Formazione Religiosa

Martedì, 16 Marzo 2010 21:06

Lo straniero, prossimo tuo (Luciano Manicardi)

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Gesù, in quanto profeta e sulla scia dei profeti veterotestamentari, ha rivolto il suo messaggio e la sua predicazione ai figli d’Israele in vista della loro conversione, ma ha anche annunciato la raccolta finale delle genti e il loro inserimento escatologico nella salvezza. Gesù non nega né minimizza le differenze degli stranieri, ma le accoglie mettendone in luce la positività. E non fa dello straniero un nemico.

Lo straniero, prossimo tuo

di Luciano Manicardi

 

Alcune premesse sono necessarie alla trattazione del nostro tema. È molto difficile ricostruire l'atteggiamento che Gesù ha tenuto storicamente negli incontri con stranieri durante il suo ministero. Tra i testi evangelici e gli eventi vi è un divario difficilmente superabile perché i vangeli sono stati redatti quando l'idea di una missione universalistica rivolta ai pagani si era già affermata ed è comprensibile che questo stato di cose abbia influenzato il ricordo storico dell'atteggiamento di Gesù verso gli stranieri presente nei testi evangelici.

Si dovrebbe poi tener presente il quadro sociologico articolato e complesso all'epoca di Gesù circa gli «stranieri». Il Primo Testamento parla di zar (lo straniero in senso etnico e politico con una connotazione di disprezzo) e di nekar (l'appartenente a un'etnia da cui Israele deve separarsi); quanto agli stranieri presenti in Israele il Primo Testamento distingue il nokri, il residente temporaneo, e il gher, l'immigrato, lo straniero residente, colui che vive tra un popolo di cui non è consanguineo. Il Nuovo Testamento attesta la presenza di proseliti (Mt 23,15: stranieri che si convertivano e accettavano la Torà e la circoncisione), timorati di Dio (At 18,7: persone pagane di provenienza, che professavano la fede monoteista, frequentavano la sinagoga, ma non divenivano pienamente parte della comunità giudaica), samaritani (vedi Gv 4). Questi ultimi, apertamente considerati stranieri in Lc 17,18 dove un samaritano è chiamato alloghenés (termine che nei LXX traduce l'ebraico zar), cioè «di altra etnia», «straniero», storicamente erano in una situazione intermedia tra Israele e gli stranieri: «I samaritani non sono mai stati trattati come puri e semplici stranieri, ma come una razza di discendenza incerta. La loro estrazione israelitica non può essere data per scontata, ma non può neanche essere esclusa a priori. La loro affiliazione alla comunità d’Israele, di conseguenza, non è negata, ma soltanto considerata dubbia» (Emil Schürer). Insomma. la situazione all'epoca di Gesù è tale che «rende poco pertinente il ricorso a una definizione sociologica formale e a distinzioni nette che conducano a una determinazione univoca di chi sia lo straniero nella società giudaica del I secolo» (Ermenegildo Manicardi).

Inoltre occorrerebbe condurre un'indagine su ciascun vangelo che distingua le diverse redazioni e colga le differenti sfumature del messaggio di ogni evangelista circa il rapporto tra Gesù e gli stranieri. E che cerchi di discernere in ogni testo quale sia il peso della tradizione e quale quello della redazione. Ovvio che questo non è possibile qui. Come non è possibile passare in rassegna tutti i testi evangelici che pongono in rapporto, direttamente o indirettamente, Gesù con stranieri (e che iniziano già in Mt 1, dove donne straniere appaiono nella genealogia di Gesù e proseguano in Mt 2 con i «magi» che provengono «dall'Oriente»).

Dopo una presentazione sintetica dei dati evangelici circa il rapporto vissuto da Gesù con stranieri, svolgeremo riflessioni di tipo ermeneutico a partire da incontri di Gesù con stranieri e da parole di Gesù sugli stranieri.

