Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Che cosa significa essere un musulmano nel 2005 in una società laica? Islam e modernità sono incompatibili?

Forse a volte ci è accaduto di vedere una persona con il volto sfigurato, deturpato da un incidente o devastato dalle manifestazioni di una grave malattia o reso distante e assente dall'alienazione mentale. E può esserci avvenuto di aver istintivamente rivolto altrove il nostro sguardo, di esserci sottratti all'incontro con lo sguardo di quel volto sofferente.

Il cuore nella spiritualità russa
di Tomàs Spidlìk

L 'importanza del cuore

"La nozione del cuore - scrive un teologo russo, B. Vyseslavcev - occupa il posto centrale nella mistica, nella religione e nella poesia di tutti i popoli". Nella misura in cui ci si allontana dalla vita nel cuore, ci si allontana da se stessi e dalla religione. Dello stesso parere è il suo coetaneo P. Ivanov: "Cercare il nutrimento per il cuore significa tornare a Dio, perché Dio stesso, è un cuore che abbraccia tutto". "Essere senza cuore" (bezserdecnost) è uno stato che caratterizza l'ateo, dato che il contatto reale con la divinità è possibile, dice ancora Vyseslavcev, soltanto "nella profondità del mio io, nella profondità del cuore, perché Dio, come dice Pascal, "è sensibile al cuore; là soltanto è possibile una vera esperienza religiosa, fuori di essa non vi è né religione né etica". Questa insistenza sul cuore che è specifica degli autori spirituali russi, soprattutto del secolo scorso, diventa per loro una specie di professione di fede ortodossa contro "il razionalismo" di cui scoprono il pericolo nelle tendenze occidentali.

E’ una tesi che è spesso difesa nei manuali teologici. Così per esempio, per Th. S. Ornatsky la fede è "una disposizione immediata del cuore". N. Malinovsky scrive: "La fede si comprende soltanto come un sentimento religioso". Per P. Sokolov la fede ha il suo "motivo nel sentimento". "Essa nasce nella sfera del sentimento - scrive J. Nikolin - e deve essere riscaldata e nutrita per mezzo del sentimento".

Questa insistenza sui sentimenti del cuore sorprende e non raramente insospettisce chi è abituato a una diversa terminologia. Per capire il giusto senso di queste espressioni bisogna sapere trasportarsi nell'ambiente dove furono pronunciate. Non vale un rinvio superficiale al "sentimentalismo slavo", perché così si rischierebbe di ridurre alla banalità ciò che gli autori classici e profondi hanno sostenuto con molta persuasione. In altri scritti abbiamo analizzato più in particolare questo termine complesso che è il serdtse (cuore) nella spiritualità slava. Lo scopo del presente articolo è piuttosto mostrare le sue radici, i motivi perché proprio questo termine è divenuto così significativo per la mentalità russa.

La prima ragione è storica. La Chiesa russa è figlia di Bisanzio, la sua spiritualità è "orientale". E qui il concetto di cuore ha già messo le sue radici sin dall'antichità. Vi si parla ripetutamente della custodia del cuore, dell'attenzione al cuore, della purezza del cuore, della preghiera del cuore, della presenza divina nel cuore, ecc. Basta gettare lo sguardo sugli Indici (alla voce: kardia) della famosa Filocalia, un ampio florilegio di brani più significativi sulla vita di preghiera tratti dai Padri e dagli scrittori bizantini. Ancora più impressionante è l'abbondanza del termine serdtse nella piccola antologia russa Dialoghi sulla preghiera a Gesù.

Ma l'amore per il termine "cuore" non può essere spiegato con il solo peso dell'eredità antica. Vi sono certi tratti del carattere slavo, che favoriscono il ricorso a questa voce piuttosto che ad altre. Il pensiero filosofico russo, come dimostra N. O. Losski, si differenzia dall'astrattivismo e oggettivismo della filosofia occidentale. Le sue caratteristiche sono al contrario: l'intuitività, l'ideale di una conoscenza integrale, il carattere tipicamente religioso di ogni problema sociale, filosofico e anche scientifico. Abbiamo dimostrato in un altro articolo come questi tratti hanno ispirato i pensatori russi a questa sostituzione: laddove gli occidentali usano la voce mente o ragione o intelletto, i russi sostituiscono spontaneamente il cuore.

Nelle righe che seguono, desideriamo restare nell'ambiente più ristretto degli autori spirituali (citando soprattutto Teofano Recluso, che può essere considerato sotto quest'aspetto classico. Studi recenti hanno messo in rilievo certi tratti tipici per la spiritualità dell'Oriente cristiano: è la sua indole antropologica, escatologica, ecclesiale, cosmica, contemplativa.

È proprio quando consideriamo queste caratteristiche tradizionali, ci rendiamo conto che il termine "cuore" è l'unico che serve in modo migliore ad esprimere ciò che gli autori spirituali desideravano insegnare e realizzare come scopo della vita cristiana.

La spiritualità antropologica

La spiritualità orientale - si dice spesso - dimostra un carattere essenzialmente antropologico. Parte dalla conoscenza di se stesso e s'impegna a sviluppare tutto ciò che Dio ha infuso nella intera natura umana: la sua immagine e rassomiglianza. O piuttosto, secondo il modo di parlare dei greci, dopo Origene: sviluppare l'"immagine" dinamica, con la quale siamo stati creati, affinché diventassimo "rassomiglianza" attraverso gli sforzi fatti durante la nostra vita.

In questa situazione non ci sorprende che ci furono all'inizio numerose discussioni e che furono date le risposte più svariate alla domanda fondamentale: in che consiste l'immagine di Dio nell'uomo? La quantità di opinioni dipende dai diversi punti di vista e dai diversi modi in cui il problema fu posto. Eppure tutte partono da una base comune, magistralmente esposta da san Cirillo Alessandrino: ciò che nell'uomo veramente rassomiglia a Dio può essere solo quell'elemento della nostra costituzione che è divino e spirituale nel vero senso della parola: lo Spirito Santo.

Un occidentale potrebbe essere sorpreso da questa constatazione: considerare lo Spirito Santo come un elemento costituente della persona umana. L'Oriente, al contrario, è stato sempre fedele alla "trichotomia" esposta da sant'Ireneo contro gli gnostici: "L'unione dell'anima e della carne, che assume lo Spirito Santo, costituisce l'uomo spirituale".

È il merito degli antichi filosofi greci che hanno vinto il materialismo stabilendo una distinzione netta fra il corpo e l'anima, l'elemento materiale e immateriale. I cristiani, a loro volta hanno superato una confusione più sottile: la falsa identificazione fra la realtà "spirituale" nel vero senso, e "l'immateriale" creato (quale è l'anima umana e le sue attività tipiche).

Gli autori russi, seguaci dei Padri greci, non raramente sospettano che l'Occidente sarebbe ricaduto nel vecchio gnosticismo a causa del suo razionalismo. Insistono quindi con un accento speciale sull'affermazione che la vita "spirituale" non è la vita "dell'anima" solo, ma il suo scopo è la partecipazione sempre più perfetta alla pienezza dello Spirito Santo. Egli è come se fosse "l'anima della nostra anima". La crescita nella rassomiglianza con Dio consiste quindi nella "spiritualizzazione progressiva" dell'anima, del corpo, di tutte le forze umane, e per mezzo dell'uomo, nella spiritualizzazione di tutto il mondo.

"La forza dello Spirito Santo - scrive Teofano Recluso - dà nascita alla vita spirituale e la stessa forza la sostiene e conduce alla perfezione: da Lui procede ogni movimento, ogni trasformazione nella vita spirituale. Senza l'anima il corpo è senza vita. Così anche senza lo Spirito di Dio l'anima è senza la vita spirituale".

Il paragone dello Spirito con l'anima è senza dubbio molto suggestivo. Eppure si tratta di una metafora, perché il contatto fra Dio e l'uomo è nascosto nella profondità del mistero. La teologia scolastica ha sollevato modestamente il problema de sede gratiae. La risposta che si dà normalmente, è che la grazia illumina direttamente l'anima e per mezzo dell'anima anche il corpo. Questa risposta sembra troppo generica ai mistici di tutti i tempi che furono sempre alla ricerca del "luogo" in cui lo Spirito risiede e tocca l'anima da vicino. Non credevano che si trattasse dell'anima intera, ma piuttosto del suo "fondo''.

