Formazione Religiosa

Domenica, 02 Gennaio 2011 20:16

Teologia dell'Antico Testamento. Cap. 6. Le istituzioni politiche e sociali

Vota questo articolo
(2 Voti)

Il fatto che la politica e la società dovessero essere formalmente religiose non era tipico soltanto di Israele, anche se speriamo di riuscire a dimostrare che Israele aveva un modo suo proprio di associare la religione alla politica e alla società.

Teologia dell'Antico Testamento

Cap. 6

Le istituzioni politiche e sociali

Il fatto che la politica e la società dovessero essere formalmente religiose non era tipico soltanto di Israele, anche se speriamo di riuscire a dimostrare che Israele aveva un modo suo proprio di associare la religione alla politica e alla società.

L’uomo del Medio Oriente antico era membro di una società soltanto, se si trattava di una società tribale, e di due società, la famiglia e il regno, se si trattava di società politica. Tutte le relazioni sociali rientravano in quest’unica o in queste due società; e per quanto riguarda il nostro argomento, la società politica e quella religiosa. Si pensava che avesse un fondamento religioso negli atti degli dèi e che fosse religiosamente sostenuta dalla loro protezione. In quanto società, era un gruppo cultuale. L’ortodossia non veniva imposta dal potere  politico o dalla pressione sociale; semplicemente, gli uomini non avevano mai conosciuto o pensato ad una organizzazione sociale che non fosse formalmente religiosa.

1. La confederazione tribale

Israele fece la sua prima comparsa nella storia come una lega di dodici (dieci) tribù stanziatesi in Canaan. La maggioranza  dei membri della confederazione israelitica non sarebbero stati degli immigrati, bensì individui e gruppi che avevano lasciato le monarchie feudali delle città-stato cananee, dove erano stati sudditi e schiavi di un’aristocrazia militare di proprietari terrieri fondata su un’autorità regia divinamente istituita. Per qualsiasi aspetto si mettano a confronto la confederazione israelitica e la monarchia Cananea, gli Israeliti appaiono in dura opposizione al sistema cananeo. Sembra che gli Israeliti abbiano dato forma ad una società che costituiva un deliberato rifiuto dei principi fondamentali della società e della religione cananee; e questo nuovo sistema fu posto sotto il patrocinio di Jahweh, un dio completamente nuovo.

Innanzi tutto, gli antichi Israeliti rifiutarono l’autorità di un re, e con essa rifiutarono ogni tipo di autorità pubblica, qualunque essa fosse. La lega era un’associazione puramente religiosa, e in nessun modo politica. Non aveva alcuna struttura né alcuna autorità centrale. L’appellativo “tribale” è esatto non soltanto perché si trattava di una lega di tribù, ma anche perché l’intera struttura era tribale, il che significa familiare. Nessun Israelita poteva esercitare su altri Israeliti quel tipo di autorità che noi chiamiamo “politica”, e che essi conoscevano soltanto nella forma del potere assoluto del re antico. Né poteva esserci un’aristocrazia; nessun israelita era migliore di un altro, né per nascita né per censo. Gli Israeliti rovesciarono le città-stato cananee, ma non le sostituirono con altri stati. Essi crearono un vuoto politico.

Dal punto di vista sociale, ciò significava che la sicurezza del singolo individuo era affidata al suo gruppo di parentela e a nessuna autorità pubblica. L’unione delle tribù in alleanza significò che tutto Israele divenne un vasto gruppo di parentela. Anche se il titolo di go’el (vendicatore) è attribuito raramente a Jahweh nella letteratura antica, l’immagine del Grande Parente che difende la vita, la libertà e la proprietà dei suoi congiunti è molto probabilmente un riflesso di un’idea di Jahweh molto antica.

In questo contesto sociale Jahweh è salutato come il liberatore degli oppressi e il flagello degli oppressori. Gli studiosi dell’Egitto antico fanno notare come le condizioni che i racconti dell’esodo descrivono come la schiavitù degli Israeliti in Egitto fossero le normali condizioni di vita dei contadini egiziani. Gli Israeliti furono i soli ad affermare che la condizione del contadino era degna della compassionevole attenzione di Dio, ed essi soli produssero una società nella quale nessuno stava al di sopra di un altro.