Gesù e gli stranieri: visione di sintesi

Gesù ha limitato il suo ministero e la sua predicazione al territorio d'Israele: «Non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24). Tuttavia i vangeli attestano la presenza di stranieri tra le folle che cercano Gesù (fin dall'inizio del suo ministero per Mt 4,25; dopo i conflitti insorti in Galilea secondo Mc 3,8 e Lc 6,17). Se vi sono ascoltatori stranieri di Gesù (provenienti soprattutto dalla Decapoli e dalla zona intorno a Tiro e Sidone), non vi sono però stranieri tra i Dodici (la cui funzione è in rapporto con il ritorno delle dodici tribù di Israele): si comprende il diniego opposto da Gesù alla richiesta dell'indemoniato geraseno (Mc 5,1-20) a «stare con lui» (Mc 5,18; vedi Mc 3,14). L'incontro con il centurione di Cafarnao in Matteo (8,5-13) presenta la difficoltà dell'ebreo Gesù a entrare nella casa di un pagano (soprattutto se la frase di 8,7 deve essere intesa come interrogativa: «Devo guarirlo dopo essere venuto da te?»); nella redazione lucana dell'episodio non vi è incontro diretto fra Gesù e il centurione ma tutto avviene tramite mediatori giudei e il centurione è dipinto con i tratti del timorato di Dio che ama il popolo d'Israele («il nostro popolo», dicono gli anziani a Gesù) e ha aiutato la costruzione della sinagoga (Lc 7,1-10). L'incontro di Gesù a Cana di Galilea con il funzionario regale nel IV Vangelo (Gv 4,46-54) fa parte di un insieme fortemente teologico e simbolico che presenta l'incontro di Gesù con il giudaismo ufficiale (Nicodemo: Gv 3,1-21), con i samaritani (la donna di Samaria: Gv 4,1-42) e con il mondo pagano (il funzionario regale, un militare straniero al servizio di Erode Antipa: Gv 4,46-54).

Il cammino di Gesù sconfina in territori stranieri e lì si situano incontri con persone apertamente dichiarate straniere (Mc 7,24-30; Mt 15,21-28) o supposte tali (Mc 7,31-37). Se Matteo riporta il mandato missionario di Gesù ai discepoli che esclude dalla loro azione «gentili» e «samaritani» (Mt 10,5-6: «non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele»), Luca e Giovanni presentano significativi incontri di Gesù con samaritani (Lc 17,11-19; Gv 4,1-42): tipico di questi è che sempre avvengono in territorio samaritano dove Gesù si trova a passare mentre è diretto verso un'altra meta.

In sintesi, Gesù, in quanto profeta e sulla scia dei profeti vetero-testamentari, ha rivolto il suo messaggio e la sua predicazione ai figli d'Israele in vista della loro conversione, ma ha anche annunciato la raccolta finale delle genti e il loro inserimento escatologico nella salvezza riprendendo il messaggio profetico circa la venuta escatologica dei popoli al monte di Dio (Is 2,2-5; 56,7-8; Mt 4,1-4) e il banchetto imbandito da Dio per tutti i popoli (Is 25,6-7; Mt 8,11-12; 22,1-10; Lc 14,15-24; vedi anche Mt 24,31; 25,31-32; Mc 13,27).

Spunti ermeneutici

L'incontro di Gesù con una donna straniera (cananea in Mt 15,21-18; siro-fenicia in Mc 7,24-30) mostra che egli, anzi essi (Gesù è straniero per la donna, come la donna lo è per Gesù) hanno dovuto superare molte barriere per giungere a comprendersi. Marco sembra moltiplicare gli elementi di diversità della donna: appunto, la differenza di genere, poi la stranierità, forse la condizione socio-economica (secondo Theissen la donna appartiene al ceto elevato e benestante di greci urbanizzati viventi nella zona di confine di Tiro e della Galilea con cui erano in conflitto i contadini poveri giudei il cui lavoro agricolo serviva anche a sostentare gli abitanti della città), forse addirittura va messa in conto una distanza morale (il termine «sirofenicia» aveva, nella satira latina, la valenza di donna poco raccomandabile, prostituta). E infine, o prima di tutto, la differenza linguistica: «era greca». Hellenis (greca) indica l'appartenenza linguistico-culturale (mentre syrophoinikissa designa la stirpe e la religiosità pagana). Costoro si parlano: in quale lingua? Chi parla la lingua dell'altro? Gesù parla il greco? O la donna parla l'aramaico? In ogni caso, ci deve essere stato il reciproco adeguarsi alla lingua dell'altro, la fatica dell'uscire dalla lingua madre per esprimersi nella lingua accessibile all'altro. Soprattutto, la posizione rigorosamente «giudaica» di Gesù frappone molte difficoltà a questa straniera: la redazione matteana mostra un lungo e ostinato iter della donna che si scontra con il silenzio di Gesù (Mt 15,23), con la risposta secca rivolta ai discepoli che si fanno intercessori interessati per la donna («Non sono stato inviato che alle pecore disperse della casa di Israele»: Mt 15,24), con la dura risposta rivolta a lei personalmente (Mt 15,26). Il motivo di fondo che separa Gesù dalla straniera è espresso da Mc 7,27 («Lascia prima che si sfamino i figli…») nei termini teologici che evocano i tempi dello svolgersi del piano di Dio: prima i giudei, dopo i greci. Siamo di fronte a una diffusa concezione teologica della Chiesa primitiva circa il disegno salvifico di Dio: la storia di salvezza ha un suo svolgimento, un suo piano che non è dato sconvolgere. L'ostinatezza della donna che accoglie le parole di Gesù e sposta l'attenzione dal piano temporale a quello spaziale («i cagnolini sotto la tavola»: Mc 7,28) arriva però a cambiare l'atteggiamento di Gesù. E questo significa due elementi.

