera. Alla sua morte i suoi successori vennero chiamati imâm, nel senso di guide della Comunità, khalîfa o ‘amîr al-mu‘minîn amministratore dei credenti, espressione molto usata nei primi secoli.

Khalîfa deriva dalla radice kh l f che indica il venire dopo nel tempo, il succedere.

Si hanno perciò due diversi ambiti: imâm si riferisce alla distribuzione spaziale dei fedeli, mentre khaliîfa indica una successione temporale.

Con il passare del tempo, in Occidente soprattutto, con califfo si tende ad indicare il potere temporale, mentre imâm viene sentito più vicino ad aspetti religiosi.

All'origine vi è in ogni caso un'unicità tra le funzioni di guida religiosa e di guida politica-amministrativa sia a livello di Comunità universale, sia a livello di moschea locale.

Nei primi secoli, in effetti, gli amministratori delle province erano nominati dal califfo con anche il mandato per la preghiera.

Con il passare del tempo la direzione della preghiera fu affidata ad un incaricato funzionario della moschea, pagato o dall'erario e dalle fondazioni pie.

In seguito a ciò ogni moschea ebbe un proprio imâm, anzi si potevano avere più imâm a rotazione, uno per ogni scuola giuridica.

A imâm venivano nominati esperti di scienze religiose (‘ulamâ) che potevano essere giudici, muftî.

La prerogativa religiosa deriva dall'essere un esperto di scienze religiose non dall'essere imâm.

Alla morte di Muhammad, che non aveva lasciato indicazioni, una parte della Comunità considerava che ‘Ali, il cugino genero del profeta, avesse diritto alla successione per vincoli di sangue.

Questi musulmani erano detti il partito di ‘Ali Shî‘at al-‘Alî,, gli sciiti.

L'imâm sciita ha una conoscenza superiore, il suo insegnamento ha valore decisivo ed ha prerogative quali l'infallibilità e la conoscenza delle cose invisibili, e si differenzia dal profeta perché rispetto a lui non trasmette una scrittura divina.

Il dialogo con gli Ebrei
"nostri fratelli maggiori"

Catechesi di papa Giovanni Paolo II del 28 aprile 1999


"Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e dell'impegno perché i semi infetti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell'uomo".

1. Il dialogo interreligioso che la Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente
incoraggia come aspetto qualificante di questo anno particolarmente dedicato a Dio Padre (cfr nn. 52-53), riguarda innanzitutto gli ebrei, i "nostri fratelli maggiori", come li ho chiamati in occasione del memorando incontro con la comunità ebraica della città di Roma il 13 aprile 1986. Riflettendo sul patrimonio spirituale che ci accomuna, il Concilio Vaticano II, specie nella Dichiarazione Nostra Aetate
, ha dato un nuovo orientamento ai nostri rapporti con la religione ebraica. Occorre approfondire sempre di più quell'insegnamento e il Giubileo del Duemila potrà rappresentare una magnifica occasione di incontro, possibilmente, in luoghi significativi per le grandi religioni monoteistiche (cfr TMA, 53). È noto che purtroppo il rapporto con i fratelli ebrei è stato difficile, a partire dai primi tempi della Chiesa fino al nostro secolo. Ma in questa lunga e tormentata storia non sono mancati momenti di dialogo sereno e costruttivo. Va ricordato in proposito che la prima opera teologica con il titolo "Dialogo " è significativamente dedicata dal filosofo e martire Giustino nel secondo secolo al suo confronto con l'ebreo Trifone. Così pure va segnalata la dimensione dialogica fortemente presente nella letteratura contemporanea neoebraica, la quale ha profondamente influenzato il pensiero filosofico-teologico del ventesimo secolo.

C'è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani ed ebrei guardano assieme

2. Questo atteggiamento dialogico tra cristiani ed ebrei non esprime solo il valore generale del dialogo tra le religioni, ma anche la condivisione del lungo cammino che porta dalI' Antico al Nuovo Testamento. C'è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani , ed ebrei guardano assieme.
"A differenza delle altre religioni non cristiane - infatti - la fede ebraica è già risposta alla Rivelazione di Dio nella Antica Alleanza". Questa storia è illuminata da una immensa schiera di persone sante, la cui vita testimonia il possesso, nella fede, delle cose sperate. La Lettera agli Ebrei mette appunto in risalto questa risposta di fede lungo il corso della storia della salvezza (cfr Eb ll). La testimonianza coraggiosa della fede dovrebbe anche oggi segnare la collaborazione di cristiani ed ebrei nel proclamare e attuare il disegno salvifico di Dio a favore dell'intera umanità. Se questo disegno è poi diversamente interpretato rispetto all'accoglienza di Cristo, ciò comporta ovviamente una divaricazione decisiva, che è all'origine del cristianesimo stesso, ma non toglie che molti elementi restino comuni.
Soprattutto rimane il dovere di collaborare per promuovere una condizione umana più conforme al disegno di Dio. Il grande Giubileo, che si richiama proprio alla tradizione ebraica degli anni giubilari, addita l'urgenza di tale impegno comune per ripristinare la pace e la giustizia sociale. Riconoscendo la signoria di Dio su tutto il creato e in particolare sulla terra (cfr Lv 25), tutti i credenti sono chiamati a tradurre la loro fede in impegno concreto per proteggere la sacralità della vita umana in ogni sua forma e difendere la dignità di ogni fratello e sorella.

3. Meditando sul mistero di lsraele e sulla sua "vocazione irrevocabile", i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici. Nelle sorgenti bibliche condivise con i fratelli ebrei, trovano elementi indispensabili per vivere e approfondire la loro stessa fede. Lo si vede, ad esempio, nella Liturgia. Come Gesù, che ci viene presentato da Luca mentre nella sinagoga di Nazaret apre il libro del profeta Isaia (cfr Lc 4,16ss), così la Chiesa attinge dalla ricchezza liturgica del popolo ebraico. Essa ordina la liturgia delle ore, la liturgia della parola e perfino la struttura delle preghiere eucaristiche secondo i modelli della tradizione ebraica. Alcune grandi feste come la Pasqua e la Pentecoste evocano l'anno liturgico ebraico, e rappresentano eccellenti occasioni per ricordare nella preghiera il popolo che Dio ha scelto ed ama (cfr Rm 11,2).
Oggi il dialogo implica che i cristiani siano più consapevoli di questi elementi che ci avvicinano. Come si prende atto della "alleanza mai revocata", così si deve considerare il valore intrinseco dell'Antico Testamento (cfr Dei Verbum, 3), anche se esso acquista il suo senso pieno alla luce del Nuovo Testamento e contiene promesse che si adempiono in Gesù. Non fu forse la lettura attualizzata della Sacra Scrittura ebraica fatta da Gesù ad accendere "il cuore nel petto"(Lc 24,32) ai discepoli di Emmaus, permettendo loro di riconoscere il Risorto mentre spezzava il pane ?

4. Non solo la comune storia di cristiani ed ebrei, ma particolarmente il loro dialogo deve mirare all'avvenire, diventando, per così dire, "memoria del futuro". Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e all'impegno perché i semi infetti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell'uomo. Israele, popolo che edifica la sua fede sulla promessa fatta da Dio ad Abramo: "sarai padre di una moltitudine di popoli" (Gn 17,4; Rm 4,17), addita al mondo Gerusalemme quale luogo simbolico del pellegrinaggio escatologico dei popoli, uniti nella lode dell'Altissimo. Auspico che agli albori del terzo millennio il dialogo sincero tra cristiani ed ebrei contribuisca a creare una nuova civiltà, fondata sull'unico Dio santo e misericordioso, e promotrice di una umanità riconciliata nell'amore. "

Meditando sul mistero di Israele e sulla sua "vocazione irrevocabile" i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici.

