“ La debolezza del credere”
Abitare le rovine, convertìti ai barbari
La fede, la parola e l'istituzione leggendo Michel de Certeau
di Stella Morra *
«Glielo si è rimproverato in tutti i luoghi istituiti del sapere universitario o ecclesiastico. Non si sapeva mai dove egli fosse, dato che era dappertutto senza essere identificato in nessun luogo. Era forse perché non ne aveva alcuno? Secondo me, egli ha sempre avuto un luogo proprio, uno solo, ed era la tradizione, più precisamente la tradizione cristiana, o meglio la tradizione dell'esperienza cristiana. [ ... ] I suoi scritti sulla tradizione cristiana rappresentano la spina dorsale e la preoccupazione costante del suo lavoro di scrittura» 1.
Premessa: dialogando con Michel de Certeau
Ci piace introdurre questo scritto, che nasce da un'esperienza di «parlato»2, con l'inizio di un testo che, analogamente, Michel de Certeau trae da un confronto «parlato»:
«Il passaggio dall'orale allo scritto non ha come scopo quello di "assicurare" il luogo da cui io parlo, di raccogliere delle prove e di chiudere le aperture che i discorsi di una sera vi avrebbero lasciato. Non vorrei che lo scritto fosse il rimaneggiamento - o l'oblio - dei "lapsus" provocati da una discussione, di tutto ciò che sfugge al controllo nel linguaggio parlato, come se fosse necessario sottomettere alla legalità di una scrittura - o rimuovere - gli accadimenti del desiderio di cui l'altro è il principio. Queste fughe permettono, al contrario, un nuovo inizio della scrittura. Un lavoro introduce allora nei sistemi stabiliti le movenze che l'orale già tradisce. Inscrive sulle nostre carte i viaggi più lunghi che sono inaugurati dalle fuggitive "sortite" della conversazione. Invece di andare dallo scritto all'orale, da una ortodossia alla sua illustrazione verbale (o a "libri", fatto che ci si può permettere perché non sono seri e non ritornano sulla scrittura mantenuta intatta), il percorso parte da una mobilità orale, porosa, offerta più facilmente alterata da ciò che non si dice ancora se non a mezze parole, e si va cosi producendo un linguaggio ristrutturato da questi primi consensi, organizzando così uno spostamento nell' ordine del sapere e della ragione. Questo percorso riguarda qui il cristianesimo: nei fatti, un rapporto tra una questione sulla verità e il mio proprio luogo»3.
Non si troverà dunque in questo testo uno studio articolato su Michel de Certeau; piuttosto un dialogo con lui e tra noi, dialogo che ha spezzato lo studio solitario e ha introdotto a nuovi viaggi, inaugurati dalla conversazione che lo ha prodotto.
Ma per questo ci è anzitutto indispensabile guardare il volto del nostro primo interlocutore e sapere qualcosa di Michel de Certeau.
Chi è Michel de Certeau4
Gesuita francese (1925-1986), nasce intellettualmente come storico della spiritualità e teologo, caratterizzazione che sarà per lui sempre molto forte, anche quando come negli ultimi venticinque anni della sua produzione intellettuale, non si occuperà più per nulla di temi di storia della spiritualità. Il suo problema originario, o, meglio, il motivo per cui viene destinato nella Compagnia di Gesù a questi studi, è scrivere la storia dei compagni di Ignazio e dei primi maestri spirituali della Compagnia, in particolare J.J. Surin e P: Favre. Allievo di H. de Lubac, produce opere di grande. erudizione, pubblicando edizioni critiche degli epistolari, dei memoriali. Questi suoi primi anni gli guadagneranno un elevato esercizio di rigore metodologico e storiografico e un imprinting da storico che non lo abbandoneranno mai. Progressivamente, però, lascerà da parte gli studi eruditi e la storiografia in senso stretto, ma metodologicamente e contenutisticamente questo resterà il suo marchio a fuoco (Luce Giard dice che Surin è, per Michel de Certeau, «son gardien et son ombre»5.