Innanzitutto, Gesù si lascia interpellare e cambiare dalla sofferenza che muove la donna e che le dà coraggio e determinazione. La sua figlia malata è un motivo più che sufficiente per non desistere dal domandare, e Gesù ascolta la sofferenza della donna straniera. Così come ascolta la sofferenza dell'indemoniato geraseno (non se ne va di fronte alle sue invettive, ma rimane e gli parla trattandolo come un essere umano: Mc 5,1-20), così come accoglie il centurione pagano che va a lui portando la sofferenza del suo servo (Mt 8,6: «Il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente»): l'universale esperienza della sofferenza è rinvio a quella fragilità dell'umanità che Gesù ascolta e che lo conduce a farsi prossimo all'altro, anche se straniero. La parabola del buon samaritano mostra che la compassione crea prossimità: se l'idea di prossimo all'origine indica il connazionale, la parabola di Lc 10,30-37 mostra che gli stranieri possono ritrovarsi in un'unica patria a partire da ciò che fanno della sofferenza dell'altro. Il sofferente è appello a farmi «suo prossimo, suo «connazionale», a fare, del mio essere abitante nel territorio della sofferenza (territorio che normalmente isola e separa), un'occasione di relazione e di giustizia. In secondo luogo, questo ascolto della sofferenza dell'altro (o che l'altro patisce per una persona a lui cara) diviene capace di correggere una corretta ma astratta visione teologica della storia di salvezza in una più concreta prassi di salvezza delle storie. E anzitutto delle storie personali e familiari, sempre precarie e sempre traversate da drammi e sofferenze. Inserendosi nella visione dei tempi della salvezza posta da Gesù, la donna introduce la metafora spaziale della casa e della tavola in cui «i cani domestici» hanno accesso insieme ai figli e si sfamano delle briciole dei figli, legittimi commensali. I cani e i figli, i non-giudei e i giudei hanno un'unica casa e un’unica tavola. L'osservazione geniale della donna converte e dà pienezza alla visione di Gesù: nell'unica casa e attorno a un'unica tavola vi è possibilità di una contemporaneità di pasto tra figli d’Israele e stranieri, contemporaneità in cui il primato di Israele è riconosciuto e ridimensionato al tempo stesso.

In questo come in altri casi Gesù sa riconoscere la fede dell'altro, dello straniero, del non ebreo (Lc 7,9; 17,19; Mt 8,13;15,28): questo suppone anche l'implicito riconoscimento della bontà del cammino spirituale che tale straniero ha compiuto a partire dalla sua propria cultura. Lo stupore di Gesù nel constatare la fede dello straniero («io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!»: Lc 7,9: «Donna, davvero grande è la tua fede»: Mt 15,28) è significativo: l'appartenenza giudaica, la «fierezza ebraica» di Gesù lo porta a incontrare lo straniero a partire da un'identità salda, ma anche aperta, non fissa, non ingessata in nazionalismi o sciovinismi. Mai questa sua appartenenza è declinata in modo chiuso ed escludente e questo perché è per lui chiaro che le differenze etniche non opacizzano ma onorano il volto del Dio della promessa rivolta un tempo ad Abramo (Gen 12,1-3; vedi Mt 8,11). Gesù non nega né minimizza le differenze degli stranieri, ma le accoglie mettendo in luce la positività degli stranieri stessi: la capacità di ringraziamento {Lc 17,18); l'accettazione del piano salvifico del Dio d'Israele (Mc 7,28); la fiducia in Gesù e l'affidamento radicale a lui e alla sua parola (Mt 8,8). Anzi, quando Gesù non viene accolto nel villaggio  samaritano (Lc 9,51-56), rimprovera aspramente la perversa logica della ritorsione in cui subito cadono i suoi discepoli chiedendo una punizione esemplare: egli resta fedele alla forza del suo messaggio pagandone il prezzo fino alla fine e senza mai cedere alla tentazione della violenza nel rapporto con l'altro che si fa ostile. Gesù non impone reciprocità, non esige che il suo comportamento sia fatto proprio dagli altri, ma accoglie l'ostilità senza rispondere al male con il male. Gesù non fa dello straniero un nemico, anzi, come mostra l'episodio dell'incontro con la samaritana, egli si adopera per fare del nemico un amico.