Religioni: sorelle, non nemiche

di André Chouraqui



Tutto è stato vissuto, detto e scritto sui conflitti che ancora oggi insanguinano il mondo. L'essenziale lo esprime la Bibbia nella descrizione del primo delitto, quello di Caino che uccide Abele (Genesi 4,8). Abele e Caino sono fratelli. Uno è pastore, l'altro agricoltore. Essi non accettano la loro diversità. Sono lacerati dalla gelosia fino al delitto. Data l'unità della razza umana, nata da un'unica coppia - Adamo ed Eva -, tutti gli umani sono necessariamente fratelli. Ogni omicidio è un fratricidio.
Si apre così la via al primo e al più difficile dovere dell'uomo o della donna: quello di accettare la propria differenza, origine di tutti i conflitti e di tutte le guerre. Il dialogo è possibile solo nell'accettazione primaria delle differenze dell'Altro. Io posso conoscere l'Altro e dialogare con lui solo nella misura in cui conosco e accetto la sua differenza, quella della sua persona, del colore della sua pelle, della sua razza, della sua lingua, della sua cultura, della sua religione, del suo carattere.
Il primo dovere dell'uomo nuovo sarà perciò di vincere l'infermità congenita che lo porta a rinchiudersi in se stesso nell'illusione di essere il centro e la misura unica dell'universo. Questa illusione ingenera tutti i conflitti tribali, nazionali, internazionali e, cosa forse ancor più grave, le guerre di religione che hanno insanguinato e seguitano a insanguinare il pianeta.
La loro estrema gravità deriva dal fatto che sono condotte nel nome di Dio. Si può venire a patti su interessi umani. Gli interessi di Dio non si contrattano. Di qui il carattere implacabile delle guerre di religione. Esse imperversano tuttora in ogni continente così come hanno imperversato in ogni secolo. Le peggiori sono probabilmente quelle che hanno contrapposto le religioni abramiche: giudaismo, cristianesimo e islam. Queste religioni adorano il medesimo Elohim. I loro testi sacri sono la Bibbia ebraica, il Nuovo Testamento e il Corano, che proclamano i medesimi valori di amore, giustizia e fratellanza universale annunciati dai medesimi profeti.
Ho sempre provato un senso di stupore e ribellione nei confronti dei conflitti nati dallo scontro di queste tre religioni, sorelle nemiche, che perpetuavano le loro guerre fratricide su qualunque frontiera e in qualunque secolo s'incontrassero. Ai loro occhi, i conflitti avevano cause tanto più irrefutabili quanto più erano inscindibili dalla loro identità. Per gli ebrei i conflitti, connaturati alla loro stessa identità, cominciano fin dai tempi più remoti e sono legati agli esili subiti.
Il regno d'Israele, distrutto dagli assiri nel 721 a.C., e il regno di Giudea, occupato dai babilonesi nel 586 a.C., costringono gli ebrei a imboccare la via senza fine dell'esilio, fino a quando i romani occupano il loro Paese nell'anno 63 prima dell'era cristiana e distruggono Gerusalemme nell'anno 70 della nostra era. In quell'occasione crocifiggono, secondo Tacito, circa 600 mila vittime e costringono i superstiti della guerra di Roma ad abbandonare il loro Paese conquistato per imboccare la via senza fine dell'esilio. Per salvaguardare le vestigia della propria identità perduta, gli ebrei non hanno altra scelta che quella di barricarsi nei loro ghetti. Lì riusciranno a salvaguardare la memoria della loro storia, i loro scritti, la loro lingua e i sogni dei loro profeti, tramandati nella Bibbia ebraica.
Il ritorno, pressoché contemporaneo, dei peggiori massacri della storia, quelli delle ultime due guerre mondiali, avviene nelle nostre generazioni, sotto i nostri occhi, nell'epoca dei mutamenti più radicali dell'umanità. Essa scopre con orrore i crimini, le omissioni e gli errori di cui si è resa colpevole e, contemporaneamente, la portata del suo genio che è in grado di penetrare i più reconditi segreti dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo.
Dipende dalla scelta di ognuno di noi se orientare il nostro futuro globale verso le distruzioni che minacciano il pianeta, oppure verso l'infinito di un nuovo futuro che il genio dell'uomo dischiude all'umanità. L'ostacolo più arduo su questa via d'innovazione consiste per l'uomo nel consentire il sacrificio della propria identità, senza il quale nessun futuro sarebbe per lui possibile sulla terra.
Paradossalmente le stesse religioni che sono all'origine dei peggiori conflitti della storia detengono anche, nei Dieci Comandamenti, la chiave del futuro. Esse sono unanimi nell'indicare questo testo come essenziale per il futuro dell'umanità, soprattutto in questo anno 2000, proclamato anno internazionale della pace dalle Nazioni Unite, che su iniziativa dell'Unesco hanno redatto un manifesto che sollecita tutti i Paesi del mondo ad aderire al Mouvement international pour la culture de la paix et de la non-violence, e ognuno di noi cittadini ad assumere nella vita quotidiana, nella famiglia, nel lavoro, nella nostra comunità, nel nostro Paese, l'impegno di: rispettare la vita, in particolare quella di qualunque persona senza discriminazioni né pregiudizi; respingere la violenza, fisica, sessuale e psicologica in particolare; liberare la nostra generosità; ascoltare per comprendere meglio; preservare il pianeta, difendendo l'equilibrio delle sue risorse naturali; reinventare la solidarietà.
A questi sei principi proclamati dal Manifesto dell'anno 2000 aggiungo una settima raccomandazione, invitando tutti coloro che si rifanno alla Torah, ai Vangeli o al Corano, a eliminare ogni reciproca barriera di misconoscimento e di odio. Cristiani, musulmani ed ebrei devono ritenersi particolarmente responsabili di questo Manifesto, che in ogni sua parte è implicito nel Decalogo.
Il nostro sogno, quello dei profeti di Israele, degli apostoli di Gesù Cristo, dei compagni di Muhammad, come pure dei fondatori delle Nazioni Unite, diventa ai giorni nostri un'esigenza politica. Essa condiziona non solo la sopravvivenza dell'umanità, ma anche quella del pianeta stesso, minacciato dalla corsa agli armamenti da parte di tutti i governi del mondo. In questo senso le religioni, che hanno agito da potente freno, potrebbero, con la loro riconciliazione e riunione, accelerare il cammino dell'umanità verso l'adempimento della sua unità originaria.
Un primo passo in questa direzione è stato compiuto durante lo storico pellegrinaggio di papa Giovanni Paolo II a Gerusalemme, in occasione della sua preghiera ai piedi del muro del pianto. L'ulivo della pace, piantato a Gerusalemme da un ebreo, un musulmano e dal Papa stesso, apre la prospettiva nuova di una sinergia fra le tre religioni un tempo concorrenti.

“Buddha è l’ultimo genio religioso dell’umanità con il quale il cristianesimo dovrà confrontarsi”, affermava poco più di mezzo secolo fa il teologo cattolico Romano Guardini.

«Ha guardato l'umiltà della sua serva»


Riflessione sul trattato «Lodi alla Vergine Madre»
di San Bernardo di Chiaravalle

di Sr. Maria Teresa Ragusa o. cist.



