Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Anglicani in Italia
Porte aperte alla diversità
di Laura Badaracchi





Porte aperte, dalla mattina alla sera: al centro della capitale, lontana solo pochi passi dalla stazione Termini, sulla trafficatissima via Nazionale, la chiesa episcopaliana americana di San Paolo entro le Mura pullula senza sosta di visitatori curiosi, che si alternano a credenti, volontari, immigrati. I turisti di passaggio si fermano per ammirarne l'architettura, attratti anche dal fitto programma di concerti. Un giardino accogliente, fiori e piante circondano l'entrata della parish, dove approdano anche tante giovani coppie giapponesi: nel pacchetto turistico sono incluse la visita alla chiesa e la benedizione dei novelli sposi, che per l'occasione indossano per la seconda volta l'abito nuziale. Cerimonie semplici e raccolte: infatti, varcando la soglia della chiesa, si entra in una piccola oasi di silenzio e di pace, isolata dal frastuono dei clacson e dal rumore delle auto in corsa.

I fedeli non mancano, e provengono dai quattro angoli del pianeta: statunitensi e latinoamericani (soprattutto dell'Ecuador), filippini e africani (nigeriani in primis), ma anche italiani: coppie miste e alcuni divorziati ex cattolici. “Arrivano alla nostra chiesa perché la percepiscono come più inclusiva e accogliente verso le diversità: sono ammesse le seconde nozze, l'omosessualità, le donne prete, i pastori sposati”, spiega il reverendo Michael Vono, dal ‘92 rettore di questa parrocchia, divenuta nel tempo testimonianza vivente della presenza nel mondo della Comunione anglicana: quasi 70 milioni di fedeli in 36 Chiese, sparse in oltre 160 Paesi.

St. Paul's within the walls, piccola porzione della "Convocazione europea delle Chiese americane episcopaliane", è una delle 130 parrocchie anglicane sparse in tutta Europa e sulle coste del Mediterraneo. Con un primato: “È la prima chiesa costruita nel 1873 a Roma da una comunità non cattolica”, ricorda il rettore, 55 anni, nativo del Rhode Island ma con l'Italia nelle vene: nonni materni catanesi e padre originario di Catanzaro. Seminarista cattolico alla facoltà teologica di Washington, divenne anglicano nel '72 studiando l'ecclesiologia: “Un professore mi fece notare che concepivo la Chiesa come una comunione in cui il prete o il vescovo non è separato dai laici. Dai cattolici non ci separano diversità di fede, ma di autorità e governo”. Il suo ufficio parrocchiale, stracolmo di libri per la preghiera accatastati vicino alle buste di viveri per i poveri, è un "porto di mare" all'insegna dell'accoglienza: vengono a salutarlo homeless membri del gruppo "Alcolisti anonimi" (che hanno una sala a disposizione per i loro incontri serali), anziani, ragazzi della comunità, che conta oltre 330 membri "registrati", anche se i partecipanti alle celebrazioni in inglese, spagnolo e italiano sono centinaia. Intorno alla Messa, culto al centro dell'anglicanesimo, la comunità si ritrova aprendo Book of Common Prayer.

Crocevia di etnie non solo a motivo dei parrocchiani o dei turisti, San Paolo entro le Mura ospita nella cripta un centro diurno per richiedenti asilo e immigrati, intitolato a Joel Nafuma, sacerdote ugandese rifugiato che vent'anni fa aprì il servizio, inizialmente rivolto soprattutto agli africani, dal '95 esteso a tutti gli stranieri in difficoltà. “Un'espressione dell'ospitalità globale a Roma”, lo definisce padre Michael. In una stanza della cripta un volontario cattolico fa lezione d'italiano ad alcuni stranieri, africani e dell'Est Europa. Al piano di sopra, in una delle sale parrocchiali che di solito ospitano le prove di canto, un'altra volontaria danese-luterana insegna inglese a un afghano, un rumeno, un curdo e un sudanese. A loro si affiancano sister Emy, suora cattolica delle Sorelle di Sion, e padre Peter, religioso sacramentino. L'ecumenismo vissuto assume le forme più svariate: il mercoledì, ad esempio, i presbiteriani portano 300 pranzi al sacco per gli ospiti del centro, coordinato da Akbatan Tuana Abdullà, rifugiato curdo giunto in Italia cinque anni fa. “Sono musulmano, ma non praticante. Qui non parliamo di religione: accogliamo chiunque bussi alla nostra porta”, riferisce Padre Michele - così lo chiamano gli ospiti del Nafuma Center - non porta nè Bibbia nè Corano: “Però tutti capiscono, pur nella diversità delle lingue, che questa è la casa di Dio, senza proselitismo”.

Gli idiomi si moltiplicano anche nell'altra chiesa anglicana della capitale: la All Saints' church, affacciata sulla sofisticata via del Babuino che congiunge piazza di Spagna a piazza del Popolo. Dal francese all'arabo, passando per il tamil e lo swahili: sono le lingue "madri" dei fedeli che frequentano la parrocchia. Ma nell'inglese dei canti della Messa domenicale la variegata comunità (circa 200 iscritti, di fatto mezzo migliaio di frequentanti) ritrova un linguaggio comune.

Struttura simile a San Paolo entro le Mura (fu lo stesso architetto a disegnarle), diverse le persone in preghiera sulle sedie rigorosamente allineate: per lo più di estrazione sociale medio-alta. Nei locali parrocchiali, il giovedì mattina, si riuniscono le mogli di ambasciatori, diplomatici, funzionari di multinazionali o della Fao. Mentre i loro piccoli giocano, si incontrano per un coffee hour e per finanziare Assisi house, destinata a madri povere. Come nella Chiesa episcopaliana, anche in questa comunità si tengono prestigiosi concerti e i molti turisti che si aggirano tra le navate passeggiano discretamente, rispettosi del raccoglimento che si respira tra queste volte.

Le giornate feriali della parrocchia sono scandite dalla preghiera mattutina, cui segue la colazione comunitaria, e dall'Eucaristia pomeridiana, in italiano il sabato alle 18. “Due volte al mese celebra da noi anche un gruppo di "Vecchio-cattolici", che fa parte dell'unione di Utrecht, nata da uno scisma dopo il Vaticano I, che proclamò l’infallibilità del Papa”, riferisce il reverendo Jonathan Boardman, dal novembre '99 parroco di questa chiesa, che fa parte della diocesi europea della Church of England (la chiesa-madre dell’anglicanesimo), costituita da oltre 150 cappellanie. In Italia le "parrocchie" della Chiesa d’Inghilterra sono una decina, oltre a diverse comunità ospitate per il culto in chiese cattoliche, per un totale di circa 60 mila fedeli.

Il reverendo Boardman ha studiato a Oxford, Cambridge e alla Gregoriana. Dopo Liverpool e Londra, è approdato nella capitale, senza perdere la passione per il contatto pastorale con i fedeli: “Dopo il culto resto a disposizione di chi desidera un colloquio personale”. La chiesa di Ognissanti - spiega - è un esempio di ecumenismo “praticato, non solo pensato”. A partire dalle coppie "miste" per provenienza e credo: “Gli italiani, una minoranza, hanno un po’ di Inghilterra in famiglia, perché spesso uno dei coniugi è anglicano e l'altro cattolico”. Ma anche gli-inglesi "doc" rappresentano solo il 30-40 per cento della comunità, formata in primo luogo da persone provenienti da Paesi dell'ex impero britannico: Canada, Australia, Nuova Zelanda, ma anche Sudan, Ghana, Nigeria, Kenya, India. Tra loro, una quota di immigrati che lavorano come domestici.

Non è impresa facile amalgamare una miscela etnica tanto differenziata a livello sociale, economico e culturale. Per Boardman il trait d'union sta nel culto comune: “Lo stile liturgico è abbastanza formale per fornire una base comune in cui tutti possano riconoscersi”. Gli inni, infatti, sono gli stessi per oltre 80 milioni di anglicani sparsi in una cinquantina di nazioni. Il confronto, però, riemerge nella scuola biblica: “Accanto a un laureato in teologia a Cambridge siede chi ha una cultura elementare, ma che dà risposte piene di semplicità e freschezza”.

Sara Mac Vane, assistente del reverendo Boardman, che sta studiando per diventare pastora, racconta: “Ho scoperto la vocazione pastorale di aiutare le persone che arrivano qui con grandi problemi”. Sara li indirizza alle strutture in cui gli anglicani prestano il loro servizio di volontari: dal centro diurno della Chiesa episcopaliana americana alla parrocchia cattolica di San Lorenzo in Lucina.

Partendo dalla solidarietà, l'ecumenismo percorre vie inedite: il gemellaggio con la parrocchia cattolica omonima di Ognissanti (dove periodicamente ci si ritrova per il vespro), ad esempio, e la partecipazione di metà della comunità anglicana alle celebrazioni ecumeniche proposte ogni anno dalla diocesi di Roma. Con le altre confessioni cristiane di lingua inglese (che si incontrano come Churches Together in Rome) la collaborazione è ben avviata, così come con la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Non mancano i contatti con il movimento dei Focolari, la Comunità di Sant'Egidio, Chemin Neuf e Taizè. Resta invece una certa distanza con gli ortodossi e gli orientali in genere. A pochi metri dalla All Saints' sorge la chiesa di Sant'Atanasio, frequentata dai greco-cattolici di rito bizantino. “I rapporti sono fraterni”, commenta Boardman. “Tuttavia è più difficile avvicinarsi a loro, perla profonda diversità dei riti”.

