“Per ogni cosa c’è il suo tempo sotto il sole” (Qo 3,1). Spesso la bibbia ci presenta la dimensione del tempo. Un tempo opportuno, un tempo da cogliere. Il giorno del Signore, la pienezza del tempo, l’ora del compimento. Se nell’immagine quotidiana la sera rappresenta la fine della giornata, nell’arco del tempo la fine viene vista nei segni imminenti di un futuro incerto. Un futuro che, poiché non può essere conosciuto, finisce con il riservare delle sorprese. Si è spesso portati a pensare a questo futuro con le immagini del disastro e della catastrofe. Conosciamo l’oggi, ma «di doman non c’è certezza» (Lorenzo de’ Medici).
Il tempo ci fa paura. Perché quando pensiamo al tempo – all’interno della concezione lineare che si è sviluppata in Occidente – dobbiamo pensare anche alla fine. Tutto quello che viviamo, tutto ciò che costruiamo, soprattutto quello che è bello, piacevole, buono, desiderabile, tutto viene sommerso dal trascorrere del tempo. Tutto finisce. La gioia, la serenità, tutte le cose belle della nostra vita finiscono. Gli affetti più cari ci vengono strappati. A volte abbiamo l’impressione che restino soltanto la tristezza, la solitudine, il dolore. Come se queste cose, queste esperienze dure, gravi, potessero perdurare anche oltre il tempo. Mentre invece ci sembra che il tempo spazzi via tutto quello che con fatica abbiamo cercato di costruire.
Abbiamo paura del tempo. Basta metterci ad osservare un orologio elettronico. I numeri scorrono veloci. Si susseguono in modo vertiginoso. L’immagine che ci viene restituita è quella di un tempo velocissimo, che fugge. Se restiamo ad osservare a lungo questo tipo di orologi, siamo presi da un senso di angoscia. Ci sembra di venire trasportati via. Come se fossimo sommersi dal vento del nulla e trascinati lontano, nel profondo.
Il tempo ci fa paura perché ci mette di fronte alla fine. Ci mette di fronte alla nostra fine. Alla nostra morte. Ed allora, cerchiamo di porre la nostra attenzione su altre cose. Facciamo allo stesso modo dei contemporanei di Gesù. Erano impressionati dalla monumentale costruzione del tempio, dai suoi arredi e dai tesori conservati in esso (cf. Mt 24,1; Mc 13,1; Lc 21,5). Avevano qualcosa di tangibile che restituiva loro l’idea della durata nel tempo. Le belle pietre, gli oggetti d’oro, le suppellettili, hanno una durata più lunga. Ancora oggi possiamo osservare costruzioni che hanno resistito per millenni all’erosione del tempo. Le piramidi hanno quattromila e più anni. Se viviamo in una città ove sono presenti i resti della civiltà romana abbiamo la familiarità con un’antichità di duemila e anche più anni. Le cose, il possedere cose, l’avere sempre più cose, ci offre l’illusione di resistere al logoramento del tempo. Più ci attacchiamo ad esse e più ci sembra di poter durare a lungo.
Abbiamo paura del tempo. Il domani ci può riservare le notizie e le esperienze più tristi ed imprevedibili. La guerra, i cataclismi, le malattie. Ogni giorno sentiamo cattive notizie. Abbiamo l’impressione di un mondo che sta peggiorando. Dove il male sembra aumentare… Gesù ci invita a non porre la nostra fiducia sulle cose, sul fascino del possedere, ma al tempo stesso a non avere paura di quello che può riservare il futuro. Il futuro non ci appartiene. Il futuro appartiene a Dio ed è un dono che ci viene fatto. Se il futuro dipendesse da noi, non saremmo capaci di pensare diversamente da un futuro pieno di eventi tragici e terribili.
La bibbia ci invita a vivere il presente. L’attesa di un futuro imminente non ci può distogliere dalla nostra vita quotidiana. Una vita quotidiana fatta di sofferenza e di gioia, di paure e di speranza. Una vita che ha bisogno di impegno, di radicamento. Altrimenti, ci dice l’apostolo Paolo se qualcuno non vuole vivere questa quotidianità, deve andare fino in fondo. È questo, il senso più profondo che possiamo dare al “chi non vuole lavorare neppure mangi” (2Ts 3, 10).