La lettura del trattato di San Bernardo di Chiaravalle, «Lodi alla Vergine Madre», sembra prestarsi particolarmente ad accompagnare la meditazione durante questo tempo di Avvento.

Le apparizioni «ufficiali» del Risorto
al gruppo apostolico (Gv 20, 19-31)

di Rita Pellegrini





L’evangelista nel c. 20 ha descritto le apparizioni del Risorto ai primi discepoli nel giorno di Pasqua, dividendole in due grandi unità letterarie. Nella prima unità, il Risorto si fa vedere a Maria di Magdala nei pressi del sepolcro vuoto (20,1-18); nella seconda, si mostra ai discepoli e a Tommaso in un luogo chiuso (20,19-29). L’epilogo del redattore termina il capitolo con i vv. 30-31. La nostra riflessione si concentrerà sulle apparizioni ufficiali al gruppo apostolico.

Martedì, 05 Febbraio 2008 23:32

«Mio Signore e mio Dio» (Bruno Maggioni)

«Mio Signore e mio Dio»

di Bruno Maggioni






Nei racconti evangelici della risurrezione non manca mai un accenno al «dubbio» dei discepoli. Per esempio, Matteo scrive: «Vedendolo lo adorarono, altri però dubitavano» (Mt 28,17). E nel Vangelo di Luca si legge: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?» (Lc 24,36-38).

Dal dubbio alla fede

L’evangelista Giovanni, però, ha preferito concentrare il tema del dubbio e del suo superamento in due scene contrapposte (prima l’incredulità e poi la fede), sviluppandolo attorno a un solo personaggio: l’apostolo Tommaso. La tesi principale è senza dubbio teologica: approfondire il rapporto fra il vedere e il credere, la fede del gruppo apostolico e la fede della comunità successiva. Giovanni non tratta il tema concettualmente, ma narrativamente com’è sua abitudine.

Gesù risorto appare la prima volta al gruppo dei discepoli assente Tommaso (20,19-23). Al ritorno di Tommaso i discepoli gli dicono: «Abbiamo visto il Signore»(20,25). Dicendo «il Signore» i discepoli mostrano di riconoscerne la profonda identità: Gesù è il Signore vivente e presente nella comunità.

Una maturazione, dall’inizio alla fine

Non basta ritenere che il Crocifisso è tornato alla vita. Occorre capire che ora è il Signore entrato in una vita e in una condizione che appartengono a Dio.

Così è la vera fede.

C’e’ dunque una differenza notevole fra quest’esclamazione e la prima dei discepoli che si legge in 1,41: «Abbiamo trovato il Messia».

- All’inizio i discepoli riconoscono che Gesù è il Messia, alla fine egli è il Signore.

- All’inizio trovano, alla fine vedono.

- All’inizio non sanno che il Messia sarà crocifisso, alla fine comprendono che il Signore risorto è il Crocifisso. Lo riconoscono, infatti, non dal volto o da altro, bensì dai segni della croce.

L’idea di messia è così doppiamente cambiata: il Messia è il Signore, il Messia è il Crocifisso.

Tommaso non si lascia convincere dalla visione che gli altri discepoli hanno avuto. Egli vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che Tommaso abbia toccato né le mani né il costato trafitto. In questa seconda scena tutto si concentra sul dialogo fra Gesù e Tommaso. Gli altri discepoli assistono silenziosi.

«Il mio Signore»

Nelle parole di Gesù c’è un rimprovero: «non continuare a essere incredulo [così il verbo greco nella forma dell’imperativo presente], ma diventa credente». Tommaso a questo punto riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: «Il mio Signore e il mio Dio». La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore. Non dice: «Signore Dio», ma: «Il mio Signore e il mio Dio». La presenza dell’articolo nel testo greco suggerisce anche la totalità dell’appartenenza. Si potrebbe parafrasare così: «»Sei il mio unico Signore e il mio unico Dio.

La fede sul fondamento dell’ascolto

«Beati quelli che senza aver visto hanno creduto»: è questa la vera beatitudine del Vangelo. Beato è chi crede senza pretendere di vedere. Con la fede di Tommaso si apre una nuova tappa nell’itinerario della fede: credere senza vedere. Quando l’evangelista scriveva il suo Vangelo erano già molti coloro che credevano senza aver visto. Forse è per questo che il verbo è al participio aoristo, come se si riferisse a una situazione già sperimentata («Hanno creduto»).

Dalle poche cose dette si può comprendere che la scena dell’apparizione di Gesù ai discepoli presente Tommaso assume grande importanza, divenendo il punto di passaggio dalla visione alla testimonianza, dai segni all’annuncio. Si apre sul tempo della Chiesa. Credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Nel tempo di Gesù visione non deve più essere pretesa: basta la testimonianza apostolica. Il che non significa che ora al credente sia preclusa ogni personale esperienza del Risorto. Tutt’altro. Gli è offerta l’esperienza della gioia, della pace, del perdono dei peccati, della presenza dello Spirito. Ma la storia di Gesù deve essere accettata per testimonianza. L’esperienza apostolica, in sostanza, risulta di due elementi: la visione storica (non più ripetibile) e la comunione di fede con il Signore (sempre possibile e attuale).

Il primo elemento è trasmissibile per via di testimonianza, come una memoria fissata e fedelmente raccontata. Il secondo si pone, invece, come fatto perennemente contemporaneo, aperto quindi all’esperienza diretta e personale di tutti coloro che accolgono l’annuncio.

(da Parole di Vita)
Martedì, 05 Febbraio 2008 23:21

Ragione ed etica (Frei Betto)

Ragione ed etica

di Frei Betto

Può una società “quantificata” dal mercato, come la nostra, trovare spazio per valori etici “qualificanti”? Davanti all’impunità di politici trovati non-etici, c’è speranza che beni “infiniti” possano prevalere su quelli “finiti”?

Socrate fu condannato e giustiziato per “eresia”. I suoi detrattori lo accusarono di corrompere i giovani, predicando loro “nuovi dei”. La conoscenza che egli aveva raggiunto gli aveva aperto gli occhi non per guardare il cielo, ma la terra. Si era convinto di non poter mai dedurre un’etica per gli esseri umani dall’Olimpo. Gli dei potevano, tutt’al più, spiegare l’origine delle cose, ma non dettare norme di condotta.

La mitologia, piena di esempi poco edificanti, obbligò i greci a cercare nella ragione i principi normativi di una buona convivenza sociale. La promiscuità che regnava presso gli dei poteva solo essere “accettata per fede”, non tradotta in atteggiamenti da imitare. Così, la ragione conquistò la propria autonomia nei confronti della religione.

Impegnato nella ricerca di valori normativi per la convivenza umana, Socrate addita il luogo dove trovarli: la ragione. Per lui, l’etica esige nome eterne e immutabili; non può, pertanto, dipendere dal variare delle opinioni. Platone apporta nuova luce in questo senso, insegnandoci a discernere tra realtà e illusione. Nel primo libro della Repubblica, egli riferisce l’opinione di Trasimaco sul rapporto fra la giustizia e il potere: il più forte si serve della giustizia per mascherare il proprio interesse. (Concetto che Marx riprenderà, applicandolo all’ideologia). Cos’è il potere per Trasimaco? Il diritto concesso a un individuo – o conquistato da un partito o una classe sociale – d’imporre la propria volontà a tutti gli altri.