La porta della chiesa di Ognissanti resta aperta per tutta la settimana. Dopo il culto domenicale, segue l'accoglienza dei nuovi arrivati o dei turisti che hanno partecipato alla Messa; durante il rinfresco preparato dalla comunità, la presentazione reciproca crea un clima di condivisione. “Una metafora”, evidenzia il pastore, “del nostro lavoro nella città, all'insegna del dialogo. Amo la Chiesa cattolica, però mi dispiace che le altre realtà cristiane siano poco conosciute: bisogna andare a trovarle, perché è importante celebrare questa diversità”.


(da Jesus, giugno 2004)



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Battisti in Italia
Multietnici con brio
di Nicola Nicoletti


In un bel palazzotto di fine Settecento è collocata la sede della più antica chiesa evangelica battista di Napoli. Si trova al numero 93 in via Foria, trafficata arteria del centro cittadino. Una targa sul lato del fabbricato è l'unico segnale che indica la presenza della comunità. Oltre il grande portone si scopre un'oasi di pace inaspettata, offerta da un giardino interno ricco di verde. “Qui, soprattutto la domenica, veniamo per incontrarci. È un momento in cui riusciamo a vederci per pregare e discutere della nostra vita”. A raccontare la storia di questa comunità di cristiani è il suo pastore, Massimo Aprile. Barba curata, sguardo rassicurante, pronta accoglienza.

Da poco tempo è stato nominato per la seconda volta alla guida dei 135 membri della chiesa. Dottori, avvocati, giovani studenti universitari e casalinghe, rappresentano gli assidui membri del piccolo gruppo dei battisti a Napoli che si ritrova, con figli e genitori, per partecipare alle celebrazioni e agli incontri di studio biblico. Dal giardino, un tempo sosta dei cavalli per le carrozze del trasporto urbano, parte una coppia di scale che si ricongiunge al piano superiore ove è posta la chiesa. Al fondo della luminosa sala la grande vasca usata per il battesimo per immersione di chi, dai 18 anni in poi, confessa la propria fede.

Sono numerosi i momenti d'incontro, la celebrazione dell'eucaristia mensile, la preghiera ecumenica, la scuola catechetica per i bambini e il gruppo dei "funamboli", gli adolescenti che, utilizzando il teatro e la musica, animano le celebrazioni. Ai riti non partecipano solo italiani; vi sono infatti numerosi nigeriani (per loro il culto è tradotto anche in inglese), russi, moldavi, rumeni e sudamericani. Si tratta di immigrati accolti dalla comunità che si interessa anche alle necessità materiali di chi giunge in Italia in cerca di fortuna. Spesso, trovato il lavoro al Nord, lasciano Napoli e, quindi, la comunità cambia volto. “Non si perdono totalmente i contatti”, rassicura il pastore, “poiché una lettera o una visita non mancano mai”.

La storia della chiesa battista a Napoli prende il via dal periodo risorgimentale, quando in tutt'Italia si afferma il principio della separazione tra Stato e Chiesa. Il primo nucleo si raccolse nel centro storico del capoluogo. Nel 1892 si stabilì nei locali in cui risiede tutt'ora. La città è stata sempre molto accogliente con le varie espressioni del protestantesimo, e lo è rimasta negli anni. Solo durante il regime fascista vi furono delle vessazioni. Poi, finita la guerra, si è ritornati ai buoni rapporti che avvicinano con spontaneità gli abitanti ai battisti.

Le relazioni con la Chiesa cattolica hanno ovviamente uno spartiacque: il Concilio. Fino al Vaticano II ci sono state piccole discriminazioni (dalla difficoltà nel trovare gli immobili da affittare, all'insegnamento nelle scuole). Dopo, grazie al cammino ecumenico, le Chiese hanno superato le difficoltà iniziando a parlarsi e a programmare iniziative comuni. L'impegno dei gruppi cattolici che pongono in maggior rilievo la Parola hanno agevolato il colloquio, come pure gli incontri alla Cappella della Riconciliazione. Buoni i rapporti anche con i musulmani: “Alla fine del Ramadan gli imam ci hanno invitati a pranzare con loro: è stato un bel momento per le due comunità”.

L'impegno per la pace e la giustizia vede spesso i battisti presenti insieme ad altre confessioni religiose. La Scuola di pace, promossa dal movimento "chiese cristiane per la pace e il disarmo", è stata ospitata dalla comunità battista con un'assidua presenza delle Chiese evangeliche e cattolica. “Con la Chiesa-cattolica c'è una buona esperienza di dialogo”, commenta il pastore. “Certo, le difficoltà non mancano, ma ci sono stati interessanti momenti di scambio quando è venuto il vescovo di Caserta, monsignor Nogaro, a parlarci dell'impegno per gli extracomunitari”. Vi è poi la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, che rappresenta oramai un momento importante per stringere maggiormente il legame spirituale tra le Chiese di Napoli. Da qualche anno alcuni giovani hanno deciso di impegnarsi con chi vive ai margini della società. Collaborando con il Banco alimentare di Caserta, assicurano 180 pasti ai senza fissa dimora che, secondo i volontari, sono in preoccupante aumento.

Massimo Aprile e sua moglie, Anna Maffei, sono i due pastori della comunità. “Siamo l'unico caso in Italia in cui marito e moglie sono pastori, a metà tempo, della stessa chiesa”, racconta Aprile. Napoletano, 49 anni, ha sentito la chiamata alla fede durante l'università, dopo i dubbi spirituali del periodo adolescenziale. Analoga la storia della moglie che, laureatasi in lingue, è andata con il marito a Zurigo a studiare teologia. Dopo un'esperienza di prova in chiese diverse, l'assemblea li ha dichiarati idonei ad essere pastori. “Come congregazionalisti, le decisioni, patrimoniali, teologiche e d'impegno nel sociale vengono prese nell'assemblea generale composta dai delegati”, spiega. “La nostra elezione è stata presa dall’assemblea della comunità, la massima autorità ecclesiale”.

A questa esperienza Massimo Aprile aggiunge anche quella di essere stato cappellano dell'ospedale evangelico di Napoli e, quindi, formato alla pastorale clinica, momento in cui ha scoperto i diversi volti della sofferenza accanto a chi opera in quel delicato mondo. Qual è il ruolo del pastore oggi? “L'annuncio della parola di Dio e la cura pastorale sono gli impegni primari. Il mio compito è anche di essere mediatore culturale con chi non conosce la Chiesa battista, oltre - ovviamente - a essere sposo e padre”. I coniugi Aprile sono genitori di tre figli: Emanuele di 21 anni e Andrea di 16. Poi è arrivato l'affidamento di Anna, 24 anni, che, sposata da poco tempo, è divenuta mamma.

Non mancano gli impegni anche per la consorte. Anna Maffei è vice-presidente dell'Ucebi (Unione Cristiano evangelica battista italiana) e vice-direttrice del settimanale Riforma, l'organo ufficiale delle Chiese battiste, metodiste e valdesi. La dinamica comunità, che ospita al piano terra anche una delle tre redazioni di Riforma, guarda con interesse alle moderne tecniche multimediali per evangelizzare, senza dimenticare la musica, antico patrimonio della Chiesa battista. Nel 1999 hanno registrato il Cd Ipharadisi (nome che riporta alla lotta contro l'apartheid), un bel lavoro corale in cui sono presenti motivi negro spiritual assieme a canti sudamericani e napoletani (come l'immancabile Quanno nascette Ninno). “Il disco ci ha fatti conoscere anche all'estero”, spiega contento il pastore, “e ha creato uno spirito di armonia tra i componenti della comunità e le persone che abbiamo incontrato nei nostri concerti, perché la musica riesce ancora a parlare al cuore della gente”.

(da Jesus, giugno 2004)

Ortodossi Russi in Italia
Pane, fede e nostalgia
di Laura Facchi


Ogni domenica mattina, a Milano, la grande "Madre Russia" sembra rivive, almeno nella nostalgia di un gruppo di uomini e donne delle ex Repubbliche sovietiche, che si incontrano con la sensazione di appartenere a una stessa patria. Li unisce la fede ortodossa e il comune destino di emigrati in un Paese straniero, dove fatica, umiliazione e povertà sono il pane quotidiano da mandar giù. Succede accanto a una via del centro, via Dante. Dietro l'angolo, le luci delle vetrine abbagliano i passanti. Qui, in questa piccola chiesa, decine di persone si inchinano a terra, sfiorando il pavimento con le mani dopo essersele passate sulla fronte e sul cuore. E una piccola chiesa che porta il nome di tre santi - san Vincenzo, san Sergio e san Serafino -, dalle grandi vetrate smerigliate attraverso le quali si scorgono i fedeli in piedi, con il volto rivolto all'altare e a padre Dimitri, il sacerdote italiano che ha fondato questa comunità.

Dimitri è un uomo speciale, un ex dottore specializzato in dermatologia, che per anni ha ricercato la fede e dopo un viaggio compiuto attraverso la Chiesa cattolica prima e quella protestante poi, l'ha trovata in quella ortodossa. “La semplicità e l'umiltà sono le cose che più mi hanno colpito della Chiesa russa, soprattutto venendo da una istituzione cattolica dove avvertivo superbia e violenza psicologica”, racconta. “Qui mi sono trovato di fronte a una Chiesa dove si metteva in risalto la preghiera, l'umiltà, la bellezza delle icone, del culto e del canto, cose che producono nell'animo un’atmosfera positiva, piacevole, bella, esaltante”.