In particolare, resterà sempre sua la questione sulla vicenda degli spirituali nell'impatto con la modernità, la nascita della cosiddetta mistica classica, e di come questa figura, figlia di precise congiunture storiche, non si caratterizzi solo come qualcosa di transitorio o occasionale, una delle tante figure storiche, ma si presenti piuttosto come un paradigma possibile dell'esperienza cristiana tout court. il paradigma mistico, appunto.
Da questo fuoco di attenzione attraverserà poi (e contaminerà epistemologicamente) molte discipline, e studiare le sue opere richiede competenze plurime e capacità di passare attraverso registri anche metodologicamente molto diversi. Quando lo studioso di M. de Certeau non tiene conto di questa pluralità di approcci contaminati, e si lascia sequestrare dalla propria competenza, il rischio è che succeda esattamente ciò che sta succedendo: de Certeau comincia negli ultimi dieci anni ad essere molto studiato, ma in modo assolutamente settoriale, e ogni disciplina lo studia (con profitto, va detto) dal proprio punto di vista. In questo momento esiste più o meno una divisione per aree linguistiche: i francesi lo studiano come storico, gli anglofoni come antropologo culturale, o studioso della cultura contemporanea, l'area tedesca lo studia più sul versante della spiritualità e del suo rapporto con la politica, e così via. Gli italiani, che stanno arrivando buoni ultimi, hanno inaugurato due filoni di lettura abbastanza innovativi: uno legato al Centro di semiotica di Urbino, centro con cui de Certeau ha collaborato, che lo studia come storico della retorica, della linguistica e della semiotica per via delle collaborazione di de Certeau con Carlo Ossola: studioso che lo ha introdotto in Italia, e l'altro filone, ripreso recentemente anche da un articolo di Lecrivain su «La Civiltà Cattolica», come teologo6. È questo un territorio abbastanza vergine e pochissimo percorso: quello che lui stesso ha sempre indicato come il suo terreno unificante ed è stato praticamente fino ad ora quasi ignorato da tutti gli studiosi7
La vita accademica e intellettuale di Michel de Certeau è stata assai travagliata: ha rinunciato al dottorato in teologia ha scelto una «centrale marginalità.» rispetto a tutte la istituzioni del sapere (riuscendo ad attraversare tutti i luoghi focali del dibattito del suo tempo, ma sempre senza appartenere a quella che chiamava «la legge del luogo»8); personaggio assai complesso, ha incontrato Lacan ed è stato con lui fin dalla fondazione dell'Ecole freudienne (1964), ha avuto un percorso assai rilevante all'interno della metodologia e della epistemologia psicoanalitica, anche se non è mai stato né un terapeuta, né un didatta. Si è occupato in seguito di scienze culturali e di cosidette scienze della contemporaneità, ciò che in area anglofona viene chiamato Cultural Studies. Ha insegnato in Francia ovviamente, negli Stati Uniti, ha avuto collaborazioni in Italia, in Brasile, ecc. La sua recezione è stata (ed è) molto differenziata e discussa, perché è stato un figlio problematico sia della Compagnia di Gesù che dei suoi tempi, con una biografia individuale piuttosto burrascosa. Ha avuto una produzione sterminata (e prima della diffusione del computer!), la sua bibliografia stabilita raccoglie più di 500 items significativi. Al momento della sua morte stava lavorando su due progetti rimasti incompiuti: uno è il secondo volume di Fabula mistica, di cui ha lasciato un indice in avanzato stato di definizione, più schede e appunti, che si presentano di una complessità incredibile; il secondo progetto era un lavoro, quasi compiuto, sul secondo volume de L’invenzione del quotidiano (che infatti è stato pubblicato postumo a cura di Luce Giard e Pierre Mayol9). Questi due testi rimasti (anche simbolicamente?) aperti rappresentano esattamente i due poli dell'interesse fondamentale che Michel de Certeau ha instancabilmente perseguito: la mistica e l'agire quotidiano contemporaneo.
Quale questione?
La sua questione, che rimane costante dai primi studi su Surin fino alla fine, può essere riassunta forse con una sua stessa citazione: « ... ciò che il cristianesimo può dire di se stesso, nell'ambito di una cultura nuova [...] come si articola la sua operazione propria. E quali aspetti strutturali sono suscettibili di precisare come, in una situazione epistemologica data, il cristianesimo è pensabile»10.
