Dell'VIlI comandamento ci resta da considerare un ultimo aspetto, quello relativo al vero nel suo rapporto con il bello (cf Catechismo della Chiesa cattolica, 1804-2503). Un antico adagio afferma la convergenza di vero, bello, buono. Verità, bellezza e bontà sono infatti qualità, "nomi", costitutivi del Dio cristiano. Che cos'è la bellezza? Perché rapportarla alla verità? Potremmo dire che il bello rappresenta la trama eccedente dell'esperienza umana, l'eco felice del nostro stesso essere al "mondo". Il "bello" è esperienza, eco sovrabbondante, consapevolezza di "Presenza".
La bellezza si contempla e basta
In qualche modo è nel vero chi afferma che la bellezza si sottrae alle definizioni perché si contempla e basta. La bellezza è. Ed è la realtà per quello che è. Non c'è diaframma tra bellezza e realtà. Non c'è realtà fuori dalla bellezza. La bellezza è consistenza originaria dell'essere. Perché tale rappresenta una nota costante all'interno della stessa rivelazione cristiana, innanzitutto nella qualità/identità della parola rivelata, parola estetica, poetica, più che parola logica. E, oltre la forma, oltre le espressioni belle che additano bellezza, c'è nella Scrittura una costante estetica, un'eco gioiosa dell'esperienza del bello nel rapporto che intercorre tra Dio e l'umanità e viceversa, e tra gli esseri umani tra loro.
Il farsi carne del Logos ce ne rivela la verità come evento estetico, espe-rienziale: «Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato [...] ciò che abbiamo visto e udito lo annunziamo anche a voi» (1Gv 1,1-4 passim). C'è dunque un rivelarsi della verità (ancora in Gv 1,1-4 "parola della vita" e "vita") come evento sensibile.
Se già Israele poteva evocare la singolare prossimità di Dio al suo popolo, ora la prossimità ha toccato l'acme, perché incontrare colui che si autodefinisce via, verità e vita non vuol dire entrare in rapporto con la concretezza vissuta di colui che ci si dà a conoscere sperimentalmente come tale.
Dopo l'evento dell'incarnazione la teologia si dispiega secondo il paradigma sacramentale alla cui radice sta il cosiddetto principio iconico, ossia la creazione ad immagine. Verosimilmente, le parole arcaiche di Gen 1,27 fanno riferimento a un poiein, a un fare, a un produrre del creatore che specularmente iscrive la sua immagine sull'essere umano, suo manufatto. Oltre il mito, e lo hanno affermato diversi Padri, l'imago Dei veicola la capacità di produrre, di dialogare, di riconoscersi mutuamente e mutuamente farsi dono l'uno/a all'altro/a nella concretezza vissuta delle cose prodotte e dei rapporti sperimentati. Questo e non altro vuol dire essere creati ad immagine di Dio. Ma questo produrre, dialogare, riconoscersi resta precluso senza la materialità di un corpo che comunica e si esprime proprio a partire dai sensi, dalla loro sinergia, dal loro intreccio sublime.
La metafora nuziale nella sua valenza vetero e neo-testamentaria esprime la modalità corporea che mi vincola a Dio, analoga per intensità e vissuto a quella ben nota delle nozze. Il grande mistero è niente altro che la corporeità esperita nella sua forma originaria. Potremmo intenderla come il sacramento radicale, il segno comunicativo per antonomasia, capace di significare il reciproco appello del creatore alla creatura e della creatura al suo creatore e perciò delle creature l'una all'altra e viceversa nella loro determinata concretezza.
È chiaro che a dare senso compiuto, esperito, a tutto ciò è il farsi carne del Logos eterno, esso stesso immagine del Padre. Nel gioco della creazione ad immagine, l'essere del Verbo stesso immagine costituisce il dato originario che trova definitivo adempimento nell'incarnazione, sicché in ultima analisi la persona umana è «ad immagine e somiglianza di Dio», perché sua immagine è il Verbo fatto carne. In quanto Verbo, il Figlio è immagine perfetta del Padre, riproposizione speculare del suo mistero, tutt'uno con lui in quella reciprocità interpersonale che ab aeterno li pone, l'uno generante, l'altro generato...
L'uomo non può prescindere dalla bellezza
Ed è la dinamica speculare di questa immagine-parola che, in forza dello Spirito, viene impressa nella creatura, così costituendola "ad immagine".
L'essere umano, a maggior ragione il cristiano, non può dunque prescindere dalla bellezza senza disperarsi e perdersi. Fatto ad immagine, tende all'immagine perché, la sua somiglianza con Dio è epifania della divina bellezza. Ciò fonda la sua stessa esperienza estetica, la sua capacità di produrre e fruire arte non meno che cultura.