Padre Dimitri lavorava in un ospedale di Bergamo quando ha deciso di prendere l'abito monastico. “Nella Chiesa ortodossa tutti i vescovi sono monaci e questo ha un significato profondo, diversamente dalla Chiesa cattolica dove i monaci sono pochissimi tra i vescovi. I monaci hanno la regola della preghiera e dell'ascesi e questo li spinge a un'intensa vita spirituale. Una caratteristica del monaco è l'umiltà. Il vescovo che mi ha ordinato, quando gli ho chiesto: mandami in un monastero, lui mi ha detto, no, tu sei medico e il tuo monastero è l'ospedale, i tuoi fratelli sono i malati. Mi ha dato proprio l'indicazione di restare dov'ero ma con una intensità diversa, una prospettiva diversa e io così ho fatto”.

Nel 1985 padre Dimitri aprì una chiesa in un appartamento di piazza Napoli. Erano in 4 al principio, lui e tre parrocchiani. Non era ancora cominciata la grande emigrazione dai Paesi dell'Est e quando, piano piano, la comunità è andata ingrandendosi, si sono spostati qui. Prese in affitto questa chiesa con un contratto di comodato nel 1996 e negli anni successivi cominciarono ad arrivare a centinaia dalle ex Repubbliche sovietiche, in cerca di un lavoro: “Le persone qui hanno tantissimi problemi, di vario tipo, e il sacerdote non è quello che si fa mantenere ma quello che aiuta, come il padre in una famiglia”.

Quantificare i fedeli di questa comunità è praticamente impossibile: c'è un continuo via vai, chi trova lavoro in un'altra città lascia Milano e a malincuore dice addio ai suoi amici. Sì, perché la chiesa è diventata un luogo di incontro per amici: dopo la funzione della domenica, il sotterraneo della chiesa diventa un refettorio e grandi tavolate vengono imbandite con cibi preparati dalle donne. Cibi originari dei loro Paesi, sapori lontani che ricordano casa. Spesso c'è un compleanno da festeggiare o un matrimonio o un battesimo e la festa si fa ancora più bella. La domenica è il giorno in cui le angosce di una vita combattuta tra problemi pratici, economici e burocratici, vengono dimenticate per un istante.

La dignità di questi uomini e donne è sorprendente. Donne, in prevalenza, perché per loro è più facile trovare un impiego come badanti o baby sitter. Gli uomini ci sono e anche loro pregano e si genuflettono: ucraini, moldavi, russi, bielorussi; uomini di mare o dei Carpazi, donne laureate e contadine. Tutti accomunati dal medesimo destino: la ricerca di un lavoro per spedire soldi alla famiglia rimasta in patria. “Questa chiesa è la salvezza. Ogni domenica vengo qui ed è come essere a casa”, racconta Raissa, che proviene dall'Ucraina. “Lavoro tutta la settimana aspettando solo il momento di tornarci. Qui preghiamo per la salvezza della cristianità. La nostra politica comunista non ci permetteva di essere religiosi ma poi è arrivato Gorbaciov, che ha fatto riaprire le chiese. Nel mio paese, a Cernouz, la chiesa era rimasta chiusa per 45 anni e hanno dovuto restaurarla per farla tornare agibile”.

Raissa, come la grande maggioranza delle persone che frequentano la chiesa ortodossa del patriarcato russo a Milano, è qui in Italia per lavorare: “Era meglio prima, quando tutte le Repubbliche erano unite”, dice. Dopo l'indipendenza, tutto è andato a rotoli. Vorremmo tornare a essere uniti e io prego ogni giorno per questo. Lavoravo in una fabbrica di elettronica e da un giorno all'altro hanno chiuso. Via, tutti a casa! Le nostre donne vendono i loro bambini per salvare la casa o qualche altro figlio. È vero! Ho conosciuto una donna a Napoli che ha venduto due bambini per salvarne un altro. Questa è guerra! È una guerra senza bombe”.

Raissa apparecchia la lunga tavola che ingombra il sotterraneo della chiesa. Si mangia tra le chiacchiere in russo. “Assaggia questo formaggio, viene da casa. Me lo hanno mandato i miei figli”, dice Tatiana porgendo un piatto colmo di formaggio bianco. Ogni settimana un pulmino fa avanti e in dietro da Cernouz all'Italia. Porta cibi, lettere, pacchi e denaro ed è atteso come una manna. Cernouz si trova sul confine con la Romania e molti ucraini arrivati in Italia provengono da quella città o dai suoi dintorni. “Ogni città ha il suo pulmino, quello è il nostro e io l'ho preso per venire qui”, spiega Sveta.

La Chiesa si autofinanzia, tutti danno quel poco che possono offrire, i soldi sono stati separati in diversi fondi di amministrazione e uno di questi è il fondo per il sostentamento di chi ha più bisogno di aiuto. Per molte di queste persone, venire in Italia ha significato lasciare la famiglia. “Non vedo mio figlio da un anno”, racconta Ludmila. “Ho fatto tutte le pratiche per essere messa in regola. Ho pagato tutto io, perché la signora dove lavoro ha detto di non avere i soldi. Lei non ha soldi e quindi figuriamoci io. Comunque... se me ne andassi farei molta fatica a rientrare perché non è semplice avere un visto. Ci sono agenzie che si fanno pagare molto denaro per procurare i visti”.

Sergio ha 29 anni ed è in Italia già da due: “Avevo un lavoro in Moldavia ma non mi pagavano abbastanza, con quei soldi non potevo vivere. I prezzi delle case sono più o meno come quelli di Milano ma gli stipendi no, quelli sono molto più bassi. Ho due figli piccoli e una moglie alla quale mando il denaro che guadagno. Appena arrivato in Italia, mi sono messo a cercare una chiesa come questa e alla fine sono approdato qui. Questa chiesa è come una barca. Dove può andare uno straniero qui a Milano? In Stazione centrale forse? Se crediamo in un'anima, dobbiamo anche nutrirla, e qui trovo cibo per lo spirito. Tanta gente in difficoltà come me ha cominciato a credere”.

La storia di Sergio è uguale a quella di tanti altri. Arrivato a Milano, ha trovato lavoro in un cantiere e quel cantiere è diventato anche la sua casa. Una laurea in tasca che gli permetteva di essere chiamato dottore in Moldavia e qui l'unico lavoro che si riesce a trovare è quello di muratore, che a malapena permette di vivere a chi non ha i documenti in regola. “Me ne sono andato dal cantiere dove lavoravo perché non mi pagavano da tre mesi. Sono stati anni duri. Dopo aver dormito in cantiere ho trovato un appartamento nel quale abitavamo in 24 per 170 euro a testa. Denunciarlo? No, no, io in quel modo avevo un posto caldo dove stare. Anche se dormivo sul pavimento non ero in mezzo alla strada e c'era un bagno. Bisognava fare un po' di coda ma potevamo lavarci. Per me è stata una salvezza. Tutte queste esperienze mettono alla prova il carattere e sono certo che se Dio ha voluto questo, una ragione deve esserci”.

Il giovedì sera si fanno le prove del coro: la liturgia ortodossa è un bellissimo canto dall'inizio alla fine della funzione religiosa, ma la chiesa è aperta sempre, tutti i giorni perché in tanti avvertono il bisogno di pregare o di chiedere un consiglio a padre Dimitri: “I miei parrocchiani”, dice, “provengono quasi sempre dal mondo contadino, ho sentito raccontare storie allucinanti, molti vengono trattati come schiavi e altri parroci che prestano servizio nei centri di aiuto mi hanno raccontato storie altrettanto drammatiche. Facciamo quello che possiamo, qui ci mancano un sacco di cose ma tutti insieme riusciamo a fare molto. Ogni anno andiamo a Bari per celebrare san Nicola, un santo molto importante per i russi e sono momenti indimenticabili. Vengono scattate foto da spedire alla famiglia e tutti ridono e stanno bene”.

Il tempo per le lacrime, però, spesso prevale. Durante la funzione della domenica mattina i volti delle donne dal capo coperto da un fazzoletto colorato, sono spesso rigati di pianto. Nel pomeriggio tutti tornano a casa, una capatina nel bagno del McDonald's di via Dante e poi di corsa verso autobus o treni per tornare a casa, in un centro di accoglienza o dalla signora anziana che ha bisogno di essere accudita. Si è consumata un'altra giornata speciale, che servirà da carburante per tutte quelle a seguire.

(da Jesus, giugno 2004)

Italia
cristiana plurale
di Anna Chiara Valle e Giovanni Ferrò



Una sera d'inverno a Roma, in piazza Cavour. Un tonfo sordo. Calcinacci sull'asfalto Qualcuno avverte il commissariato di polizia dall'altra parte dello spiazzo: «Sta cadendo un cornicione dalla facciata della chiesa valdese». La risposta è secca: «Valdese? Che cos’è una chiesa valdese? E in che via si trova?». Pur "abitando" fianco a fianco, i giovani poliziotti non avevano mai pensato che l'edificio di culto bianco davanti al quale passavano quasi tutti i giorni potesse non essere cattolico. Una confusione non rara, un esempio di ordinaria invisibilità, in un Paese dove non si è abituati a confrontarsi con le Chiese sorelle. Un Paese ancora "cattolicocentrico", come dimostra anche la ricerca commissionata all’Eurisko dall'Unione delle Chiese metodiste e valdesi (...). Secondo quei dati, gli italiani, quando non conoscono l’appartenenza religiosa di personaggi noti, presumono che si tratti di cattolici, fossero pure la regina Elisabetta o Martin Luther King.

