Formazione Religiosa

Domenica, 29 Maggio 2011 21:44

La rivelazione del Cristo risorto (Ap 19,20) (Claudio Doglio)

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Nel raccontare la propria esperienza Giovanni utilizza immagini ed espressioni tratte quasi tutte da testi veterotestamentari e, intenzionalmente, crea un nuovo mosaico utilizzando insiemi di tasselli preesistenti...

 

La rivelazione del Cristo risorto (Ap 19,20)

di Claudio Doglio

Concluso il dialogo liturgico introduttivo, inizia la narrazione in prosa: in prima persona Giovanni racconta alla comunità una forte esperienza che egli ha vissuto e che ha determinato la composizione del libro stesso.

Questa prima visione ha, pertanto, il ruolo fondante per tutta l'Apocalisse: l'incontro di Giovanni con il Cristo risorto, infatti, è l'elemento decisivo che permette all'autore e alla sua comunità di comprendere in profondità il senso del mistero pasquale e della signoria universale che l' Agnello ha ottenuto.

Nel raccontare la propria esperienza Giovanni utilizza immagini ed espressioni tratte quasi tutte da testi veterotestamentari e, intenzionalmente, crea un nuovo mosaico utilizzando insiemi di tasselli preesistenti: il linguaggio è tradizionale, ma il messaggio è decisamente nuovo. Un'analisi attenta di ciò che è tradizionale consente anche di evidenziare la grande novità.

Il racconto fondante

La struttura letteraria di questo testo è molto simile a quella del c. 10 di Daniele e comprende quattro parti essenziali: dopo la presentazione delle circostanze in cui si trovava l'io narrante, viene descritta l'apparizione di un essere trascendente; il veggente sente tremendamente la propria debolezza, ma il personaggio glorioso lo conforta e gli affida un messaggio. Tale schema letterario trae origine dai racconti di vocazione dei profeti ed è stato rivestito dal linguaggio tipico della letteratura apocalittica.

Ma qui non viene raccontata la vocazione dell'autore, bensì l'incarico che gli è stato affidato di trasmettere per iscritto la sua esperienza eccezionale. La narrazione di questo evento introduce direttamente la serie dei sette messaggi alle Chiese d' Asia, ma anche tutto il resto dell' Apocalisse prende origine dalla visione iniziale. La pericope che la narra propriamente non termina, perché contiene alla fine un discorso diretto che prosegue nei cc. 2-3; nel c. 4, inoltre, la stessa voce riprende a parlare e continua a rivelare al veggente «ciò che deve accadere». L'intento di questa prima pagina è soprattutto quello di offrire una «divina legittimazione» al messaggio contenuto nel libro: l'autore, cioè, vuole rimarcare con forza il proprio ruolo di profeta portavoce, che parla e scrive in quanto ha ricevuto da Gesù Cristo stesso questo preciso incarico.

L'evento determinante è raccontato con stile preciso e asciutto, riducendo all'essenziale le azioni, soffermandosi solo in modo ridondante nella descrizione del personaggio divino che si mostra. Le unità letterarie che compongono il racconto sono facilmente individuabili, ma la struttura narrativa dell'episodio può essere determinata in modi diversi. Si possono, ad esempio, distinguere due parti caratterizzate da differenti soggetti, ponendo la cesura a metà del v. 17, laddove cambia il soggetto: dapprima il profeta, parlando in prima persona, presenta se stesso e la propria situazione, quindi descrive ciò che egli ha udito e visto; in un secondo momento diviene protagonista il Figlio dell'uomo che prende la parola, si presenta, affida un incarico e spiega il significato dei simboli. Questa struttura narrativa può essere così schematizzata:

1,9-17a     ciò che fa il profeta
9-10a        ambientazione dell' esperienza
10b-11      prima esperienza: ascolto
12a           conversione
12b-17a    seconda esperienza: visione
1,17b-20   ciò che fa il Figlio dell'uomo
17b           gesto di conforto
17c-18     autopresentazione
19            incarico di scrivere
20            glossa interpretativa