La sua domanda è perciò la pensabilità e la plausibilità del cristianesimo, non tanto e non solo oggi, ma ogni volta che una situazione culturale cambia. Il suo problema non è contenutistico, ma è operazionale: quale operazione è necessaria per consentirci di rendere pensabile e plausibile il cristianesimo ogni volta che la cultura intorno ad esso (e al suo interno!) muta. È esattamente la domanda su come sia possibile per il cristianesimo avere un corpo, cioè come si attui la toccabilità, la vivibilità, la sperimentabilità di una esperienza credente nella particolarità storica di un qui ed ora, di un esserci al mondo, allo spazio e al tempo, cosa che abbiamo scoperto essere esattamente il nodo della corporalità.
Il suo fuoco di interesse riguarda la plausibilità dell'atto del credere come esperienza, e a questa parola «esperienza de Certeau dà tutto il peso che il Novecento ha dato, cercando di evitare l'abuso del linguaggio ordinario che la considera un dato puramente soggettivo e individualizzato, esperienza del reale come «il mio fruire di». Egli riconosce. invece la complessità di questo termine, complessità che raddoppia quando l'esperienza a cui ci si riferisce è quella credente, ed è quella credente ecclesialmente sperimentata, con un corpus cioè socialmente e storicamente rilevabile.
Questa domanda sorge per de Certeau dall'attualità (la fine della cristianità come modello vivibile e praticabile del cristianesimo è un dato di fatto ormai), ma il suo percorso muove a partire dalla frequentazione dei mistici dell'epoca classica. In quel delicato frangente storico, come vedremo tra poco, in cui la modernità vulnera in modo che si rivelerà irreparabile la forma della cristianità, il paradigma mistico sorge come una ipotesi di possibilità per la sperimentazione di un atto del credere ancora significativo.
Come si può sperimentare l'atto del credere? L'a priori di de Certeau è che non si può individuare né come puro e mero atto conoscitivo, né come puro atto individuale e «interiore». Proprio alla scuola dei mistici scopre che si tratta di un atto corporeo, e per tutta la vita, ci pare, lavorerà a chiarire questo termine «corpo»; un atto di sapere pratico dirà alla fine della sua riflessione, paragonabile, ad esempio, a quello di guidare la macchina o di usare il computer. Sono atti (arti?) che richiedono un'iniziale azione di conoscenza, che costituisce però solo l'inizio del processo; e a questo inizio (quando solo la nostra testa sa) corrisponde una fatica di esecuzione molto alta. Solo attraverso l'esercizio impariamo a fare scioltamente l'azione richiesta, fino al punto in cui, se ci viene chiesto di verbalizzarne la procedura, siamo costretti a mimarne il gesto, perché il nostro corpo sa ciò che la nostra testa (e dunque la nostra parola) non sanno più. L'atto di fede deve essere un atto sperimentabile, e questo, in un determinato profilo socio-culturale precedente al nostro, è stato un processo autoevidente e automaticamente trasmesso dal contesto. Ma tutto ciò è stato bruscamente interrotto dalla modernità, e ora siamo costretti a metterlo a tema, a smontarlo e rimontarlo, per cercare di farlo funzionare ancora. È la questione che si pone Michel de Certeau.
Per una comprensione della «mistica»
Le erranze e il viaggio che fanno di Michel de Certeau un cercatore di confini e di luoghi di transito, sono sempre, come abbiamo detto, un viaggio verso Dio: «Non potrei mai negare che investo la mia fede nell'analisi che faccio della storia, né "dimenticare" artificiosamente che sono teologo»11. La sua è una domanda credente, inquieta, in cui l'anima non deruba l'onestà intellettuale e il rigore, e in cui contemporaneamente la scientificità non diventa pretesto (o meglio pre/testo, condizione a priori) per diffidare della fede; anzi, i due approcci si nutrono a vicenda e, come è giusto che sia, la scientificità costituisce un corpo, una visibilità, una leggibilità, una possibilità di lingua circolante, al silenzioso viandante interiore che è il credente.