Il vuoto politico creato dal rifiuto dell’autorità di un re fu colmato da Jahweh. La sottomissione di Israele alla legge dell’alleanza di Jahweh non lasciava spazio per un’autorità umana.

Sembra chiaro che la teologia israelitica del possesso della terra si basasse sulla donazione da parte di Jahweh, il signore.

È possibile che il racconto della divisione della terra (Gs. 13-19), che on può essere storico, sia costruito sul concetto di “sorte”. In pratica, la terra restava nell’ambito del gruppo di parentela. Se il proprietario non poteva tenere la terra, il parente più prossimo aveva l’obbligo di acquistarla. L’obbligo o l’opzione passava attraverso i vari gradi di parentela finché non si fosse trovato un compratore.

Per quanto riguarda la guerra santa dobbiamo dimostrare  in che modo essa può essere considerata come il servizio dovuto al Signore da parte del vassallo in cambio del dono della terra. La guerra santa era combattuta soltanto in difesa della terra di Jahweh; e questa limitazione si adatta perfettamente al modello del servizio feudale. La guerra santa è combattuta anche da Jahweh, che ne è il più grande guerriero; gli israeliti non sono altro che le sue truppe ausiliarie, e la vittoria è assicurata.

Il singolo membro della tribù non si sentiva sicuro se non nella tribù stessa. Per l’Israelita, la tribù comprendeva il Grande Parente, Jahweh. In corrispondenza alla sicurezza collettiva c’era la colpa collettiva; le infrazioni commesse da membri della tribù si ripercuotevano anche su quei membri che non avevano avuto alcuna parte alle infrazioni stesse.

Un esempio, per così dire, classico di colpa collettiva è rappresentato dall’esecuzione di Achan e di tutta la sua famiglia per il furto di oggetti votati all’anatema a Gerico (Gs. 7). A noi non interessa la realtà storica dell’avvenimento, ma la credenza che esso esprime: l’intera famiglia doveva essere giustiziata per il crimine del suo capo. È la stessa logica che soggiace alla distruzione totale di Gerico, Ai e altre città. Il gruppo mantiene buone relazioni con Jahweh soltanto se conserva la sua integrità. La santità di Jahweh non tollera sbandamenti individuali. Non ha alcuna importanza che il gruppo sia o non sia consapevole se uno dei suoi membri si è traviato. L’uso del sorteggio per scoprire il colpevole è tipico del pensiero primitivo (…). Il pensiero primitivo, però, ha una logica sua propria. Nella concezione originaria del sorteggio, il singolo individuo non veniva punito; qualcuno doveva portare la colpa del gruppo, e poiché era indifferente che fosse una persona piuttosto che un’altra, si poteva ricorrere al sorteggio.

Il pensiero tribale primitivo, che impone l’espiazione tramite il sorteggio come un servizio comunitario, è convinto di punire il colpevole – la comunità – e non l’innocente – infatti, dare la propria vita per la comunità non è considerato una punizione.

La credenza primitiva nella colpa collettiva con va confusa con una più recente teoria, sbagliata, secondo la quale il criminale è la società, mentre l’effettivo esecutore del crimine è innocente, vittima anche lui. La comunità era colpevole soltanto perché il singolo colpevole sopravviveva in seno ad essa, e non doveva essere molto importante che egli fosse o non fosse punito, dal momento che la sua identità era sconosciuta. Era dovere della comunità o trovare lui o offrire un sostituto.

La lega delle tribù fu la prima – e finora l’ultima – comunità  umana ad essere considerata dai suoi membri come una comunità istituita da un atto divino diretto e positivo, con tutte le risorse necessarie ad assicurare una vita pienamente umana a ciascuno dei suoi membri. Avendo rifiutato la monarchia, si presentava come una comunità non-politica. L’Israele primitivo credeva che le strutture politiche si fossero interposte tra l’uomo e Dio. Esso sostituì le strutture politiche con l’anarchia politica, confidando che Dio avrebbe compiuto il necessario nei momenti di crisi. Nella vita quotidiana, nulla era previsto che andasse al di là della competenza degli anziani del villaggio e della tribù. Fin quando gli anziani amministravano la giustizia secondo la legge dell’alleanza, il membro della tribù non aveva nulla da temere.