Considerando la pericope da un altro punto di vista, si può notare che la descrizione dettagliata del Figlio dell'uomo occupa una rilevante posizione centrale ed è introdotta eseguita da un discorso diretto, pronunciato dalla stessa voce, ma udito da Giovanni in due atteggiamenti differenti; questi discorsi, inoltre, culminano in entrambi i casi con l'imperativo relativo alla composizione scritta; infine la presentazione iniziale del veggente e la spiegazione finale dei simboli possono considerarsi elementi di cornice. In tal modo si verrebbe ad avere una ricercata costruzione parallelistico-concentrica, che possiamo schematizzare nel modo seguente:

1,9-10a      ambientazione dell'esperienza
1,10b-11    le parole ascoltate «dietro»
1,12-17a    la visione del Figlio dell'uomo
1,17b-19    le parole ascoltate. «davanti»
1,20           spiegazione dell' esperienza

Con abilità il narratore condensa in pochi versetti una grande ricchezza di contenuto, usando soprattutto il metodo della allusione, che comporta il riferimento voluto ad un testo, senza citarlo esplicitamente: in ogni caso si tratta anche di re-interpretazione. L'autore, infatti, usa i testi dell' AT come il suo «grande codice», il tesoro da cui estrae il materiale letterario per presentare il nuovo messaggio cristiano: egli si avvicina ai passi biblici in modo tematico e sfumato, per creare una stessa scena prende elementi da più libri e li compone insieme con ritocchi e accrescimenti, in modo tanto originale da determinare un nuovo significato. Nel raccontare l'incontro con il Cristo risorto, Giovanni allude sostanzialmente a due testi veterotestamentari, che fonde insieme: l'apparizione dell'angelo che rivela a Daniele la verità in Dn lo e la visione del Figlio dell'uomo in Dn 7. Inoltre, i particolari desunti da Dn 7 sono adattati in modo significativo, attribuendo al Figlio dell'uomo anche le caratteristiche dell' Antico di giorni: in questo caso non si tratta di semplice operazione letteraria, ma di interpretazione teologica mediata dall'uso delle immagini e del linguaggio simbolico.

L’ambiente dell’esperienza

Il racconto inizia con un enfatico pronome «io», seguito dal nome dell'autore e dalle sue qualifiche: tale stile sembra derivato dal linguaggio della cancelleria persiana che iniziava così le lettere imperiali (cf. Esd 7,21), ma era ormai diffuso nella letteratura giudaica per esprimere la forza e l'autorità di colui che parla per spiegare o per comandare.

Giovanni si presenta alle Chiese, sottolineando l'aspetto di fratellanza ecclesiale e la condivisione comunitaria che accomuna l'apostolo e i suoi fedeli: tale presentazione ha una valenza retorica col fine di attirare la benevolenza dei destinatari e di disporli ad accettare il messaggio come divinamente rivelato. La funzione retorica, tuttavia, non deve nascondere la ricchezza teologica della formula giovannea che mette in evidenza il valore della solidarietà: «Io, Giovanni, vostro fratello e solidale con voi nella sofferenza (thlípsis), nella regalità (basiléia) e nella pazienza (hypomoné) in Gesù» (1,9a). In quanto uniti a Gesù si trovano tutti sottoposti ad una pressione esterna: il riferimento è evidente alla difficile situazione, esterna e interna, vissuta dalle comunità giovannee in Asia Minore alla fine del I secolo. Ma tutti condividono anche un'importante responsabilità regale, che comporta la collaborazione con il Cristo per la trasformazione del mondo; e soprattutto hanno la capacità di sostenere la prova, la forza di «resistere sotto», come dice il termine greco originale.

Fin dall'autopresentazione Giovanni intende coinvolgere i suoi lettori ed esortarli alla resistenza: il proprio esempio e la propria eccezionale esperienza possono servire da valido incoraggiamento, per non arrendersi alle pretese del mondo. Proprio questa introduzione fa pensare che il soggiorno di Giovanni a Patmos non sia volontario, ma obbligato da un'autorità contraria; la tradizione patristica, da Ireneo in poi, conosce una condanna dell'apostolo al confino sull'isola: la causa di questa condanna è mostrata nella fedeltà alla rivelazione divina in Gesù Cristo e all'attiva opera di testimonianza.

