I cc. 19-20 si suddividono in tre parti: la prima e l'ultima si riferiscono alla situazione storica del tempo di Isaia, quella centrale, costituita dai vv. 16-25 del c. 19, spinge lo sguardo verso un futuro lontano.
La prima parte, in poesia, assomiglia, per stile e contenuto, a molti oracoli autentici di Isaia, mentre la terza ricorda altri resoconti in prosa sull' attività del profeta come, ad esempio, quelli del c. 7. La maggioranza degli studiosi ritiene autentica la prima sezione e opera di un redattore della sua scuola, custode delle memorie sul profeta, la terza. La sezione centrale, anch'essa in prosa, deve invece essere un'aggiunta assai più tarda, inserita qui dai redattori finali del testo.
L'Egitto, indebolito da Dio, è inaffidabile (19,1-15)
La prima sezione è introdotta da un titolo, nel quale si usa il termine maśśa’, che etimologicamente significa onere o peso: è un termine frequente per designare gli oracoli contro o sulle nazioni pagane.
Il testo si apre con la bella immagine, di vago sapore mitologico, di Dio che entra nello spazio aereo dell'Egitto, cavalcando una nube leggera. Anche se non appare come uragano minaccioso, basta il suo affacciarsi perché dèi e uomini cadano nel panico, come sempre avviene nelle guerre sante, quando Dio vince i nemici inducendoli ad autodistruggersi. Con l'Egitto ha buon gioco, perché fin dagli inizi della sua esistenza, questo prodigioso regno è stato minato da lotte tra i principi locali e la corte del faraone.
Il nostro oracolo attribuisce questa volta al Dio d'Israele i disordini interni che agitano l'Egitto. Quello che accadrà è detto tutto nei primi versetti (1-5): Dio priverà di senno gli abitanti cosicché essi cadranno in una guerra civile, della quale approfitterà un re crudele, che noi sappiamo essere il nubiano Shabaka, per prendere il potere, il che avvenne nel 712.
Il resto dell'oracolo è un doppio ampliamento dell'annuncio iniziale. Ad esso si collega più direttamente la terza parte (i vv. 11-15), che riprende il tema della stoltezza dei capi e dello smarrimento di tutti, mentre la bella sezione centrale (5-10) descrive la siccità e la miseria che ne deriva.
A prima vista verrebbe da pensare che la sezione centrale sui mali della siccità, la più bella letterariamente e la più umana per l'attenzione alle sofferenze della povera gente, non abbia alcun nesso con la prima e la seconda, perché si tratta di un disastro naturale che può essere solo casualmente concomitante a disordini civili. Ma il nesso è certamente voluto dall'autore per ragioni teologiche. La composizione in tre momenti dell'oracolo segue, infatti, lo schema A-B-A: perdita di senno - siccità - stoltezza.
In questo modo l'agire di Dio è descritto, compiutamente, come il suo sovrano dominio proprio su quei grandi beni che l'Egitto riteneva dono delle sue divinità: la sapienza e le acque benefiche del Nilo.
Consegnato a un re crudele, sfinito dalla siccità, incerto e vacillante come un ubriaco, l'Egitto è ora una potenza esausta e inaffidabile, non potrà dare aiuto a nessuno.
L'oracolo è severo, ma non tremendo, privo di quelle esagerazioni che caratterizzano altre minacce contro i popoli stranieri, ed è soprattutto realistico, perfettamente aderente alla situazione del tempo, non inutilmente catastrofico. Il lettore noterà l'accurata scelta dei verbi: si lamenteranno, saranno desolati, delusi, avviliti; s'ingannano, sono smarriti, barcollano, non riescono. Non ci sono esagerazioni retoriche: l'Egitto, infatti, non è destinato a perire, né, almeno per ora, ad essere invaso dagli Assiri. Anche questa aderenza alla realtà ci conferma che l'oracolo può risalire a Isaia. A lui stava a cuore che il suo paese non si illudesse di poter contare sull'Egitto e non si avventurasse, come invece stava facendo Asdod, in un ennesimo tentativo di contrapporsi militarmente all'Assiria.