2. La monarchia

Il racconto biblico delle origini della monarchia israelitica si trova in 1 e 2 Samuele. Accetto l’ipotesi che questi libri siano stati composti dagli scribi di David per spiegare in che modo il monarca scelto da Jahweh avesse ottenuto il trono del popolo di Jahweh e vi si fosse insediato.

L’importanza della monarchia per il messianismo del N.T. non ha bisogno di essere dimostrata. Anche se Gesù non rientrava esattamente  in nessuna categoria giudaica, le numerose allusioni alla sua discendenza da David dimostrano che molti dei suoi contemporanei e molti dei primi cristiani lo consideravano come il Messia davidico. È significativo che Gesù stesso non abbia mai rivendicato questo titolo in modo certo. Nell’unico passo in cui si afferma che egli accettò il titolo di re (Gv. 18,33-37), Gesù definisce la sua regalità in termini puramente religiosi e non-politici; l’affermazione è fatta in un contesto nel quale Gesù è l’espressione stessa dell’impotenza. La regalità davidica, se esaminata più da vicino, in nessun modo si adatta al ruolo di Gesù.

A questo punto si potrebbe far osservare che la confederazione delle tribù, anche se si dimostrò ben presto un fallimento, deve ugualmente essere considerata come un’esperienza autentica di Jahweh.

Abbiamo già fatto notare come la confederazione tribale fosse una società non-politica. È se non altro una congettura legittima ritenere che questo rifiuto di un sistema politico sia stato intenzionale e non una semplice coincidenza. L’intenzionalità di tale rifiuto sembra essere espressa dalle parole degli Israeliti in 1Sam. 8,5, quando chiedono «un re che ci governi come tutte le genti». Lo scriba che scrisse ciò era ben cosciente che la monarchia assimilava Israele alla società Cananea, quella società che la confederazione delle tribù aveva respinto. Anche se non siamo certi che queste parole siano state scritte nel periodo della fondazione della monarchia, sembra che l’atteggiamento che esse esprimono fosse abbastanza comune nell’Israele premonarchico. Questo versetto è un esempio della «corrente antimonarchica» nelle tradizioni concernenti l’istruzione della monarchia. Questa corrente  è rappresentata da 1Sam. 8 e 1Sam. 10,17-27. Si potrebbe aggiungere, per il carattere teologico, se non per le origini letterarie o per lo stile, la legge del re di Dt. 17,14-20.

La critica letteraria ha generalmente collocato questi passi nel tardo periodo monarchico e li ha interpretati come un riflesso dell’infelice esperienza di Israele e Giuda sotto molti dei loro re. Non si può contestare che questi passi, specialmente quelli così espliciti come 1Sam. 8, siano storia accaduta, e non predizioni. Fu proprio il fatto di credere che l’esperienza di Jahweh si facesse nelle istituzioni della confederazione tribale che portò gli Israeliti a pensare che non fosse possibile farla nelle istituzioni monarchiche.

In opposizione alla corrente anti-monarchica stava la «corrente filo-monarchica», cui si fa riferimento in 1Sam. 9,1-10,16. Questa è stata spesso chiamata la «fonte primitiva».

Facciamo notare che, nonostante 1Sam. 8,5, Saul non si presenta come «un re come tutte le genti». Delle due funzioni del re antico, la guerra e la legge, l’ultima non ha alcuna parte nell’attività di Saul, stando ai testi biblici. La legge era affidata agli anziani della tribù e alle assemblee tribali. Saul viene descritto come un capo militare. Sembra anche che abbia organizzato un corpo di soldati di professione, di predoni; David era uno di questi predoni, come vedremo.