Eppure il cristianesimo in Italia sta diventando sempre più "plurale". L'incrementarsi del fenomeno migratorio sta evidenziando - e lo farà sempre di più in futuro - questa caratteristica, e spingerà inevitabilmente all'incontro e al confronto. Un confronto delicato, che parte da numeri e modi di strutturarsi assai diversi. La "forma parrocchia" della Chiesa cattolica, per esempio, ha in Italia una ramificazione talmente generalizzata e intensa da costituire un elemento essenziale del territorio. Non così avviene per le altre Chiese cristiane che, più che agganciarsi alla dimensione locale, si strutturano per gruppi etnici e linguistici.

A parte alcune presenze storiche (come, per gli evangelici, quelle nelle valli valdesi, vicino a Pinerolo, e, per il mondo ortodosso, Trieste, Bari, Venezia), le "nuove parrocchie" sorgono - sulla spinta dell'immigrazione - soprattutto nelle grandi e medie città. Una presenza a macchia di leopardo, che si aggiunge alle altre senza quasi mai integrarsi. Nigeriani, ghanesi, polacchi, rumeni, latinoamericani hanno più facilità a organizzarsi "in proprio" piuttosto che a inserirsi nelle comunità e a medesima denominazione cristiana già esistenti. E questo vale sia per il mondo protestante sia per quello ortodosso. Le divisioni interne, insomma, sono forti. Per questioni di lingua, in certa misura, ma anche per problemi culturali. Tra un valdese di Torre Pellice, per esempio, e un protestante coreano la precomprensione dell'evangelismo è assai diversa e non rende affatto automatica l'integrazione. Lo stesso accade per le Chiese ortodosse, forse ancora più centrate sul dato etnico e nazionale.

Diventa allora naturale, pur appartenendo alla stessa confessione religiosa, che sorgano "comunità accanto alle altre" piuttosto che "comunità miste". Esempi di integrazione, certo, non mancano. Una delle più riuscite è quella della parrocchia di Tutti i Santi a Modena. Nella comunità ortodossa che fa riferimento al Patriarcato di Mosca, si respira una dimensione ecumenica molto forte. Attorno al pope Giorgio Arletti si ritrovano non solo ortodossi provenienti dal mondo russo, ma anche greci e rumeni. Le stesse liturgie non sono ingessate su un modello, ma tengono conto delle diverse provenienze. E anche delle diverse lingue, dallo slavo al greco.

Quello di Modena potrebbe essere un esempio modello, per far sì che in futuro le presenze straniere possano integrarsi al meglio nel tessuto religioso. Quello cui, però, più normalmente si assiste è il proliferare di gruppi, comunità, aggregazioni. In un contesto che va rapidamente mutando, e che subirà ulteriori spinte di cambiamento con l'allargamento dell'Europa a Est, occorrerà capire se (e come) queste "parrocchie" si ramificheranno e metteranno radici, oppure se resteranno semplici meteore dalla vita incerta.

Per le comunità della stessa confessione si fa stringente, dunque, la sfida dell'integrazione. Per la Chiesa cattolica, invece, diventa attuale - molto più che in passato - la prova dell'accoglienza e del dialogo. Che significa, innanzitutto, mettere in discussione i propri modelli pastorali di evangelizzazione, ridisegnare la propria missione, confrontandola con lingue, culture e modi di vivere il cristianesimo diversi dal proprio.

Alcune esperienze su questa nuova frontiera sono state già avviate da diverso tempo, soprattutto nelle grandi città. A Roma, Venezia, Bari, Milano, recente mente anche Parma, sono nati dei Consigli locali delle Chiese cristiane: organismi ecumenici che hanno una veste istituzionale, il cui obiettivo è principalmente di coordinare le esperienze e l'impegno di dialogo che si fa sul territorio. «È un lavoro importante, ma ancora limitato», precisa Brunetto Salvarani, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso. «L'opera di coordinamento dovrebbe essere attuata in modo più strategico. C'è da lavorare parecchio, anche perché l'Italia non ha una tradizione di attenzione e di sensibilità particolare in campo ecumenico, eccettuate alcune figure particolari».

Una certa spinta all'apertura la dà il Vaticano. L'istruzione Erga migrantes caritas Christi, presentata lo scorso 14 maggio dal Pontificio consiglio per la pastorale per i migranti e gli itineranti, dice esplicitamente, al numero 56, che «la presenza sempre più numerosa, anche di immigrati cristiani non in piena comunione con la Chiesa cattolica, offre alle Chiese particolari nuove possibilità di vivere la fraternità ecumenica nella concretezza della vita quotidiana e di realizzare, lontani da facili irenismi e dal proselitismo, una maggiore comprensione reciproca fra Chiese e Comunità ecclesiali». Più avanti, allo stesso numero, si precisa: «I fedeli cattolici non devono dimenticare che è anche servizio e segno di grande amore, quello di accogliere i fratelli nella piena comunione con la Chiesa». E si raccomanda: «Se sacerdoti, ministri o comunità che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica non hanno un luogo, né oggetti liturgici necessari per celebrare degnamente le loro cerimonie religiose, il vescovo diocesano può loro permettere di usare una chiesa o un edificio cattolico e anche prestar loro gli oggetti necessari per il loro culto». Il documento si spinge fino a ricordare «la legittimità, in determinate circostanze, per i non cattolici, di ricevere ltEucaristia assieme ai cattolici». Un'apertura importante, che evidenzia come anche fenomeni sociali, dettati ad esempio dagli squilibri economici mondiali (l’emigrazione), sono - per chi crede al Vangelo - dei kairòs, dei segni dello Spirito, "momenti opportuni" che incoraggiano le piccole esperienze ecumeniche già avviate e stimolano tutti a prenderne esempio.

Oltre all'integrazione tra medesime comunità ecclesiali, al dialogo e all'accoglienza vicendevole, l'altro nodo da affrontare è quello del radicamento sul territorio. Il rischio, infatti, è che nascano comunità di «grande intensità emotiva», come dicono i sociologi, anche molto forti sul piano dell'aggregazione, ma sganciate da qualsiasi riferimento locale e dimensione di servizio al territorio. Quasi dei piccoli ghetti, in cui rafforzare la propria identità piuttosto che provare a misurarsi con la varietà e diversità del mondo esterno.

L'Italia, insomma, si trova - che questo piaccia o meno - in una nuova fase del suo "essere religiosa". Una fase in cui l'ecumenicità del cristianesimo non sarà più un sogno (o un incubo, a seconda dei punti di vista) di là da venire, ma un dato di fatto sempre più visibile, di cui prendere atto. Il che comporta nuovi modi di pensare e di costruire relazioni fraterne. È una fase in cui, come mostrano le storie che raccontiamo nelle pagine che seguono, si può trovare un po' di tutto e in cui la strada non è ancora ben segnata: ci sono, infatti, comunità antiche e comunità nuove; cristiani non cattolici italianissimi e cristiani di mondi e culture lontani dalla nostra; Chiese mainstream e Chiese che invece appartengono a quella nuova esplosione del protestantesimo mondiale; che va sotto il nome di pentecostalismo o di Chiese evangelical. Cammini paralleli, lingue diverse, teologie talvolta opposte, sensibilità ed esigenze differenti.

La sfida - per tutti - è di trovare il bandolo di questa complicata matassa e inventare delle strade per camminare insieme. Il nodo delle nazionalità, ad esempio, diventa centrale: creare gruppi etnici isolati e "paralleli", che si ritrovano attorno a un pope, a un pastore o a un sacerdote che parla la propria lingua madre, può essere un primo segnale iniziale di accoglienza. Ma una vera ospitalità non può non fare i conti con l'integrazione e, dunque, con l'esperienza della mescolanza e della multiculturalità,

Il bisogno di conservare le proprie radici religiose, dunque, si mischia con la scoperta di "mondi" religiosi diversi dal proprio. Il desiderio di identità con la necessità di un radicamento nel nuovo contesto sociale. La voglia di ritrovare intatti i propri riti e le proprie liturgie con l'inevitabilità dell'incontro e del dialogo con le altre comunità sorelle.

Nell'Italia che si apre al mondo, il cristianesimo sarà sempre più un fenomeno pluriforme e globalizzato. Le Chiese più importanti e più forti, a cominciare da quella cattolica, hanno quindi una responsabilità fondamentale in questa fase: quella di assumersi - con umiltà e profondo rispetto - il ruolo di ''traino'' ecumenico, affinché nella ricca presenza che stiamo appena cominciando a sperimentare diventi una feconda Pentecoste e non una Babele delle lingue.



Chiese non cattoliche, il Vangelo dei cento fiori

di Laura Badaracchi


Segnali di crescita, grazie anche all'apporto degli immigrati, caratterizzano il variegato arcipelago delle confessioni cristiane non cattoliche presenti in Italia. Se i fedeli stranieri risultano i più numerosi, non mancano i casi di coppie e famiglie miste (sia dal punto di vista etnico che religioso), ai quali vanno aggiunti gli italiani. Difficile stilare un computo preciso, anche per i continui mutamenti causati dai flussi migratori. Secondo una stima della Federazione delle Chiese evangeliche, la popolazione protestante italiana oscilla tra le 350 e 430 mila persone, a cui vanno aggiunti circa 140 mila stranieri. Di questi, valdesi e metodisti sono circa 35 mila; i membri delle "Chiese cristiane dei fratelli" sono 20 mila, così come gli avventisti e i membri delle Chiese e movimenti evangelici liberi; intorno ai 10 mila i battisti e 7 mila i. luterani. Una parte dei pentecostali (circa 120 mila) è organizzata nelle "Assemblee di Dio", quelli indipendenti potrebbero essere intorno ai 260 mila, mentre la Federazione delle Chiese pentecostali rappresenta oltre 300 comunità, per un totale di circa 35 mila persone. Gli ortodossi in Italia, invece, sono intorno ai 700 mila. Un censimento preciso dei fedeli non è stato ancora fatto, come spiega l'archimandrita Policarpos, dell'arcidiocesi ortodossa d'Italia (costituita nel '91). E la cosa è resa più complicata dal fatto che gli ortodossi appartengono a diverse Chiese: al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, di Mosca, di Serbia, Romania, Bulgaria e Polonia. Per il momento sono stati censiti 115 nuclei parrocchiali (comunità in cui manca la presenza stabile di un sacerdote, ma anche parrocchie regolarmente erette, e monasteri), che sono concentrati soprattutto al nord e al centro della penisola I fedeli sono in prevalenza romeni (oltre 250 mila). Numerosi anche gli ucraini, i moldavi, i russi, i bielorussi e i greci; in minoranza. gli albanesi, i palestinesi e gli africani. Poco più di un migliaio i fedeli di nazionalità italiana.