Aristotele si domanda: cosa desidera il popolo sopra ogni altra cosa? E risponde: la felicità. Ma poi si premura di strapparci da ogni forma si solipsismo, associando felicità e politica. Secoli dopo, formulando i principi di una etica politica, Tommaso d’Aquino sottolinea il primato che spetta al bene comune e valorizza la coscienza individuale e la sovranità popolare come principi imprescindibili. Nicolò Machiavelli, invece, destituisce la politica di ogni etica, riducendola a un mero gioco di potere in cui il fine giustifica i mezzi.

Immanuel Kant afferma che la grandezza dell’essere umano non risiede nella sua capacità tecnica di soggiogare la natura, ma nel suo essere “etico”, cioè nella sua capacità di autodeterminarsi a partire dalla propria libertà. Ci sarebbe in noi un senso innato del dovere: non dovremmo astenerci dal fare una data cosa perché è peccato, ma perché è ingiusta.

«Perfino il santo del Vangelo deve essere paragonato con il nostro ideale di perfezione morale [...] Da dove prendiamo il concetto di Dio come sommo bene? Unicamente dall’idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera» (Fondazione della metafisica dei costumi). Il grande filosofo tedesco aggiunge che l’etica individuale deve essere completata da un’etica sociale, perché noi, esseri umani, non siamo un gregge di individui, ma una società che esige regole e leggi e, soprattutto, la cooperazione di tutti i suoi membri per raggiungere una convivenza sociale felice.

Hegel e Marx sottolineano come la nostra libertà sia sempre condizionata e “in relazione”, poiché consiste nell’edificazione di comunioni (con la natura e con i nostri simili). È l’ingiustizia a rendere alcuni dissimili dagli altri. Dalla tradizione giudaico-cristiana Marx eredita l’irriducibile dignità di ogni uomo e, pertanto, il diritto alla parità di opportunità. In altri termini: siamo tanto più liberi quanto più costruiamo istituzioni capaci di promuovere la felicità di tutti.

La filosofia moderna ha pensato di fare un passo in avanti con l’affermare che, una volta che si obbedisce alla legge, ciascuno è libero di fare ciò che più gli garba. La privacy come il regno della più totale libertà! Il problema con questo tipo di impostazione sta nel suo svuotare l’etica di ogni responsabilità sociale, indirizzandola verso l’esasperata affermazione dei diritti individuali, con il rischio di ridurla a un soggettivismo egocentrico. L’uomo etico moderno sembra preoccupato soltanto dei suoi sacrosanti diritti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.

E i doveri? E gli obblighi che una persona dovrebbe sentire nei confronti della società? E i vincoli che la dovrebbe legare agli altri, in particolare all’affamato, all’oppresso e all’escluso? Un’etica universale non può ridursi alla difesa dei fondamentali diritti dell’individuo: deve, invece, essere coronata dalla volontà di intensificare le virtù, i valori e le responsabilità sociali.

Oggi l’etica non sembra di casa nel mondo della politica: chi la viola rimane impunito; chi la vive, non ne riceve onore. L’esame di coscienza di un politico sembra ridursi a rispondere alla domanda: «Ho fatto forse qualcosa di proibito dalla legge?». Ma questo non basta. Il politico è chiamato ad agire secondo giustizia e con generosità: a regolare il suo comportamento ci deve essere il rigore etico. Nello stesso tempo, egli non può supporre che la sua etica dipenda esclusivamente dalle sue virtù personali. Devono esistere una continua interdipendenza e una interrelazione fra la vita individuale e la vita sociale. «Io sono io e la mia circostanza» diceva Ortega y Gasset.

L’etica deve espletarsi nel modo in cui è organizzata la società. Oltre agli individui, anche le istituzioni sociali devono essere imbevute di eticità. In questo modo, l’individuo potrebbe anche cedere alla corruzione, ma si troverà la strada sbarrata dal mortaio della legalità, che, mentre sostiene le istituzioni, impedisce a esse di favorire l’impunità. Sembrare etico è una questione di estetica, tipica dell’opportunismo. Essere etico, invece, è questione di carattere.

(da Nigrizia, settembre 2007)

Dire che l'ecumenismo è un prodotto del XX secolo significa svalutare la storia della Chiesa cristiana. Dire, invece, che il XX secolo ha visto maturare ed imporsi il problema ecumenico significa prendere atto di una delle realtà storiche dell'epoca in cui viviamo.

Come leggere la Bibbia

del Vescovo Kallistos di Diokleia

Tutta la Scrittura è ispirata da Dio (2 Tim 3:16)

"Se un re terreno, il nostro imperatore," scriveva San Tikhon di Zadonsk (1724-83), "ti scrivesse una lettera, non la leggeresti con gioia? Certamente, con grande esultanza, cura e attenzione." Ma qual'è, egli chiede, la nostra attitudine verso la lettera che ci è stata spedita niente meno che da Dio stesso? "Ti è stata spedita una lettera, non da qualche imperatore terreno, ma dal Re dei Cieli. Eppure quasi disprezzi un tale dono, un tesoro senza prezzo." Aprire e leggere questa lettera, dice San Tikhon, vuol dire entrare in una conversazione personale faccia a faccia con il Dio vivente. "Tutte le volte che leggi il Vangelo, Cristo stesso ti sta parlando. E mentre leggi, tu sei in preghiera e in conversazione con lui."

Esattamente questa è la nostra attitudine ortodossa verso la lettura delle Scritture. Devo vedere la Bibbia come la lettera personale di Dio inviata in modo specifico a me. Le parole non sono intese solo per altri, vissuti lontano e molto tempo fa, ma sono scritte particolarmente e direttamente a me, qui e ora. Ogni volta che apriamo la nostra Bibbia, entriamo in un dialogo creativo con il Salvatore. Mentre ascoltiamo, rispondiamo. "Parla, perché il tuo servo ti ascolta," rispondiamo a Dio (1 Samuele 3:10); "Eccomi" (Isaia 6:8).

Due secoli dopo San Tikhon, alla Conferenza tenuta a Mosca nel 1976 tra gli ortodossi e gli anglicani, la vera attitudine verso le Scritture è stata espressa in modo differente ma in termini ugualmente validi. Questa dichiarazione congiunta, firmata da delegati di entrambe le tradizioni, forma un eccellente riassunto del punto di vista ortodosso: "Le Scritture costituiscono un insieme coerente. Esse sono allo stesso tempo divinamente ispirate e umanamente espresse. Portano testimonianza autorevole a Dio che si rivela - nella creazione, nell'Incarnazione del Verbo, e nell'intera storia della salvezza. E come tali esprimono la parola di Dio in linguaggio umano. Noi conosciamo, riceviamo e interpretiamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa. Il nostro approccio alla Bibbia è un approccio di obbedienza."

Combinando le parole di San Tikhon e la dichiarazione di Mosca, si possono distinguere le quattro caratteristiche chiave che contrassegnano la "mente scritturale" ortodossa. Primo, la nostra lettura delle scritture è obbediente. Secondo, è ecclesiale, in unione alla Chiesa. Terzo, è cristocentrica. Quarto, è personale.

Leggere la Bibbia con obbedienza

Prima di tutto, vediamo le Scritture come ispirate da Dio, e ci accostiamo a loro in spirito di obbedienza. L'ispirazione divina della Bibbia è sottolineata allo stesso modo da San Tikhon e dalla Conferenza di Mosca del 1976: Le Scritture sono una "lettera" che viene dal "Re dei Cieli," scrive San Tikhon; "Cristo stesso ti sta parlando." La Bibbia, dice la Conferenza, è la "testimonianza autorevole" che Dio dà di Se stesso, che esprime "la parola di Dio in linguaggio umano." La nostra risposta a questa parola divina è, giustamente, una risposta di obbediente ricettività. Mentre leggiamo, siamo al servizio dello Spirito.