È evidente che l’insediamento alla testa del popolo di Jahweh di un generale richiedeva una giustificazione teologica. Le soluzioni che il testo ci propone sono l’elezione divina del monarca e il suo potere carismatico. L’elezione o l’approvazione divina del monarca era così comune nella geopolitica del Medio Oriente antico che non è neppure necessario citare dei paralleli tratti dalle iscrizioni. Il re era ritenuto l’uomo di Dio. Nei racconti filo-monarchici, la scelta di Dio viene comunicata a Samuele attraverso una rivelazione (1Sam. 9,16). Nel racconto anti-monarchico, il candidato viene scelto per sorteggio (1Sam. 10,17-27). Questo non significa che il sorteggio abbia valore di oracolo; l’autore vuole dire che non importa  chi sia scelto re. Egli non credeva che il re fosse di elezione divina. L’affermazione dell’elezione divina faceva parte del rituale dell’incoronazione.

Il potere carismatico del re non ha chiari paralleli nelle altre fonti medio-orientali. Il termine di «capo carismatico» è diventato un luogo comune nella teologia dell’A.T. ed è stato coniato da Max Weber. In senso lato comprende Mosè, Giosuè e i profeti. Più precisamente comprende quegli uomini che hanno ricevuto lo spirito di Jahweh, perché è in questo senso che gli Israeliti intendevano carisma.

Quando Jahweh emette il suo soffio sopra un uomo, questi è ispirato a compiere l’inverosimile e l’imprevedibile, a raggiungere improvvisamente le più alte vette del successo personale, senza alcuna proporzione con le sue possibilità o con le normali possibilità umane. Nel libro dei Giudici, lo spirito di Jahweh va e viene come il vento. Nel re diventa un possesso permanente. Il rito attraverso il quale veniva conferito lo spirito era l’unzione, e questo avvenne sia per Saul (1Sam. 9-10) sia per David (1Sam. 16). Si dà il caso che nessuno di questi capitoli sia rigorosamente storico. Senza dubbio, è con David che il rito carismatico dell’unzione acquistò la sua importanza; ma in quanto giustificazione teologica e rituale della regalità, non si può negare che sia stato usato anche per Saul. Di nuovo, il racconto anti-monarchico (1Sam. 10,17-27) non riporta la cerimonia dell’unzione. Dal momento che il re non era scelto da Jahweh, non poteva ricevere lo spirito di Jahweh.

A questi due elementi primitivi presenti nei libri di Samuele dobbiamo aggiungerne un terzo, l’alleanza di Jahweh con David e il suo casato. Si trova in 2Sam. 7,5-16, strettamente imparentato col Sal. 89,19-37, che molto probabilmente è una forma poetica del testo in prosa di 2Sam 7. Lo stesso tema ricorre in Sal. 132,11-18 e in 2Sam. 23,5-7; questi due ultimi passi sono importanti, perché in essi è presente la parola “alleanza”. In tutti questi passi, viene promessa a David una dinastia eterna, la cui eternità non è condizionata neppure dalla fedeltà dei suoi discendenti alla volontà di Jahweh. Ovviamente il profeta andò al di là delle possibilità della storia; la dinastia di David finì nel 587 a.C. e non fu restaurata. Non c’è possibilità di un “compimento” di questa alleanza se non nel messianismo cristiano, ma non credo che questa sia un’interpretazione legittima dell’oracolo. L’eternità dell’alleanza di David è l’eternità dell’alleanza di Jahweh con Israele; solo che di questa alleanza David è diventato il mediatore.

L’alleanza con David e il suo casato corrisponde alla posizione cultuale del re in altri paesi del Medio Oriente antico – con alcuni limiti, è evidente; il re di Gerusalemme non era un dio, come invece era il re d’Egitto.

L’alleanza con David esclude un’alleanza con il regno di Israele dopo lo scisma dei due regni, e le scarse testimonianze letterarie provenienti dal regno di Israele non ci permettono di stabilire come sia stato risolto questo problema. E neppure sappiamo come il regno di Israele dopo Roboamo fosse fondato teologicamente.

