Formazione Religiosa

Mercoledì, 02 Giugno 2010 18:59

Teologia dell'Antico Testamento. Cap. 3 La storia

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Le tre religioni storiche sperimentano Dio nella storia, invece che nella natura.  Il termine storia viene usato in due sensi: sia come avvenimento sia come documento di avvenimenti; per esperienza di Dio nella storia intendiamo esperienza di Dio negli avvenimenti; ma parlando di teologia della storia nell’A.T. intendiamo la teologia del documento degli avvenimenti.

Teologia dell'Antico Testamento

Cap. 3

La Storia


1. Osservazioni generali

È stato detto che le uniche religioni storiche sono il Giudaismo, il Cristianesimo, l’Islam; tutte le altre religioni sono mitologiche, sono, cioè, religioni della natura. Le tre religioni storiche, invece, sperimentano Dio nella storia, invece che nella natura.  Il termine storia viene usato in due sensi: sia come avvenimento sia come documento di avvenimenti; per esperienza di Dio nella storia intendiamo esperienza di Dio negli avvenimenti; ma parlando di teologia della storia nell’A.T. intendiamo la teologia del documento degli avvenimenti.

Una coscienza della storia, intesa come carattere storico degli avvenimenti, e la capacità di scrivere la storia, documento degli avvenimenti, rappresenta per l’umanità l’eccezione piuttosto che la regola. Soltanto una parte esigua della razza umana ha lasciato documenti scritti della propria storia e, inoltre, questi documenti sono recenti, risalendo soltanto al terzo millennio a.C.. Con coscienza della storia intendiamo la percezione che una serie di avvenimenti formi un’unità intelligibile. La mancanza di questa  percezione portò i filosofi greci a negare che la storia fosse una scienza; secondo loro, la scienza riguardava soltanto l’universale. Della persona singola, dell’oggetto e dell’avvenimento singoli si poteva avere l’esperienza, non la comprensione. Questi filosofi non sbagliavano del tutto; infatti, la comprensione storica non è dello stesso tipo di quella che comunemente si chiama “scientifica”, e comprende sempre una parte di quella oscurità che è caratteristica della nostra esperienza del contingente e del particolare.

Qui ci occupiamo in primo luogo del modo tipicamente israelitico di interpretare la storia di Israele come storia del suo incontro con Jahweh. Nessuno storico moderno potrebbe considerare una storia simile come rientrante nell’ambito della ricerca storica. Se gli antichi scribi di Israele avessero saputo che cos’è la ricerca storica, sarebbero stati completamente d’accordo con questo giudizio. Avrebbero capito più facilmente la definizione che G. Ernst Wright dà della loro opera: «teologia biblica come racconto». Essi non si proponevano di comporre la storia di Israele, ma il racconto delle gesta di Dio, e vanni letti nei termini delle loro intenzioni e del loro obiettivo. La fede che Dio si incontra negli avvenimenti non è un presupposto della storiografia israelitica; ne è piuttosto l’obiettivo, per proclamare le gesta di Dio.

La storia di Israele fu un’affermazione dell’identità di Israele, che era essere il popolo di Jahweh. Tra Israele e Jahweh c’era un rapporto speciale, che non divideva con nessun altro popolo.

Il rapporto di Jahweh con Israele doveva avere uno scopo. Questo scopo non venne inteso in modo univoco nel corso della storia di Israele. Non tutti gli scrittori biblici avevano lo stesso grado di comprensione illuminata. Per le nostre considerazioni non è tanto importante la comprensione dello scopo di Jahweh quanto piuttosto il fatto che si credesse che gli atti di Jahweh avessero uno scopo, anzi, il fatto che i documenti della storia di Israele non rivelassero altro scopo all’infuori di quello di Jahweh.

Questo porta alla concezione lineare della storia, opposta alla concezione ciclica, questa propria del pensiero greco, legata alla concezione aristotelica, che afferma che la storia si ripete e ritorna al punto di origine. Nel pensiero biblico la storia è un Adesso singolo, unico e irripetibile. L’azione di Dio si verifica una volta sola, perché egli è uno e non ha bisogno di ripetere i suoi atti. La linea deve avere un inizio e una fine; e quindi la Bibbia ha una protologia e un’escatologia, non presenti nella storia greca.

Il lettore moderno della Bibbia si trova in un certo imbarazzo di fronte ad un paradosso che riscontra o nella storiografia biblica o nell’interpretazione moderna o in entrambe. Da una parte, sente dire dagli interpreti che la religione di Israele è una religione storica nel senso che si fonda su eventi storici e non mitologici. Dall’altra, sente dire dagli stessi interpreti che si nota un’enorme libertà nel modo in cui gli autori biblici trattano la storia. Si può risolvere questo paradosso, che effettivamente esiste, distinguendo tra storia come avvenimento e storia come documento.

Israele ebbe una storia profana? La menzione di dèi nelle cronache dell’Egitto e della Mesopotamia dimostra chiaramente che nessun popolo dell’antichità pensava di essere protagonista di una storia “profana”. Questa concezione della storia nacque soltanto con i greci; e anche le storie profane scritte da greci agnostici non vanno esenti da una certa moralizzazione. Gli israeliti non avrebbero potuto capire una concezione simile, né avrebbero potuto produrre una tale storia profana.