Anche questa parola è simbolica e il simbolismo può essere anche inverso. Gli antichi filosofi greci erano persuasi che il mondo divino, simbolicamente collocato in "alto", si raggiungesse con quella parte della nostra anima che è la più "elevata": Non il "fondo", ma la "cima", la mente (il greco nous) che per natura sua è facoltà divina. Se i pellegrini del popolo salivano ai santuari sulle colline e sui monti, i saggi ellenici dissero che possiamo elevarci a Dio soltanto con la mente. Negli scritti dei Padri greci rimase a lungo questa terminologia antica. Passò quindi nel linguaggio cristiano nella definizione classica della preghiera come "l'elevazione della mente a Dio"

Dall'inizio però i cristiani si rendevano conto della problematica connessa con questa terminologia. Se la mente umana restasse sola, sarebbe certamente incapace di superare l'abisso che la separa da Dio. Nessuna idea, nessun concetto umano esprime l'essenza di Dio. Neanche Mosè che salì sulla cima del monte Sinai vi trovò il volto del Signore; così si formò l'immagine del mistico cristiano che ha sorpassato tutte le categorie della mente e che pur tuttavia crede di essere agli inizi della sua "elevazione a Dio". L'unico risultato di questo sforzo è il vivo senso della sua "ignoranza" e il desiderio ardente di esser rapito, sollevato dallo Spirito. L'ultima tappa, dalla cima in su, come dicono i mistici, seguendo san Gregorio di Nissa, si effettua con le "ali della carità diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo.

E' ovvio che la carità non è una virtù che può essere limitata alla sola ''mente'', a una sola ''facoltà'' umana, anche se suprema. Suppone al contrario la pienezza della vita, l'uomo intero, in tutto il suo essere e nella sua attività. Quindi, di conseguenza, lo Spirito Santo trova immediatamente l'uomo in quel "luogo" dove sono concentrate tutte le forze umane, dove si trova il centro e il cardine della persona: gli autori spirituali russi sono d'accordo che questo centro del nostro "io" ha un nome tradizionale; è il cuore (serdtse).

Il cuore, nel senso materiale come organo del corpo, è il centro della vita corporea: preso nel senso spirituale conserva la stessa funzione ora applicata alla vita dell'anima e dello spirito. Questo significato è del resto conforme alla Scrittura.

P. Florenskij fa derivare la parola serdtse dal serdo, centro.

Per Teofano Recluso tutte le facoltà e tutte le forme dell'uomo trovano nel cuore il loro campo naturale di azione. Perciò la preghiera, la fede, le azioni morali ecc., tutto deve uscire dal cuore. Per illustrare questa verità l'autore si serve di una metafora prestata dal teatro: quando un attore recita la sua parte fuori della scena, la sua interpretazione perde molto di efficacia. Così accade, quando si tratta di una facoltà umana che agisce isolatamente. Ma anche questo paragone sembra indebolire la funzione del cuore, perciò Teofano aggiunge l'interpretazione: "Infatti (il cuore) non soltanto è come una scena sulla quale gli attori recitano la loro parte, ma esso stesso prende parte alla interpretazione; per mezzo della loro attività tutte le forze (dell'anima) hanno una ripercussione in esso e, allo stesso modo, esso si ripercuote in esse. Quindi il cuore è considerato come la radice della sostanza umana, il focolare di tutte le forze umane, cioè: quelle dello Spirito, dell'anima e del corpo".

In coerenza con la trichotomia dei Padri orientali, quindi lo Spirito Santo fa parte della persona umana, egli risiede nel cuore. Come può quindi esserci altro scopo della vita spirituale che far del proprio cuore il degno "trono dello Spirito Santo"? "Nel cuore si concentra tutta l'attività spirituale dell'uomo: le verità vi ricevono la loro impronta, le buone disposizioni vi hanno la loro radice". Al contrario, se il cuore e lo Spirito sono "divisi fra di loro, l'uomo non è più buono a niente". In termini moderni si direbbe: egli ha frustrato la sua personalità umana.

La spiritualità escatologica

"La Russia - scrive Berdiaev - è una rivolta apocalittica contro l'antichità, come disse Spengler. Ciò significa che il popolo russo, per sua natura e per sua vocazione nel mondo, è un popolo della fine dei tempi... Nel nostro pensiero, il problema escatologico occupa un posto infinitamente più grande che nell'Occidente: ciò si deve alla stessa struttura della coscienza russa, poco capace e poco disposta ad attenersi alle forme limitate di una qualche cultura intermedia".

Del carattere "escatologico" della Chiesa orientale e in particolar modo di quella russa si è parlato più di una volta, ma nelle discussioni sull'argomento non sempre si sono evitati equivoci.

Esiste un escatologismo popolare, che caratterizza i predicatori nei tempi dell'attesa di un cataclisma. L'Occidente ha avuto il suo "millenarismo". La Russia medievale numerava gli anni dalla creazione del mondo e aspettava la fine quando il numero doveva salire ai 7000. Progettata nella vita di ogni giorno, l'attesa escatologica di questo tipo dimostra un disinteresse per la vita presente, priva di ogni senso.

L'escatologismo però dei monaci contemplativi dell'Oriente è assai diverso. La vita eterna (in greco zoè), non comincia dopo la morte o dopo la fine del mondo, ma deve essere vissuta già nella vita presenta (in greco bios). Già nell'antica filosofia greca Parmenide fu profondamente impressionato dalla visione della vera realtà, eterna e immutabile, sotto le apparenze esterne e i mutamenti visibili. Lo scopo della "contemplazione naturale" (theoria physiké) dei monaci dovrebbe essere simile: scoprire sotto le apparenze visibili e sensibili del mondo creato il volto della sapienza divina creatrice e conservatrice del mondo. Ma non soltanto la natura intorno a noi, anche l'uomo stesso deve essere visto nella medesima prospettiva. La Bibbia ci mette spesso in guardia a non giudicare gli uomini secondo le apparenze ma secondo il cuore. Certamente è spiacevole l'espressione di Feuerbach: l'uomo è ciò che mangia. Ma infatti l'uomo non è neanche ciò che pensa e ciò che, in un momento determinato, vuole. I suoi pensieri, le sue decisioni sorgono dalla profondità del suo ''io'' misterioso e nascosto: "Non pensare a fondare la tua santità sull'agire - scrive Eckhart - bisogna che il suo fondamento sia l'essere; non sono le opere che ci santificano, ma siamo noi che dobbiamo santificare le opere". Non è certo opportuno minimizzare il valore delle buone azioni, ma la perfezione non può consistere in questi atti isolati, bensì nella disposizione stabile del cuore da cui provengono. Non è neanche puro caso che i manuali della morale occidentale - per natura pratica - analizzano con precisione estrema la perfezione o l'imperfezione degli atti morali. Ciò che ha preoccupato gli asceti orientali contemplativi fu al contrario lo stato (katastasis), le disposizioni stabili del cuore.

''La scala del paradiso, una icona del monte Sinai, illustra bene lo sforzo dei padri spirituali dell'Oriente a partecipare sempre di più all'eterna vita divina, in modo stabile e sicuro. Rappresenta i monaci che salgono la scala: sui gradini inferiori sono ancora agitati e si muovono dappertutto, ma più arrivano in alto, più diventano immobili e fissano i loro occhi nell'eternità.

Teofano Recluso interpreta la stessa esperienza spirituale in questi termini. Gli atti morali sono sotto il dominio della nostra volontà libera; ne consegue la piena responsabilità per tutto ciò che facciamo. A causa di questa libertà che però può cambiare da un momento all'altro, siamo continuamente esposti al pericolo del peccato, che è possibile nella libertà imperfetta, mutabile, instabile. La santità e le virtù debbono quindi diventare una disposizione permanente del cuore, "un sentimento del cuore"; l'espressione presa fuori dal suo contesto potrebbe apparire strana, ma Teofano si rende conto del suo vero significato e cerca di giustificarlo anche dal punto di vista psicologico: "Sappiamo bene che quando l'uomo è penetrato da un sentimento, questo lo rende in un certo modo stabile: egli è disposto a dirigere ogni sforzo verso tutto ciò a cui lo spinge questo sentimento".

Va da sé quindi che non possono mostrare questo carattere stabile i sentimenti labili del corpo e dell'anima. Duraturo è soltanto il sentimento "spirituale", quando il cuore umano batte all'unisono con lo Spirito che ivi risiede. Soltanto allora possiamo avere una certa sicurezza della salvezza, che è una prelibazione, anche se mai assoluta, dell'eternità nelle vicende della nostra vita che sfugge. Sembra strano: "Vi è forse un organo più fragile del cuore? Eppure nulla è più stabile di ciò che esce dal cuore; quando i comandamenti (di Dio) sono fissi nel cuore, il loro adempimento è sicuro".