Il carattere sacramentale del re era manifestato nel rito dell’intronizzazione. Questo rito viene descritto soltanto per Salomone (1Re 1,32-40) e Joash (2Re 12,9-12). De Vaux elenca tra le componenti del rito il santuario, l’investitura con le insegne, l’unzione, l’acclamazione, l’intronizzazione e l’omaggio. Abbiamo detto che le due caratteristiche del re, l’elezione divina e lo spirito carismatico, venivano conferite ritualmente.  Il Sal. 2,6-7 fa pensare che la dichiarazione di elezione divina fosse una dichiarazione di adozione divina. Israele viene chiamato qualche volta figlio di Jahweh (per es., Os. 11,1), ed è possibile che l’adozione, analogamente all’alleanza, sia passata da Israele al re davidico. In ogni caso, l’adozione del re di Gerusalemme ((cfr. anche Sal. 89,26-27) è chiara.

L’adozione di un singolo uomo, re (chiamata personalità corporativa) contrasta con il rigido monoteismo israelitico molto più che non l’adozione di un popolo. Il re non era semplicemente un rappresentante o un mediatore; egli incorporava effettivamente nella sua persona la totalità d’Israele, col quale Jahweh  ora entrava in relazione attraverso il re. L’adozione non innalza il re al di sopra del livello degli altri uomini (2Sam. 7,14). Egli è ancora soggetto al giudizio. Egli non riceve attributi sovrumani e neppure attributi da eroe. In 2Sam. 7 e nel Sal. 89 l’accento non cade sulle qualità divine, ma sulla permanenza dell’amore di Jahweh sancito dall’alleanza, è un amore che non cessa mai, come quello di un padre per suo figlio. Le qualità che si desiderano in un re non vengono dall’adozione, ma dallo spirito carismatico.

Il rito attraverso il quale veniva conferito lo spirito era l’unzione. Il re è l’Unto di Jahweh, il Messia. Evidentemente questa sacralità non impediva al re di venire assassinato; a questo scopo esisteva la guardia del palazzo reale, che offriva al re una protezione migliore di quanto non facesse la sua sacralità.

Abbiamo una raccolta di 10 poemi: è degno di nota il fatto che questi poemi contengono un certo numero di temi ricorrenti. Il re è un sovrano e un giudice giusto (Sal. 72; 18; 118; 2Sam. 23), il difensore del povero e dell’indifeso (Sal. 72; 101), un governante di integra moralità (Sal. 101; 18), colui che punisce il crimine (Sal. 101). Attraverso di lui,  Jahweh assicura ad Israele la vittoria sui suoi nemici (Sal. 72; 132; 89; 18; 118; 2; 110; 21; Gen. 49,8-10; Num. 24,17-19; 2Sam. 23); questo tema ricorre in quasi tutti i poemi e presenta la guerra come una delle funzioni del re. Il suo regno porta la prosperità, della quale egli è, almeno implicitamente, il mediatore (Sal. 72; 132; Gen. 49,11-12; 2Sam. 23). Egli ha ricevuto lo spirito (2Sam. 23). Le sue speciali relazioni con Jahweh sono definite come giuramento e promessa di una dinastia esterna (Sal. 132; 110), come alleanza (2Sam. 23; Sal. 89; 110), come elezione (Sal. 89) e come benedizione (Sal. 21). Come Jahweh ha scelto David, così ha scelto Sion, il sito del palazzo e del tempio, come luogo della sua residenza (Sal. 132). Da questi temi emerge una coerente teologia della monarchia.

Due conseguenze del sistema monarchico meritano di essere segnalate; il sorgere di una classe dirigente e il crescere di una classe di proprietari terrieri.

La classe dirigente era la classe dei funzionari e degli amministratori regi, chiamati generalmente sarim. Nella confederazione tribale, le città e i villaggi erano amministrati dagli anziani, i capifamiglia adulti maschi. I sarim erano funzionari regi, non necessariamente membri delle comunità che amministravano.

La corruzione della giustizia sotto l’amministrazione regia è deplorata da molti profeti (Am. 5,12.12; Mic. 2,8-9; 3,1-3.9-11; Is. 1,23; 3,13-15; 10,1-2; Sof. 3,3; Ger. 5,26-29). Gli stessi profeti testimoniano del sorgere di una classe di proprietari terrieri e del crollo dell’antico sistema israelitico, con l’acquisizione da parte della classe dirigente di vaste estensioni di terra, La massa degli Israeliti era ridotta alla condizione di contadini sempre pieni di debiti (Am. 2,6-7; 4,1; 5,11-12; Mic. 2,2; Is. 5,8-10).