All'indicazione spaziale dell'isola di Patmos, per presentare la situazione iniziale del veggente, vengono aggiunte altre due indicazioni, una mistica, l'altra temporale, ma strettamente connesse fra di loro. Per due volte si ripete lo stesso verbo all'aoristo (egenómen) che indica un fatto occasionale, accaduto nel passato, effetto di un cambiamento di situazione: una traduzione letterale e strutturata del testo può aiutare a comprenderne il senso:

«Venni a trovarmi nell'isola chiamata Patmos [...]
venni a trovarmi nello Spirito
nel giorno del Signore» (1,9b-10a)

Se l'indicazione geografica serviva per richiamare la situazione storica in cui collocare la rivelazione divina, la seconda precisazione è ancor più importante, perché vuole evocare il contesto teologico in cui affonda le radici l'esperienza di Giovanni. La formula «divenni in spirito» è esclusiva dell'Apocalisse e il senso non è evidente: secondo alcuni indicherebbe una particolare situazione del profeta tipo estasi, rapimento estatico o trance; ma sembra più opportuno intenderlo a proposito dello Spirito divino quale agente dell'esperienza visionaria. Quindi il movimento a cui Giovanni allude può essere indicato come una particolare esperienza spirituale, cioè un incontro del profeta con lo Spirito Santo: «Quando si mette a profetare l'autore "diviene nello Spirito", quasi si immerge in esso, al punto che lo Spirito diventa come l'ambito in cui egli si muove». La meta a cui il profeta vuole condurre la sua comunità nell'interpretazione delle Scritture è la novità di senso determinata dall' evento pasquale del Cristo: ma la comprensione di questa novità è dono dello Spirito e solo entrando in comunione con lui l'autore è in grado di comprendere e comunicare la rivelazione di Gesù Cristo. Ora, aggiunge Giovanni, la comunione con lo Spirito, si inserisce «nel giorno del Signore».

Il giorno Storico della risurrezione di Cristo ha dato compimento al «giorno del Signore» atteso dagli antichi profeti, inaugurando il tempo nuovo di cui la domenica è il memoriale settimanale. Superando l'osservanza giudaica del sabato, la comunità cristiana «vive secondo la domenica», dice sant'Ignazio, e si riunisce in assemblea ogni primo giorno della settimana, moltiplicando nel tempo la dimensione festiva della Pasqua, per celebrare il Cristo risorto e proclamarlo «Signore» nell'attesa del compimento definitivo. Proprio in questo contesto domenicale Giovanni colloca la propria esperienza fondante.

La «conversione» al Signore

L'esperienza di Giovanni è presentata in due fasi ben distinte, che corrispondono a due situazioni profetiche diverse e sono caratterizzate da due modalità di relazione: udire di spalle e vedere di fronte. Se isoliamo i verbi che narrano le azioni del protagonista, possiamo scorgere facilmente la dinamica del racconto:

«ascoltai (ékousa) dietro di me...,
mi voltai (epéstrepsa) ed essendomi voltato (epistrépsas)
vidi (éidon)...,
quando lo vidi, caddi (épesa)...»

La prima esperienza è l'ascolto di una voce potente simile al suono di tromba, ma che risuona alle spalle del profeta. Perché abbia luogo la seconda esperienza, quella decisiva della visione del Figlio dell'uomo, è necessario un cambiamento di posizione da parte del soggetto: al narratore questo fatto interessa particolarmente, perché adopera per ben due volte lo stesso verbo in modo ridondante, con l'evidente intento di sottolineare il gesto. Nel contesto simbolico dell'Apocalisse, il gesto del voltarsi assume un valore molto forte, tanto più che il verbo epistréphein era comunemente adoperato come termine tecnico per indicare un cambiamento esistenziale e una conversione, soprattutto un ritorno a Dio. Lo stesso verbo è adoperato da Paolo per indicare il movimento spirituale che permette di togliere il velo steso sul cuore dei Giudei e così contemplare la pienezza della rivelazione: «Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma qualora si volti verso il Signore, quel velo sarà tolto» (2Cor 3,15-16).