La spiritualità ecclesiale

Il cuore indica l'unità delle facoltà e delle forze umane, in esso l'uomo riunisce in qualche modo le sue azioni disperse nel tempo, nel corso della sua vita terrena. Ma, si può considerare l'uomo come veramente unito, se rimane isolato in se stesso, separato dagli altri? Un tale isolamento condurrebbe alla distruzione della sua propria unità personale. Questo è il pensiero caro a molti pensatori russi.

Un concetto è divenuto caratteristico della teologia russa degli ultimi secoli: la sobornost, il senso della Chiesa, la devozione per la Chiesa, la "collegialità" (nel senso approssimativo), con diverse sfumature di interpretazione teologica, il cui fondo comune è la ferma persuasione che la vita spirituale di ognuno si può svolgere soltanto in unione con gli altri, nella Chiesa.

Alla domanda: Che cosa sia la Chiesa, le risposte diverse manifestano gli aspetti molteplici dell'unione dei fedeli. I russi insistono volentieri sull'affermazione che la Chiesa deve apparire in primo luogo come "unità di cuori". Ma per valutare giustamente la loro tesi, consideriamo i suoi presupposti "antropologici".

Nella composizione tricotomica dell'uomo spirituale, lo Spirito Santo, "l'anima della nostra anima" è insieme ''un' anima comune'' a tutti i credenti: quindi, essi costituiscono un solo corpo, vivono la loro vita spirituale nella loro unione inseparabile. Ma siccome lo Spirito risiede nei cuori dei singoli, ne consegue inevitabilmente la conclusione: l'unità dei fedeli si manifesta in primo luogo nei loro cuori. Quante volte viene interpretato in questo senso, dopo san Basilio questo versetto degli At 4, 32: La comunità dei fedeli (a Gerusalemme) aveva un solo cuore e un'anima sola. "Una via particolare conduce all'unione degli uomini - scrive Teofano - è il cuore. Uno spirito esercita la sua influenza sull'altro facendo intervenire il sentimento".

Quando parlano del ruolo del cuore nella vita sociale, i russi si esprimono talvolta in modo radicale. Ascoltiamo Vyseslavcev: "E' falso pretendere che esiste qualche "cordialità" senza religione, che si chiamerà solidarietà, coscienza sociale, ecc. Nel nome di questa solidarietà sono stati già commessi i più grandi crimini giustificandoli con le declamazioni sull'amore dell'umanità, con una retorica nello spirito di Rousseau o di un Robespierre. Prima di tutto bisogna dire che questi uomini non hanno avuto cuore e, di conseguenza hanno perduto ogni relazione mistica con il prossimo e con Dio: hanno perduto, infine, il loro vero "io", l'hanno dimenticato non sospettando neanche la sua esistenza".

Chi vive più "nel cuore" è il popolo semplice. Perciò, secondo gli slavofili la vera garanzia dell'unità della Chiesa è l'esperienza religiosa del popolo ecclesiale, il quale sente e conserva intatti i tesori del cristianesimo, spesso perduti e contaminati dal razionalismo delle classi che si chiamano intelligenti. I teologi che si allontanano dalla fede del popolo, rischiano di perdere la verità divina, anche se le loro riflessioni appaiono essere ingegnose.

"La verità spirituale - scrive A. S. Chomiakov - non si limita e non può limitarsi solo alla sfera della dogmatica. La fede ha in sé la forza di abbracciare necessariamente tutta la vita: il riconoscimento del popolo ecclesiale come custode della verità, come qualcosa di integro e spiritualmente vivente".

Di conseguenza anche l'autorità ecclesiale deve avere la sua base nella fede del popolo semplice. "I vescovi, i Padri dei concili - secondo A. A. Kireev - non sono legislatori indipendenti, ma solo testimoni della fede dei loro figli spirituali, delle loro Chiese". Non vogliamo entrare nei problemi teologici sollevati dalle riflessioni degli slavofili, insistiamo piuttosto di nuovo sul loro fondamento comune: "Se il centro della persona umana è il cuore, allora è con il cuore che l'uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste", ed esso è quella "via particolare che conduce all'unione degli uomini".

La spiritualità cosmica

L'unità dell'uomo con tutto il mondo è un tema ben conosciuto nella tradizione orientale. I primi Padri della Chiesa nutrivano una grande ammirazione per il cosmos, l'universo creato. Esprimono le loro riflessioni spesso nella terminologia stoica. I filosofi del Portico professavano un logos unico che penetra tutte le cose e predicavano un dogma dell'unità del mondo nel pneuma, spirito divino.

I cristiani rifiutano l'unità panteistica dei pagani e professano il carattere trascendente del pneuma divino. Ma nello stesso tempo credono che Dio creò tutto il mondo per mezzo del suo Verbo e che in ogni cosa creata risiedono le tracce della divina sapienza. Lo scopo della contemplazione cristiana non è altro che vedere queste tracce divine sotto la superficie degli esseri, vedere Dio nelle creature che lo rivelano.

Origene esorta alla ricerca dei logoi dispersi nel mondo, san Basilio vi scopre la sophia, gli autori russi recenti parlano della sophiologia. Le icone russe dipingono la saggezza divina come un angelo di colore rosso che siede sul trono di questo mondo e gli conferisce unità e bellezza, qualità che ci invitano a essere ammirate e contemplate in ogni cosa creata; entriamo così consapevolmente nella salvezza cosmica, universale.

Nonostante il loro senso artistico e i loro numerosi trattati intitolati "Sulla natura", gli antichi greci non avevano una sensibilità romantica per le bellezze naturali, furono troppo speculativi. Fra gli asceti cristiani della loro generazione leggiamo forse soltanto di san Nilo di Grottaferrata che si permetteva una passeggiata per ammirare Dio nelle bellezze della campagna romana. Assai differenti ci si presentano, sotto questo punto di vista, i famosi "pellegrini russi". "Tutto ciò che mi circondava - scrive un pellegrino mi sembrava ammirevole: gli alberi, l'erba, gli uccelli, la terra, la luce, l'aria, sembrava che tutto sottolineasse la sua esistenza per l'uomo, tutto testimoniava l'amore di Dio per gli uomini, tutto pregava e cantava la gloria di Dio ".

I russi avevano sempre un grande senso della bellezza, nelle chiese, nelle icone, nel canto, in tutto ciò che appartiene al culto divino e alla preghiera. Secondo la narrazione del cronista di Kiev, questo motivo fu decisivo per la loro conversione al cristianesimo. Il principe Vladimiro avrebbe voluto decidere fra le diverse religioni dall'osservazione dei rispettivi riti. Provò un orrore vivissimo davanti al culto ebraico, per le cerimonie latine non sentì alcun trasporto, mentre il rito bizantino produsse su di lui e i suoi un impressione grandissima: "Quando siamo giunti in Grecia e quando i greci ci hanno condotto nell'edificio in cui si teneva il loro culto a Dio, non sapevamo se eravamo sulla terra o in cielo, perché sulla terra non ci può essere un tal splendore né una simile bellezza quali non siamo in grado di descrivere. Sappiamo soltanto che qui Iddio vive tra gli uomini e che le loro cerimonie sono le più nobili fra tutte le nazioni, non possiamo dimenticare la loro bellezza. Ogni uomo che ha provato il dolce, non vuole più gustare l'amaro.

La bellezza delle chiese e dei riti si considerava come ottimo metodo missionario per la conversione degli eterodossi. Il principe Andrea Bogoljubskij (+1174) aveva l'abitudine di condurre ogni mercante che dall'estero veniva da lui nei portici della chiesa, affinché "vedesse il vero cristianesimo e si convertisse". Anche le piccole chiesine di legno dei villaggi russi, dice Bulgakov, cercano di produrre la stessa impressione di santa Sofia a Costantinopoli, cioè il riflesso della sapienza divina in terra nel suo splendore di bellezza.

Non è però facile dire come venga considerata la bellezza dall'uno o dall'altro. Gli autori spirituali sottolineano che si deve trattare della "bellezza spirituale", non quella carnale; ciò è ancora più difficile a interpretare con le parole. E' però interessante che già san Basilio, quando parla della "bellezza" delle opere divine che ci introduce nella contemplazione, intendendola come armonia, ordine, l'unità degli esseri in Dio.

Il filosofo religioso Paul Florenskij, interpreta il vecchio assioma scolastico: unum, verum, bonum in questa forma: "La verità, la bontà, la bellezza - triade metafisica - non sono tre principi differenti, ma uno solo. Si tratta di un'unica vita spirituale contemplata sotto aspetti diversi. Non ci sfugge che il termine bellezza sostituisce quello di unità; vedere le cose come belle significherebbe l'esperienza vitale e il senso profondo della loro armonia, dell'unione di tutto ciò che esiste.