«La mistica del XVI e XVII secolo prolifera intorno ad una perdita. Ne è la figura storica. Rende leggibile l'assenza che moltiplica le produzioni del desiderio. Al limitare della modernità, si delineano così una fine e un cominciamento, una partenza. Questa letteratura offre strade a chi domanda "una indicazione per perdersi" e cerca "come non tornare". Sulle strade o vie di cui parlano tanti testi mistici, passa il camminatore itinerante, Wandersmann. Oltre che a "erranze" inauguratrici, comunque, questa mistica si riferisce alla storia collettiva di un passaggio ... l'ambizione di un radicalismo cristiano si disegna su fondo di decadenza o "corruzione", dentro un universo che si disfa,da riparare ... i corpi individuali raccontano la storia delle istituzioni di senso».12
La tesi fondamentale di Michel de Certeau è che la mistica debba essere pensata come «formazione storica», cioè non come esperienza emozionale pressappoco invariabile, ma come uno specifico tipo di risposta, biografica e di effetti cause socio-culturali, in un contesto preciso, ad una situazione di mutamento del mondo e di rovina delle forme del credere. Si esclude quindi una definizione della mistica in termini di «essenza» dell'esperienza mistica stessa; non si parlerà di mistica avendo come riferimento l'esperienza che soggiace(rebbe) a ciò che la mistica ci trasmette: leggiamo un testo di un mistico e ci chiediamo che cosa lui ha vissuto e sperimentato; non ci si farà questa domanda. Mi pare che si tratti di un uso totalmente intra-teologico, che dà troppe cose per scontate (che ci sia un'esperienza, che l'esperienza sia reale, che sia possibile/si voglia trasmetterla con/ dal testo ... ); inoltre confina la mistica in uno spazio di interiorità soggettiva e esclude così ogni passo avanti.
Allo stesso modo, si esclude anche di occuparsi della mistica nel modo che è stato molto percorso negli ultimi dieci anni, soprattutto circa il periodo in questione, il Cinquecento e il Seicento, considerandola solo per gli effetti attraverso cui arriva a noi, soprattutto gli effetti letterari (studiando filologia, retorica, costruzione del discorso mistico), indipendentemente dall'esperienza che questo ha provocato e dal lettore che questo legge. Pare questo l'approccio opposto, che tende a classificare l'esperienza come qualcosa di psicopatologico, o comunque qualcosa di non indagabile, e si limita a leggere il testo. È una lettura totalmente giocata sull' esteriorità, su ciò che la mistica opera come fenomeno, che non dà conto del valore teologico interno.
Si tratta piuttosto di considerare la relazione tra questa forma tipica dell'esperienza cristiana e il contesto, l'esterno che comincia a nascere nella modernità come autonomo, un dominio a parte che si dota di una genealogia propria. Ancora una volta è lo sguardo dell' altro, dell' eccedenza, che ridefinisce il sé di una modalità di vivere la fede cristiana. E, insieme, si realizza il viceversa:
«La mistica apre una falla nell'interno stesso della modernità che la fa nascere a se stessa e contemporaneamente la respinge nella sua notte e abita il suo presente al modo di un fantasma. Essa è una ferita e una domanda impercettibile nel cuore stesso di ogni dispositivo ben installato. Il contributo essenziale di de Certeau è li, in questa storicizzazione della mistica»13.
Si tratta dunque di esaminare una figura storica, non uno stato d'animo né un'esotica o folkloristica psicopatologia, figura di una forma possibile dell'esperienza cristiana che in un grande transito culturale cerca di utilizzare parole, esperienza, luoghi, istituzioni che ha a disposizione per ri-conformare un atto del credere plausibile, pensabile, vivibile e dicibile.
Come i padri della Chiesa hanno usato i concetti e le parole dei filosofi greci, come i costruttori di chiese hanno usato le rovine degli edifici romani, così quando la parabola dell'Antichità e del Medio Evo si chiude sul nascere della modernità, i mistici cercano per frammenti «rubati» di ricostruire un corpo per la vita cristiana.
Ciò significa che la mistica non si configura come una esperienza eccezionale riservata ad alcuni, ma piuttosto (come ogni esperienza cristiana) una esperienza che, biograficamente e storicamente percorsa da alcuni, diventa «luogo ecclesiale», cioè paradigma e modello di vie e vite cristiane possibili.