Che l'Egitto sia momentaneamente in crisi è, agli occhi di Isaia, una grazia del Signore, una piccola calamità che egli infligge a quel popolo orgoglioso, in vista di un più grande bene per tutti, soprattutto per il regno di Giuda. Per questo attribuisce a una visita ammonitrice di Dio la crisi che l'Egitto ha subito. Il re Ezechia, quindi, continui a confidare in Dio, non nell'Egitto.
L'Egitto non è in grado di aiutare nessuno (20,1-6)
La terza sezione, nel c. 20, riprende il tema, ricordando l'isolamento in cui l'Egitto lasciò la filistea Asdod, a cui aveva promesso aiuto.
Il primo versetto parla della conquista della città da parte degli Assiri, che avvenne nel 711, mettendo fine a tentativi di ribellione che erano iniziati nel 713. (1) È difficile capire a quale momento si riferisca l'espressione «in quel tempo» del v. 2, con la quale si ordina a Isaia di modificare il suo abbigliamento per dare un'indicazione simbolica di quello che accadrà all'Egitto. Poiché il gesto, secondo il v. 3, si sarebbe prolungato per tre anni, ci sembra logico che il triennio sia quello che va dal 713 al 711, ma questa scelta, che è la più verosimile, sembra in contrasto con il v. 2, che parrebbe indicare come inizio dell'azione del profeta proprio il 711, anno della conquista di Asdod, per condurci fino al 709. Per quanto interessante il problema non modifica però la comprensione del testo.
Un po' più seria è, invece, la difficoltà creata dal v. 4, perché, in questi anni, gli Assiri non entrarono in Egitto e non vi fu nessuna deportazione di Egiziani in Assiria. Ciò avvenne solo al tempo di Asarhaddon nel 671, dopo la morte di Isaia. Le soluzioni possibili sembrano soltanto due. La prima è che il testo alluda a soldati etiopi ed egiziani, mandati in aiuto di Asdod e fatti prigionieri; la seconda, più radicale è che il redattore del testo scriva dopo Asarhaddon e, confondendo o sovrapponendo intenzionalmente i tempi, interpreti il ricordo di un gesto di Isaia, compiuto quando fu conquistata Asdod, come la previsione della futura invasione assira del Delta egiziano.
L'impressione è che questo oracolo, che ribadisce in modo ancor più convincente del primo l'inaffidabilità dell'Egitto, sia stato posto qui per rispettare la natura degli oracoli contro le nazioni, che devono parlare della loro punizione. Ma, se è così, come spiegare l'inserzione della sezione salvifica di 19,16-25?
Egitto e Assiria diverranno «popoli di Dio»
Questa sezione centrale è unica per l'universalità del contenuto in tutto l'Antico Testamento. Si compone di cinque affermazioni, tutte introdotte dalla clausola «in quel giorno», che allude a un tempo futuro, non meglio precisabile, nel quale la storia assumerà una nuova configurazione, che potrebbe essere definitiva, perché voluta e attuata da Dio, nel «suo» giorno.
La prima affermazione (16-17) non è nuova: Dio terrorizzerà gli Egiziani servendosi del potere che concederà al regno di Giuda.
La seconda preannuncia che vi saranno in Egitto delle città (cinque può anche significare alcune) abitate in prevalenza da Ebrei.