Forse la stessa parola slava per indicare la verità può servire come testimonianza di questo senso per indicare la realtà nella sua totalità. La voce istina ha la stessa radice del latino est, ciò che esiste, e ancora coll' asthmi sanscrito, che dice spirare. Cercare la verità vuol dire comprendere l'universo animato da una vita che vi "spira". Non sorprende quindi che la filosofia russa dimostra sempre una forte tendenza "esistenzialista", ma si tratta di un esistenzialismo che preferiamo chiamare cosmico, non individuale. La persona umana che è in continuo ascolto delle voci e dell'armonia cosmica desidera inserire se stessa in questa grande "liturgia cosmica".

L'ideale dell'arte iconografica fu proprio questo: la visione spirituale dell'universo pieno di bellezza, nel quale si deve trovare un posto per noi. "L'amore - dice ancora Florenskij - esige necessariamente che si sorpassino le frontiere del mio io per poter entrare in una nuova realtà dove tutto porta il sigillo della bellezza".

La fuga del mondo praticata dagli asceti con tanto rigore sarebbe allora contraria a questo ideale? Florenskij non è di questo parere. Per lui "l'ascetismo non crea una personalità buona, ma bella: il tratto particolare caratteristico dei grandi santi non è la bontà del cuore, la quale è comune fra gli uomini carnali e persino fra i grandi peccatori, ma piuttosto la bellezza spirituale, la splendida bellezza della persona, bellezza che acceca e illumina, che non può essere raggiunta dall'uomo carnale". Indispensabile è quindi per l'ascesi un grande senso di moderazione.

Quando si tratta quindi di stabilire a quale organo è riservato di percepire questa bellezza-unità, gli autori russi non hanno alcun dubbio che questo può essere soltanto il cuore, centro della nostra propria unità personale. Per distinguere il vero dal falso abbiamo una facoltà speciale - la ragione: similmente per decidere a fare il bene abbiamo la volontà libera. Ma per valutare la bellezza - scrive Teofano Recluso - non basterebbe qualche facoltà speciale, deve intervenire il cuore che "ritorna a se stesso, alla sua propria grazia", che percepisce la sua propria unità e finalità.

Di conseguenza, se il centro dell'essere umano è il cuore, per mezzo del cuore l'uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste. Stabilito una volta questo doppio nesso, si può definire la doppia funzione del cuore: essere centro delle forze e servire come base per stabilire "il contatto con tutto ciò che esiste al di fuori di noi". Poiché la realtà creata da Dio è bella, di fronte ad essa nascono nel cuore i "sentimenti estetici".

Nello stesso senso, scrive P. Ivanov: "E' soltanto per mezzo del cuore che si può afferrare il segreto dell'universo, ciò che Kant chiama la cosa in se stessa. E' il cuore quindi che percepisce Dio, gli uomini, gli animali, la natura. Il cuore solo può perciò dare pace allo spirito". Questa affermazione è del resto, la conseguenza della dottrina orientale sulla divinizzazione del mondo per mezzo dello Spirito Santo: il medesimo Spirito risiede nel cuore e vivifica l'universo; quindi è il cuore che percepisce la vita del cosmo.

Anche i greci avevano un grande senso dell'unità del cosmo. Ma si può dire che per i russi questo "senso cosmico' è meno speculativo, è più "sentito". L'ideale sarebbe ciò che dice Dostojevskij: "sentire con tutto ciò che esiste".

L’attenzione al cuore

La conclusione morale dalle precedenti considerazioni fu per gli asceti, sempre evidente. "Nel cuore si concentra tutta l'attività spirituale dell'uomo... Per questo motivo la formazione del cuore ha dall'inizio una grande importanza". Questa formazione del cuore ha, nella spiritualità orientale, nomi tipici: la custodia del cuore (phylaké kardias), la sobrietà (nepsis) interiore, o semplicemente l'attenzione (prosochè), vigilanza, sorveglianza (episkopé) del cuore. Ma anch'essa dimostra diversi aspetti.

Possiamo schematizzarli in tre punti: il primo si può chiamare "negativo" a differenza dell'altro "positivo", ed infine il terzo "contemplativo".

L'attenzione negativa concentra gli sforzi umani nella purezza del cuore, e questa, nelle esortazioni degli asceti, occupa il posto più ampio. Il peccato ha dissipato le forze che dovrebbero essere concentrate nel cuore in un'armonia perfetta. L'attenzione alla purezza del cuore significa quindi lo sforzo a restaurare l'unità della persona umana, escludere ciò che gli è estraneo; i peccati, le passioni e anche i loro semi - pensieri malvagi (logismoi, in slavo: pomysly).

Teofano paragona il cuore umano con un cavallo che dovrebbe rimanere tranquillo nei pascoli spirituali. Purtroppo il diavolo cerca di continuo di salire su di lui e condurlo sulle sue vie, di attrarlo a sé per mezzo dei "pensieri". Riprendendo l'insegnamento degli esicasti, l'autore distingue i seguenti gradi o stadi attraverso i quali un pensiero penetra nel nostro cuore:

1) la suggestione (prilog),

2) l'attenzione a quello che è suggerito (vnimanie),

3) compiacimento nel pensiero proposto (slazdenie),

4) desiderio della cosa proposta (zelanie),

5) risoluzione (resimost),

6) esecuzione dell'opera (delo).

Non è nelle nostre possibilità essere liberi dalle prime suggestioni al male. D'altra parte il vero peccato, nel senso formale, appare soltanto nel quarto stadio. Ma la perfezione consiste nel non ammettere neanche il secondo grado, cioè non prestare attenzione al pensiero malvagio. Nel linguaggio degli asceti si dice: mettere il Cherubino con la spada davanti alla porta del cuore, non dare un minimo accesso al serpente a penetrare nel nostro paradiso interiore

Questa attenzione negativa, difensiva è immediatamente seguita dall'attenzione positiva: al coltivare le virtù nel giardino del cuore. Fra queste la regina di tutte è la carità. Il cuore stesso, essendo centro di tutte le forze e aspirazioni umane ha per sua natura un ardente desiderio di Dio (cf. il famoso eros divino di Platone). Per mezzo dello Spirito Santo che vi risiede diventa anche sorgente dell'agape, amore cristiano nel vero e pieno senso della parola. Lo Spirito Santo è, come dicono i Padri, cristiforme, trasforma l'uomo nell'immagine di Cristo, fa sì che il nostro cuore batta all'unisono con quello del Salvatore. Teofano fa sue le parole di Crisostomo, il quale interpreta l'apostolo Pietro (Fil 1,8): "Vi amo nelle viscere di Gesù Cristo, ciò vuol dire per mezzo della sua grazia, per mezzo del suo cuore... Non dice (l'Apostolo) per mezzo dell'amore, ma parla in modo più espressivo, più forte: per mezzo del cuore di Cristo". L'effetto dell'attenzione positiva al cuore è quindi la santificazione, l'identificazione con la persona di Gesù, con il suo cuore.

La santità, perciò, e specialmente la carità è "la porta della contemplazione". Il cuore puro è quindi organo e insieme oggetto della contemplazione.

Spiritualità contemplativa

L'Occidente fu spesso paragonato a Marta, e l'Oriente a Maria (cf. Lc 10, 42) a causa del suo carattere contemplativo e il suo ideale di "vedere Dio in ogni cosa". Che "il cuore puro" vede Dio (cf. Mt 5, 8), che sia proprio esso l'organo della contemplazione, di questa verità fondamentale non si è mai dubitato in Oriente. Ragionare di Dio, dice Evagrio, possono anche gli empi, ma lo "vedono" solo quelli che sono puri.

La contemplazione, theoria (letteralmente: visione) è una "intuizione". Il termine slavo per la contemplazione sozertsanie rende perfettamente questa sfumatura. Sorprende che il termine si usa relativamente poco, se non nelle traduzioni dal greco. Come spiegare ciò?