Tra le molte strade, la parola e l'istituzione
Posta così sul tavolo la questione nel suo duplice nome (la plausibilità e vivibilità anche ecclesiale della fede e la mistica come forma storica di un tempo di transito che ancora ci riguarda, incipitario paradigma per un cristianesimo possibile), moltissime sarebbero le strade che questa riflessione potrebbe (e forse dovrebbe) imboccare: le mille parole scambiate che nel tempo lungo di conversazione che soggiace a questo testo, da un lato, hanno disegnato le domande e i temi urgenti e significativi per coloro che hanno condiviso questo itinerario; d'altro lato, le esigenze della riflessione scientifica o della conoscenza corretta e completa di Michel de Certeau richiederebbero a loro volta strade precise. Qui limitiamo a due coordinate che ci sembrano raccogliere due esigenze indicate, pur senza neppure lontanamente esaurirle.
La prima riguarda la parola/la Parola, e dice della separazione tra il dire e il fare che progressivamente si amplifica. Non si tratta di una separazione semplicemente tecnica, dettata dalla tecnica; si tratta invece di una separazione radicale tra le maniere del dire e la maniere del fare. L'esito è il sopravvento della «economia dello scritto» come regola dominante e implicita dell'intera rappresentazione e azione sociale. Questa economia riduce al silenzio e all'invisibilità quello che de Certeau chiama il mormorio della folla e inventa dunque «un'altra» organizzazione del mondo Per illustrare sinteticamente questo passaggio, commentiamo una citazione dello stesso de Certeau, una buona sintesi che ci pare dica esattamente il senso di trasformazione della esperienza corporale del cristianesimo nella modernità:
«Ma il copista muta il suo corpo in parola dell'altro, imita e incarna il testo in una liturgia della riproduzione; simultaneamente egli dà corpo al verbo («verbum caro factum est») e fa del verbo il proprio corpo («hoc est corpum meum») in un processo di assimilazione che cancella tutte le differenze per dar luogo al sacramento della copia. Il traduttore, che a sua volta esercita talora il mestiere di stampatore o di proto, è operatore di differenziazione. Come l'etnologo, mette in scena una regione straniera, anche se lo fa per renderla appropriata, lasciando che turbi il suo linguaggio. Fabbrica dell'altro, ma in un campo che non è prevalentemente il suo e dove non ha alcun diritto d'autore. Produce senza luogo che gli appartenga, nello spazio intermedio, lungo la linea dove, incontrandosi, più lingue si arrotolano su se stesse. Copista e traduttore hanno la stessa resistenza, ostinata, il primo però in modo contemplativo e con un rito di identificazione, mentre il secondo in maniera più etica, con una produzione di alterità. Potrebbe darsi che la storia della mistica avesse convertito il "copista" nel traduttore, asceta che, prigioniero della lingua dell'altro, grazie ad essa crea un possibile pur smarrendosi personalmente nella folla. Le maniere di parlare, comunque, dipendono da questa operatività itinerante che non ha un posto suo» 14.