Poiché è divinamente ispirata, la Bibbia possiede un'unità fondamentale, una coerenza totale, poiché lo stesso Spirito parla in ogni pagina. Non ci riferiamo ad essa al plurale come "i libri," ta biblia. La chiamiamo "la Bibbia," "il libro," al singolare. Si tratta di un libro, una Sacra Scrittura, con lo stesso messaggio generale - una storia composita e allo stesso tempo singola dalla Genesi all'Apocalisse.

Allo stesso tempo, tuttavia, la Bibbia è anche umanamente espressa. È un'intera biblioteca di scritti distinti, composti in vari tempi, da persone differenti, in situazioni ampiamente diverse. Troviamo qui Dio che parla "in molti tempi e in molti modi" (Ebrei 1:1). Ogni libro della Bibbia riflette il carattere dell'epoca in cui fu scritto e il particolare punto di vista dell'autore. Dio infatti non abolisce la nostra individualità ma la esalta. La grazia divina coopera con la libertà umana: noi siamo "collaboratori," cooperatori di Dio (1 Corinzi 3:9). Nelle parole della Lettera a Diogneto del secondo secolo, "Dio persuade, non obbliga; la violenza è infatti contraria alla natura divina." Precisamente così avviene nella composizione delle Scritture ispirate. L'autore di ogni libro non era solo uno strumento passivo, un flauto suonato dallo Spirito, un dittafono che registra un messaggio. Ogni autore delle Scritture vi contribuisce con i propri particolari doni umani. A fianco dell'aspetto divino, c'è anche un aspetto umano nelle Scritture, e noi dobbiamo dare valore a entrambi.

Ciascuno dei quattro evangelisti, per esempio, ha il suo punto di vista particolare. Matteo è il più "ecclesiastico" e il più ebraico dei quattro, con il suo speciale interesse alla relazione tra il vangelo e la legge ebraica, e la sua comprensione del cristianesimo come "nuova legge." Marco scrive in un greco meno forbito, vicino al linguaggio della vita quotidiana, e include vividi dettagli narrativi che non si trovano negli altri Vangeli. Luca insiste sull'universalità dell'amore di Cristo, sulla sua onnicomprensiva compassione che si estende in pari misura all'ebreo e al gentile. Il quarto vangelo esprime un approccio più interiore e mistico, e fu ben definito da San Clemente di Alessandria "un vangelo spirituale." Esploriamo anche noi e godiamo pienamente questa vivifica varietà nella Bibbia.

Dato che le Scritture sono in questo modo la parola di Dio espressa in linguaggio umano, c'è spazio per un'onesta ed esigente ricerca critica quando si studia la Bibbia. Il nostro cervello e la sua facoltà di ragionamento sono un dono di Dio, e non dobbiamo avere paura di usarli pienamente quando leggiamo le Scritture. Come cristiani ortodossi, trascuriamo a nostro rischio e pericolo i risultati della ricerca accademica indipendente sulle origini, le datazioni e gli autori della Bibbia, anche se vorremo sempre mettere alla prova questi risultati alla luce della Santa Tradizione.

A fianco di questo elemento umano, tuttavia, dobbiamo sempre vedere l'aspetto divino. Questi testi non sono semplicemente opera degli autori individuali. Ciò che ascoltiamo nelle Scritture non sono semplici parole umane, caratterizzate da una maggiore o minore abilità e percezione, ma l'eterna, increata Parola di Dio stesso - il Verbo del Padre che "esce dal silenzio," per usare la frase di Sant'Ignazio di Antiochia - il Verbo divino della salvezza. Accostandoci alla Bibbia, dunque, non proveniamo da una posizione di mera curiosità, o per ottenere informazioni storiche. Veniamo con una domanda specifica: "Come posso essere salvato?"

La ricettività obbediente alla parola di Dio significa soprattutto due cose: un senso di meraviglia e un'attitudine di ascolto.

(1) La meraviglia si estingue facilmente. Non proviamo anche troppo spesso, leggendo la Bibbia, che essa è divenuta troppo familiare, perfino noiosa? Non abbiamo forse perso la nostra vigilanza, il nostro senso di aspettativa?

Dobbiamo continuamente ripulire le porte della nostra percezione e guardare con occhi nuovi, con timore reverenziale e stupore, il miracolo che ci viene proposto - il miracolo sempre presente della parola divina di salvezza espressa in linguaggio umano. Come faceva notare Platone, "l'inizio della verità è la meraviglia di fronte alle cose."

Alcuni anni fa ho fatto un sogno che ancora ricordo chiaramente. Ero di nuovo nella casa dove da bambino, per tre anni, avevo vissuto in convitto. Un amico mi portava attraverso le camere che mi erano familiari dai ricordi di vita cosciente della mia infanzia. Poi, nel sogno, entravamo in altre camere che non avevo mai visto prima - spaziose, eleganti, piene di luce. Infine, arrivammo in una cappella piccola e scura, con mosaici dorati che brillavano alla luce di candele. "Che strano," dissi al mio compagno, "che io sia vissuto qui per tanti anni, e senza mai sapere dell'esistenza di tutte queste camere." Ed egli replicò: "Ma è sempre così." Mi svegliai, e mi accorsi che era un sogno.

Non dovremmo forse reagire in presenza della Bibbia esattamente con la stessa sorpresa, con lo stesso senso di gioia e di scoperta che avevo sperimentato nel mio sogno? Ci sono così tante stanze nelle Scritture nelle quali ancora non siamo neppure entrati. C'è ancora così tanto da esplorare.

(2) Se l'obbedienza significa meraviglia, significa anche ascolto. Tale è per la verità il significato della parola "obbedire" in greco e in latino: ascoltare. Il problema è che per la maggior parte noi siamo più capaci di parlare che di ascoltare. Lo dimostra fin troppo bene un episodio del Goon Show, che io ascoltavo regolarmente alla radio nei miei giorni di studente. Suona il telefono, e uno dei personaggi alza il ricevitore. "Pronto," esclama, "pronto, pronto." Il volume della sua voce cresce. "Chi parla? Non riesco a sentire. Pronto, chi parla?" Una voce all'altro capo dice: "Ma sei tu che parli." "Ah," risponde il protagonista "ecco perché la voce mi sembrava familiare." e riappende il ricevitore.

Uno dei requisiti primari, se vogliamo acquisire una "mente scritturale," è quello di smettere di parlare e iniziare ad ascoltare. Quando entriamo in una chiesa ortodossa decorata nel modo tradizionale, e guardiamo in alto verso il santuario, vediamo nell'abside la figura della Madre di Dio con le mani levate al cielo - l'antico modo scritturale di pregare che molti usano ancora oggi. Tale deve essere la nostra attitudine verso le Scritture - un'attitudine di apertura e di attenta ricettività, con le nostre mani invisibilmente protese verso il cielo.