La "contemplazione" è un termine spirituale, ma preso in prestito alla conoscenza sensibile, perché anch'essa è immediata. E' senza dubbio tipico che fra i cinque sensi del corpo la tradizione ellenica, di natura "visiva', abbia sempre creduto che il contatto più sicuro e intimo con la realtà si realizzi soltanto per mezzo della vista. Gli slavi, sembra, si fidino un po' meno degli occhi, specialmente quando si tratti di persone. Il loro vero valore non si "vede", ma piuttosto si sente". Dobbiamo quindi meravigliarci che gli autori spirituali si esprimono analogicamente in questa linea? Sono meno attirati dalla "visione di Dio", ma desiderano ardentemente sentire la sua presenza. Dato che è ovvio che il "vedere" spirituale si colloca nella mente - "occhio spirituale" - così è ugualmente spontaneo che l'organo del "sentire sia il cuore. Se presso i Padri greci il termine mente ha sostituito il cuore, i russi ritornano volentieri alla parola antica.

Questo ritorno alla kardia appare già nella cosiddetta spiritualità "del sentimento", presso i greci e i bizantini. Perciò nella Filokalia greca, ambedue i termini, la mente e il cuore, coesistono pacificamente con lo stesso significato. Nella lingua russa, tuttavia, la parola um, mente, dà sempre di più l'impressione di una facoltà discorsiva, non intuitiva, perciò viene sempre più radicalmente sostituita dal serdtse, cuore.

In questo processo non c'è niente che contraddice la tradizione. La terminologia divenne equivoca quando gli autori recenti ricevettero la divisione tripartita dalla psicologia sperimentale moderna: la conoscenza, la volontà, il sentimento. Allora gli autori occidentali, mossi dalla paura che l'insistenza sui sentimenti del cuore" potesse degenerare in qualche sentimentalismo banale, nell'irrazionalismo e nel "modernismo", sollevarono obiezioni contro la terminologia russa.

E' vero pertanto che Teofano Recluso vuole a ogni costo sfuggire non soltanto i pericoli di un "sentimentalismo", ma anche del "razionalismo" e distingue con cura, secondo la tradizionale tricotomia orientale, tre zone nella persona umana: il corpo, l'anima e lo Spirito. Quindi anche tre specie di "sentimenti": del corpo, dell'anima e quelli "spirituali" che non sono altro che la voce dello Spirito, unita al desiderio fondamentale di tutta la natura umana e quindi un'autentica sorgente della rivelazione.

Spostati nella sfera dello Spirito Divino, i "sentimenti del cuore", come li intendono i russi, non si possono, avverte N. Losski, neanche comparare con "l'intuitivismo" dei filosofi europei recenti. L'autore è persuaso che, in Occidente, il termine intuizione sia ancora sospettato di soggettivismo psicologico ed è quindi giudicata di secondario valore epistemologico dinanzi alla rigida conoscenza logica concettuale. Al contrario, "la fiducia dei filosofi russi riguardo all'intuizione" si spiega dalla circostanza che è proprio l'intuizione che "fa conoscere i principi metalogici". Traducendo questo linguaggio complicato nei termini degli autori spirituali possiamo dire: esiste una intuizione" puramente umana, che si cerca normalmente di giustificare con un ragionamento logico. L'intuizione che è la voce dello Spirito Santo, è evidentemente "metalogica", superiore a ogni giustificazione per mezzo dei ragionamenti umani, non è la voce della "ragione", ma della "carità", che diventa essa stessa conoscenza. Dio Padre che è la carità (1 Gv 4, 8.16) si conosce per mezzo della carità.

Tutti i maestri spirituali ortodossi hanno insistito fortemente sulla necessità della carità per la contemplazione spirituale. L'invocazione, che nel rito bizantino precede immediatamente la recita del credo, si considera come tipica di questa mentalità: "Amiamoci gli uni gli altri affinché possiamo con unanimità professare: Credo in un solo Dio Padre...". Aggiungiamo anche la spiegazione di Vyseslavcev: "E' profetica per ogni intellettualismo recente l'espressione di Leonardo da Vinci: "Un Grande amore è figlio di una grande conoscenza". Noi, cristiani dell'Oriente, possiamo dire il contrario: Una grande conoscenza è figlia del grande amore".

Teofano giudica questa voce della carità infusa nei cuori mediante lo Spirito di Dio indispensabile per la vita spirituale: "Se vi è qualcuno che non conosce per propria esperienza l'azione della grazia dello Spirito Santo nel suo cuore, bisogna dubitare della sua salvezza. In questo senso il cuore serve da "barometro" della vita spirituale: far penetrare le verità religiose nel cuore (ciò che si fa nella contemplazione, nelle meditazioni) significa conoscere la verità così "come essa lo esige".

Anche la famosa "preghiera di Gesù" diffusa ed elogiata negli ambienti monastici russi, praticata talvolta con l'aiuto di metodi "psicofisici" (per mezzo della respirazione, della posizione del corpo, concentrazione sul cuore), non ha altro scopo che introdurre la preghiera e tutta la vita spirituale, tutti i nostri pensieri "dalla testa nel cuore", nel loro fondo naturale, affinché le voci ossia le esigenze umane del nostro corpo e della nostra anima si uniscano con "lo Spirito nel cuore, il quale metterà fine al disordine che regna nei pensieri e darà la forza a dirigere tutti i movimenti dell'anima".

In linea generale, dicono i contemplativi, ogni cosa può e deve condurci all'unione con il Creatore. Di fatto, però ci troviamo di fronte alle diverse mentalità dei popoli. I greci cercarono Dio e lo scoprirono nell'ordine del cosmos, gli ebrei nella storia. Gli autori spirituali russi lo ricercano nel cuore e ivi godono della sua presenza.

Concludiamo quindi con un testo caratteristico: "Figlio mio, dammi il tuo cuore! Dice il Signore nei Pro 23, 26; perché nel cuore c'è l'origine di ogni bene e anche di ogni male. Quale sei nel cuore, tale sei davanti al volto del Signore".

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Domenica, 19 Giugno 2005 21:23

Lettera per la pace (Ernesto Sábato)

Lettera per la pace
di Ernesto Sábato


 



Cari bambini:

Vi siete già resi conto di come il potere vince, di come gli uomini uccidono per il potere.
Vi siete già resi conto, l'avete visto in televisione, delle atrocità dei bombardamenti, dei massacri, della miseria, dell'orrore che la guerra reca a chi la subisce.
Sapete anche che altri bambini come voi vedranno morire di dolore i loro genitori, i loro fratellini. Ma questo al potere non interessa.
Sapete anche che milioni e milioni di uomini e donne hanno manifestato per le strade di tutto il mondo il loro desiderio di pace, la loro opposizione a questa guerra. E anche questo sembra non interessare al potere.

Allora, davanti alla gravità della situazione in cui viviamo, il messaggio che voglio comunicarvi è il seguente: dobbiamo rimanere saldi nella convinzione di non accettare e di non rassegnarci alla guerra.
Dobbiamo mantenere accesa nell'anima, cari bambini, la fiammella di questo dolore dell'umanità, ed esservi fedeli.
Se sapremo tener ferma questa determinazione, sarà incrollabile.
Potranno fare la guerra, ma dovranno sapere che sono assassini, che così li chiameranno i bambini di tutto il mondo.

L'amaro presente col quale ci dobbiamo confrontare esige che le nostre parole, i nostri gesti, la nostra opera si consacrino, come autentico compimento della nostra più alta vocazione, a manifestare l'angoscia, il pericolo, l'orrore, ma anche la speranza, il coraggio e la solidarietà degli uomini.
In questa terribile situazione, ogni uomo e ogni donna, ma anche voi, bambini, siete chiamati a farvi portavoce del grido di dolore di migliaia di persone, le cui vite stanno per essere ridotte al silenzio attraverso la violenza delle armi.

E' ormai evidente che coloro che detengono il potere prendono decisioni diverse dal sentire dell'umanità, scatenando guerre atroci - con macabra ironia definite umanitarie - contro popoli abbandonati a se stessi.
Davanti a questi fatti, davanti alla violenza e alla morte dei nostri fratelli, dobbiamo resistere per proteggere quella dimensione assoluta in cui la vita e i valori sono elementi insostituibili, l'unica che dà la misura della grandezza umana.

In tutte le lingue, 'pace' è una parola suprema e sacra, espressione del desiderio di Dio per gli uomini. Il desiderio di un regno di pace e giustizia; pace e giustizia che siamo qui a chiedere e testimoniare.


Testo letto il 25 marzo 2003 da Ernesto Sábato davanti a 2000 bambini delle scuole pubbliche di Buenos Aires, riuniti nello Stadio de Obras Sanitarias per manifestare a favore della pace.

Traduzione dallo spagnolo a cura di Luciana Barcina/Andrea Grechi (Traduttori per la pace)

La fondamentale acquisizione della Sacrosanctum concilium, accanto alla natura ecclesiale della liturgia in quanto azione di Cristo e di tutto il suo popolo, che è la chiesa concentrata nell'assemblea celebrante, è sicuramente quella della liturgia come celebrazione del mistero pasquale (1).