A parte, vanno calcolati gli ortodossi malankaresi, i siri e gli armeni apostolici, con sede a Milano. I copti ortodossi (quasi 12 mila, 7 mila dei quali residenti a Milano e dintorni, Bergamo, Saronno) provengono soprattutto da Egitto, Etiopia ed Eritrea; celebrano in arabo, amarico (la lingua etiope) e italiano. Padre Bimen (che significa "pastore"), alla guida della chiesa di Milano, riferisce; "La maggior parte dei fedeli appartengono a famiglie egiziane emigrate».

Il "papa" copto-ortodosso, Shenouda III, ha nominato due responsabili per le diocesi italiane: Barnaba El-Soryany, vescovo di Roma, Torino e Firenze; e il vescovo Kirlos, di Milano.

(da Jesus, giugno 2004)

Mercoledì, 16 Novembre 2005 01:28

7. La creazione. Gen 1,1-2,4a (Rinaldo Fabris)

Il verbo ebraico barâ, «creare», può essere riferito sia all'azione di Dio che «plasma» il suo popolo liberandolo dall'oppressione sia all'opera iniziale della creazione dell'universo.

Mercoledì, 16 Novembre 2005 01:19

Approfondimenti (1) (Franco Gioannetti)

Approfondimenti (1)
di Franco Gioannetti




Oggi, forse, la mistica si presenta come il territorio nel quale lo spazio speculativo del fatto religioso incontra la domanda sulla possibilità di vivere l’esperienza religiosa nella situazione di avanzato secolarismo caratteristico dell’attuale società occidentale.

Gli uomini e le donne della società secolarizzata, che vivono ancora sotto il segno di una razionalità formale, aggravata dalla omologazione e dall’anonimato, stanno sperimentando la rivincita dell’irrazionale e dell’individualismo, a riprova che neanche una cultura quasi due volte secolare, con la sua azione insistente e capillare, riesce a cancellare nell’uomo il senso magico delle cose e la funzione simbolica.

L’esperienza religiosa può essere combattuta ed esclusa dalla vita sociale, ma la religiosità latente nell’uomo riesce per sempre a trovare la maniera di esprimersi in molteplici credenze.

Teniamo quindi presente che, se la postmodernità assiste al ritorno del religioso e della domanda di senso, essa è anche il tempo che subisce il fascino di quelle realtà spirituali che esprimono il desiderio di creatività e di ritrovamento di sè al di là delle delusioni e dei fallimenti provocati dalla ragione.

Inoltre la postmodernità che ha conosciuto l’impressione dell’assenza di Dio, durante i vari eccidi del 1900, anela all’esperienza di un Dio non assente ma nascosto e dà credito alle forme di cui, ciascuna a suo modo, ricerca il contatto e la volontà misteriosa.

Sia alla chiusura del secolo scorso che all’inizio dell’attuale si è stati e si è consapevoli della presunzione di quanti hanno inteso proibire e cancellare l’esperienza religiosa, privando l’umanità della ricchezza più grande. Ed è così che è stato ricostruito lo spazio della fede dove è possibile l’opzione religiosa, che, sola, ci consente di sperare che il carnefice non abbia l’ultima parola sulla vittima innocente.

Occorre oggi distinguere tra un ateismo che nega la possibilità stessa che Dio esiste, mentalità non scomparsa ma non più dominante, ed un ateismo che nega il Dio della Rivelazione, del monoteismo, delle religioni positive. Nel nostro tempo si diffonde questa seconda figura di ateismo collegata ad una minore credibilità della Chiesa.

L’uomo contemporaneo si interroga su se stesso, intuisce se stesso come essere che ha bisogno dell’Essere Assoluto, avverte la sua finitezza oggettiva.

Ma c’è un’altra tendenza, in una parte dei nostri contemporanei, in base alla quale il soggetto si ritira nella sfera privata, sostiene l’autonomia soggettiva ed è fortemente critica verso le forme istituzionalizzate di religione.

Ma... le società contemporanee, caratterizzate da un’ampia e prevalente indifferenza religiosa, sono in ogni caso attraversate da correnti di inquietudine che danno luogo ad un proliferare di credenze periferiche. Per cui, forse, è più corretto parlare di socializzazione dell’istituzione religiosa che di secolarizzazione dell’uomo moderno.


Le religioni sono molto preoccupate di preservare il mistero del divino, la sua grandezza incommensurabile. E tuttavia, cercando Dio nella sua alterità assoluta, il credente lo scopre anche in se stesso. L’esistenza gli appare passeggera come un sogno, nebulosa come la giornata di un cieco, ma qualche cosa brilla ostinatamente al centro della sua coscienza.

Mercoledì, 09 Dicembre 2009 23:00

Pensare il futuro (Mario Neva)

Pensare il futuro è inevitabile. Ciò che è inevitabile è necessario. Avvinto da questa chiara percezione interiore, che è impossibile non condividere, un pensatore profondo e complicato come Kant, ha tratto delle conseguenze, per certi aspetti esagerate. Il filosofo di Kònigsberg, sebbene non confondibile con la folla, è lì per testimoniare che il tempo è pensato da tutti, ma non da tutti allo stesso modo.

L’educazione alla mondialità è la capacità di cogliere i nessi, di leggere le interconnessioni, di svelare i legami tra il microlivello dell'azione quotidiana e il macrolivello planetario: un "pensare globalmente e agire localmente".

Magnificat
Il Dio cantato da Maria,
serva del Signore
(prima parte)
di Alberto Valentini



Premessa

La “verità” sul Dio dell’alleanza

Il Magnificat, al quale la riflessione - non solo esegetico-teologica - ha riservato un’attenzione particolare negli ultimi decenni, è stato oggetto di interesse ripetuto anche da parte del Magistero. Al canto della Vergine, Paolo VI, nell’Esortazione apostolica  Marialis Cultus, aveva già dedicato parole ispirate:

… il Magnificat (cf Lc 1,46-55), la preghiera per eccellenza di Maria, il canto dei tempi messianici nel quale confluiscono l’esultanza dell’antico e del nuovo Israele, poiché – come sembra suggerire sant’Ireneo – nel cantico di Maria confluì il tripudio di Abramo che presentiva il Messia (cf Gv 8,56) e risuonò, profeticamente anticipata, la voce della Chiesa…(1).

Al Magnificat, Giovanni Paolo II attribuisce notevole importanza ed ampia considerazione – oltre che in numerosi documenti e catechesi - nell’Enciclica Redemptoris Mater (nn. 35-37), in cui lo presenta come il canto, l’inno ufficiale della Chiesa in cammino sui sentieri della storia che attinge ormai il terzo millennio: “Sgorgato dal profondo della fede di Maria… non cessa nei secoli di vibrare nel cuore della Chiesa” (2).

Questo canto non solo traccia un programma di coraggioso impegno evangelico al servizio del mondo, ma prima ancora rivela l’autentico volto di Dio.

Dalla profondità della fede della Vergine… (la Chiesa) attinge la verità sul Dio dell’alleanza… Nel Magnificat essa vede vinto alla radice il peccato posto all’inizio della storia… Contro il “sospetto” che “il padre della menzogna” ha fatto sorgere nel cuore di Eva, la prima donna, Maria, che la tradizione usa chiamare “nuova Eva” e vera “madre dei viventi” proclama con forza la non offuscata verità su Dio… Maria è la prima testimone di questa meravigliosa verità, che si attuerà pienamente mediante le opere e le parole (cf At 1,1) del suo Figlio e definitivamente mediante la sua croce e risurrezione.

La Chiesa che… non cessa di ripetere con Maria le parole del Magnificat, “si sostiene” con la potenza della verità su Dio… e con questa verità su Dio desidera illuminare le difficili e a volte intricate vie dell’esistenza terrena (3).

Le parole citate di Giovanni Paolo II sembrano rispondere al voto espresso alcuni anni prima da J. Dupont, a conclusione di un eccellente studio sul cantico della Vergine, considerato come discorso su Dio (4). Al termine del suo lavoro e dopo aver indicato feconde piste di sviluppo alla riflessione teologica, così egli si esprimeva:

Il Magnificat non definisce Dio… esso “situa” il mistero di Dio salvatore e ne offre le coordinate. Dopo aver fatto questa constatazione, l’esegeta deve fermarsi e passare la mano: noi saremmo felici se questo studio del Magnificat come discorso su Dio ispirasse a un collega dogmatico un discorso su Dio alla luce del Magnificat. Non è forse del Dio salvatore, cantato in questo brano, che noi dobbiamo essere testimoni oggi nel mondo? (5).

Abbiamo l’impressione che l’invito di Dupont sia stato raccolto, come egli stesso forse non osava sperare.