2. Promessa e compimento

I capp. 1-11 della Genesi sono generalmente chiamati storia primitiva o primordiale. Le Genesi raggiunge i tempi storici con Abramo, ed è con lui che incomincia la storia “pre-israelitica” propriamente detta. Abramo, Isacco e Giacobbe sono gli antenati dell’Israele storico, e in effetti Giacobbe riceve il nome di Israele come secondo nome. I dodici figli di Giacobbe sono gli antenati eponimi delle dodici tribù di Israele. Questa storia è chiamata “pre-israelitica” perché i narratori non presupponevano in nessun modo che esistesse una comunità nazionale o tribale chiamata “Israele” in questo periodo primitivo.

Questi antenati sono presentati come pastori seminomadi. Dagli inizi della storia fino ai tempi moderni, il Medio Oriente ha conosciuto la distinzione tra il deserto, abitato da pastori nomadi, e le regioni coltivate, abitate da contadini e ricche d’insediamenti urbani. La differenza tra i due tipi di popolazione non è etnica, ma culturale. Il nomade si sente libero; il contadino si sente sicuro. Il nomade crede che il contadino sia uno schiavo; il contadino pensa che il nomade sia un bandito famelico.

Non c’è dunque niente di straordinario nel fatto che Israele ricordasse i propri antenati come pastori nomadi. È invece straordinario il fatto che i patriarchi non siano collocati fuori di Canaan, ma al suo interno. Abramo, è vero, è presentato come un immigrato proveniente da Harran; questo farebbe di lui un Amorreo (probabilmente); egli però non è identificato come tale. Esiste una tradizione che presenta Giacobbe come immigrato, ma questa immigrazione è presentata come il ritorno da un lungo soggiorno in Mesopotamia. Un’altra tradizione relativa all’immigrazione, è quella dell’ingresso di tutto Israele in Canaan sotto la guida di Giosuè.

Gli storici moderni sono quasi certi che i rapporti genealogici tra Abramo, Isacco e Giacobbe sono artificiali.

Ciascuno di loro è riconosciuto come l’antenato leggendario di alcuni dei gruppi che si unirono nella lega tribale di Israele. Questi rapporti artificiali furono istituiti in occasione dell’unificazione letteraria delle tradizioni di Israele.

Le origini di Israele furono molto più complesse dello sviluppo di un unico ramo familiare, consistente in un padre e dodici figli; così complesse che gli storici moderni non sono ancora riusciti a ricostruirle con certezza, neppure in un abbozzo approssimativo.

Non c’è altra ragione che giustifichi l’importanza di Abramo, Isacco e Giacobbe all’infuori del fatto che, del periodo dell’Israele primitivo, si conservò il ricordo di loro soltanto. Altro fatto importante è che siano stati ricordati come abitanti in Canaan; infatti, è proprio questo che permette alla storia dei patriarchi di essere un polo del binomio promessa-compimento. Jahweh promise a ciascuno dei patriarchi una discendenza innumerevole e il possesso della terra nella quale “soggiornavano”. Il termine ebraico gēr, che significa “soggiornante” o, in una traduzione più precisa, “residente straniero”, è usato spesso a proposito dei patriarchi a Canaan. La terra è loro promessa; essi però né la acquistano né la conquistano con le armi.

La promessa di una discendenza numerosa sta ad indicare il ricordo storico di un gruppo ancestrale di piccole entità. Su questo si insiste in modo particolare. I gruppi patriarcali sono sempre una famiglia (comprendente più di una moglie e un gran numero di figli).

È un tema ricorrente nell’A.T. che la fertilità negli uomini, negli animali e nella natura, sia un dono di Jahweh. Di qui l’insistenza sulla promessa di una discendenza numerosa, il cui compimento, come per la promessa della terra, implica un qualche avvenimento o una qualche credenza particolare, che non risultano immediatamente evidenti. Ciò che è evidente è che il tema di promessa e compimento sta alla base della rivendicazione, da parte del popolo di Israele, della terra di Israele. Jahweh ha promesso sia la terra sia il popolo per abitarla; egli è un dio che mantiene la parola, la cui potenza e onestà sono quotidianamente dimostrate dall’esistenza di Israele nella sua terra.

Promessa e compimento occupano gran parte della storia di Israele. La promessa di un figlio è fatta ad Abramo e Sara (Gen. 17); a Manoach e sua moglie (Gdc. 13); ad Elkana ed Anna (1Sam. 1). Davide riceve la promessa di un regno e di una dinastia perenne (2Sam. 7). Isaia Secondo presenta la restaurazione di Israele e di Gerusalemme come il compimento di una promessa (Is. 41,26; 43,1-7.12; 44,7-8; 45,21; 46,10-11; 55,10-11).

Ma l’attributo di fedeltà di Jahweh richiede che egli dichiari la parola alla quale si deve credere. Molti sono i modi in cui Jahweh può dichiarare la sua parola. Se non si crede che Jahweh agisca negli avvenimenti e che la sua azione segua un modello etico e razionale, diventa pressoché impossibile discernere le promesse implicite negli avvenimenti e nei discorsi ispirati.

In tutto il Medio Oriente era presente la divinazione. La divinazione è una pratica superstiziosa fondata sulla credenza che gli dèi, o qualsiasi altra potenza superiore in cui l’uomo creda, rivelino in qualche modo segreto il corso degli eventi futuri. La credenza israelitica nel binomio promessa-compimento non è un tipo di divinazione, ma l’espressione della credenza israelitica secondo la quale Jahweh rivelava ciò che aveva intenzione di fare. Se l’uomo deve rispondere agli atti di Jahweh, egli ha il diritto di conoscere che cosa si deve aspettare da lui.