Proprio perché «si è convertito», Giovanni ora vede. Lo stesso messaggio simbolico si può ricavare dal racconto evangelico della Maddalena al sepolcro che «si voltò (estráphe) all'indietro» ed «essendosi voltata (straphéisa)» vide il Signore risorto (Gv 20,14.16). Anche l'uso dei verbi segue un mutamento analogo nei due racconti: in un primo tempo si adopera il verbo blépo che esprime una semplice percezione fisica (Gv 20,1.5; Ap 1,11.12), mentre poi viene impiegato il verbo horáo per indicare l'esperienza della fede (Gv 20,8.18; Ap 1,12.17). n senso teologico di tale variazione lessicale è da ricercare nell'intento giovanneo di mostrare il cammino di fede del discepolo: all'origine stessa dell'Apocalisse l'autore vuole dunque presentare in estrema sintesi la propria maturazione spirituale, soprattutto a proposito dell'interpretazione scritturistica.

Il paragone della voce al suono di tromba, l'esperienza di spalle e l'ordine di scrivere possono evocare efficacemente la rivelazione del Sinai, ovvero la prima fase della rivelazione divina: Giovanni, che bene la conosceva, ha dovuto fare un serio cammino di conversione per comprenderla pienamente ed ora riconosce con un'espressione simbolica di averne visto il senso profondo solo alla luce del mistero pasquale di Cristo, avendo cioè incontrato personalmente il risorto. Nella prima esperienza, la voce ascoltata alle spalle ordina a Giovanni di mettere per iscritto «ciò che vedi (ho blépeis)»: l'oggetto è al singolare e il verbo della percezione fisica è al presente; in stretto parallelismo viene poi detto che nella seconda esperienza, il Cristo risorto ripete lo stesso ordine, cioè di mettere per iscritto «le cose che hai visto (ha éides)»>: l'oggetto è al plurale e il verbo della conoscenza di fede è all'aoristo. Il cambiamento avviene grazie all'incontro con Cristo: essendosi voltato verso il Signore, il velo è stato rimosso dal suo cuore e tale ri-velazione consente a Giovanni di interpretare in senso nuovo e pieno le Scritture.

Il Figlio dell’uomo

Il primo oggetto della visione sono «sette lampade (lychnías) d'oro». Il termine greco adoperato da Giovanni nella LXX traduce abitualmente l'ebraico menorah, cioè il classico candelabro a sette bracci, simbolo tipicamente liturgico, caratteristica del tempio di Gerusalemme: è descritto da Es 25,31-40 ed è al centro della visione di Zac 4, 1-14 a cui l'Apocalisse sembra alludere. Data questa corrispondenza, piuttosto che immaginare sette candelieri staccati l'uno dall'altro, è meglio pensare ad un unico candelabro con sette lampade, che, come sarà spiegato espressamente nel v. 20, corrispondono alle sette Chiese destinatarie del libro. Il senso teologico dell'immagine può essere rilevante: il nuovo ambiente liturgico, infatti, non è determinato da un luogo sacro, ma dall'insieme delle comunità cristiane.

Ma il candelabro non è solo: al suo centro c'è il Figlio dell'uomo. La scena, come molte altre nell' Apocalisse, non è raffigurabile visivamente e proprio questo fatto induce a sostenerla: Giovanni, infatti, presenta delle «visioni mentali», un modo cioè di vedere il mondo e la storia. Con tale simbolo egli intende affermare che al centro delle comunità cristiane sta il Cristo risorto.

«Uno simile a figlio d'uomo» è senza dubbio il personaggio decisivo della scena. Il riferimento è con ogni probabilità alla figura misteriosa descritta da Daniele nelle sue visioni notturne: «Ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile ad un figlio di uomo; giunse fino all' Antico di giorni e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto» (Dn 7,13-14). La teologia cristiana, in seguito all'uso che ne aveva fatto Gesù stesso, aveva già identificato questo personaggio trascendente proprio con Gesù Cristo, soprattutto nel suo mistero di morte e risurrezione. In tal modo Giovanni mostra, in questa visione iniziale che dà il tono e il senso a tutta l' opera, il Cristo risorto presente nella sua Chiesa, visto nella sua funzione messianica e nella prospettiva del compimento.