Nella storia della spiritualità la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14)  costituisce uno dei riferimenti più classici per invitare a seguire la  via dell'umiltà, abbandonando quella dell'orgoglio. Anche san Gregorio  Magno (540-604) si inserisce, con equilibrio e intelligenza, in questa  tradizione.

La gloria di Dio è l'uomo che vive, è vivo l'uomo formato dalle due mani di Dio: il Verbo e lo Spirito Santo.

La Bibbia immaginaria
del "Codice Da Vinci"

Domande rivolte a Daniel Marguerat (professore di Nuovo Testamento alla facoltà teologica dell’Università di Losanna) da Anne Soupa (redattrice capo di Biblia).

 

D. Quali sono le sue prime impressioni su questo romanzo?

R. Debbo dire, innanzi tutto, di aver letto con piacere il romanzo "Il Codice da Vinci". Dan Brown è un buon narratore e nella sua opera vi è quel tanto di credibile e di inverosimile che serve per caratterizzare un romanzo di questo genere, e questo spiega il suo successo. Ma, trattandosi di un genere particolare e difficile come il romanzo storico (ammettendo che la definizione sia appropriata) io mi pongo alcune domande.

Innanzi tutto,di fronte all’affermazione che l’autore fa "tutte le descrizioni sono documentate e non sono frutto di fantasia" si rimane sconcertati; questa affermazione non risponde a verità, perché al di là delle molte libertà che l’autore si prende e che si possono accettare, Dan Brown commette degli errori madornali dal punto di vista storico, che nessuno studioso può far passare sotto silenzio. La sua dichiarazione iniziale, induce in errore il lettore che pensa così di trovarsi davanti ad una seria opera storica, riponendo inoltre la sua fiducia in uno scrittore che non la merita completamente.

D. Quali sono questi errori?

R. Innanzi tutto posso dire che il libro è nel complesso attendibile quando tratta dei Templari, della proporzione divina e della sequenza di Fibonacci; le cose cambiano quando affronta altri temi di carattere storico, che l’autore mostra di conoscere solo approssimativamente.

Prima grossolana affermazione: "La Bibbia come la conosciamo, è stata collazionata da un pagano, l’imperatore Costantino". A questo proposito, possediamo fonti sicure. Nel 4° secolo Eusebio di Cesarea scrive una Vita di Costantino in cui parla di un’ordinazione fatta dall’imperatore, di quaranta codici, la più importante dell’antichità. Questi codici erano destinati alle chiese, dopo che, a seguito dell’editto di Milano nel 313, i cristiani erano stati autorizzati al culto. Probabile fonte di questa notizia è il Codex Vaticanus scritto nel 350. Si è poi diffusa una versione, più tardi definita "bizantina".

Anche se non possediamo Bibbie complete anteriori a Costantino, è evidente che esistevano versioni dell’Antico e Nuovo Testamento a disposizione delle comunità che i Padri della Chiesa leggevano e delle quali ci hanno lasciato delle liste. Queste liste figurano, fin dal 2° secolo nell’opera di Ireneo di Lione, Contro le eresie, ed anche nel frammento detto di Muratori,Vetus Latina, molto in uso presso le comunità di lingua latina, non possediamo che versioni del 4° secolo. nome dello studioso italiano che lo ha scoperto. Da parecchie fonti, sappiamo che alla fine del 2° secolo, il canone è stabilizzato. Della

Naturalmente Costantino ha rivestito un ruolo in tutto questo, ma non certo quello che Dan Brown immagina, cioè di decidere ciò che può far parte della Bibbia e ciò che deve essere escluso.

D. Dan Brown si spinge ancora più in là affermando persino che Costantino ha manipolato i testi ponendo l’accento sulla divinità di Gesù, a scapito della sua figura umana. Che cosa ne pensa?

R. Dan Brown in effetti dice: "Costantino ha ordinato e finanziato la redazione di un Nuovo Testamento che escludeva tutti i vangeli che evocavano gli aspetti umani di Gesù, privilegiando - adattandoli se necessario - quelli che mettevano maggiormente in luce la sua divinità. I primi Vangeli furono dichiarati contrari alla fede, raccolti e bruciati".

Queste affermazioni attestano una profonda ignoranza dell’intensa e laboriosa costruzione teologica dei primi secoli. Innanzi tutto c’è da osservare che ci sarebbe voluto di più di un imperatore convertito da poco per influire su Scritture così profondamente inserite nella tradizione. Inoltre, il Credo adottato dal concilio di Nicea (325) convocato da Costantino, riprende le professioni di fede già in uso ed è già centrato sulla doppia natura, divina e umana, di Cristo.

Infine, se è vero che questo concilio aveva come scopo combattere l’eresia ariana che contestava la divinità di Gesù, è anche vero che non viene in alcun modo sottovalutata la natura umana di Gesù. Al contrario, è proprio la tensione tra un’umanità pienamente vissuta e una divinità accertata, che successivi concili di questo periodo hanno messo in evidenza. Quando Dan Brown deduce inoltre dalla sua "dimostrazione" che "i primi eretici furono quelli che avevano scelto di credere alla storia originale di Gesù" fa un’affermazione aberrante che può essere smentita da qualsiasi storico.

D. Che cosa pensa della tesi del "matrimonio di Gesù"?

R . Il Nuovo Testamento presenta Gesù come un rabbi, ed un rabbi ha una sposa ed è circondato da numerosi figli, segno della benedizione di Dio. Gesù si mostra tollerante verso le donne, anche quelle di malaffare e non intende dare forma di legge alla sua scelta di celibato. Bisogna far notare che nessuno dei quattro Vangeli fa menzione di una donna che sia intima di Gesù. In sé, questo fatto non mi scandalizzerebbe certamente e rientrerebbe perfettamente nel genere di vita dei rabbi. Ma come potrebbe allora non esserci nei Vangeli alcuna traccia di una donna di Gesù?

D. Dan Brown avrebbe dunque inventato di sana pianta il rapporto di Gesù con Maria Maddalena? Da dove provengono i fatti che egli cita?

R .Egli traduce, con una buona dose di approssimazione, alcuni versetti dei vangeli apocrifi di Maria Maddalena (2° secolo) e di Filippo (4° secolo), che però sono dei testi incompleti, in quanto mancano di alcune parti e la loro traduzione è approssimativa. Per esempio, nel vangelo di Filippo, si trova questa frase: "Il Salvatore aveva per compagna Maria Maddalena che baciava [i piedi, la bocca o la fronte o la guancia]. Gli Apostoli erano offesi e gli esprimevano la loro disapprovazione". Dan Brown cita questa frase, scrivendo solo "soleva spesso baciarla sulla bocca" omettendo le altre versioni che esprimono i diversi significati possibili. Nessun esegeta degno di questo nome agirebbe in questo modo. In maniera più precisa bisogna osservare che questi due scritti gnostici, sono ricchi di una spiritualità esoterica. Come molte scuole di spiritualità, essi utilizzano una finzione, in questo caso la metafora nuziale, per accreditare un insegnamento. Questo linguaggio, a connotazione sessuale, è in realtà un vocabolario iniziatico. I termini usati stanno ad indicare la vicinanza e il rapporto creatura-creatore tra la donna e il Maestro.

Tirando fuori questo versetto dal suo contesto, Dan Brown da l’impressione di citare una frase di valenza sessuale, dando una connotazione erotica a un vocabolario didattico.

Il carattere iniziatico di questo episodio, appare ancora più chiaro se si aggiunge quanto omesso da Dan Brown. Alla domanda: "Perché la ami più di tutti noi?" il vangelo di Maria (Bodmer pag. 37) spiega: "perché Maria Maddalena riporta delle parole che Gesù ha rivelato a lei e non agli altri". Dan Brown omette questa spiegazione che invece serve a chiarire la ragione e il significato delle rimostranze degli Apostoli.

D . In ogni caso, quando un uomo è legato sessualmente ad una donna, sembra fuori luogo che i suoi compagni si lamentino di non essere trattati alla stessa maniera, in quanto si tratta di due tipi di relazione che non possono essere paragonati.

R .Questa osservazione è assolutamente pertinente e conferma quanto detto dell’interpretazione di Dan Brown. Rimane comunque l’enigma di questo rabbi che è completamente differente da tutti gli altri rabbi…

D . Cosa si deve poi pensare dell’accusa di antifemminismo che è stata fatta da Don Brown al cristianesimo?