3. Gli atti salvifici di Jahweh

Gli incontri di Israele con Jahweh ruotano intorno a due poli: salvezza e giudizio. Storicamente, non è del tutto sicuro che la coscienza della salvezza abbia preceduto la coscienza del giudizio; ma nella tradizione letteraria la coscienza del giudizio è situata nell’esperienza del deserto. Il significato della salvezza è illustrato nel modo più chiaro dall’atto salvifico paradigmatico, l’esodo dall’Egitto. L’importanza di questo avvenimento nella storia veterotestamentaria appare chiara dalle numerose allusioni all’esodo che si trovano in tutte le fasi della letteratura. Senza dubbio esso era celebrato nel culto e è molto probabile che i racconti cultuali fossero la forma più antica del racconto dell’esodo.

La forma “standard” di questo racconto si trova in Esodo 7,8-15,21, in una redazione composita JEP. Il Canto di Miriam (Es. 15), composizione chiaramente cultuale, è considerato da parecchi critici moderni come più antico delle fonti J ed  E del Pentateuco. Il contenuto dei racconti deve essersi fissato abbastanza presto. Ciò nonostante, si può vedere come la fonte P abbia accentuato il carattere meraviglioso dell’avvenimento.

Il carattere paradigmatico dell’esodo può essere sintetizzato in questo modo: il bisogno è disperato, e il candidato alla salvezza è senza aiuto. La potenza di Jahweh interviene in  modo tale che le persone salvate non hanno bisogno di fare nulla. La minaccia è particolarmente grave; l’Egitto era una delle grandi potenze del mondo antico, ed Israele affrontò la potenza egiziana proprio nella terra d’Egitto. L’intenzione di salvare è dichiarata non una, ma parecchie volte (Es. 3,16-22; 4,21-23; 7,4-5); l’azione di Dio è priva di significato se non viene riconosciuta come azione di Dio. Le potenze naturali sono deviate dal loro corso normale dalla volontà di Jahweh per produrre effetti meravigliosi e paradossali, dannosi per i nemici e salutari per gli Israeliti.

Il primo atto salvifico è la creazione del popolo col quale Jahweh resterà in alleanza. Nell’esodo Giuda divenne il santuario di Jahweh, e Israele il suo dominio (Sal. 114,1-2). Jahweh portò Israele fuori dall’Egitto e gli fece attraversare il deserto perché potesse prendere possesso della terra dell’Amorreo (Am. 2,10), e durante l’esodo Jahweh “conobbe” Israele soltanto fra tutti i popoli (Am. 3,1-2); vale a dire, riconobbe Israele come suo. Jahweh amò Israele come un bambino e chiamò suo figlio fuori dall’Egitto (Os. 11,1); questo identifica l’Esodo con un atto di adozione. Jahweh è il Dio di Israele dalla terra d’Egitto (Os. 12,9; 13,4), e «ha conosciuto» Israele nel deserto (Os. 13,5). In Mic. 6,4 l’esodo e la liberazione dalla casa di schiavitù sono i primi atti di Jahweh a favore di Israele. L’esodo è il primo atto salvifico anche in Ger. 2,6-7. Il giorno dell’esodo fu il giorno in cui Jahweh “scelse” Israele e si fece conoscere da lui (Ez. 20,5).

In Isaia Secondo la creazione di un popolo nell’esodo costituisce il paradigma del nuovo miracolo che Jahweh compie al tempo del profeta quando restaura Israele. Non c’era speranza nella storia per un popolo che era perito sotto i colpi dei conquistatori Babilonesi. Isaia Secondo considerava il secondo atto salvifico come più prodigioso e paradossale del primo. Era stato Jahweh, creatore di Israele e suo re, che aveva fatto passare Israele attraverso l’acqua e il deserto; ora faceva una cosa nuova (Is. 43,16-21), restaurando il popolo che aveva formato per sé. Nel racconto dell’Esodo (Es. 19,3-6) Jahweh dichiara che Israele, che egli ha liberato dall’Egitto, diventerà suo popolo se ascolterà la sua voce e resterà fedele alla sua alleanza.

Questi testi rappresentano un campione significativo della letteratura veterote­stamentaria sia per quanto riguarda le date, sia per quanto riguarda i generi letterari. Essi stanno ad indicare come Israele fosse cosciente di essere venuto all’essere in seguito ad un atto salvifico di Jahweh. Strettamente parlando, la credenza israelitica secondo la quale Israele venne all’essere come popolo di Jahweh nell’atto salvifico dell’esodo è piuttosto mitologica che storica; le origini di Israele sono sicuramente più complicate, ed è quasi certo che «tutto Israele» non esistesse nel periodo dell’esodo. L’esperienza paradigmatica di salvezza che toccò ad un piccolo gruppo divenne tutt’al più l’esperienza di «tutto Israele» e l’avvenimento in cui «tutto Israele» venne all’esistenza. L’autentico ricordo storico che sta dietro alla credenza deve essere il ricordo dell’instaurazione di uno speciale rapporto tra Jahweh e un gruppo al quale non siamo in grado di dare un nome sicuro.

Ai pericoli del periodo dei Giudici fu messo fine mediante un altro atto salvifico, l’elezione e l’instaurazione della dinastia di David. L’atto salvifico che fece di David un re messianico e di Gerusalemme la sede della presenza di Jahweh nel tempio ebbe vaste e durevoli risonanze sia nel Giudaismo sia nel Cristianesimo. Si potrebbe aggiungere anche l’Islam, che occupò il sacro sito del tempio dal sec. IX d.C. fino al 1967. Qui però non dobbiamo dimenticare che gi scritti veterotestamentari che riguardano questo avvenimento rappresentano piuttosto delle tradizioni giudaiche, e non israelitiche, perché gran parte di Israele si staccò dall’obbedienza alla dinastia di David. Non ne abbiamo delle testimonianze letterarie esplicite, ma molti Israeliti dovettero credere che era stato un atto salvifico di Jahweh a liberarli dalla secolare tirannia di Salomone e di suo figlio. Certamente molti di loro dovettero paragonare questo avvenimento ad un nuovo esodo dalla casa di schiavitù, perché il lavoro forzato, che gli Israeliti chiamavano schiavitù in Egitto, fu imposto da Salomone ai suoi sudditi e divenne l’occasione della ribellione del regno di Israele (1Re 12,1-19).