- Il Magnificat costituisce, dunque, una privilegiata riflessione sul Dio della salvezza, ma non offre una definizione astratta della sua identità. Su questo punto, noi di tradizione greca e formazione scolastica dobbiamo operare una profonda e mai del tutto compiuta metànoia.

Alla tentazione di concettualizzare l’immagine di Dio hanno ceduto illustri studiosi, in particolare gli autori di note teologie bibliche (6), legate a concetti ampi e a loro avviso onnicomprensivi, quali: salvezza, elezione, patto, rivelazione, redenzione, soteriologia, escatologia…

Con questi concetti nominali ci si allontanò dal linguaggio dell’Antico Testamento che è prevalentemente verbale e, inoltre, andò perduta la molteplicità di forme che l’Antico Testamento usa nel parlare di Dio (7).

Un discorso biblico su Dio deve privilegiare le forme verbali legate al dinamismo della Parola rivelata e delle azioni salvifiche, sempre aperte ad ulteriore riflessione ed approccio esistenziale. Non si danno forme precostituite capaci di presentare in maniera univoca ed esaustiva l’evento della parola e degli interventi divini.  

Il Dio del Magnificat non è definito secondo categorie astratte, ma narrato, cantato e celebrato sulla base di gesta salvifiche sulle quali si fondano la fede e il culto del popolo di Dio.

Esiste infatti un rapporto vitale e imprescindibile tra salmi, cantici ed eventi di salvezza. Non si danno canti senza l’esperienza di una storia che coinvolga il cantore rendendolo contemporaneo di quanti l’hanno vissuta. I salmi – nonostante la loro diversità e le molteplici classificazioni proposte in particolare da H. Gunkel (8) - si possono distinguere in due categorie fondamentali, costituite secondo C. Westermann da Flehen und Loben (9), divisione che ripropone in sostanza le classificazioni maggiori dello stesso Gunkel, gli inni e le lamentazioni.

- L’io dei salmi può essere personale o collettivo, talora generale, presentando una situazione indeterminata dell’esistenza umana, ma rivela sempre una dimensione dialettica spesso drammatica tra orante/i e il Signore, cui si grida dall’angoscia o al quale si rivolge il canto di lode per la salvezza conseguita.

Nel Magnificat l’orante parla al singolare: è una figura ben determinata, la douú,lh, che con tutto il suo essere celebra il Signore e si rallegra della salvezza. Tale figura, tuttavia, è portavoce di molti altri personaggi, di tutti coloro che come lei sono stati raggiunti da straordinari interventi salvifici. A conclusione del canto, la serva cede addirittura il posto ad Israele servo del Signore, popolo cui ella appartiene e del quale è testimone privilegiato.

Maria giunge al termine, al vertice di un’infinita schiera di oranti, di uno sterminato corteo di servi e serve del Signore, a partire dai Padri e dalle Madri d’Israele, passando per le figure di uomini e di donne celebri come Abramo, Mosè,  Davide e come Miriam, Debora e Giuditta, come tutti i profeti, soprattutto il servo di Yahwè inglobante il popolo di Dio, in particolare i poveri che nei tempi escatologici si compendiano nelle eccelse figure del Messia davidico e della vergine di Nazaret. Israele è un popolo di poveri che il Signore si è scelto, ha riscattato e riservato per sé. Nulla pertanto di più alieno dall’identità d’Israele dell’arroganza stolta che caratterizza i pagani e che si esprime in ribellione nei confronti di Dio e in oppressione dei deboli.

All’interno del popolo dell’alleanza – tentato a sua volta di autosufficienza e per questo periodicamente, quasi sistematicamente decimato e purificato – permane  sempre un piccolo resto, che costituisce l’Israele qualitativo e fedele, la porzione santa della quale la Vergine del Magnificat è il tipo ideale, ma che si estende a tutti coloro che temono il Signore, ai piccoli, oppressi ed affamati, all’Israele di Dio, vera discendenza di Abramo e popolo della promessa. 



1.    Non definizione di Dio, ma celebrazione del suo agire


 
Jahwè

Il Magnificat non offre pertanto una definizione di Dio, ma rievoca una storia, divenuta liturgia-professione di fede, che rivela il volto concreto di Dio salvatore: un volto plasmato dalle sue azioni salvifiche che costituiscono un memoriale per tutte le generazioni d’Israele.

Certo, nel Magnificat ci sono attributi fondamentali di Dio, ma tutto dipende dai verbi. Gli stessi aggettivi e sostantivi risultano fortemente dinamici: sono, in fondo,  forme e perifrasi verbali oppure intendono qualificare l’agire di Dio più che la sua astratta identità.

Ciò appare con assoluta evidenza nel titolo Dio salvatore che domina e caratterizza  tutto il canto. Esso è specificato da altri due appellativi pieni di densità:

- il potente che ha fatto grandi cose, da comprendere in particolare sullo sfondo dell’esodo e degli eventi maggiori della storia salvifica;

- il santo: titolo non astratto né statico, che rivela la motivazione profonda dell’agire di Dio, come viene esplicitamente proclamato nel canto del mare (10), che celebra la notte della grande liberazione.

Un Dio, dunque, salvatore-potente e santo.

Oltre questi titoli ed appellativi il Magnificat presenta anche un sostantivo, e;leoj, per caratterizzare l’azione di Dio e qualificare il suo volto. Anche qui, però, bisogna osservare che e;leoj non esprime un semplice sentimento, né solo un atteggiamento interiore, ma una caratteristica fondamentale del Dio biblico che - coniugata con la sua santità e potenza - si esprime in efficaci gesta salvifiche a favore dei suoi servi, di coloro che lo temono e  di tutto Israele, senza limiti nel tempo e nello spazio.

A parte i pochi elementi non-verbali, ma comunque dinamici, il volto di Dio-salvatore è delineato da una notevole sequenza di verbi, collocati in posizione dominante, che conferiscono al canto un aspetto unitario e fortemente strutturato. Le forme verbali, proclamando le azioni divine, come si è detto, sono decisive nella rivelazione biblica che è storia concreta, sulla quale poggia la fede d’Israele.

Da questo punto di vista, il Magnificat è un canto esemplare che celebra la salvezza presente e personale della serva del Signore sullo sfondo della storia del popolo dell’alleanza; storia ormai realizzata definitivamente in Cristo e proiettata in maniera irreversibile verso una metastoria, nella quale tutte le promesse di Dio diverranno pienamente .

- A parte l’Introduzione, in cui la serva parla in prima persona – anche se nascosta dietro perifrasi (la mia vitail mio essere), peraltro particolarmente efficaci, e nonostante la dimensione personalistica della prima parte –, il canto appare una proclamazione degli interventi salvifici di Dio, narrati in terza persona, in una comunità liturgica, come avviene per la liberazione pasquale celebrata in particolare nel grande Hallel (salmo 136), in cui il racconto-proclamazione, con cadenza litanica, fa memoria cultuale dei grandi eventi del passato, con Yahwè, soggetto e protagonista del racconto, come lo era stato dell’evento (11).

I verbi, le azioni divine, costituiscono non solo l’elemento dominante, ma la spina dorsale del cantico: essi sono tutti in aoristo – tempo storico per eccellenza – diversamente da quanto avviene nei canti coevi del giudaismo intertestamentario, che esprimono una tensione talora parossistica verso il futuro, in un contesto di grande tribolazione, in particolare nei salmi di Qumran. Le forme verbali del Magnificat sono invece al passato, a testimonianza inequivocabile di una salvezza ormai compiuta, e sono preceduti da un piuccheperfetto che rievoca una lontana promessa fatta ai Padri e ora puntualmente realizzata. Alla base degli aoristi c’è pertanto una Parola (“come aveva detto”), che la storia ha definitivamente  confermato. Protagonista di tutto è il Dio d’Israele che parla, promette ed attua con assoluta fedeltà quanto ha annunciato. La parola uscita dalla sua bocca non ritorna a Lui senza aver compiuto ciò per cui è stata inviata (cf Is 55,11).

Maria, nel canto, non è mai esplicitamente nominata: Dio salvatore è il solo, vero protagonista del Magnificat. Egli è rispettivamente oggetto e soggetto di tutti i verbi, vale a dire di tutti gli eventi e gesta salvifiche proclamati dalla dou,lh.

- Com’è noto, il Magnificat è un canto imbevuto di storia biblica, intessuto di reminiscenze veterotestamentarie, tanto numerose da mettere alla prova la sensibilità e la preparazione del lettore. Al di là dei testi paralleli o imparentati, indicati solitamente dagli studiosi e presenti negli apparati critici del NT, se ne possono scorgere molti altri in filigrana, che fanno di questo canto un esempio di quel che A. Robert chiamava “stile antologico” (12). Esso costituisce un vero mosaico di allusioni, accostamenti e interpretazioni che ne rendono ardua la piena comprensione. Si può ripetere per questo canto quanto Moraldi affermava per le Hodayot di Qumran: “In molti casi l’autore aveva in mente più di un passo biblico, in altri dipende soprattutto dalla discrezione e preparazione del lettore scorgere o meno un riferimento biblico” (13). Il Magnificat è uno splendido mosaico le cui tessere sono costituite dalle vicende della storia d’Israele, la quale ha attinto senso definitivo in Cristo, ma attende pur sempre la pienezza escatologica.