Insistiamo su queste considerazioni, che sono più sociologiche che non teologiche, perché questi passi dimostrano che cosa avesse prodotto la teologia regale-messianica di Gerusalemme, che noi troviamo nei Salmi. Ci fanno vedere che cosa realmente fosse il Re Salvatore, sul quale era sceso lo spirito. Abbiamo qui una teologia al servizio della politica, anzi di una politica di bassa lega. A prescindere da quello che è stato il futuro del concetto di Re Messia, per i regni di Israele e Giuda esso non diede alcun risultato positivo, da nessun punto di vista.

3. La comunità della legge

Le guerre e le conquiste degli imperi Assiro e Babilonese posero fine alla vita politica di tutti i piccoli regni e città-stato del Medio Oriente antico. Ciò che accade  al regno di Israele e al regno di Giuda non è diverso da ciò che accade ai regni di Ammon, Moab ed Edom, ai regni arami come quello di Damasco e alle città-stato fenici. Il destino di Israele e Giuda non era assolutamente diverso da quello dei loro vicini. E se è vero che ci fu una continuazione di Israele e Giuda, non è forse altrettanto vero che anche i vicini di Israele ebbero dei continuatori? Certo, è così; ma per quanto ci è dato di conoscere, nessuno di essi assunse la forma particolare che assunse il Giudaismo palestinese; infatti, dalla restaurazione in poi, è giusto parlare di Giudaismo, di popolo giudaico e di religione giudaica. Questa comunità restaurata segnò una rinascita di quella esperienza comunitaria di Dio documentata nei più antichi libri dell’A.T.

La conquista babilonese di Giuda, terminata con il saccheggio di Gerusalemme nel 587 a.C., aveva causato gravi danni alla città e alle campagne di Giuda. Non sarebbe esatto pensare che il paese fosse ridotto ad un deserto inabitato; ma non si deve neppure sottovalutare la capacità delle antiche tattiche militari di recare danni permanenti alle abitazioni, all’agricoltura, all’artigianato e al commercio. Non c’è motivo di dubitare della tradizione biblica, secondo la quale Gerusalemme fu un ammasso di rovine disabitate dal 587 al 537 a.C., data della sua nuova colonizzazione.

La ricolonizzazione di Gerusalemme fu iniziata da un gruppo di Giudei babilonesi, con l’appoggio e l’assistenza del governo persiano, negli anni 538-37 a.C., durante il regno di Ciro il Grande. Il racconto di Esd. 1,1-3,7 riferisce che il gruppo degli esuli entrò come in un vuoto. Senza la panoplia della conquista, che la realtà storica non permetteva per la restaurazione l’insediamento della comunità di Gerusalemme era la restituzione da parte di Jahweh del dono che egli aveva un tempo fatto agli antenati. Si trattava di una restituzione minima, perché la nazione era stata sottoposta ad un giudizio e ad una punizione severa per i suoi peccati. Ma questo modesto inizio fu certamente interpretato da alcuni come ricco di promesse. Dal racconto di Esdra non si deduce che gli abitanti della nuova Gerusalemme si considerassero protagonisti di un nuovo esodo. Quello che ci dice Esdra è che essi avevano un preciso incarico da parte di Ciro di stabilirsi in Gerusalemme e ricostruire il tempio, dove si potessero offrire le preghiere per Ciro.

L’effetto dell’atto di Ciro fu di creare una comunità cultuale. Quello che in definitiva emerse fu molto di più di una comunità cultuale, e fu il prodotto del pensiero teologico non meno che del processo storico. Sfortunatamente, il Cronista cui noi dobbiamo i libri di Esdra e di Neemia non era contemporaneo agli avvenimenti; forse scrisse addirittura verso il 250 a.C. Ed anche se riporta documenti contemporanei agli avvenimenti, il fatto che, come sostengono unanimemente tutti gli studiosi moderni egli abbia confuso tra loro la cronologia di Esdra e di Neemia basta a gettare grossi dubbi sulla sua comprensione dei fatti che riferisce. Per di più è chiaro che è tendenzioso.