L’atto che fu ancora più grande dell’esodo fu la restaurazione di Israele dopo l’esilio, che Isaia Secondo descrisse come un nuovo esodo.

Nelle preghiere dei Salmi il fedele, sia che parli per se stesso o per la comunità di Israele, chiede l’atto salvifico, nella speranza, fondata sull’esperienza storica di Israele, che l’atto salvifico sarà compiuto. Ma le motivazioni addotte per la richiesta dell’atto salvifico sono molte e varie. Si può chiedere a Jahweh di salvare semplicemente perché egli è più disposto a salvare che a non salvare; fa parte del suo carattere di essere un Dio che salva. Oppure gli si può chiedere di salvare perché è un Dio generoso e pronto al perdono, che non si lascia distogliere dall’agire nel modo che più gli conviene dal ricordo dei peccati del fedele. Oppure ancora gli si può chiedere di salvare per proteggere la sua reputazione: i pagani potrebbero farsi beffe di lui perché non è fedele alle sue promesse o non è capace di mantenerle. Ogni qual volta l’uomo invoca aiuto dalla divinità, lo fa con la certezza che la divinità ha la capacità e la volontà di aiutarlo.

La credenza nella potenza e volontà di salvezza di Jahweh, presa in se stessa, lascia una prospettiva teologica incerta. Come la credenza nell’elezione, fa di Israele l’oggetto e l’obiettivo principale della volontà salvifica di Jahweh. Di qui la credenza può facilmente diventare un veicolo di egocentrismo etnico e religioso, trasformando il Dio della Bibbia, come hanno fatto notare più volte i non credenti, da Dio dell’umanità in Dio di un popolo o di una setta particolari. Molti antichi Israeliti e alcuni dei loro scribi, infatti, credettero che la potenza e volontà salvifiche di Jahweh fossero dirette esclusivamente a vantaggio del popolo di Israele.

4. La terra di Israele

Ritorniamo qui ad un tema già introdotto: «promessa e compimento». La promessa era costituita da due elementi: una discendenza numerosa e il possesso della terra. Se la discendenza on fosse stata numerosa, il possesso della terra non avrebbe potuto essere garantito. Anche nella letteratura israelitica più antica appare evidente che viene riconosciuta alla terra una grande importanza per la conservazione dell’identità del popolo. Le tribù nomadi non fanno storia: questo è un fatto, anche se è difficile che gli scribi di Israele la pensassero in questo modo. Le tribù nomadi non costruiscono monumenti duraturi. Le società tribali non anno storia perché rifiutano l’avventura. La necessità di un’avventura, come una migrazione, rappresenta una crisi nella vita tribale e viene considerata come un pericolo di estinzione, che non significa la morte di tutti i membri della tribù; spesso significa perdita di identità o in seguito a fusione con altre tribù o per l’assorbimento da parte di comunità civilizzate. Le società tribali possono durare più a lungo delle società civilizzate perché adottano modelli di comportamento sperimentati da generazioni e non assumono i rischi dell’uomo civilizzato. In un confronto diretto, però, la società tribale non può competere con la comunità civilizzata.

Le tradizioni dei patriarchi e l’esodo testimoniano che gli Israeliti erano coscienti che la loro identità sarebbe stata garantita in modo permanente soltanto quando la terra avesse portato lo stesso nome del popolo. L’affermazione che la terra è un dono di  Jahweh è molto frequente nel Deuteronomio. L’espressione: «la terra che Jahweh  ti dà» è una frase stereotipata: Gli Israeliti avrebbero preso possesso di città che non avevano costruito, di case piene di ogni bene che non avevano riempito, di pozzi che non avevano scavato, di vigneti ed oliveti che non avevano piantato (Dt. 6,10-12). Qui bisogna proprio dire che l’autore si è permesso un pizzico di fantasia poetica. Sia l’archeologia dei siti del sec. XIII sia i racconti biblici delle conquiste rivelano che città, case e coltivazioni furono completamente distrutte. Anche se i popoli della terra erano più numerosi e più potenti del popolo di Israele, Jahweh li avrebbe distrutti tutti quanti un po’ alla volta, uno dopo l’altro (Dt. 7,17-24). Il dono della terra non è fatto a motivo della giustizia di Israele; Israele infatti ha già una lunga storia di ingiustizia fin dal deserto (Dt. 9,4-29). Il dono della terra di Israele esclude le terre di Edom (Dt. 2,5), di Moab (Dt. 2,9) e di Ammon (Dt 2,19), che Jahweh ha assegnato a questi popoli così come ha fatto per Israele. All’autore interessa affermare che è Jahweh e nessun altro dio che assegna le terre ai popoli.

Il dono della terra compare anche nei racconti della conquista in Gs. 2,11. Ci sono seri motivi per mettere in dubbio il carattere storico di questo racconto non solo nei dettagli ma anche in generale, e considerare invece questo passo come una ricostruzione basata su ricordi incompleti e vaghi di avvenimenti passati.