Esaminando il canto dall’inizio, ci troviamo subito di fronte a una solenne dossologia e ad una gioiosa confessione della salvezza. Se è vero che l’Introduzione dà il tono a tutta la composizione, è non meno vero che essa è spiegata e giustificata dal corpo del canto, in cui si esprimono i motivi per i quali viene esaltato il Signore e si gioisce in Lui. Il Magnificat, lo ripetiamo, non offre una definizione razionale ed astratta di Dio, ma una testimonianza storico-esperienziale. Egli è grande perché ha operato grandi cose; è salvatore perché tale si è dimostrato con le sue gesta. A celebrarlo sono coloro che ne hanno constatato la magnificenza divina e la potente salvezza. L’esperienza salvifica è alla base del canto e della gioia che ne deriva.

I verbi dell’Introduzione sono coniugati in terza persona, ma il soggetto non è un personaggio anonimo e indeterminato: è la dou,lh che dal profondo del suo essere  esalta il Signore, ne riconosce e proclama la grandezza, ed esprime la festa della sua esistenza rinnovata dall’intervento divino.

L’Introduzione, dunque, rivela subito il volto di un Dio grande, del tutto trascendente, specialmente se messo in rapporto-contrasto con la tapei,nwsij della serva. D’altra parte, egli non è distaccato o assente dal mondo: è un Dio che interviene tempestivamente e con efficacia nelle situazioni della storia, manifestandosi come salvatore. Un Dio lontano e vicino al tempo stesso, misterioso nella sua assoluta trascendenza, ma ben riconoscibile da coloro che da lui sono stati liberati. Un Dio che provoca il gioioso canto dei redenti.

Non è tuttavia sufficiente un’affermazione di principio, per quanto densa e concreta, per celebrare il Signore: chi canta una prodigiosa liberazione non può tacere i particolari, i fatti concreti della propria esperienza, della sua storia nella quale è intervenuto con potenza il Signore. E’ proprio di tali interventi che si compone la trama del Magnificat.

Si passa così dall’Introduzione al corpo del canto, nel quale il soggetto dei verbi – tutti di azione e tutti in aoristo – è  Dio-Salvatore. La dou,lh è memoria e portavoce di una storia che viene rivissuta e interiorizzata nel culto, all’interno di una comunità di fede.

Il v. 48 comincia significativamente con un poiché, che ricorre parallelamente all’inizio del v. 49: congiunzione causale che regge non solo questi due versi, ma tutto il canto, tanto che potrebbe essere ripetuta all’inizio di ogni versetto, formando una sequenza litanica sull’esempio di numerosi salmi innici o di “ringraziamento”. 

La prima manifestazione dell’agire di Dio è di particolare densità e riassume in qualche modo tutti i successivi suoi interventi:

poiché guardò dall’alto alla povertà della sua serva.

Non a caso sono queste le prime parole con le quali il Signore si presenta a Mosè, al momento di affidargli l’incarico di liberare il suo popolo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…” (Es 3,7). Esse rivelano l’atteggiamento di viva partecipazione di Dio che precede ogni suo intervento salvifico.

E’ da notare che il verbo ble,épw, il quale originariamente indica la semplice funzione fisico-ricettiva del vedere, acquista - già prima del Nuovo Testamento - un connotato “intuitivo-conoscitivo-critico, nel senso di “guardare dentro, scrutare, rendersi conto” (14). Tale significato di attenta e partecipe osservazione viene approfondito dalla formula ebraica di Es 3,7: ra’ôh ra’îtî..., seguita da fondamentali verbi di percezione e di azione: šama‘tî… iada‘tî…wa’ered lehassîlô. Testo reso fedelmente dai LXX, i quali riproducono materialmente la formula idiomatica ebraica ra’oh ra’îtî con ivdw.n ei=don e iada‘tî con oi=da  (15). Come si vede, tutti i sensi di contatto sono direttamente e concordemente impegnati in Dio che veglia sulle vicende del mondo. Yahwè – in questa circostanza egli rivela il suo nome, non volendo essere identificato con i muti e inerti dei delle nazioni – chiaramente vigila e si dà pensiero del suo popolo. Il verbo evpible,pw non esprime solo un guardare sopra, vale a dire dall’alto – si noti la ripetizione di evpi., – ma un curvarsi su, prendersi cura, (16) come un padre e una madre nei confronti del figlio in difficoltà. E a sottolineare ulteriormente la densità del testo – ben evidente in Es 3,7 in cui si parla di miseria, grido, sofferenze, che il Signore ha veduto, ascoltato e conosciuto -  si dà il netto contrasto tra la posizione elevata dalla quale Dio guarda e la tapei,nwsij, la bassezza della dou,lh, la quale non è genericamente una serva, ma “la sua serva”, con un esplicito articolo determinativo che ne sottolinea la totale appartenenza. In termini ancor più chiari, il Signore si era espresso riguardo ad Israele, sempre nel contesto dell’Esodo e della missione affidata a Mosè: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito: Io ti avevo detto lascia partire il mio figlio perché mi serva! (Es 4,22s)”. Si noti questo intreccio tra figliolanza e servizio che esprime appartenenza e dipendenza incondizionata. In Lc 1,48 ricorre il termine dou,lh (cf anche 1,38), ma vi è implicito il senso di proprietà, come si può arguire dal v. 54 in cui si parla di Israele paido.j auvtou, evocante la figura del servo del Deuteroisaia. Questo titolo indica che

… il popolo è entrato… non solo alle dipendenze del Signore, ma nella sua intimità e nella sua fiducia, al punto di essere messo a conoscenza del suo disegno e di poter collaborare alla sua realizzazione. (17)

Già in questo primo emistichio del corpo del cantico si può scorgere una sintesi straordinaria della storia della salvezza ed un’immagine icastica del Dio d’Israele - già proclamato sinteticamente salvatore nel v. 47, prima che altri tratti dei versi seguenti ne sviluppino ulteriormente la fisionomia -: un Dio grande, che domina sul mondo e sulle sue vicende, che veglia con premura sul suo popolo e interviene con efficacia per liberarlo.

L’esperienza cantata dalla Vergine di Nazaret si colloca al vertice di una lunga tradizione di interventi liberatori di Dio nei confronti di singoli personaggi o della comunità in situazione di tapei,nwsij, come si legge in Gen 29,32, in riferimento a Lia, e nel sal 30 (LXX), in cui l’orante afferma di rallegrarsi - con lo stesso verbo avgallia,w presente nel nostro canto – a motivo dell’ e;leoj divino; c’è pure, ovviamente, il riferimento alla situazione di Anna, che nella sua preghiera così si rivolge al Signore: “’im ra’oh tir’eh, se davvero guarderai – col verbo ble,épw al futuro e con l’infinito costrutto (evpible,pwn evpible,yh|j) – alla tapei,nwsij della tua serva” (1Sam 1,11). Come si diceva, non si tratta di semplici interventi isolati, riguardanti questo o quel personaggio, ma di una costante dell’agire di Dio e di salvezza concernente tutto il popolo.

 E’ da tener presente – vi insistiamo - che i verbi con Dio soggetto sono all’aoristo, vale a dire al passato storico. Ancora una volta - come ha fatto per la liberazione dall’Egitto e in tante altre circostanze - il Signore si è chinato dall’alto, in vista di un intervento salvifico. Nel nostro caso, tuttavia, il Signore ha guardato alla sua serva, non in prospettiva di una liberazione futura, come in Es 3,7s (sono sceso per liberarlo): nel Magnificat la liberazione è già avvenuta, è un evento compiuto, celebrato nel canto, nell’esperienza liturgica della comunità. L’escatologia ha fatto ormai irruzione nella storia del mondo, compiendo le attese d’Israele proiettate – all’epoca del Nuovo Testamento -  in un futuro nel quale Yahwè avrebbe realizzato finalmente le promesse con un grandioso intervento dall’alto. Nel canto della Vergine tale speranza-tensione escatologica è chiaramente appagata, anche se con linguaggio e simbolismo ben diversi da quelli della tradizione apocalittica. Nei confronti dell’attesa veterotestamentaria e giudaica, l’evento cristiano – nonostante il genere letterario diverso - si presenta sotto il segno degli ultimi tempi e dunque di una salvezza realizzata.

Su questo sfondo, il v. 49 può proclamare: poiché il Potente ha fatto a me grandi cose…

Il Potente è il secondo titolo di Dio dopo quello di Salvatore, ma come quello è un appellativo eminentemente dinamico. I due titoli non si possono scindere: Dio salvatore è il potente, in quanto realizza efficacemente la salvezza: la sua forza è tutta al servizio della liberazione. Il significato, la portata di quell’aver guardato alla tapei,nwsij della sua serva, appare con evidenza nelle gesta compiute in suo favore. Le grandi cose, che si contrappongono alla tapei,nwsij, alla situazione di povertà esistenziale della serva, qualificano con efficacia il volto di Dio: un Dio forte, potente, capace di trasformare in esperienza di salvezza e di vittoria le condizioni di umiliazione del suo popolo.

Le grandi cose – le mega,la - sono importanti nella struttura e nel significato del canto, il quale si apre con il verbo megalu,nei che richiama appunto le mega,la compiute da Dio. Di fronte alle grandi cose che hanno trasformato radicalmente la sua esistenza, la serva riconosce e proclama la grandezza e la forza di Dio.

I due emistichi 48a e 49a (48b richiede un discorso a parte) sono dunque strettamente congiunti: lo sguardo del Signore è premessa e condizione del suo intervento: egli si lascia coinvolgere nelle vicende umane ed entra in azione dispiegando tutta la sua forza. Solo di fronte ad essa, allo strapotere del braccio divino i violenti recedono dalla loro tirannia sul mondo.