Abbiamo già detto che il suo racconto implica che il paesaggio fosse completamente deserto. Ma la realtà storica lo costringe ad abbandonare questa funzione. Sia Neemia (13,23ss.) sia Esdra (capp. 9-10) condannano i matrimoni misti con donne che non fossero della «stirpe santa» (Esd. 9,2). Le «donne straniere» sono identificate in Esd. 9,1 come donne dei «Cananei, Hittiti, Ferezei, Gebusei, Amminiti, Moabiti, Egiziani e Amorrei». Si tratta evidentemente di una lista non storica, tratta dal Pentateuco e dal libro di Giosuè. In Ne. 13,23 si parla di donne di Ashdod, Ammon e Moab; questo versetto non contrasta così palesemente con la storia come quella di Esdra. Se esaminiamo la lista genealogica degli esuli ritornati (è data due volte, in Esd. 2,1-70; Ne. 7,6-73), vediamo che incomincia ad emergere un modello. Il gruppo degli esuli affermava che essi, ed essi soltanto, erano la «stirpe santa», il resto del vero Israele, gli eredi viventi del popolo eletto. Sanballat e Tobia ed altri che non sono nominati erano discendenti degli Israeliti e dei Giudei che non erano stati deportati da Nabucodonosor. Essi erano definitivamente esclusi dall’appartenenza alla «stirpe santa». In questa disputa scorgiamo i precedenti dello scisma samaritano; e scorgiamo in modo ancora più chiaro la definizione della «stirpe santa», del popolo di Jahweh, del popolo eletto, come un gruppo puramente etnico. Non è possibile dire in quale misura questo ideale si sia concretamente realizzato nelle Gerusalemme post-esilica; però che sia stato proposto e vagheggiato sembra fuor di dubbio.

È altrettanto fuor di dubbio che la comunità cultuale, che tendeva ad un’ideale purezza etnica escludendo tutti all’infuori degli esuli da Babilonia e dei loro discendenti, non formò un gruppo sociale compatto. La storia della comunità dopo la ricostruzione del tempio nel 515 a.C. è abbastanza oscura, ma tutto fa pensare ad un lungo periodo di difficoltà e di avversità. La necessità cui venne incontro Neemia nel 445 a.C. non è molto chiara. Egli si servì della sua personale influenza presso Artaserse I per farsi nominare governatore di quella che era la nuova provincia di Giuda, recentemente istituita. La sua impresa più celebrata, la ricostruzione delle mura di Gerusalemme, non risolse realmente i problemi della comunità

Il passo successivo e decisivo fu fatto sotto la guida di Esdra. Esdra era «uno scriba versato nella legge di Mosè (Esd. 7,6) che si era dedicato allo studio e all’insegnamento della legge di Jahweh (Esd. 7,10). Venne a Gerusalemme in missione speciale da parte del re (Esd. 7,12-26). In questo documento Esdra viene chiamato «scriba della legge del Dio del cielo» (Esd. 7,12). È interessante notare che la missione di Esdra, come la ricostruzione del tempio, fu compiuta su incarico del governatore imperiale persiano.

Le frasi conclusive del documento (Esd. 7,25-26) impongono le «leggi del tuo Dio» a tutto il popolo della provincia «Al di là del fiume»; si intende, ovviamente,, ai Giudei della provincia. Esdra aveva il potere di nominare magistrati che amministrassero la giustizia secondo questa legge e insegnassero questa legge a chi non la conosceva. Erano previste sanzioni pienamente legali, compresa la pena di morte, per le infrazioni. Il Cronista ha collocato fuori posto la missione di Esdra in Ne. 8, ed ha associato Neemia alla promulgazione. Esdra lesse l’intera legge davanti all’assemblea. La prima presentazione durò due giorni; la lettura fu quindi interrotta per celebrare la festa  delle Sukkoth, e riprese poi durante la settimana della festa. Man mano che la legge veniva letta, i Leviti la spiegavano, cioè molto verosimilmente ne facevano una parafrasi in aramaico.