Leggendo la Bibbia, dunque, dobbiamo conformarci in tal modo al modello della Beata Vergine Maria, come a colei che ascolta in modo supremo. All'Annunciazione, ascoltando l'angelo, risponde con obbedienza: "Sia fatto di me secondo la tua parola" (Luca 1:38). Se non avesse prima ascoltato la parola di Dio ricevendola spiritualmente nel suo cuore, non avrebbe mai portato corporalmente la Parola di Dio nel suo grembo. L'ascolto ricettivo continua a essere la sua attitudine lungo tutta la storia dei Vangeli. Alla natività di Cristo, dopo l'adorazione da parte dei pastori, "Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore" (Luca 2:19). Dopo la visita a Gerusalemme quando Gesù aveva dodici anni, "Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore" (Luca 2:51). L'importanza vitale dell'ascolto è pure indicata nelle ultime parole attribuite alla Theotokos nelle Sacre Scritture, alla festa di nozze a Cana di Galilea: "Fate tutto quello che vi dirà" (Giovanni 2:5), ella dice ai servitori - e a tutti noi.

In tutto ciò la Vergine serve come uno specchio e un'icona vivente del cristiano biblico. Ascoltando la parola di Dio, dobbiamo essere come lei: meditare, custodire tutte queste cose nel nostro cuore, fare tutto ciò che Egli ci dice. Dobbiamo ascoltare in obbedienza mentre Dio parla.

Comprendere la Bibbia attraverso la Chiesa

Come afferma la Conferenza di Mosca, "Noi conosciamo, riceviamo e interpretiamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa." Il nostro approccio alla Bibbia non è solo obbediente ma ecclesiale. Le parole della Scritture, che ci sono rivolte a titolo personale, ci sono rivolte allo stesso tempo in quanto membri di una comunità. Libro e Chiesa non vanno separati.

L'interdipendenza tra Chiesa e Bibbia è evidente almeno in due modi. Dapprima, noi riceviamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa. È la Chiesa a dirci che cosa fa parte delle Scritture. Nei primi tre secoli di storia cristiana, fu necessario un lungo processo per passare al setaccio, mettere alla prova e distinguere ciò che era autenticamente parte delle Scritture "canoniche," e che portava un messaggio autorevole della persona e del messaggio di Cristo, e di ciò che era "apocrifo," forse utile per l'insegnamento, ma non una fonte normativa di dottrina. Perciò, è la Chiesa che ha deciso quali libri formano il Canone del Nuovo Testamento. Un libro non è parte delle Sacre Scritture a causa di qualche particolare teoria sulla sua datazione e autorevolezza, ma poiché è la chiesa che lo tratta come canonico. Supponiamo, per esempio, che potesse essere provato che il Quarto Vangelo non sia stato scritto di fatto da San Giovanni, il discepolo amato da Cristo - a mio parere, ci sono invece forti ragioni per continuare ad accettare l'attribuzione a Giovanni - e tuttavia, anche in tal caso, ciò non altererebbe il fatto che noi consideriamo il Quarto Vangelo come parte delle Scritture. Come mai? Perché il Quarto Vangelo, chiunque sia il suo autore, è accettato dalla Chiesa e nella Chiesa.

In secondo luogo, noi interpretiamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa. Se è la Chiesa che ci dice che cosa fa parte delle Scritture, allo stesso modo è la Chiesa che ci dice come le Scritture vanno comprese. Giungendo dall'Etiope mentre questi leggeva l'Antico Testamento nel suo carro, l'Apostolo Filippo gli chiese, "Comprendi ciò che stai leggendo?"

"E come potrei," rispose l'Etiope, "se qualcuno non mi guida?" (Atti 8:30-31).

La sua difficoltà è pure la nostra. Le parole delle Scritture non si spiegano sempre da sole. La Bibbia ha un filo conduttore di meravigliosa semplicità, ma quando è studiata in dettaglio può risultare un libro difficile. Invero, Dio parla direttamente al cuore di ciascuno di noi mentre leggiamo la nostra Bibbia - come dice San Tikhon, la nostra lettura è un dialogo personale tra ciascuno di noi e Cristo stesso - ma noi abbiamo bisogno anche di una guida. E la nostra guida è la Chiesa. Possiamo usare pienamente la nostra comprensione personale, assistita dallo Spirito. Possiamo usare pienamente i commentari biblici le scoperte della moderna ricerca. Ma sottomettiamo le opinioni individuali - siano esse le nostre o quelle degli studiosi - al giudizio della Chiesa.

Leggiamo la Bibbia in modo personale, ma non come individui isolati. Non diciamo "io", ma "noi." Leggiamo come membri di una famiglia, la famiglia della Chiesa Cattolica Ortodossa. Leggiamo in comunione con tutti gli altri membri del Corpo di Cristo in ogni parte del mondo e in tutte le generazioni. Questo approccio comunitario o cattolico è riassunto in una delle domande poste a un convertito nell'ufficio di ricezione usato nella Chiesa Russa: "Riconosci che le Sacre Scritture devono essere accettate e interpretate in accordo con la fede che è stata tramandata dai Santi Padri, fede che la Santa Chiesa Ortodossa, nostra madre, ha sempre mantenuto e tuttora mantiene?" Il criterio decisivo per la nostra comprensione del significato delle Scritture è la mente della Chiesa.

Per scoprire questa "mente della Chiesa," da dove dobbiamo incominciare? Un primo passo consiste nel vedere come le Scritture sono utilizzate nel culto. Come, in particolare, si scelgono i passi biblici da leggere nelle diverse feste? Un secondo passo consiste nel consultare gli scritti dei Padri della Chiesa, soprattutto San Giovanni Crisostomo. Com'è che essi analizzano e applicano il testo delle Scritture? Un modo ecclesiale di leggere la Bibbia è in tal modo sia liturgico che patristico.

Per illustrare che cosa significhi interpretare le Scritture in modo liturgico, consideriamo le letture dall'Antico Testamento al Vespro della Festa dell'Annunciazione (25 Marzo), e al Vespro del Sabato Santo, la prima parte dell'antica Vigilia Pasquale. All'Annunciazione ci sono cinque letture:

(1) Genesi 28:10-17: Il sogno di Giacobbe di una scala che si eleva dalla terra al cielo.

(2) Ezechiele 43:27-44:4: la visione che il profeta ha del tempio di Gerusalemme, con la porta chiusa attraverso la quale nessuno può passare, se non il Principe.

(3) Proverbi 9:1-11: uno dei grandi passi sofianici dell'Antico Testamento, che inizia con le parole "La sapienza si è costruita la casa."

(4) Esodo 3:1-8: Mosè al roveto ardente.

(5) Proverbi 8:22-30: Un altro passo sofianico, che descrive il posto della Sapienza nell'eterna provvidenza di Dio: "Dall'eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra."

In questi passi dall'Antico Testamento, abbiamo una serie di potenti immagini per indicare il ruolo della Theotokos nello sviluppo del piano di salvezza di Dio. Ella è la scala di Giacobbe, poiché per mezzo suo, Dio discende ed entra nel nostro mondo, assumendo la carne da lei fornita. Ella è sia Madre che Sempre-Vergine; Cristo è nato da lei, eppure ella rimane ancora inviolata, e la porta della sua verginità sigillata. Ella fornisce l'umanità, o la casa che Cristo la Sapienza di Dio (1 Corinzi 1:24) si prende come propria dimora; in alternativa, ella stessa va considerata come Sapienza di Dio. Ella è il roveto ardente, che contiene nel suo grembo il fuoco increato della Divinità, eppure non è consumata. Da tutta l'eternità, "dagli inizi della terra," ella fu prescelta da Dio per essere sua Madre.