Il racconto di Gv 4 è la storia della creazione di una relazione tra due appartenenti a gruppi umani tra cui vi era incomunicabilità: «I giudei non hanno rapporti con i samaritani» (Gv 4,9); è la storia di un incontro che avviene a partire da un’iniziale inimicizia categoriale che separa senza possibilità di conciliazione «noi» e «voi»; è la storia della conversione di un'alterità nemica in alterità amica. La dinamica di questo incontro è interessante. Quando l'identità di una persona è totalmente espropriata nella sua appartenenza etnica (e/o religiosa), l'altro non è più un volto e un nome, una storia e un desiderio, ma semplicemente l'appartenente a un'entità diversa e perciò nemica: «tu sei giudeo, io una donna samaritana» (Gv 4,9). L’incontro può avvenire a partire da una comune sete: la donna va ad attingere acqua, Gesù chiede da bere. E può iniziare grazie all'atto coraggioso per cui una persona osa il proprio bisogno, si espone all'altro nella sua povertà, nella sua mancanza, fa dell'altro colui che può aiutarlo: «Dammi da bere» (Gv 4,7). Gesù supera la distanza rivolgendo la parola alla donna: questo rischio crea la premessa del dialogo, che inizia quando la donna è colta dallo stupore per questo inatteso: nessun comportamento in Gesù che rispecchi i pregiudizi che i giudei nutrivano verso i samaritani. Gesù osa spezzare l'abitudine e la pigrizia delle etichette e dei luoghi comuni che fanno dell'altro una categoria e non una persona. Così accolta, la samaritana mostra fiducia in Gesù osando la propria povertà davanti a lui e chiedendo qualcosa a lui: lei stessa, ora, chiede da bere a Gesù (Gv 4,15). Stabilita la reciproca fiducia, ecco che Gesù rinvia la donna alla sua storia personale e familiare, al suo passato (Gv 4,16-18): sentendosi una disprezzata nella sua travagliata storia, la donna può esporre la sua diversità religiosa rispetto al giudeo Gesù (Gv 4,19-20). E Gesù non stigmatizza né condanna, ma pone sia giudei che samaritani, «noi» e «voi», alla luce del Terzo, del Regno di Dio, del Dio degli noi e degli altri (Gv 4,21-24). Allora avviene l'incontro: e forse, la vera sete (visto che, secondo il racconto, né la donna attinge l'acqua né Gesù beve), è la sete dell'incontro. Gesù si dona come Messia e la donna, e i samaritani con lei, danno fiducia a Gesù e credono in lui quale salvatore del mondo (Gv 4,39-42).

Come con la samaritana (Gv 4,9), anche davanti a Pilato Gesù non si lascia rinchiudere in un'identificazione etnica (Gv 18,35), e davanti al procuratore della Giudea rivendica che il suo regno «non è di questo mondo» (Gv 18,36). Mentre quando viene percepito e «insultato» come straniero («sei un samaritano»: Gv 8,48) nemmeno ritiene degna di risposta tale accusa. Evidentemente, la sua visione dei samaritani e degli stranieri in genere non è quella dei suoi accusatori. La valenza rivelativa dello straniero appare in bocca a Gesù nel discorso sul giudizio finale nel primo Vangelo: «ero straniero e mi avete ospitato» (Mt 25,35; vedi anche v. 43). In quel testo l'intera umanità è posta sotto l'autorità dei deboli, tra cui gli stranieri. La relazione con lo straniero appare un elemento su cui si gioca il giudizio escatologico.

Del resto, non solo dietro ogni straniero si staglia la figura di Cristo, ma secondo il IV Vangelo Gesù stesso rivela il Padre in quanto straniero: per Giovanni la stranierità è categoria di rivelazione. Gesù suscita le domande che si pongono normalmente di fronte a uno straniero: «da dove viene?»; «che lingua parla?». Chi ritiene semplicemente che Gesù venga da Nazareth (Gv 1,45-46), dalla Galilea (Gv 7,41), deve accedere alla comprensione che Gesù viene dall'alto, da Dio, dal cielo, dal Padre (Gv 3,31; 8,23; 16,28.30); Gesù parla aramaico come i suoi interlocutori, ma in verità parla le parole di Dio (Gv 3,34). In questa visione teologica Gesù appare straniero anche per i suoi connazionali e pone ogni uomo di fronte al necessario «salto della fede», al passaggio in quel territorio della fede dove non sono più decisivi i confini delle patrie e le appartenenze etniche, ma l'accoglienza del «dono di Dio» (Gv 4,10) in Cristo Gesù.

(in Confronti, n. 9, 2006, pp. 22-24)

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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