R . Bisogna riconoscere a Don Brown il merito di aver messo in rilievo l’atteggiamento innovatore di Gesù nei riguardi delle donne. Per Gesù la morale è più importante della legge rituale che considera le donne degli esseri impuri e le tiene lontane dalla vita sociale e religiosa. Inoltre Gesù associa delle donne al suo insegnamento e concede loro persino accesso alla Torah, cosa che non era ammessa dalla legge ebraica. "Piuttosto bruciare che dare la Torah alle donne!" recita un passaggio del Talmud. Ricordiamo inoltre che nell’ebraismo è il padre e non la madre che si occupa dell’educazione religiosa dei figli.

D. In tutto il Nuovo Testamento si trovano analogie con questo comportamento di Gesù nei confronti delle donne?

R. La posizione trasgressiva di Gesù a questo proposito si ritrova nelle comunità paoline. Le donne pregano nell’assemblea e profetizzano. Nella 1° lettera ai Corinti, v.11, nelle sue esortazioni a proposito del velo, Paolo, contrariamente a quanto si crede, non si mostra antifemminista, ma, in quanto erede di Gesù, procura di differenziare uomini e donne in comunità di discepoli uguali tra loro come identità spirituali. In seguito, vi sarà però un passo all’indietro, nelle lettere più tarde, agli Efesini e ai Colossesi: le donne sono relegate al loro ruolo privato di madri di famiglia; esse spariscono dallo spazio pubblico e della comunità. Nell’intervallo di una generazione, ritorna ad essere restaurata la differenza donna-uomo.

D. Dappertutto?

R. Non dappertutto: gli Atti degli Apostoli che sono contemporanei alle lettere agli Efesini e ai Colossesi, seguono l’eredità paolina. Il dramma è che nel 2° secolo, l’istallarsi di una gerarchia ministeriale maschile emarginerà le donne in maniera sistematica. Nelle comunità saranno presenti attivamente solo le vedove e come semplici ausiliarie. La Chiesa installa un’ortodossia esclusivamente maschile. Di conseguenza il ruolo delle donne viene riconosciuto solamente in comunità marginali anche se molto numerose. È così nei vangeli di Maria, di Filippo e negli Atti di Paolo e la figura di Tecla ne è un esempio. Queste comunità marginali sono anche le più eterodosse e dunque spesso combattute dalla gerarchia della Chiesa centrale.

D. Così le donne, oltre ad essere escluse, erano anche considerate eretiche, quindi pericolose.

R. Certamente. Sono loro, le donne, che hanno fatto le spese nella lotta condotta dalla Chiesa per affermarsi. Combattendo contro le eresie, la Chiesa sacrificherà le donne. Più si mascolinizzerà, più si crederà ortodossa. E questo è l’effetto perverso, l’erosione, lo snaturamento della posizione innovatrice di Gesù nei confronti delle donne.

D. Il mondo romano però, non è misogino?

R. Certamente, la matrona romana aveva un ruolo importante, ma si trattava di donne ricche che governavano la loro casa e avevano sotto di sé molti schiavi. Gesù ha un atteggiamento democratico, qualunque donna che crede può trovare posto accanto a lui e accedere alla dignità di discepolo.

D. Che giudizio ha della posizione che la donna occupa oggi?

R. Mi sembra che, tra le grandi religioni monoteiste, il cristianesimo riconosca più dell’ebraismo e dell’islam, il ruolo e la libertà della donna nello spazio pubblico. Il cristianesimo resta il solo a riconoscere alla donna lo stato essere religioso adulto,anche se, in alcune realtà, si tratta di un fatto non ancora realizzato. La donna ha trovato la sua autorevolezza nel mondo cristiano, in maniera molto più netta che nelle altre due religioni monoteiste.

(Traduzione dal francese di M. Grazia Hamerl - staff di Dimensione Speranza)

Una spiritualità per le sfide odierne
di Rino Cozza csj

 

Nel tentativo di uscire dalla situazione di insignificanza stanno moltiplicandosi i convegni sul tema della spiritualità che sembrano voler dire che la crisi della spiritualità è la principale causa dei tempi difficili della vita religiosa (VR).

Il fatto pone degli interrogativi. La ricerca di spiritualità è certamente determinante, infatti la fortuna delle nuove forme di vita evangelica è data prevalentemente dalla spiritualità trasparentemente perseguita, e riscontrabile in un particolare stile di vita. Però è altrettanto vero che la spiritualità nella VR è quella cosa che non può non esserci ma non è sufficiente che ci sia: è il denominatore comune di ogni forma di vita evangelica e non l'elemento differenziatore della VR che è definita anche da un insieme di tanti elementi costitutivi, comunitari e culturali.

Certamente la scelta necessaria - e oggi l'unica possibile - è quella di passare dalla prevalente pastorale dei servizi (sociali o religiosi) alla pastorale della spiritualità. Ma il discorso sulla spiritualità non è nuovo nella vita religiosa, allora la domanda da farsi è: come mai rimane muta per le nuove generazioni? Evidentemente il termine "spiritualità" nella vita religiosa esige una faticosa riacculturazione che parte dall'accettare la transitorietà delle forme di altri tempi. Spirituale era detto di chi aveva espressioni religiose, atteggiamenti pii, vita ascetica, nel significato di austera, rigorosa, lontana dai problemi della vita. Era una spiritualità percorsa da una vena di individualismo che dava rilevanza alla meditazione e agli esercizi di pietà personali, anche se fatti comunitariamente. Spiritualità oggi è quella di chi, "nutrito di Parola e liturgia, di contemplazione e discernimento, di profezia e attesa, di passione per Dio e passione per l'uomo", sa dare risposte valide all'attuale domanda di senso e sa produrre nuovi modelli di comportamento e nuove forme comunitarie a partire dalla vita e per la vita.

Si dice che i giovani, anche i più vicini, sono assenti dalle tradizionali forme: è la dimostrazione che ogni spiritualità corrisponde a un momento storico fuori del quale perde la forza significativa. Sono serviti certi canti; le lunghe cerimonie e le forme di pietà popolare, le rogazioni, i settenari, e persino l'estetismo religioso... ma oggi questo non è appellante. È vero che una percentuale di vocazioni attuali proviene dal bisogno di questo tipo di spiritualità per cui alcuni formatori traggono spunto per scelte su questa linea, ma altri, i più, vi si riferiscono per dire che la fragilità di molte vocazioni è data appunto dal ritrovarsi in questo tipo di spiritualità.

Capace di produrre stili di vita

Spiritualità significa vita (nello Spirito) tale da far vedere o almeno da far intuire la presenza o il fare di Cristo che salva. A tal fine non è più sufficiente una spiritualità "da religiosi" ma una spiritualità all'altezza delle sfide odierne, ricca di prospettiva laicale sempre più rivalutata nell'attuale sensibilità ecclesiale; spiritualità capace di produrre stili di vita e non soltanto pratiche di pietà, che siano risposta ai bisogni del mondo; spiritualità in cui il rapporto con Dio, da esperienza prevalentemente individuale sia esperienza che passa attraverso un rapporto con le persone perchè proprio la comunione fraterna sarà l'elemento peculiare della spiritualità di domani.

Per tornare da dove eravamo partiti, si può dire che il ricorrere del tema della spiritualità all'interno della VR è dovuto alla percezione dello scarto appunto di spiritualità significante, esistente tra gli antichi e i nuovi carismi.

Detto questo però c'è da aggiungere che la debolezza di forza comunicativa della attuale VR è da ricercarsi - in misura non inferiore - anche in un altro tipo di difficoltà che provengono sia dall'interno che dall'esterno di essa. Già si è molto parlato delle difficoltà che derivano dall'interno che sono: scarsità e defezioni di religiosi/e giovani, peso delle strutture, mancanza della generazione di mezzo, modi e tempi di vita cadenzati dagli anziani/e, tradizioni culturali e modelli di spiritualità obsoleti. Ma ciò che è nuovo sono le prospettive teologiche che vengono dall'esterno. Fino a qualche anno fa a riflettere sulla vita religiosa erano quasi unicamente teologi religiosi, ora invece l'esplorazione su questo versante è diventata propria anche di vari studiosi di area diocesana o laicale che in numero sempre maggiore portano a teorizzazioni diverse da quelle cui siamo abituati. Un esempio di ciò I'abbiamo avuto all'assemblea annuale Cism 2003, nell'intervento del teologo Giacomo Canobbio, dove argomentò sulla necessità o meno di una forma di vita cristiana (quella consacrata) affinché ci sia la Chiesa. "Affermare che la vita consacrata (VC) ha origine divina - disse mons. Canobbio - non vuoI ancora dire che appartiene necessariamente all'essenza della Chiesa. Si dovrebbe mostrare che l'origine divina coincide in tutto e per tutto con l'intenzione del Fondatore (Cristo)". "Essa può appartenere a una figura particolare di Chiesa, ma non è necessaria affinché si dia Chiesa anche perché di fatto questa si realizza in alcuni luoghi e si è realizzata in alcuni tempi, senza la VC". Qualcuno in questo argomentare può vedervi uno sconfinamento per parte di alcuni teologi estranei, altri invece vedono un dislocamento, cioè un guardare da fuori per ovviare ai condizionamenti delle precomprensioni.