Si afferma spesso, e a ragione, che la prima parte del Magnificat si occupa quasi esclusivamente di misericordia, che in essa l’intervento di Dio riguarda solo i giusti ed i poveri, ma sullo sfondo è già evidente la lotta che si svolgerà contro gli oppressori, e ciò risalta non solo dal termine tapei,nwsij – che anticipa l’aggettivo tapeinou,j - dalla quale la serva viene liberata, ma in maniera ancora più netta dalla forza messa in atto dal Potente e dalle grandi cose da lui compiute a vantaggio della dou,lh.

Il termine dunato,j (in ebr. gibbôr), esprime l’eroe-guerriero; presenta pertanto una connotazione tipicamente militare e bellica, come è confermato da diversi testi veterotestamentari, in particolare dal Sal 24,8.10: “Yahwè forte e gibbôr, Yahwè gibbôr in battaglia… il Signore degli eserciti”.

Tale potenza divina si manifesta anzitutto nei fatti dell’esodo e nel passaggio del mare: “Quando i testi biblici ricordano al pio israelita la potenza di Dio alludono sempre al prodigio del Mar Rosso che coronò l’esodo dall’Egitto”. (18) E ciò viene confermato anche da diverse testimonianze del giudaismo postbiblico. (19)

E’ da notare che la potenza e forza di Dio è motivo biblico frequente, ma il titolo o` dunato,j applicato a Dio è eccezionale; con l’articolo si trova solo nel nostro testo e in Sof 3,17, che usa l’espressione particolarmente significativa gibbôr jôšîa‘. (20) Ciò significa che il nostro versetto è particolarmente importante per qualificare il volto di Dio come forte guerriero. E’ una conferma ulteriore del fatto generalmente acquisito che la collocazione di questo canto nell’attuale contesto non è originaria; è conferma anche che il contesto lucano intende presentare la venuta del Messia davidico Figlio di Dio come l’intervento supremo dalla potenza di Dio: “Egli sarà grande, sarà chiamato figlio dell’Altissimo… la potenza dell’Altissimo verrà su di te…” (Lc 1,32s.35).

In altri termini, quanto si verifica in Maria – che nella teologia di Lc 1-2 suppone l’evento pasquale di Cristo e la sua ricezione a livello di fede e di liturgia - viene descritto con i termini della grande liberazione dell’esodo, ma non è ad essa inferiore, anzi costituisce il compimento di quella salvezza iniziale che in Cristo attinge pienezza e nella parusia si manifesterà in tutta la sua efficacia. Il Dio cantato nel Magnificat è dotato di straordinaria potenza salvifica, come tutta la tradizione d’Israele ripete e come la personale esperienza della dou,lh conferma. 

Posto enfaticamente, in fine di riga e in posizione chiastica rispetto al soggetto sottinteso di evpe,bleyen, a conclusione di una sezione racchiusa entro i termini megalúu,nei- mega,ála, il titolo o` dunato,j acquista un rilievo notevole.

Esso appare in posizione strategica anche perché da una parte conclude la serie dei titoli divini (Ku,rioj, Qeo,j, Swth,r) e dall’altra introduce la descrizione dei tratti divini della santità e della misericordia. Inoltre o` dunato,j con evpoi,hse,n mega,la prepara la seconda parte del canto (vv. 51-55), la quale inizia con una formula quasi parallela: evpoi,hse,n kra,átoj.

La forza e potenza di Dio, già presente nel v. 49a, esplode infatti con eccezionale violenza nella seconda parte del cantico. Il Magnificat celebra anzitutto e direttamente l’intervento salvifico a favore della dou,lh e di Israele servo di Dio, ma l’azione divina si deve confrontare, in un caso come nell’altro, con forze ostili di oppressione e di morte.

Su questo sfondo si colloca, la frase quasi descrittiva e santo è il suo nome (v. 49b). Contrariamente a quanto potrebbe apparire, neppure questa è un’espressione astratta, né una definizione razionale di Dio. E’ noto infatti che il nome sta per la persona, e sappiamo ormai di quale potente personalità si tratta. La santità, per conseguenza - nel nostro contesto, come anche altrove –, è la radice profonda dello zelo che presiede alle azioni salvifiche di Dio. Il parallelismo più diretto per il nostro testo, rimane il canto del mare, ove troviamo un’esplicita associazione tra santità e intervento liberatore: “Chi è come te…, Signore? / chi è come te, / maestoso in santità,  tremendo nelle imprese, operatore di prodigi? (Es 15,11).

Nel Deuteroisaia il titolo caratteristico qedôš jisra’el è accompagnato da termini salvifici come go’el (21) e môšîa‘ (cf Is 43,3). Ciò rivela la stretta connessione tra la santità di Dio e la redenzione d’Israele che sono, per così dire, in rapporto di causa ed effetto.

Anche l’e;leoj che segue nel v. 50 – a conclusione della prima parte del cantico (22) - non è un semplice sentimento o atteggiamento interiore, ma una componente dinamica del Dio d’Israele, che sta alla base del rapporto con il suo popolo: per la misericordia nei suoi confronti – legata all’elezione e alla promessa – Dio interviene a salvarlo. Possiamo dire che tutti i comportamenti di Dio salvatore: il guardare alla povertà della serva, l’operare grandi cose sotto l’impulso della sua santità, dipendono dal suo atteggiamento di hesed verso Abramo e la sua discendenza (cf vv. 54-55). (23)

“Nel linguaggio religioso lo hesed di Dio indica sempre più il suo aiuto misericordioso, e una tale accezione… si esprime nella traduzione e;leoj”. (24) 

Trattandosi di un termine che ricorre con grande frequenza nei LXX, per lo più con Dio come autore, (25) non si può dire che e;leoj sia un vocabolo caratteristico dell’esodo. E’ vero, tuttavia, che tra l’e;leoj e i prodigi di Dio esiste un legame particolare. (26)

La salvezza è opera della sua misericordia, del suo amore e della  fedeltà verso Israele, nel ricordo del giuramento fatto ai Padri.

L’immagine divina emergente da questa prima parte del Magnificat è dunque tradizionale ed eminentemente positiva. Il canto della Vergine si pone sulla scia della grande storia e spiritualità d’Israele che celebra la salvezza di un Dio potente, santo e misericordioso.

Il Magnificat è stato diviso in molti modi. La struttura bipartita sembra la più logica, non a caso è quella oggi maggiormente condivisa. Qualunque divisione, tuttavia, deve prendere atto della forte unità del cantico e della sua continuità tematica. Tra la prima e la seconda parte si danno dunque accentuazioni più o meno marcate, ma nessuna frattura. Il Dio della prima parte, misericordioso e salvatore, è anche il Potente che non esita a compiere grandi cose sotto la spinta del suo zelo e della sua santità.

Nella seconda parte si sottolinea in maniera esplicita l’azione divina contro superbi ed oppressori, ma l’interesse principale verte – come nella prima parte – sui piccoli e gli affamati; e il canto si conclude con un riferimento ad Israele servo del Signore, oggetto della misericordia divina. Non si può quindi affermare in maniera riduttiva che la prima parte tratta della misericordia di Dio verso i poveri e la seconda della sua forza devastante contro i potenti. Sia la prima sia la seconda celebrano l’azione di Dio salvatore e liberatore, il quale indirettamente deve prendere posizione risoluta nei confronti degli oppressori del suo popolo.

Il v. 51 è da intendere in collegamento con il v. 49, e ciò conferma la continuità tra le due parti del cantico, dal punto di vista formale e del contenuto.

Ma tra i due versetti c’è anche opposizione: la medesima forza di Dio che compie  mega,ála, vale a dire prodigi di salvezza per la dou,lh, causa distruzione nei confronti degli operatori di ingiustizia. Ovviamente la salvezza non è mai un’operazione indolore: essa si confronta di necessità con la violenza degli oppressori. Per strappare le vittime dalle loro mani si richiede un’esplosione della forza di Dio. L’azione liberatrice comporta pertanto un aspetto drammatico e tragico, testimoniato da tutta la storia della salvezza, a partire dalla liberazione dall’Egitto, come appare fin dall’inizio della missione di Mosè:

Allora tu dirai al faraone: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio… Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire: Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!” (Es 4,22s).

L’ostinazione del faraone è irriducibile: resiste di fronte a nove spaventosi prodigi, e cede infine – temporaneamente (cf Es 14,5ss) - di fronte alla piaga della morte dei primogeniti (Es 12,29s). Solo allora (v. 31), costretto dall’immane tragedia, egli concede agli israeliti di abbandonare la sua terra e la condizione di schiavitù.

Ma la presentazione più efficace della liberazione d’Israele ad opera del braccio potente di Dio è contenuta nel c. 14 dell’Esodo. Neppure la morte dei primogeniti aveva fiaccato definitivamente la durezza del re d’Egitto. Egli insegue con un potente esercito e raggiunge i figli d’Israele accampati in riva al mare, non lasciando loro alcuna via di scampo. Di fronte a tanta ostinazione e a tale estrema minaccia, il Signore interviene direttamente per tutta una notte, operando mega,ála, cose portentose. Al termine del racconto di quella fatidica notte di salvezza per i figli d’Israele e di annientamento per l’esercito del faraone, il testo biblico annota:

In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani… Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto… Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore…

e segue il celebre canto del mare di Es 15,1-18. (27) Il motivo di questo inno di vittoria è ripreso ininterrottamente nella tradizione d’Israele, in particolare nei salmi che celebrano la liberazione dei poveri dalle mani dei loro oppressori. Esso costituisce  il tema dominante della fede e della pietà d’Israele che ad ogni Pasqua celebra i prodigiosi eventi del passato e rinnova la speranza di una salvezza futura ad opera dello stesso Signore operatore di cose grandiose.

(continua)

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