Tutti gli elementi descrittivi sono desunti da testi veterotestamentari e hanno valore simbolico. L'abito lungo e la fascia d'oro (1,13) derivano da Dn 10,5 e sono un distintivo sacerdotale: nel contesto liturgico della visione il Cristo appare come l'autentico sacerdote. I capelli bianchi (1,14a) sono un'immagine appartenente alla descrizione dell'Antico di giorni in Dn 7,9: molto significativo è il passaggio degli attributi da un personaggio all'altro e questo significa che, nella teologia simbolica dell'autore, esiste un'equivalenza fra il Figlio dell'uomo e Dio stesso. Il paragone degli occhi col fuoco (1,14b) dipende da Dn 10,6 e si inserisce nella tradizione biblica che attribuisce volentieri a Dio le caratteristiche del fuoco, simbolo di amore e di giudizio. Anche l'accostamento dei piedi al bronzo incandescente (1,15a) deriva da Dn 10,6 e può evocare, oltre al simbolismo del fuoco, anche una particolare forza e stabilità. La voce, infine, è paragonata al fragore delle grandi acque, usando l'immagine che Ezechiele (1,24; 43,2) adopera per descrivere la gloria di Dio: anche in questo caso il passaggio degli attributi serve a indicare la potenza di Dio presente nella parola del Cristo.

La descrizione continua (1,16) con tre particolari originali che alludono piuttosto all'opera del personaggio. Con la sua potenza buona (la mano destra) controlla la totalità (sette) delle «stelle», elemento non chiaro che ha bisogno di esplicito chiarimento. La sua parola è simile a una spada tagliente, in conformità a quello che aveva detto il Servo di Dio: «Ha reso la mia bocca come spada affilata» (Is 49,2; cf. anche Eb 4,12-13); e la sua presenza, infine, ha la forza illuminante e gioiosa del sole, alludendo all'espressione poetica che chiude il cantico di Debora: «Coloro che ti amano siano come il sole, quando sorge con tutto lo splendore» (Gdc 5,31).

Come in molti altri passi dell' Apocalisse, il simbolismo è discontinuo e l'immagine evocata nei vari particolari non deve essere rappresentata visivamente in modo unitario: ogni particolare deve essere compreso, decodificato e superato.

Il mistero pasquale di morte e risurrezione

Con un formulario convenzionale viene descritta la reazione di Giovanni, che cade a terra come morto, e il gesto incoraggiante del personaggio glorioso, che lo tocca con la mano destra (cf. Ez 1,28-2,2; Dn 8,18; 10,9-10).

Dopo l'invito a non aver paura, classico nelle scene di apparizione, il personaggio misterioso si presenta con cinque espressioni che lo qualificano come «il Risorto» e lo identificano con Gesù Cristo. Questi titoli si possono organizzare in una elegante struttura parallela e concentrica:

A             «lo sono il Primo e l'Ultimo
B             e il Vivente.
C             Io divenni morto
B’            ed ecco: sono vivente nei secoli dei secoli
A'            e ho le chiavi della Morte e del Mondo-dei-morti» (1,17b-18)

La formula «lo sono» (egò eimi) ha un valore molto forte, in quanto richiama il nome proprio di Dio, rivelato a Mosè (Es 3,14); tale forza aumenta ancora per il titolo che regge (ho prótos kai ho éschatos), essendo attribuito nell'AT solo a Dio, Creatore e Signore del cosmo e della storia (cf. Is 44,6; 48,12). Questo titolo corrisponde alla formula «Alfa e Omega» che nell'Apocalisse è detto del Signore Dio (1,8; 21,6): Dio è archê, cioè inizio e origine, Colui «dal quale» tutto esiste; ed egli è ugualmente telos, cioè conclusione e perfezionatore, meta e fine, colui «per il quale» tutto esiste. Ma ora (come anche in 2,8 e 22,13) lo stesso attributo di YHWH viene dato a Gesù Cristo: il predicato di perfezione suprema che la fede dei profeti attribuiva esclusivamente a Dio, l'autore cristiano dell'Apocalisse lo estende ora anche al Messia e, nel suo procedere simbolico, questo è un modo evidente per mostrare il Cristo strettamente unito a Dio e partecipe della sua natura divina.