Von Rad deduce gli elementi della Guerra Santa sia dalle leggi di guerra del Deuteronomia (capp. 20-21 e 23-25) sia da alcuni racconti di Giosuè e Giudici. Gli elementi principali sono la consultazione dell’oracolo, la dichiarazione solenne da parte dell’autorità religiosa, la guida carismatica, la consacrazione dei guerrieri, il grido di battaglia della Guerra Santa e la legge dello “sterminio”, quella pratica piuttosto orribile di sterminare completamente il popolo sconfitto e distruggere tutto quanto fosse in suo possesso.

La Guerra Santa veniva intrapresa soltanto per conquistare la terra promessa o per difenderla; ogni altra guerra era profana. Inoltre la Guerra Santa era l’unica guerra ala quale potesse essere chiamato «tutto Israele». Ma se la Guerra Santa è intesa come una guerra per la terra che è dono di Jahweh, allora la guerra non è altro che un’estensione di questo dono. Una guerra per il bottino, e in particolare per catturare degli schiavi, il genere di bottino più apprezzato, non era ordinata da Jahweh; non si potevano consacrare degli uomini per una guerra simile, e Jahweh  non avrebbe garantito la vittoria senza combattimento. La pratica della Guerra Santa, secondo Von Rad, non durò oltre il regno di David.

La stessa teologia deuteronomistica, che insiste sul fatto che la terra è un dono di Jahweh, insiste anche sul fatto che la conservazione di questo dono è subordinata alla fedeltà di Israele alla legge rivelata di Jahweh.

Bisogna riconoscere che il dono della terra esercitò un influsso costante, e non solo di natura teologica. La leggenda dell’”Ebreo errante” riflette l’opinione secondo la quale l’ebreo è sempre in esilio. Questo era implicito nel rifiuto da parte degli Ebrei di accettare la cittadinanza nei paesi europei e da parte dei paesi europei di riconoscere gli ebrei come cittadini.

Quando sorse il movimento Sionista, milioni di ebrei lo considerarono come un ritorno nella loro terra, anche se gran parte di essi non aveva l’intenzione di ritornarvi davvero. La costituzione del moderno stato di Israele è interpretata dagli ebrei come un ritorno e una nuova presa di possesso; dagli arabi come un’invasione. La rivendicazione della sovranità da parte di Israele è almeno altrettanto teologica quanto quella che i libri dell’A.T. stabiliscono per la terra. Ma nel mondo moderno, come in quello antico, non c’è spazio nei trattati e nelle convenzioni internazionali per la rivendicazione teologica di un territorio. Nessuna delle due parti ha ancora fatto appello ad una discussione teologica come mezzo per comporre la controversia. Finché non lo faranno, l’antica rivendicazione della propria terra da parte di Israele potrà far scoppiare guerre violente e non affatto sacre.

5. Il giudizio

Nonostante abbiamo posto i giudizi di Jahweh in antitesi con i suoi atti salvifici, un uso frequente, e probabilmente il più antico, della parola intende il “giudizio” come sinonimo di salvezza. Per questo le traduzioni moderne usano una parola diversa da “giudicare” (ad es.. “difendere”). Il giudice è spesso considerato nell’A.T. come il difensore del debole e dell’indifeso. Fare appello al giudizio significa chiedere di essere difesi. Di qui il giudice “giusto” è identificato col giudice che pronuncia un verdetto in mio favore, perché la “mia” causa non può essere che giusta. Il termine “giusto” viene quindi a significare “vittorioso”, e la “giustizia” di Jahweh può essere tradotta in alcuni contesti con «atto salvifico».

L’atto del giudizio deve comprendere la difesa del giusto e la punizione del colpevole.

L’alleanza nelle sue forme più antiche doveva comprendere delle clausole che condizionavano la continuità della benevolenza del signore. L’infrazione di queste clausole autorizzava il signore a togliere la sua protezione o a punire secondo la gravità dell’offesa.. In base all’alleanza, non ci fu mai un momento in cui Israele potesse pensare di essere sicuro in modo assoluto e incondizionato dell’appoggio di Jahweh. Ma non è possibile affermare che l’alleanza di Jahweh con Israele non fosse condizionata moralmente fin dall’inizio. Quindi Israele era esposto al giudizio secondo i termini stessi dell’alleanza.

Geremia fu minacciato di morte per aver annunciato il giudizio sul tempio. È alquanto sorprendente constatare come negli ultimi anni di Isaia e in quelli di Geremia e di Ezechiele questa falsa sicurezza non solo si sia conservata, ma sia addirittura aumentata. Eppure il regno di Giuda aveva evitato l’estinzione di giusta misura, mentre il più vasto e più potente regno di Israele era stato annientato dagli Assiri.

Amos, in effetti, non si rivolge al regno di Giuda. Molto probabilmente egli parlò del regno d’Israele proprio perché era più grande e più potente e perché era quello che dava il tono alla comunità politicamente divisa di Israele e Giuda. Il suo messaggio fu completamente un annuncio del giudizio. La decadenza morale di Israele, che Amos presenta come quasi totale, aveva tolto ogni diritto alla protezione di Jahweh; Israele si trovava di fronte a Jahweh in una posizione del tutto simile a quella degli altri popoli (Am. 9,7-8a). Gli altri popoli non erano in rapporto di alleanza con Jahweh: proprio come la fedeltà garantiva ad Israele una protezione speciale, allo stesso modo l’infedeltà gli faceva meritare una punizione speciale (Am. 3,1-2).