Leggendo questi passi nel loro contesto originale nell'Antico Testamento, potremmo non accorgerci subito che essi prefigurano l'Incarnazione del Salvatore dalla Vergine. Ma esplorando l'uso che il lezionario della Chiesa fa dell'Antico Testamento, possiamo scoprire molteplici strati di significati che sono tutt'altro che ovvi a una prima lettura.

La stessa cosa accade quando consideriamo l'uso delle Scritture al Sabato Santo. Qui non vi sono meno di quindici letture dall'Antico Testamento. Purtroppo, in molte delle nostre parrocchie la maggioranza di queste letture viene omessa, così il popolo di Dio viene privato del suo appropriato nutrimento biblico. Questa lunga sequenza di letture ci mette di fronte il significato più profondo del "passaggio" di Cristo attraverso la morte verso la risurrezione. La prima delle letture è il resoconto della creazione (Genesi 1:1-13): la Risurrezione di Cristo è una nuova creazione (2 Corinzi 5:17; Apocalisse 21:5), l'inaugurazione di una nuova età, l'età ventura. La terza lettura descrive il rituale ebraico del pasto pasquale: Cristo crocifisso e risorto è la nuova Pasqua, l'Agnello pasquale che solo può prendere su di sé il peccato del mondo (1 Corinzi 5:7; Giovanni 1:29). La quarta lettura comprende tutto il libro di Giona: i tre giorni del profeta nel ventre del pesce prefigurano la risurrezione di Cristo dopo tre giorni nella tomba (Matteo 12:40). La sesta lettura racconta il passaggio del Mar Rosso da parte degli israeliti (Esodo 13:20-15:19), Cristo ci guida dalla schiavitù dell'Egitto (il peccato), attraverso il Mar Rosso (il battesimo), nella terra promessa (la Chiesa). La lettura finale è la storia dei tre Santi Fanciulli nella fornace infuocata (Daniele 3), ancora una volta un "tipo" o prefigurazione della risurrezione di Cristo dalla tomba.

Come possiamo sviluppare questo modo ecclesiale e liturgico di leggere le Scritture nei gruppi di studio biblico all'interno delle nostre parrocchie? A una persona si può dare il compito di notare quando un passo particolare è usato per una festività o per il giorno di un santo, e il gruppo può quindi discutere assieme le ragioni per cui è stato scelto così. Ad altri nel gruppo possono essere assegnati i compiti di ricerca tra i Padri, riferendosi soprattutto alle omelie di San Giovanni Crisostomo. All'inizio possiamo essere delusi: il modo di pensare e di parlare che hanno i Padri è spesso nettamente differente dal nostro di oggi. Ma c'è molto oro nei testi patristici, se solo abbiamo sufficiente pazienza e immaginazione per scoprirlo.

Cristo, il cuore della Bibbia

Il terzo requisito per la nostra lettura delle Scritture è che essa sia cristocentrica. Se siamo d'accordo con la Conferenza di Mosca del 1976, che dice che "le Scritture costituiscono un insieme coerente," dove dobbiamo situare la loro completezza e coerenza? Nella persona di Cristo. Egli è il motivo unificante che passa attraverso l'intera Bibbia, dalla prima all'ultima frase. Gesù si incontra con noi in ogni pagina. Tutto ha un senso a causa sua. "Tutte le cose sussistono in lui" (Colossesi 1:17).

Molto dello studio delle Scritture da parte degli studiosi occidentali moderni ha adottato un approccio analitico, scomponendo ogni libro in quelle che vengono viste come le sue fonti originarie. I legami di connessione vengono sciolti, e la Bibbia è ridotta a una serie di unità isolate. Recentemente vi è stata una reazione a questo approccio, e i critici biblici in occidente hanno dato maggiore attenzione al modo in cui queste unità primarie sono state unite assieme. A ciò, come ortodossi, possiamo sicuramente essere favorevoli. Dobbiamo vedere l'unità delle Scritture tanto quanto la diversità, la coesione globale della fine così come le dispersioni degli inizi. L'Ortodossia preferisce per la maggior parte uno stile di ermeneutica "sintetico" a uno analitico, dato che vede la Bibbia come un insieme integrato, e Cristo, ovunque, come il suo legame d'unione.

Precisamente questo, come abbiamo appena visto, è l'effetto della lettura delle Scritture nel contesto del culto della Chiesa. Come è reso chiaro dalle letture dell'Annunciazione e del Sabato Santo, ovunque nell'Antico Testamento troviamo segnali e indicazioni stradali che fanno riferimento al mistero di Cristo e di Maria sua Madre. Interpretando l'Antico Testamento alla luce del Nuovo, e il Nuovo alla luce dell'Antico - come il lezionario della Chiesa ci incoraggia a fare - scopriamo come tutta la Scrittura trovi il suo punto di convergenza nel Salvatore.

L'Ortodossia fa un uso esteso di questo metodo "tipologico" di interpretazione, in cui i "tipi" di Cristo, i segni e i simboli della Sua opera, vanno scoperti attraverso tutto l'Antico Testamento. Per esempio Melchisedek, il re-sacerdote di Salem, che offrì pane e vino ad Abramo (Genesi 14:18), è considerato un "tipo" di Cristo non solo dai Padri ma anche nel Nuovo Testamento stesso (Ebrei 5:6; 7:1). La roccia da cui fluì acqua nel deserto del Sinai (Esodo 17:6; Numeri 30:7-11) è allo stesso modo un simbolo di Cristo (1 Corinzi 10:4). La tipologia spiega la scelta delle letture, non solo al Sabato Santo, ma in tutta la seconda parte della Quaresima. Perché le letture della Genesi nella sesta settimana sono dominate dalla figura di Giuseppe? Perché si legge dal libro di Giobbe nella Settimana Santa? Perché Giuseppe e Giobbe, che soffrirono entrambi da innocenti, prefigurano la sofferenza redentiva di Cristo sulla Croce.

Possiamo scoprire molte altre corrispondenze tra l'Antico e il Nuovo Testamento usando una concordanza biblica. Spesso il miglior commentario è semplicemente una concordanza, o un'edizione della Bibbia che abbia a margine una scelta ben fatta di riferimenti incrociati. Limitandosi a connettere, tutto si lega assieme. Nelle parole di Padre Alexander Schmemann, "Un cristiano è colui che, ovunque guarda, trova Cristo e si rallegra in Lui." Ciò è vero in particolare del cristiano biblico. Dovunque guarda, in ogni pagina, dappertutto trova Cristo.

La Bibbia come lettura personale

Secondo San Marco il Monaco ("Marco l'Asceta", del quinto/sesto secolo): "Colui che è umile nei suoi pensieri e attivo nel lavoro spirituale, quando legge le Sacre Scritture, applicherà tutto a se stesso e non al suo prossimo." Dobbiamo guardare a tutte le Scritture per un'applicazione personale. La nostra domanda non è semplicemente "Che cosa significa?" ma "Che cosa significa per me?" Come insiste San Tikhon, Cristo stesso sta parlando a te. Le Scritture sono un dialogo diretto, intimo tra il Salvatore e me stesso - Cristo che si rivolge a me, e il mio cuore che risponde. Questo è il quarto criterio nella nostra lettura della Bibbia.

Devo vedere tutte le narrazioni delle Scritture come parte della mia storia personale. la descrizione della caduta di Adamo, allo stesso modo , è un resoconto di qualcosa che rientra nella mia stessa esperienza. Chi è Adamo? Il suo nome vuol dire semplicemente "uomo," "umano": Adamo sono io. E a me che Dio chiede, "Dove sei?" (Genesi 3:9). Noi spesso chiediamo "Dov'è Dio?" Ma la vera domanda è quella che Dio pone all'Adamo che è in ognuno di noi: "Dove sei tu?"