Le due direzioni indicate all'inizio della citazione, dare un corpo al verbo e fare del verbo il proprio corpo, sono, secondo M. de Certeau, l'asse strutturante dell'esperienza credente, altrove le chiama «sequela» e «conversione», per usare una terminologia più propria della spiritualità tradizionale; sono il duplice asse sostanziale dell'esperienza credente, dare un corpo al verbo, il Logos, il verbo del Padre che ancora e di nuovo attraverso la vita dei credenti deve farsi corporalmente incontrabile, e dall'altra, fare del verbo il proprio corpo, secondo la dinamica della conversione/conformazione al Cristo. Ma questo duplice movimento sembra sciolto e possibile solo nel «sacramento della copia» che è processo di assimilazione, di cui il copista, l'amanuense, diventa figura tipologica è la figura del cristianesimo gregoriano, figlio del platonismo, sistematizzato e compiuto. Il traduttore, invece, secondo de Certeau, è la figura dell' esperienza credente nell' età moderna che si trova di fronte alla proliferazione della differenza e che deve rendere fruibili paesaggi stranieri, abitando uno spazio intermedio15. Diventa necessario quando la vita comincia a parlare una lingua straniera rispetto alla lingua della fede e i giorni degli uomini e delle donne non si srotolano più «naturalmente» in un territorio cristiano che diventa una terra esotica e straniera. Queste due figure rappresentano l'immagine, ma insieme la simbolica e il desiderio di esito, delle due forme di cristianità divise tra loro dalla crisi della modernità; il sacramento della copia precedente e la produttività dell'altro, l'operatività della differenza, nella fase seguente, con tutto ciò che questo può significare. M. de Certeau individua in questo punto rottura l'inizio della decorporalizzazione del cristianesimo. Si situa qui, ci pare, la nostra profonda questione odierna sulle parole (della fede, che siamo ormai incapaci di scambiare senza un sospetto o di violenza integralista o di insignificanza per l'eccesso di politicalfy correct) e sulla Parola (di Dio, di cui molti sono curiosi e interessati, ma che ci costringe spesso ad oscillare tra una lettura storico-critica, «esatta» secondo la scienza ma a rischio di aridità, e una lettura spirituale, ricca e densa ma perennemente a rischio di individualismo e sentimentalismo). Molto stiamo sperimentando di positivo su queste parole, ma è come se non avessimo più una misura, un criterio, e ogni esperienza si fa esercizio di stile quasi irraccontabile e irripetibile.
La seconda questione, su cui vorremmo offrire un accenno, è quella dell'istituzione; anche in questo caso ci facciamo guidare in modo sintetico da una citazione di M. de Certeau:
«Tale situazione è raddoppiata da un'altra, indissolubile per i credenti dell'epoca: l'umiliazione della tradizione cristiana. Nei frammenti spezzati della cristianità sperimentano una defezione fondamentale: quella delle istituzioni di senso. Vivono la decomposizione di un cosmo e ne sono esiliati [ ... ] manca una permanenza referenziale. Insieme con l'istituzione, riserva opaca del credere e del far credere, sprofondano le loro tacite sicurezze. Cercano un suolo. Ma alla fine le Scritture appaiono "corrotte" quanto le Chiese. Sono entrambi parimenti deteriorate dal tempo. Offuscano la Parola della quale dovrebbero restare presenza. Certo, ne segnano sempre il posto, ma sotto forma di rovine»16. «Mentre gli "eruditi" costituiscono isolotti scientifici partendo dai quali si può rifare una scena del mondo, gli altri, intellettuali convertiti ai "barbari", attestano il dissesto del loro sapere dinanzi alla disgrazia che colpisce un sistema di riferimenti»17. «Vengono scacciati dalla loro terra da una storia che la degrada Super flumina Babylonis: tematica, infinitamente ripetuta, di un lutto che nemmeno le ebbrezze provocate da nuove ambizioni riescono a consolare. [ ... ] "rovine" - termine, quest'ultimo, che ossessiona i discorsi dei riformisti. Esse ancora indicano i luoghi in cui attendere ora una nascita di quel Dio che è necessario distinguere da tutti i suoi segnali, destinati alla deteriorazione, e che non teme l'usura del tempo perché è morto. Nascita e morte, questi sono i due poli della meditazione evangelica nei mistici»18.
I corpi, che abbiamo trovati nel ripercorrere la lettura dei mistici che Michel de Certeau ci offre, sono corpi segnati, posseduti e espropriati, corpi instabili e ribelli, inquieti: sono una mappa scritta nelle vite individuali. Ma segnano, nel paradigma mistico, la richiesta, urlata e insieme muta, di ritrovare un rapporto possibile tra interiorità e esteriorità: è il desiderio che ciò che l'anima sente e vive trovi luoghi, riserve non opache del credere e del far credere. E’ una richiesta di «istituzione», ma dove essa sia, contemporaneamente, ciò che impone una «legge del luogo» (a cui secondo M. de Certeau occorre sottrarsi), e insieme la forma stabile della resistenza che l'altro pone all'identità, costituendo la condizione del proprio progresso19 (a cui, sempre secondo M. de Certeau, non si deve assolutamente sottrarsi). Questa duplicità della istituzione ne fa il luogo critico, impossibile e inevitabile, dell'atto del credere.