Anche Osea parlò soltanto ad Israele. Il giudizio che predice Osea è in ultima analisi altrettanto definitivo quanto quello predetto ad Amos. Come Amos, Osea descrive per allusioni una decadenza morale quasi totale. Eppure non sembrava che gli Israeliti che ascoltavano Osea fossero più disposti a prendere sul serio le sue minacce.

Isaia e Michea parlarono a Giuda non  molto tempo dopo Amos e Osea. Se Michea fu forse altrettanto intransigente quanto Amos, Isaia non annuncia mai esplicitamente che il regno di Giuda perirà come il regni di Israele. Isaia non aveva una spiegazione teologica da dare alla distruzione di Giuda; Jahweh sarebbe rimasto senza popolo e senza alleanza. L’annientamento di Giuda sarebbe stato anche l’annientamento di Jahweh. La caduta di Giuda e di Gerusalemme avrebbe soltanto potuto essere intesa, sia dagli Assiri (Is. 36,13-20; 37,10-13) sia dagli abitanti di Giuda (Is. 37,17-20), come una sconfitta di Jahweh.

La teologia biblica deve ad Isaia l’idea di un resto che sopravvive al giudizio; ma quest’idea presenta una profonda ambiguità per i diversi usi che ne fanno i vari scrittori. Per Isaia il giudizio significava la riduzione di Giuda a popolo politicamente impotente. Le sue esortazioni a confidare nella fede soltanto e a non prendere iniziative apparivano agli uomini politici del suo tempo altrettanto assurde quanto lo sarebbe per gli uomini politici del nostro tempo.

Le esortazioni di Isaia alla fiducia e all’inattività diventarono molto più esplicite in Geremia che vedeva nella caduta del regno la realizzazione delle minacce contro Giuda. Isaia predisse il giudizio; esortò al pentimento, ma non prese provvedimenti per evitare il giudizio.

Geremia, d’altra parte, non promise che almeno un resto sarebbe sopravvissuto; il suo messaggio diceva che Giuda sarebbe scomparso così come era scomparso Israele. La risposta di Geremia alle misure difensive di Israele fu di esortare i soldati ad abbandonare i loro posti e di arrendersi ai Babilonesi (Ger. 21,8-10; 38,1-3). Egli affermava che il regno di Giuda aveva perduto quella sovranità morale che abilita una nazione a condurre una guerra. La causa di Giuda si dimostrava totalmente ingiusta a causa della sua fedeltà alla legge di Jahweh; Giuda aveva perso ogni diritto a proteggersi e difendersi. Nell’ambito del giudizio, ora erano i Babilonesi a condurre una guerra santa contro i malvagi. Jahweh era al loro fianco, ed essi avrebbero sconfitto Giuda anche se i loro eserciti fossero stati sconfitti (Ger. 37,9-10). La nazione che combatte contro il giudizio non può vincere, quali che siano i pronostici politici.

Sembra che sia stato il tema profetico del giudizio, e non l’esperienza storica di Israele, a portare gli storici deuteronomisti a concepire la storia di Israele come procedente per cicli di peccato e giudizio.

Lo stesso tema del giudizio ricorre nella storia primitiva di Gen. 2-11, gran parte della quale proviene da J. Sulla prima coppia umana si invocava il giudizio in seguito alla disubbidienza ad un ordine di Jahweh.  Un esame sintetico dei capp. 2-11 della Genesi mostra che essi contengono una serie di “cadute”, ciascuna delle quali è un esempio di peccato e giudizio che si estendo molto al di là delle persone direttamente responsabili. Così il racconto contiene la storia del primo assassinio, dell’invenzione della vendetta di sangue, del diluvio come giudizio collettivo su tutta l’umanità; e infine la storia della costruzione della torre di babele e della dispersione dell’umanità. L’autore-redattore non ha fatto grandi sforzi per riunire i vari esempi in un racconto unitario, ma il tema dominante che emerge è quello del giudizio. Quando Jahweh si rivela ad Abramo, questo fatto si presenta come un atto salvifico che interrompe la serie di giudizi.

6. La sopravvivenza

Più di una volta abbiamo preso nota del fatto che la sopravvivenza di un “Israele” dopo la conquista babilonese è in se stessa un fatto storico eccezionale, a prescindere dal significato teologico che le si può attribuire. In effetti, la continuità è sufficiente per giustificare la pretesa del Giudaismo di essere l’erede religioso di Israele e Giuda; il Giudaismo conserva il culto della divinità che in Israele e Giuda era chiamata Jahweh, ha raccolto e conservato la letteratura di Israele e Giuda che si chiama A. T., e infine ha conservato gran parte delle istituzioni religiose di Israele e Giuda. Non ci fu invece continuità politica, e la comunità non è etnicamente così pura come l’avrebbero voluta i Giudei del sec. V a.C. (Esd. 10; Ne. 13,23-27). Ma nessun’altra tribù o piccolo stato che cadde sotto la dominazione assira e babilonese sopravvisse conservando lo stesso grado di continuità che il Giudaismo palestinese sopravvisse conservando lo stesso grado di continuità che il Giudaismo palestinese conservò con Israele e Giuda del periodo monarchico.

L’esegeta e il teologo non hanno difficoltà a trovare una interpretazione teologica della sopravvivenza di Israele; l’imbarazzo sta nel fatto che l’A.T. presenta troppe spiegazioni teologiche della sopravvivenza per consentire una sintesi.

Una comunità politica o una società tribale non ha problemi a spiegare la propria esistenza. Essa è il tessuto vitale all’interno del quale vivono i suoi membri.