L'arte, poi, è la capacità espressiva di interpellare oltre la singola soggettività, la coscienza collettiva, che, dunque, vi si riconosce e vi si legge bellamente interpretata. Al cuore dell'arte, della bella forma, sta - come detto - lo stupore eccedente nel ritrovarsi nel dono mutuo di una parola che vede e di una visione che ascolta.
Il concilio Niceno II (787) parla di "visibile parlare" e di "udibile vedere". In questo chiasmo viene sconfitta l'ideologia iconoclasta e oltrepassato l'aniconismo della tradizione ebraica e della giovane religione islamica. Non è più idolatrica la rappresentazione del divino e ciò a ragione dell'incarnazione. Parola e immagine non percorrono più sentieri separati o paralleli. La parola è essa stessa immagine; l'immagine è essa stessa parola. Si narra ciò che si è veduto o ciò che ci raggiunge come veduto e come tale ci è trasmesso. Si simbolizza affidando a immagini belle, linguisticamente e archetipalmente efficaci, il dire eccedente che il solo pensiero rischia di perdere nella loro fascinosa immediatezza...
Da qui l'arte e l'arte "cristiana" nella sua specificità come riproposizione sempre e comunque della Parola, come confessione del mistero dell'incarnazione, come testimonianza alla verità che è Dio. Poesia, musica, pittura, scultura in tutte le loro forme hanno accompagnato la fede del credente riconducendolo bellamente alla Parola, al mistero del farsi prossimo di Dio, del suo disvelarsi nei tempi ultimi nel Figlio, del cui evento è sigillo e garante lo Spirito. Ed è non a caso allo Spirito, estro di Dio, arte lui stesso, che attribuiamo il genio e la creatività dell'artista.
In questione poi non è la sua capacità di riprodurre la realtà, quanto di transignificarla, di spezzare il velo che comunque l'adombra per aprire il fruitore dell'opera d'arte al mistero bello di Dio, all'oltre, all'eccedenza comunque soggiacente al nostro accadere e che l'artista disvela nelle forme proprie della sua peculiarissima arte. Diversissima nella contestualità delle culture, l'arte sempre e comunque s'intreccia al religioso e al culto. Nella specialissima prospettiva del culto cristiano l'artista è sempre, se veramente tale, "agiografo". Il suo è un vero e proprio ministero, tanto più dichiarato quanto più prossimo alla liturgia che, secondo la suggestione del Vaticano II, è culmen et fons della vita della Chiesa (cf SC 10).
Soprattutto la chiesa edificio chiede la necessaria sinergia di più arti tra loro, egualmente protese a servire la celebrazione e perciò obbligate a farne emergere lo statuto misterico e non funzionalmente ma strutturalmente. Si pensi alle forme architettoniche teologicamente rette dal principio del convenire in unum e dunque della con-soggettualità alacre dell'assemblea celebrante. Si pensi al ciclo iconografico reduplicativo dell'assemblea stessa, nella memoria sia dell'evento salvifico che dei testimoni suoi emblematici. Si pensi perciò all'intreccio figurativo e/o astratto di pittura e scultura e di quant'altro sottolinea la segnaletica teologica dell'edificio (volumi, aperture, luce, suono, coperture). Si pensi ancora ai luoghi ecclesiogenetici: altare, ambone e battistero, all'immediatezza e intelligenza estetica che deve accompagnare la loro fruizione. Si pensi alla musica e al canto.
La Sacrosanctum concilium nel capitolo VII dedicato all'arte sacra ha ribadito come la Chiesa sia stata sempre amica dell'arte (cf SC 122) e come non abbia mai avuto come proprio uno stile piuttosto che un altro (cf SC 123). Ha solo esortato i responsabili a ricercare «una nobile bellezza piuttosto che una mera sontuosità» (SC 124); e ha espressamente posto il problema della formazione degli artisti (cf SC 127). Sono suggestioni ribadite e precisate sia da Paolo VI che da Giovanni Paolo II. Quello dell'intreccio tra estetica e teologia, tra bello e verità resta un affascinante cantiere aperto nel quale vale la pena d'impegnarsi a fondo. In gioco è l'iconicità della parola e la dicibilità dell'immagine. E in questa fatica del dire in gioco è l'esperire il mistero stesso di Dio, la sua verità, bontà, bellezza.
Cettina Militello
(tratto da Vita Pastorale, n. 11, 2014, pp. 68-69)