Si tratta di verificare come l'istituzione, luogo in un certo senso di oggettivazione della soggettività, consenta la permanenza e la trasmissibilità della esperienza dell' atto del credere, costituendone il luogo riconoscibile e favorevole, senza diventare né l'oggettivazione «assoluta», sciolta da ogni ;soggettività, né la semplice sommatoria contrattuale delle ;soggettività giustapposte, ponendosi sotto il segno della convenzione e abbandonando ogni verità. La sua verità è nell'essere sempre «l'altra» di ciascuno e di ogni esperienza. contemporaneamente la sua tentazione è di voler diventare il sé, l'identificativo, di ciascuno imponendo la propria legge del luogo, l'appartenenza, come unico criterio di identità. Solo una figura «passante» della istituzione può garantire di .realizzare contemporaneamente queste due condizioni ossimoriche. Prendiamo a prestito l'aggettivo «passante» da Michel de Certeau stesso20, per indicare una figura che costituisca un passaggio, e solo un passaggio, ma necessario, un luogo da attraversare, ma che non si può mai evitare, e che dunque un legame stretto e inevitabile (anche se per via «negativa,> la resistenza che l'altro pone alla mia identità e che è condizione del mio progredire) all'identità. Questa prospettiva, appena accennata, sembra scontrarsi assai duramente con la realtà di questo tempo:
«Un tempo una Chiesa organizzava un suolo, cioè una terra costituita: al suo interno si aveva la garanzia sociale e culturale di abitare il campo della verità. [ ... ] su questa terra si potevano radicare le coorti di militanti che vi trovavano la possibilità e la necessità della loro azione. Alcuni gestivano il proprio: le opere, la scuola, le associazioni divise per settori o per ambienti; altri si dedicavano ad un lavoro sociale, compreso quello nel campo della politica, sicuri di essere condotti e ispirati da una "etica cristiana", eletti e legati dall' obbedienza ad una "missione cristiana". Quale ne fosse lo scopo, questa militanza che agiva all'esterno non era altro che l'espansione benedicente della verità conservata all'interno. Al presente, simile a quelle rovine maestose da cui si traggono pietre per costruire altri edifici, il cristianesimo è diventato per le nostre società il fornitore di un vocabolario, di un tesoro di simboli, di segni e di pratiche reimpiegate altrove. Ciascuno ne usa alla propria maniera, senza che l'autorità ecclesiale possa gestirne la distribuzione o definirne a propria volta il valore come senso. La società vi attinge per mettere in scena il religioso nel grande teatro dei mass media o per comporre un discorso rassicurante e generale sui "valori". Individui, gruppi utilizzano "materiali cristiani" che articolano a modo loro, e fanno ancora giocare abitudini cristiane, senza tuttavia sentirsi obbligati ad assumere l'intero senso cristiano. Così il corpo21 cristiano non ha più identità; frammentato, disseminato, ha perso la sua sicurezza e il suo potere di generare, con il suo solo nome, delle militanze»22.
Abbiamo solamente indicato due delle «vie mistiche» possibili, e la traccia scritta delle parole scambiate deve (e forse vuole) fermarsi qui. Fermarsi dove i sentieri iniziano, per affidarli alle vie, e alle vite, di coloro che leggono.
* Docente di teologia fondamentale alla Pontif. Università Gregoriana e di sacramentaria fondamentale al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo di Roma
(da Vita Monastica n. 242, aprile-giugno 2009)
Note
- J. MOINGT, Respecter les zones d'ombre qui décidément rèsistent, in «Recherches de science religieuse» 91/2003, 582-583.
- L'occasione, la Settimana della mistica 2007 al monastero di Camaldoli.
- M. DE CERTEAU, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, tr. e pref. di S. Morra, Città Aperta, Troina 2006 (orig. franc. 1987), p. 243.
- Una biografia assai documentata e completa, di grande valore è F. Dosse, Michel de Certeau. Le marcheur blessé, Le Découverte, Paris 2002, che restituisce non solo la vicenda assai articolata del nostro Autore, ma anche con grande efficacia l'atmosfera, le persone, le questioni, i dibattiti di quegli anni.