In secondo luogo, egli si proclama «il vivente» (ho zôn): l'espressione è cara alla teologia giovannea e con essa si vuole affermare che il Logos-Figlio ha la vita in se stesso, indipendentemente dalla creazione (cf. Gv 1,4; 5,26). Tale titolo, però, deriva direttamente dalla formula veterotestamentaria «il Dio vivente», usata soprattutto per i giuramenti. La fede di Israele sa che Dio è la vita, da lui deriva ogni vita ed egli vive in eterno: l'Apocalisse ripete queste formule di fede, ma le estende anche al Cristo e afferma che, come Dio, egli ha la vita in sé.

Al centro, però, emerge il drammatico fatto umano: «Divenni morto» (egenómen nekrós). È così presentata la sintesi del mistero dell'incarnazione con cui il Cristo ha partecipato storicamente alla morte dell'umanità. Se finora poteva esserci qualche dubbio sull'identità del misterioso personaggio apparso (Dio stesso? un angelo?), ora è fugata ogni incertezza: non può trattarsi altro che di Gesù Cristo. Solo l' Apocalisse parla del Cristo come nekros, usando il termine crudo per indicare il morto in quanto cadavere; l'aoristo del verbo «diventare», inoltre, evidenzia il fatto storico accaduto in un preciso momento del passato. Il Vivente, colui che ha la vita in se, divenne cadavere, ma non rimase prigioniero della morte.

Nel quarto titolo, infatti, al passato remoto della morte si contrappone il presente dell'altro titolo, che riprende in parallelo il secondo: «Sono vivente per i secoli dei secoli». La risurrezione è evocata non come un atto, ma come uno stato, un modo di essere di colui che divenne morto. Al momento storico della morte viene contrapposta l' eternità della vita e di Cristo viene detto ciò che altrove è detto del Padre, la vita nei secoli (Ap 4,9.10; 10,6).

Infine, l'ultimo titolo mostra che, non solo è vivo, ma è signore della vita, giacché è il padrone chi ha le chiavi. Con un'immagine corrente nel giudaismo e presente in alcuni testi targumici, viene presentato il Cristo dominatore della morte e del «mondo sotterraneo dei morti» (in greco: Ades; in ebraico: Sheol), come colui che ne detiene le chiavi, cioè ha potuto aprire quella porta tremenda del mondo infero, visto che, come dice la sequenza di Pasqua: «Mortuus regnat vivus».

Il Cristo risorto si è mostrato a Giovanni per dargli un incarico:

«Scrivi dunque
1) ciò che hai visto:
2) le cose che sono e
3) quelle che devono accadere dopo queste» (1,19)

Il dunque crea un legame di causalità fra la descrizione del Figlio dell'uomo e il comando: Giovanni deve scrivere proprio per comunicare il mistero decisivo della risurrezione di Gesù Cristo, quello che egli ha sperimentato, la realtà in sé e tutte le implicazioni e le conseguenze che si riflettono sulla storia dell'uomo. La formula tripartita descrive l'oggetto della rivelazione e ne sottolinea i tre tempi, che vengono valorizzati dalla celebrazione liturgica e nella dimensione sacramentale: la comunità, infatti, fa memoria dell'evento passato della Pasqua di Cristo, sintesi di tutta la storia della salvezza, ne sperimenta l'attualità nel presente e anela al compimento futuro.

La rivelazione di Gesù Cristo, l'Apocalisse dunque, è connessa strettamente all' incontro personale con il Crocifisso risorto: grazie all' esperienza dell'autore, il libro che ne è derivato permette a tutta la comunità di sperimentare personalmente lo stesso incontro.


(da Parole di Vita, n. 1, 2000)

Letto 2658 volte Ultima modifica il Mercoledì, 15 Giugno 2011 13:59
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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