Ci possono essere le avversità, i segni cosmici, la sofferenza che si manifesta a partire dai legami parentali più stretti. O, per usare le espressioni di Paolo: la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada. Ma, prosegue Paolo: “in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 35-39)
Per il cristiano, riflettere sul tempo vuol dire con-centrarsi sul Cristo. Pensare a lui come al centro della nostra vita, del nostro essere, del nostro esistere – e vivere in questa tensione. Non è la paura di fronte al nulla del trascorrere del tempo e dell’approssimarsi della morte, ma è la gioia pasquale del Cristo risorto che deve illuminare tutta la nostra vita.
Da un certo punto di vista, la fede nella risurrezione chiede al discepolo un abbandonarsi alla volontà del Padre. Alla sua provvidenza. Di fronte alla morte, al vuoto della morte, ci si affida al dono misericordioso di Dio. L’unico che possa cancellare per l’uomo e per la donna il fallimento totale rappresentato dalla morte e dal nulla. Il credere nella reincarnazione, in un certo senso, può essere più “facile”, maggiormente “consolatorio”. Non c’è bisogno di un atto esterno – da parte di Dio. È nel ciclo delle cose, nel ciclo della natura. Nasce dall’osservazione dei fenomeni naturali. All’inverno succede la primavera. Dal letame nascono fiori. Una parte di noi (anima, karma o come si voglia nominare) necessariamente, secondo questo punto di vista, prosegue. Ritorna alla vita. Sotto forma diversa, ma ritorna alla vita. È cosa c’è di più consolatorio che qualcosa di noi, dopo di noi, continua a sopravvivere.
Ed allora si può capire perché oggi sempre più persone credano alla reincarnazione. Potremmo dire che è una credenza più vicina, più fai-da-te. Che rassicura molti perché propone che non c’è fine, ma semplicemente si ricomincia, si ritorna. Magari in forme diverse. Non si scompare nel vuoto nulla. A ben vedere, questa prospettiva può risultare angosciante. Non c’è nessuna via d’uscita. Si è condannati ad un eterno ritorno nel ciclo delle vite. Non c’è salvezza perché l’unica salvezza, se così può essere chiamata, è la coscienza che non c’è nulla. Assolutamente nulla. Ma questi, credo, sono pensieri che oggi pochi si pongono. Ci si accontenta della prospettiva di pensare che la vita non finisca, ma che continui in qualche modo, sotto forme diverse.
La fede nella risurrezione si innalza nella croce del Cristo. Nel silenzio della sua morte. In quella morte che ha tutto il sapore di un fallimento. Di un estremo fallimento a cui non seguirà più nulla. “Noi speravamo che fosse lui…” (Lc 24, 21) diranno i due discepoli in cammino verso Emmaus. Ma c’è la morte ed il nero abisso del sepolcro. Ed anche la tomba vuota del mattino di pasqua è ben poca cosa senza l’incontro con il Cristo risorto. E Tommaso, che non ha partecipato a questo incontro, non vuole sentire ragioni. La fede nella resurrezione ci rimanda alla nostra fede nel Cristo risorto. E dimenticare o mettere in secondo piano questo elemento vuol dire negare la centralità della fede. “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” (1Cor 15,14). Le difficoltà di oggi sono dovute al fatto che il rifiuto della risurrezione della carne è operato all’interno di una società che a lungo è stata permeata dalla fede cristiana. Forse, più che stracciarsi le vesti per quello che sta accadendo, è necessario interrogarsi quanto siamo capaci di vivere la fede nel Cristo risorto. Il nostro vivere con lui, per morire con lui e risorgere con lui.
Per la fede cristiana abbiamo anche una anticipazione, un prototipo. Cristo è colui che ha patito, è morto ed è risorto. È il prototipo. Il primo esempio, con la sua risurrezione, di ciò a cui andrà incontro l’intera umanità redenta. Con il battesimo, siamo stati immessi nella vita di Cristo. Già da ora, siamo in qualche modo chiamati a partecipare – trasfigurati – della sua vita di risurrezione. Già da ora e non soltanto nel tempo futuro che ci verrà donato da Dio. Già da ora siamo chiamati a vivere nella risurrezione di Cristo. Per questo possiamo accogliere il suo invito a non avere paura e a poterlo vivere, perché liberati dalla paura. Ma abbiamo anche un’altra anticipazione, un altro esempio: Maria, la madre di Cristo. In lei, prima discepola del figlio, possiamo vedere l’inizio di questa attualizzazione, di questa attuazione. Maria è colei che già fa parte dell’umanità redenta, che già partecipa nella risurrezione alla vita nel mistero della Trinità. In lei abbiamo l’anticipazione di una speranza che Dio già mette in atto, come un seme, nella nostra vita quotidiana.
Faustino Ferrari