- J. AHEARNE et ALII, Feux persistants. Entretien sur Michel de Certeau, in «Esprit», mars 1996, 131-154, qui 142
- P. LÉCRIVAIN, Michel de Certeau e le scienze dell'altro, in «La Civiltà Cattolica» IV/2007,139-152.
- «In questa logica la parabola di Michel de Certeau è molto più una parabola teologica di quanto non si sia portati a sospettare ad un primo sguardo alla sua opera: certo una teologia non "autorizzata", non consueta e attraversata da continuo transito in diversi ambiti disciplinari. Ma Michel de Certeau resta teologo, e un credente, che ha la propria esperienza di relazione all'Assente, chiamata in causa dal "paradigma mistico", e per questo e con questo indaga la. storia, come storico e da storico, rigorosamente; [ ... ] resta un teologo, oltre che per la centralità della domanda su Dio, pur indagata con una strumentazione assai varia, anche per l'altra sua attenzione costante a quella che, in teologia, si chiama. dinamica della tradizione [ ... ] [E’] la ricerca di una pratica e scrittura teologica che potrebbe davvero collocarsi nell'incrocio tra una teologia negativa e una teologia dell'incarnazione, ma non tanto come costruzione di una teologia nuova»: S. MORRA, "Pas sans toi”.Testo parola e memoria verso una dinamica dell’esperienza ecclesiale negli scritti di Michel de Certeau, Gregorian University Press, Roma 2004, pp. 43-44.
- M. DE CERTEAU, Debolezza del credere ... , pp. 243-245.
- M. DE CERTEAU - L. GIARD - ARD MAYOL, L'Invention du quotidien, tome II: Habiter, cuisiner, 2° ediz. Gallimard, Paris 1994.
- M DE CERTEAU, Debolezza del credere ... , p. 190.
- M. DE CERTEAU, Faire de l'histoire. Problèmes de méthodes et problèmes de sens, in «Recherches de science religieuse» 58/1970, 482 (traduzione nostra).
- M. DE CERTEAU, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, trad. di R.Albertini, introd. di C. Ossola, Il Mulino, Bologna 1987 (or. fr.1982), p. 50 (ora ristampata da Jaca Book, Milano 2008, con pref. di S. Facioni).
- F.Dosse, op.cit., p. 552.
- M. DE CERTEAU, Fabula mistica..., pp. 176-177
- Si vedano M. DE CERTEAU, Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (secoli XVI e XVII), trad. di M.D. De Agostini, rev. e introd. di C. Ossola, Olschki, Firenze1989 e M.DE CERTEAU, Politica mistica.Questione di storia religiosa, trad.di A.Loaldi, Jaca Book, Milano 1975.
- M. DE CERTEAU, Fabula mistica ... , p. 62.
- Ivi, p. 64.
- Ivi, p. 63.
- Per questo punto assolutamente centrale, rimandiamo al cap. 7 di M. CERTEAU, L'Etranger (ou l'union dans fa différence), Desclée de Brouwer, Paris 1969, pp. 179-224, dal significativo titolo Apologie de la différence (Seuil, Paris 2005)
- M. DE CERTEAU, Fabula mistica ..., p. 74.
- «Con corpo intendo l'unità sociale che è costituita da tessuti di pratiche, di ideologie e di quadri di riferimento. Lo specificano dei limiti (iniziazioni ed esclusioni), delle condotte (gerarchizzate secondo criteri di riproduzione e di selezione) e delle convenienze (postulate e manipolate da "strategie" interne). Rinvio così ad una opacità, una singolarità e un vissuto di luogo dove si fabbricano i discorsi della elucidazione, della generalizzazione e del rapporto con ciò che sfugge al vissuto (cioè il dogmatico, il primitivo, il futuro, l'esteriorità, l'assenza). Tra le procedure sociali che rendono possibile e che controllano i discorsi e le produzioni discorsive relative a ciò che manca al presente, c'è una permanente tensione che fa la vita del corpo. Lo squilibrio comincia quando una defezione delle pratiche che organizzano uno spessore del presente crea un sovrappiù di discorso. Al limite, non c'è altro che discorsi, un corpus - corpo morto, testo del corpo assente» (nota di M. de Certeau).
- M. DE CERTEAU, Debolezza del credere..., pp. 281-282.