La comunità postesilica non forniva alcuna identità o sicurezza politica. L’identità e la sicurezza erano garantite dall’impero persiano che, sotto questo aspetto, svolse il suo compito meglio della monarchia degli ultimi anni di Giuda. Questo era il massimo che la comunità postesilica potesse pretendere in un impero in cui la pace e la sicurezza non erano evidentemente più nelle mani di Jahweh.

Abbiamo detto sopra che la restaurazione di Giuda è un atto salvifico che merita una classificazione a parte. Non si potevano indagare le intenzioni di Jahweh (Is. 45,11). Se Jahweh fosse stato ancora interessato al suo popolo, avrebbe dovuto dimostrare in modo più chiaro questo suo interesse e manifestare le sue intenzioni.

Pertanto, finché non divenne chiara quella che in genere si chiama l’”idea messianica” dell’Israele restaurato, l’esistenza della comunità postesilica rimase non solo misteriosa, ma irrazionale. Questa comunità non avrebbe dovuto esistere, ed era difficile capire quale causa servisse la sua esistenza.

Laddove gli Israeliti e i Giudei della monarchia sentivano di essere gli eredi della promessa, i Giudei postesilici sentivano di essere gli eredi della colpa. L’affermazione che i padri hanno mangiato l’uva acerba e i denti dei figli sono rimasti allegati (Ger. 31,29-30; Ez. 18,1-3) doveva essere la risposta più naturale all’esperienza e dobbiamo credere che fosse ripetuta di frequente.

Molti degli scritti del periodo postesilico lasciano capire che la colpa collettiva doveva essere come zavorra e scoraggiare iniziative e ambizioni. La colpa collettiva era la spiegazione più ovvia e più semplice della comunità postesilica, e alcuni passi dell’A.T. potevano far pensare che Jahweh avesse conservato questo resto come un monumento alla sua giusta collera (Dt. 29,22-28). Se le credenze della comunità postesilica si fossero fermate qui, no ci sarebbe stato più molto da dire sulla teologia dell’A.T.

7. Jahweh e le nazioni

Sembra che si possa affermare con sufficiente sicurezza che l’interesse degli autori biblici è soltanto molto raramente volto all’umanità in generale e alla condizione umana intesa in senso astratto. Questo tipo di interesse si può riscontrare nella letteratura sapienziale e in Gen. 1-11: La torre di Babele è una spiegazione mitologica della divisione dell’umanità in nazioni, anche se la “Tavola delle Nazioni” (Gen. 10) precede il racconto nella redazione di questi capitoli. L’uomo è in genere identificato dagli autori biblici con un popolo o una nazione; ed è difficile trovare nell’A.T. l’idea di un rapporto tra Jahweh e l’uomo, nel senso di umanità. Jahweh ha un rapporto particolare con gli Israeliti, rapporto che non è condiviso da nessun altro gruppo o individuo. Se Jahweh non entra in relazione con un popolo attraverso l’alleanza, per gran parte dei libri dell’A.T. non esiste altro tipo di rapporto possibile.

La storia primitiva di Gen. 1-11 sia in J sia in P riconosce che Jahweh è il creatore dell’uomo. Ma il resto del racconto è la storia dell’uomo sotto il giudizio. Questi capitoli precedono il racconto della rivelazione di Jahweh ad Abramo, che dà inizio a questo particolare rapporto di promessa e compimento. Il compimento è realizzato nell’alleanza di Jahweh con Israele. In questo sviluppo, gli altri popoli sono ignorati. Se sono legati ad Israele, o se si pensava lo fossero in qualche modo, vengono identificati come i discendenti di fratelli e cugini. Ancora più antica di questi antenati comuni è la maledizione dell’antenato eponimo dei Cananei (Gen. 9,25-27); però dal punto di vista etnico, culturale e linguistico, gli Israeliti fanno parte del gruppo cananeo.

La differenza religiosa tra gli Israeliti e gli altri popoli è questa: Jahweh si è rivelato agli Israeliti e non ad altri. Era del tutto normale che gli altri popoli adorassero i loro dèi; e nel corso dello sviluppo della fede e della letteratura di Israele, gli altri dèi giunsero ad essere identificati con gli idoli, e la religione delle nazioni con l’idolatria. Ma né nella storia primitiva né in quella successiva, l’origine dell’idolatria non appare mai come una “caduta”, con l’eccezione di Gen. 3: Non si può mettere in dubbio che nell’A.T. l’idolatria sia considerata in genere come il peccato fondamentale, come il vizio radicale.

In molti libri storici dell’A.T., le nazioni sono considerate soltanto nei loro rapporti con Israele. Va subito ricordato, a questo proposito, un’importante eccezione: si tratta delle Città della Pianura, che sono distrutte da un giudizio di Jahweh (Gen. 18 e 19). All’infuori di questo episodio, le nazioni sono considerate in modo neutrale. Gli Egiziani sono visti in una luce molto favorevole, poiché accolgono come ospiti nel loro paese i figli di Israele.

Il tono dei racconti muta profondamente nell’Esodo. Qui il Faraone e gli Egiziani si pongono in opposizione diretta alla volontà di Jahweh rivelata attraverso Mosè. È per questa opposizione che gli Egiziani diventano l’oggetto del più grande e paradigmatico atto salvifico dell’A.T. Jahweh non chiede agli Egiziani di tributargli un culto, ma di lasciar partire il suo popolo. Quando questa richiesta è avanzata con sufficiente chiarezza, allora Jahweh libera il suo popolo a chiaro prezzo per coloro che si rifiutano di ascoltare la sua voce.