Due sono le domande che nascono da questo racconto: che cos’era la legge che Esdra lesse, e come fu prodotto il testo? Il racconto non permette una ragionevole valutazione della quantità del materiale. Dovevano essere tutti i cinque libri di Mosè, o una parte di essi; che fossero tutti, sembra molto improbabile e questa ipotesi non è sostenuta da nessuno. Se invece era soltanto una parte della Torah, sorge il problema critico se la redazione finale della Torah fosse già stata completata nel 400 a.C. In caso affermativo, sarebbe stata composta tutta quanta a Babilonia. Se Esdra lesse soltanto una parte della Torah, quale parte scelse e in base a quali criteri? Se si accetta l’ipotesi che Esdra abbia letto soltanto la “legge”, ci dobbiamo ancora chiedere quanta parte delle leggi del Pentateuco contenesse la sua collezione.

Il problema del come sia stata prodotta la legge fa parte del problema dell’origine letteraria del Pentateuco. Abbiamo visto che il racconto di Esdra, se preso su serio, implica che il documento che egli promulgò, a prescindere dal suo contenuto, sia stato prodotto in Babilonia e ulteriormente elaborato in Palestina. Nella nostra prospettiva, l’importante è che con Esdra compare per la prima volta il concetto di legge come compendio di tutta quanta la rivelazione divina e come guida esaustiva per condurre una vita in armonia con la volontà rivelata di Jahweh.

Il carattere cultuale della comunità di Gerusalemme è dimostrato dal fatto che il sommo sacerdote era il funzionario che intratteneva i rapporti con il governo persiano. L’opera di Esdra creò la classe degli scribi, i dottori della legge, così noti al lettore dei Vangeli. Non rivestivano una carica ufficiale; ma la loro influenza non ufficiale era molto grande, perché essi erano gli interpreti della volontà rivelata da Jahweh. L’ideale dello scriba come studioso e uomo influente, sia nel governo che nella vita quotidiana, è espresso in Sir. 39,1-11. Gli scribi ebbero un’importanza di gran lunga maggiore di quella dei sacerdoti nel determinare le caratteristiche del giudaismo postesilico. Il Cronista non fa alcuno sforzo per rivestire il suo racconto di meraviglioso. Il miracolo fa parte del passato. Un tempo Jahweh aveva dato la legge al suo popolo tra tuoni e lampi; la stessa legge ora veniva letta da uno scriba ne cortili del tempio. Tra Mosè sul Sinai ed Esdra a Gerusalemme ci sono secoli di peccato e di giudizio. La comunità postesilica accolse la legge con un profondo senso di colpa, che invece i suoi antenati non avevano. La legge era un segno che l’alleanza con Israele perdurava, al contrario dell’alleanza con David. La legge veniva data ad una comunità che non avrebbe avuto un posto importante tra le nazioni; era una piccola provincia di un grande impero, senza potere di autodeterminazione. Ogni anno celebrava i suoi riti di penitenza e le sue invocazioni di perdono. La fedeltà alla legge l’avrebbe protetta dalla colpa nella quale erano incorsi i suoi padri. Da questi sentimenti nacque il lungo e noioso Sal. 119, che può essere letto con partecipazione soltanto di chi, come la comunità postesilica, veda nella legge la salvezza. Con più grande sensibilità letteraria la legge è celebrata nel Sal. 19,7-14 come vita, sapienza, gioia e luce. Gli scribi posteriori identificarono la sapienza con la legge, personificata come un essere pre-esistente che ha scelto di stabilirsi sulla terra in Israele (Sir. 24).

L’impresa di Esdra consistette nell’istituzione, per la prima volta nella storia, di una comunità religiosa.

L’esperienza di Dio nella comunità postesilica era mediata da un documento dotato di valore normativo, nel quale la volontà di Dio si era cristallizzata e aveva assunto una forma definitiva. Era un’esperienza di sicurezza; nessun Giudeo avrebbe più potuto avere alcun dubbio su quella che era la volontà di Dio. Non si trattava più di promessa e compimento, ma di compimento puro e semplice. Nella Torah, Jahweh aveva dato ad Israele tutto quello che doveva dargli.

Letto 3938 volte
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search