E i pastori delle Chiese locali come vedono la VR ? Ci sono i vescovi religiosi che in maggior numero sono sintonizzati con il pensiero teologico che è stato all'origine della loro vocazione. Ci sono poi coloro, specie di area non europea, i quali dicono che in questi trent'anni la quasi totalità delle congregazioni diocesane hanno avuto come promotori i vescovi, il che li porterebbe a dire che questi sono sensibili ai valori della tradizionale vita religiosa. Ma qui sorge qualche dubbio, non fosse altro per il fatto che a fronte di bisogni diocesani, in alcune aree, si è soliti far fronte con l'intervento di un "conveniente" istituto religioso che, se non lo si trova, si crea al fine di un servizio e non necessariamente di una spiritualità. Penso però che la maggior parte dei vescovi si ritrovi nella risposta di un ordinario il quale, alla domanda se conoscesse quanto detto nell'esortazione Vita consecrata dove si dice che "ai vescovi è chiesto di accogliere e stimare i carismi della VC dando loro spazio nei progetti della pastorale diocesana" (VC 48), rispose che, per quanto gli constava, nelle chiese locali c'è interesse per le forme di vita evangelica di cui la vita religiosa è una delle espressioni, però oggi l'attenzione non è sulle etichette e sulle omologazioni ma sulle evidenze evangeliche che tali si definiscono dalla vita in atto più che da riconoscimenti giuridici.

Il papa ai vescovi francesi (18.12.2003) ebbe a dire che "le nuove comunità possiedono una audacia che talvolta manca agli istituti che vivono da più tempo", "attardate nella storia più che presenti alla vita". Tutto ciò sta a dire - conclude l'ordinario - che le auto-proclamazioni di vita migliore, più santa, non bastano più: tiene soltanto ciò che si vede: "vieni e vedrai".

Occorre un altro tasso di creatività

Dunque, alla domanda perché la vita religiosa? non è più possibile rispondere con definizioni teologiche in un tempo in cui le forme di vita evangelica rispondono con la vita. La sequela se non è un fatto riscontrabile oggi come buona notizia è soltanto teoria. Da qui l'urgenza di por mano decisamente alle fondamenta della vita religiosa vale a dire al sistema culturale che l'ha finora caratterizzata, aprendosi a nuovi orizzonti di senso, consapevoli che la VR è sempre un progetto contestualizzato e questo è l'unico modo che le è dato "per essere a casa nel tempo". (Radcliffe )

Al presente la prima presa d'atto è che stiamo transitando a un altro modo di essere e di agire. Uno dei maggiori studiosi della società contemporanea - Zygmunt Bauman - dice che siamo passati irreversibilmente dalla "modernità solida " cioè quella fissata su organizzazioni, classi, ruoli, riferimenti stabili, alla "modernità fluida" vale a dire della società delle reti, dei flussi, dell'incertezza, della non prevedibilità. Le impalcature sociali in cui inscriviamo i nostri progetti di vita e le nostre speranze per il futuro sono diventate improvvisamente fragili. Possono spezzarsi in qualsiasi argomento, mutano molto più in fretta di quanto non riusciamo ad apprendere e gestire. Se questa è la situazione, per poter progettare e vivere nell'attuale società è necessario un alto tasso di creatività che però "non si trova nei religiosi/e e tuttavia è indispensabile per incarnarsi nei contesti concreti in cui tocca di rivivere" (Santiago Silva). In ciò è da leggersi "la povertà radicale che segna il momento presente della VC". Eppure la creatività non le è estranea, "è stata alla base di ogni nuova forma di vita consacrata: ad esempio Ignazio di Loyola non accondiscese di sottomettere il carisma di una vita apostolica alle esigenze del coro della vita monastica" (B. Bucker). E così pure "nessuno dei nostri istituti ebbe origine per essere la continuità di una situazione statica. La creatività non esige che si rinunci all'eredità ricevuta, ma che crei, a partire da quella, qualcosa di nuovo e di inedito" (T. J. Rasera).

Per la creatività si tratta di proporre nuovi tavoli di pensiero, di concertazione e di governo, che sappiano mettere più interesse nell'inventare risposte che nel ripetere formule. Quelli attuali (consulte, capitoli, consigli, ecc. ) non sono sufficienti anche se un certo tipo di soddisfazioni le danno perché quanto meno sanno riverniciare di buone intenzioni tutto l'apparato, ma non hanno la capacità o non sono nella possibilità di mettersi alla ricerca di nuovi pozzi piuttosto che attardarsi "al pozzo lasciato in eredità dal nostro padre Giacobbe". Il tema della creatività è stato quello maggiormente ricorrente nel recente congresso internazionale di Roma. Molte espressioni ne evidenziano la sete: "Oggi più che mai abbiamo bisogno di inventare, rinnovare e avanzare liberi"; "Non impegnatevi nel continuare a offrire risposte preconfezionate che ormai sono superate. Abbandonate il vostro mondo di realtà virtuali. Non evitate le strade pericolose, perché la novità emerge sempre fuori dai luoghi sicuri protetti e convenzionali".

Da queste espressioni si coglie che il bisogno di orizzonti più vasti ha a che vedere sia con il senso della VC, sia con il modo di realizzarla. In quanto alla prima, durante il congresso è risuonata forte la voce di una relatrice: "Rallegratevi se siete rimasti senza parole significative per definire la vostra identità. Ci sentiamo stanchi di parole senza significato, abbiamo raggiunto un punto di saturazione quanto a dichiarazioni, documenti e teorie sul carattere specifico della nostra identità, quando la cosa importante non è ciò che proclamiamo, ma quello che viviamo" (Dolores Aleixandre),

Un obiettivo irrinunciabile su cui investire la creatività è sul bisogno che ha la VR di relazioni nuove. Finora come istituti abbiamo sempre evidenziato ciò che ci rendeva diversi dai cristiani e a forza di rafforzare le diversità ci siamo resi estranei; oggi è necessario evidenziare ciò che è dono ai cristiani: "quando rinuncerete a definirvi per comparazione con gli altri emergerà la parte più autentica che è in voi", consapevoli che la differenza tra il nostro e ogni altra forma di impegno non risiede in ciò che produce ma in ciò che in esso traspare.

Quanto al secondo, vale a dire il modo di realizzarla, si sono espressi in molti: la forma con cui "essa si esprime oggi, è debole nella forza comunicativa, arretrata rispetto alle sensibilità culturali, ricalcata su altri mondi culturali ormai obsoleti. È quindi necessario un deciso aggiornamento di paradigmi e di presentazione dei grandi valori quali i voti, la comunità, la testimonianza, l'antropologia, la visione della vita, il senso dei beni e religiosità della vita, l'affettività, la corporeità, la dignità della persona, le esigenze di corresponsabilità" (Secondin). Tutto questo esprime il bisogno di uscire dal nostro piccolo mondo antico per poter "dar vita a strutture mentali, spirituali, affettive, religiose e organizzative semplici, accoglienti, poco pesanti e aperte".

Il male sottile di cui soffre I'attuale forma di vita religiosa è I'insignificanza, per cui se vuole esserci nel futuro ha bisogno di evidenze comprensibili al giovane contemporaneo, tali da indurlo a impegnarvi la vita. Il problema maggiore dunque è quello di ridarle significato in contesto diverso dal tempo in cui è nata, i cui consueti segni non dicono più ciò per cui sono stati detti.

So bene che secondo alcuni la vita consacrata non sarà mai capita, perché - dicono - appartiene ad un mondo differente e si fonda su una esperienza trascendente che in pochi sanno apprezzare e interpretare. Costoro amano insistere sulla nota di mistero per cui deve conservare la sua irriducibilità, fino al paradosso. Non penso però che la VR abbia la funzione di conservare il mistero quanto piuttosto, quello di rivelare una buona notizia.

(da Testimoni, n. 5, 2005)

Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce". (RB 7, 59)

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