Fa parte del tema dell’esodo che Jahweh salvi il suo popolo e sconfigga quelli che lo minacciano. Abbiamo notato che la volontà di Jahweh di salvare Israele sembra lasciar trasparire qualche volta una certa discriminazione morale. Questo è uno degli ambiti nei quali l’A.T. dimostra non soltanto ristrettezza di vedute, ma anche pregiudizi etnici e religiosi. Questo non si può dire delle tradizioni dell’esodo; qui Jahweh appare come il liberatore dei deboli e degli oppressi. Un chiaro invito è rivolto agli oppressori perché cessino la loro oppressione. Nello stesso tempo si pongono le basi per la credenza che Jahweh è il salvatore del suo popolo, colui che distrugge i suoi nemici. Questa credenza viene ulteriormente perfezionata negli scritti profetici. Ma finché non compare l’interpretazione profetica, le nazioni sono trattate con benevolenza da Jahweh se sono amiche di Israele, mentre i nemici di Israele sono i suoi nemici.

Sia il corso della storia sia lo sviluppo del pensiero profetico contribuirono a trasformare questo atteggiamento primitivo nei confronti delle nazioni in un qualcosa di più complesso, se non immediatamente più umano. Questo cambiamento inizia con il primo capitolo di Amos, considerato con sufficiente sicurezza dai critici come appartenente alle autentiche parole del profeta. Amos pronuncia minacce contro sei popoli, ben conosciuti nell’A.T. come vicini di Israele. A causa della sua inumanità Israele non deve aspettarsi un trattamento migliore di quello riservato alle nazioni. Non c’è differenza tra il giudizio morale di Jahweh su Israele e sulle nazioni.

Questo detto è rivoluzionario per più di una ragione. Proprio perché nega che il giudizio su Israele sia diverso, Amos afferma anche che la nazioni sono soggette al giudizio morale di Jahweh sia che le loro azioni riguardino Israele oppure no. Amos afferma un criterio morale che è valido sia per Israele sia per le nazioni.

L’arrogante indifferenza degli Israeliti nei confronti delle nazioni sorse quando non esisteva popolo che superasse Israele per numero e per forza.

In due poemi (Is. 10,5-11.13-19) Isaia chiama l’Assiria bastone dello sdegno di Jahweh: Invece dell’oggetto del giudizio, l’Assiria diventa lo strumento del giudizio. L’Assiria è mandata contro una nazione senza dio, contro il popolo con il quale Jahweh è in collera (10,6); il popolo cui si allude è certamente Israele, ma Isaia non dice espressamente che l’Assiria è il bastone dello sdegno di Jahweh contro altri popoli (10,9).

Spiegare l’Assiria come il bastone dello sdegno di Jahweh significava senza dubbio spiegare la dominazione dell’Assiria su Giuda; ma questa non era una spiegazione teologica sufficiente del fenomeno “Assiria”, e inoltre era espressa esclusivamente nei termini dei rapporti tra l’Assiria e Giuda. In un certo senso, si trattava di un ritorno all’antica ristrettezza di vedute. Con Geremia si giunge ad una spiegazione più completa delle potenze imperiali. Geremia, un centinaio d’anni dopo Isaia, visse in una nazione che aveva sperimentato la dominazione di una potenza imperiale.

Geremia nel cap. 25 pronuncia un oracolo che non solo predice la distruzione di Giuda da parte dei Babilonesi, ma anche il regno di Babilonia per settant’anni. Il numero settanta ha forse qui un valore indefinito, come capita di sovente per il numero sette e i suoi multipli; ma potrebbe anche significare la durata ideale della vita; in questo caso allora, il detto significherebbe che nessuna persona vivente a quel tempo sarebbe sopravvissuta per vedere la caduta di Babilonia. Il profeta si limita ad applicare il principio profetico del giudizio giusto agli eventi della storia mondiale. Jahweh è il signore della storia per il mondo intero non solo per Israele e Giuda. La nazione che viene conquistata da una potenza imperiale ha sperimentato il giudizio di Jahweh, e i suoi giudizi sono giusti. Così la teologia deuteronomista della storia diventa teologia della storia mondiale così come della storia israelitica. E in questo si ritorna al motivo della distruzione di Sodoma e Gomorra e alla teologia del diluvio: dal momento che i giudizi di Jahweh sono giusti, non ci può essere per catastrofi così gravi altra spiegazione che la malvagità di coloro che le subiscono.

Il primo capitolo di Amos è il più antico esempio di quelli che si possono chiamare «oracoli contro le nazioni».

Stando all’ordine nel quale i libri profetici compaiono nella Bibbia, troviamo oracoli contro le nazioni in Is. 13-23; Ger. 46-51; Ez. 25-32; Abd. (l’intero libro); Na. (l’intero libro); Sof. 2. Confrontati con gli oracoli profetici contro Israele e Giuda, gli oracoli contro le nazioni mancano di quelle precise accuse morali che giustificano il comportamento di Jahweh nei confronti di Israele e Giuda. Jahweh non era in alleanza con le nazioni né aveva loro rivelato la legge dell’alleanza; in ultima analisi era impossibile discernere le sue intenzioni nella storia delle nazioni in questa fase della teologia biblica. Il sorgere e il cadere delle nazioni negli “oracoli” è in fondo altrettanto priva di significato quanto il nascere e il morire degli animali.

Non si può dire che questa sia una teologia della storia molto soddisfacente, e lo sviluppo dell’A.T. non si ferma in questo vicolo cieco.

Letto 4648 volte Ultima modifica il Mercoledì, 02 Giugno 2010 19:06
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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