Una di esse si chiama, secondo l'ebraico, Città della Distruzione. Le antiche traduzioni modificano il nome o in Città del Sole o in Città della Giustizia e molte Bibbie moderne, compresa quella della CEI, le seguono. Basandosi su questo nome corretto si tenta di vedervi un'allusione o alle colonie ebraiche di Elefantina, vicino ad Assuan, nell'Alto Egitto, già esistenti attorno al 600, oppure a quella di Leontopoli, nella zona del Delta (non lontana da Eliopoli o Città del Sole) nota dal 160 circa. La prima allusione non ci allontana troppo dai tempi di Isaia, la seconda, a cui farebbe pensare anche il seguente versetto 19, ci porta invece a un tempo molto posteriore, nel quale la redazione dei libri profetici sarebbe dovuta essere già completata. Poiché resta difficile spiegare per quale ragione, se il testo portava Sole o Giustizia, si sia passati alla più difficile Distruzione, è forse opportuno concludere che doveva essere questa la parola primitiva e riconoscere umilmente che non sappiamo a quale località o a quale senso simbolico il testo intendesse alludere.
La terza profezia parla di un altare e una stele presso la frontiera d'Egitto, che è luogo di preghiera per gli Ebrei, ma lo diventerà anche per gli Egiziani. Se l'allusione fosse al tempio di Leontopoli dovremmo datare l'oracolo a dopo il 160, se invece questa data si considera troppo recente, dobbiamo accontentarci di non sapere a quale specie di luogo sacro e a quale epoca si alluda. Non è chiaro se si pensi a una conversione di popolazioni egiziane al Dio d'Israele o se si voglia solo dire che esse onoreranno anche il vero Dio insieme alle loro divinità. In ogni caso gli Egiziani saranno trattati da Dio come gli Ebrei: verranno puniti e perdonati, colpiti e poi risanati.
Il fatto che in Gn 47,2 Giuseppe presenti al faraone solo cinque fratelli, ai quali viene dato il permesso di soggiorno ha fatto pensare che il nostro passo voglia alludere a quegli antichi eventi e, come vedremo, ciò potrebbe arricchire di significati l'intero brano. (2)
Il senso della quarta affermazione è incerto e dipende da come si traduce l'ultima frase. In ebraico esiste, infatti una particella per indicare il complemento oggetto, la quale si può scrivere in modo identico a una preposizione che significa «con». Nel nostro caso, se la si prende come indicativa dell'accusativo, si deve tradurre: «e gli Egiziani serviranno Assur»; se la si considera preposizione, si ha: «e gli Egiziani serviranno (sottinteso: il Signore) con Assur». Nel primo caso l'oracolo annuncerebbe la conquista assira dell'Egitto, nel secondo, che è preferito dalle traduzioni perché più coerente con il crescendo positivo del testo, che la strada che collega da sempre, attraverso la mezzaluna fertile, i due imperi nemici non sarà più percorsa per scopi di conquista, ma per un transito di pacifici scambi tra i due popoli divenuti amici.
L'ultima affermazione supera ogni aspettativa. Israele sarà terzo con Egitto e Assiria, perché più piccolo, ma sarà per loro fonte di divina benedizione. Rispetto ad altri oracoli che sognano una venuta dei popoli a Sion per sottomettersi al Signore e offrirgli tributi, qui si evita ogni immagine di subordinazione, si lascia immutata la realtà geografica e politica, che non è più oggetto di timori, e si attribuisce al piccolo Israele, che non invidia il ruolo dei potenti, di essere per tutti fonte di benedizione.
La benedizione divina è enunciata nell'ultimo versetto del capitolo, anch'esso sorprendente per le qualifiche che vengono attribuite ai due imperi. All'Egitto si dà il titolo proprio di Israele «mio popolo», indicando che esso diviene il destinatario dell'impegno divino di amore e salvezza, cioè dell'alleanza. Dell'Assiria si dice che Dio l'ha fatta esistere, come ha fatto esistere Israele, è, infatti, opera delle sue mani, non delle antiche divinità mesopotamiche. Israele continua ad appartenere a Dio a titolo particolare, è la sua personale proprietà inalienabile, l'eredità. Gli rimane un primato, ma le qualifiche sostanziali di appartenenza sono estese ai due grandi imperi, prima simbolo di coloro sui quali Dio doveva solo signoreggiare come su strumenti del suo volere a lui ostili. Una visione così universalistica e pacifica non si trova altrove.