Chi è Caino, l'assassino del proprio fratello? Sono io. La sfida di Dio, "Dov'è Abele, tuo fratello?" (Genesi 4:9), è rivolta al Caino in ognuno di noi. La via a Dio passa per l'amore alle altre persone, è non c'è altra via. Rinnegando la mia sorella o il mio fratello, sostituisco l'immagine di Dio con il marchio di Caino, e nego la mia umanità essenziale.

La stessa applicazione personale è evidente negli offici quaresimali, e soprattutto nel Grande Canone di Sant'Andrea di Creta. "Io sono l'uomo caduto tra i briganti," diciamo (v. Luca 10:30) "Ero il tuo figlio più giovane, e ho sperperato le ricchezze che mi hai dato... e ora sono vuoto e affamato" (v. Luca 15:11-14). "Chi sono le pecore, e chi sono i capri?" erano soliti chiedere i Padri del Deserto d'Egitto (v. Matteo 25:31-46) "Le pecore sono note a Dio," rispondevano. "Quanto ai capri - significano me."

Ci sono tre passi da fare nella lettura delle Sacre Scritture. Per prima cosa, riflettiamo sul fatto che ciò che abbiamo nelle Scritture è storia sacra: la storia del mondo dalla Creazione, la storia del popolo eletto di Dio, la storia di Dio stesso incarnato in Palestina, la storia delle "grandi opere" (Atti 2:11) dopo Pentecoste. Non dobbiamo mai dimenticare che ciò che troviamo nella Bibbia non è un'ideologia, né una teoria filosofica, ma una fede storica.

Quindi, osserviamo la particolarità, la specificità di questa storia sacra. Nella Bibbia troviamo che Dio interviene in tempi specifici e in luoghi particolari, entrando in dialogo con esseri umani individuali. Vediamo davanti a noi le distinte chiamate fatte da Dio a ciascuna persona differente, ad Abramo, Mosè e Davide, a Rebecca e a Rut, a Isaia e ai profeti. Vediamo Dio che si incarna una sola volta, in un particolare angolo della terra, in un momento particolare e da una Madre particolare. Non dobbiamo considerare questa particolarità come uno scandalo, ma come una benedizione. L'amore divino è universale nel suo scopo, ma sempre personale nella sua espressione.

Questo senso di specificità della Bibbia è un elemento vitale nella "mente scritturale" ortodossa. Se amiamo davvero la Bibbia, ameremo le genealogie e i dettagli nella datazione e nella geografia. Uno dei migliori modi per ravvivare lo studio delle Scritture è quello di andare in pellegrinaggio in Terra Santa. Camminate dove ha camminato Cristo. Scendete presso il Mar Morto, salite sul monte delle Tentazioni, osservate le terre desolate, provate ciò che deve avere provato Cristo durante i suoi quaranta giorni di solitudine nel deserto. Bevete dal pozzo presso il quale Gesù parlò con la donna samaritana. Prendete una barca e uscite sul Mare di Galilea, chiedete ai pescatori di fermare il motore, e guardate in silenzio attraverso le acque. Andate di notte al Giardino del Getsemani, sedetevi al buio sotto gli antichi ulivi, e guardate attraverso la valle le luci della città. Gustate appieno il "sapore" caratteristico dell'ambientazione storica, e riportate quell'esperienza nella lettura quotidiana delle Scritture.

Dobbiamo quindi fare un terzo passo. Dopo avere vissuto nuovamente la storia biblica in tutta la sua particolarità, dobbiamo applicarla direttamente a noi stessi. Dobbiamo dire a noi stessi, "questi non sono solo luoghi distanti, eventi di un remoto passato. Appartengono al mio incontro con il Signore. Le storie includono me."

Il tradimento, per esempio, è parte della storia personale di ciascuno. Non abbiamo forse tradito tutti qualcuno in qualche momento della nostra vita, e non abbiamo conosciuto tutti che cosa significhi essere traditi? La memoria di questi momenti non ci lascia forse profonde e continue cicatrici sulla nostra psiche? Leggendo, pertanto, il racconto del tradimento di Cristo da parte di San Pietro, e della sua reintegrazione dopo la Risurrezione, possiamo vedere ciascuno di noi come un attore nella storia. Immaginando ciò che provarono sia Pietro che Cristo nel momento immediatamente successivo al tradimento, facciamo nostre le loro percezioni. Io sono Pietro; nella situazione del tradimento, posso anche essere Cristo? Riflettendo allo stesso modo sul processo di riconciliazione - vedendo come il Salvatore risorto, con un amore totalmente privo di sentimentalismo, reintegra dopo la sua caduta Pietro alla comunione, e vedendo come Pietro dal canto suo abbia il coraggio di accettare tale reintegrazione - chiediamoci: quanto simile a Cristo sono io, con coloro che mi hanno tradito? E, dopo i miei stessi tradimenti, quanto sono in grado di accettare il perdono degli altri: sono capace di perdonare me stesso?

Prendiamo, come un altro esempio, la "donna peccatrice," che versò il vaso d'olio sui piedi di Cristo (Luca 7:36-50), e che alcuni identificano con Santa Maria Maddalena, anche se questa non è l'interpretazione ortodossa consueta. Posso vederla rispecchiata in me stesso? Condivido la sua generosità, la sua spontaneità e la sua amorevole impulsività? "I suoi peccati, che sono molti, le sono perdonati, poiché molto ha amato." Oppure sono calcolatore, meschino, reticente, mai pronto a impegnarmi in alcunché di buono o di cattivo? Come dicono i Padri del Deserto, "Meglio qualcuno che ha peccato, se sa di avere peccato e si pente, piuttosto che una persona che non ha peccato, e pensa di essere giusta."

Un approccio personale di questo tipo significa che nel leggere la Bibbia noi non siamo semplicemente osservatori distaccati e obiettivi, che assorbono informazioni e prendono nota di fatti. La Bibbia non è meramente un'opera letteraria o una collezione di documenti storici, anche se ci si può certamente accostare ad essa a questo livello. Si tratta di qualcosa di molto più fondamentale, di un libro sacro, rivolto a credenti, da leggere con fede e amore. Non avremo un pieno profitto dalla lettura dei Vangeli se in noi non c'è amore per Cristo. "Il cuore parla al cuore:" io entro nella verità viva delle Scritture solo quando il mio cuore risponde con amore al cuore di Dio.

Leggendo le Scritture in questo modo - in obbedienza, come membri della Chiesa, trovando ovunque Cristo, e vedendo ogni cosa come parte della nostra storia personale - percepiremo qualcosa della forza e della guarigione che si trovano nella Bibbia. Eppure nel nostro viaggio biblico di esplorazione siamo sempre al principio. Siamo come persone che si lanciano in una piccola barca su un oceano senza limiti. Ma per quanto grande sia in viaggio, possiamo imbarcarci oggi, in questa stessa ora, in questo stesso momento.

Al culmine della sua crisi spirituale, mentre era in lotta con se stesso in un giardino, Sant'Agostino udì la voce di un bambino che diceva "Prendi e leggi, prendi e leggi." Egli prese la sua Bibbia e lesse, e ciò che lesse cambiò tutta la sua vita. Facciamo anche noi lo stesso: prendiamo e leggiamo.

"Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino" (Salmo 118 [119]:105).

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