Conclusione: Una lotta senza vincitori in vista della pace
Abbiamo visto che non ci è possibile determinare la data in cui questo testo è stato scritto. Viene da pensare che l'idea di una unione nella pace tra Assiria ed Egitto possa essere stata ispirata dalle imprese di Alessandro Magno e non è escluso che l'epoca dei Tolomei possa essere la più probabile per la composizione dell'oracolo. Il fatto che allora vivessero, con libertà di culto, ebrei sia in Egitto sia in Mesopotamia e che godessero stima da parte delle popolazioni locali può aver fatto sorgere questa prospettiva di unificazione di tutti nella pace attorno al vero Dio.
Se è fondata l'allusione alla storia di Giuseppe, cui abbiamo accennato, sarebbe possibile intendere il testo in questo modo. In Egitto esiste una diaspora ebraica, che vive in pace con gli abitanti del luogo, ed ha suoi luoghi di culto. A differenza di quanto avvenne dopo la vicenda di Giuseppe, l'Egitto ora accoglie gli ebrei e così si dispone a partecipare delle sue benedizioni.
Se l'Assiria lo invaderà, come dice una delle possibili traduzioni della finale del v. 23, anche ciò si trasformerà in un bene, perché renderà anche la Mesopotamia partecipe della nuova condizione di apertura alla salvezza in cui si trova l'Egitto.
L'autore vorrebbe dire che, in un certo modo, la storia si ripete, ma in senso contrario: gli Ebrei non più cacciati diventano per l'Egitto e l'Assiria mediatori del disegno salvifico universale di Dio.
L'ultimo redattore, per noi anonimo, del libro di Isaia, che forse è l'estensore del testo, ha pensato di inserire questa prospettiva tra due antichi brani che parlavano della debolezza militare e della crisi interna dell'Egitto. Probabilmente ha visto in quelle antiche azioni divine, che tenevano a freno l'Egitto e lo indebolivano, il segno di un piano di salvezza più vasto. Mettendo in crisi continuamente l'Egitto, Dio aveva impedito al regno di Giuda, di cercare la sua salvezza mediante la guerra con l'Assiria e lo aveva così salvato sia dall'annientamento militare sia dalla pericolosa illusione di potersi salvare con le sue forze, invece di confidare nei tempi lunghi del piano di Dio. La constatazione che l'Assiria, pur essendo penetrata in Egitto, non lo aveva mai veramente conquistato, gli deve aver fatto pensare che era volere di Dio la sussistenza duratura dei due mondi, quello mesopotamico e quello egiziano. Forse l'impresa di Alessandro gli ha suggerito l'ipotesi che Dio pensasse a una loro unione permanente. Contemporaneamente la pacifica presenza ebraica nei due territori, la loro vita fiorente, la stima di cui godevano, qualche conversione, lo hanno aiutato a individuare quale poteva essere il compito storico di Israele: esistere, come piccolo nucleo di credenti, nel vasto mondo degli imperi, per essere portatore di benedizione divina. A suo parere, in vista di questo, Dio aveva sempre impedito che l'Egitto potesse raggiungere coesione e forza tali da spingerlo ad affrontare militarmente l'Assiria. Impedendo per secoli che la guerra risolvesse il conflitto a favore di uno dei due imperi, ha preparato le condizioni per una pace senza fine.
Romeo Cavedo
1) Abbiamo notizia di questi fatti da un testo assiro detto «dei fasti». Se ne trova la traduzione in AA.VV., L'Antico Testamento e le culture del tempo, Borla, Roma 1990, pp. 189s.
2) Cf A. SCHENKER, «La fine della storia d'Israele rivelerà il suo inizio», in Rivista Biblica 43 (1995) 321-329.
(da Parole di Vita, n. 3, 1999)