Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

I problemi attuali dell'ecclesiologia

di Giovanni Tangorra


La Chiesa del Vaticano II si è rivolta al presente, all'uomo di oggi coni suoi interrogativi e le sue angosce, cercando di trasmettergli il proprio messaggio di salvezza. È stato un lavoro intenso finalizzato al rinnovamento del volto ecclesiale ma, paradossalmente alla chiusura del concilio, ci si è accorti che il problema principale restava proprio la Chiesa. L'opera di aggiornamento con cui si indicava ciò che essa avrebbe dovuto essere era stata svolta con una riflessione a tutto campo ma molte idee restavano ancora a livello di intuizioni. Allo stato attuale, mentre nel mondo si disegnano nuovi scenari, con crisi economiche e politiche di livello internazionale, il cattolicesimo conosce situazioni contraddittorie. C'è chi ripropone un tradizionalismo nostalgico e chi prospetta una fuga verso direzioni più radicali, ma anche un numero sempre più cospicuo di indifferenti che auspicano un cristianesimo senza Chiesa. Questi e altri problemi impongono nuove sfide e la necessità di mettere in chiaro alcuni nodi ecclesiologici, più o meno evidenti, cui occorre porre mente e cuore.

Il nodo del soggetto

Nel passato il cristianesimo costituiva l'ovvio, la pressione sociale era meno esigente e il ruolo della Chiesa non veniva messo in discussione. I cittadini potevano apprendere i rudimenti della fede, praticare i sacramenti e conoscere le leggi della Chiesa persino nei programmi delle scuole pubbliche. La situazione odierna è radicalmente diversa e la Chiesa si trova nell’esigenza di aprirsi uno spazio nel grande mercato delle opzioni religiose. È realistico pensare che il futuro non sarà contrassegnato da un ritorno della situazione di privilegio goduta nel passato ma da un deciso incremento del pluralismo che rischierà di rendere marginale l'identificazione stessa dei battezzati. Il rimedio può essere trovato solo in un deciso richiamo alla responsabilità del soggetto, all'elaborazione personale delle scelte puntando sulla capacità umana di prendere autonomamente le proprie decisioni. Il cristianesimo che si imponesse per costume o per tradizione è inevitabilmente destinato all'estinzione. Il primo compito sarà perciò quello di passare «da una Chiesa di popolo a una Chiesa formata da coloro che, in contrasto con il loro ambiente, sono impegnati per una decisione di fede personalmente, chiaramente e riflessamente responsabile». Chi lo dice è Karl Rahner che aggiunge: «O la Chiesa del futuro sarà una tale Chiesa oppure non sarà più» (1).

Questa esigenza è percepita negli stessi documenti ufficiali che con sempre maggior convinzione parlano della necessità di creare un «cristianesimo adulto». Negli Orientamenti pastorali per l’attuale decennio, i vescovi italiani scrivono: «Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta, pensata, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo» (n. 50). Il suggerimento è quello di puntare sulla formazione, favorendo «esperienze di vita, personali e comunitarie, fortemente ancorate al Vangelo per dare un avvenire alla trasmissione della fede in un mondo in forte cambiamento» (n. 45). Il fine non è naturalmente l'autocompiacimento ma la realizzazione autentica di una Chiesa di testimoni, per «far sì che le comunità divengano segni eloquenti, a motivo della loro vita “diversa”. Ciò non significa credersi migliori, né comporta l'esigenza di separarsi dagli altri uomini, ma vuol dire... costituirci testimoni» (ivi).

Prima però di interessare l'individuo e le sue convinzioni, la svolta del soggetto deve compiersi a livello di Chiesa, sbloccando l'ecclesiologia giuridica che riduce i rapporti del credente con una realtà intesa in senso impersonale. È questa considerazione, infatti, che irrigidisce l'appartenenza a una specie di gregariato, rischiando di ridurre la fede ad un assenso su una serie di dogmi, la liturgia al conformismo rituale e le relazioni intraecclesiali a un rapporto di competenza-contrapposizione tra clero e laici. In un quadro così delineato si nutre la falsa convinzione che la Chiesa possa andare avanti da sola, per la forza dei suoi strumenti ma la conseguenza inevitabile sarà quella di produrre un corpo anonimo, depersonalizzato.

Fu una situazione di questo tipo a portare un ispiratore del concilio come Yves Congar a lavorare intensamente per una revisione del concetto di Chiesa che si spostasse dalle «cose» alle «persone». Ecco un testo, fortemente autocritico, che può essere indicato come punto di partenza di tutto il suo progetto ecclesiologico: «La teologia cattolica ha considerato poco le realtà cristiane vissute nel soggetto religioso. Essa ha considerato la Chiesa come un'istituzione esistente oggettivamente - ciò che essa è in modo sicuro - molto poco come assemblea dei fedeli e comunità vivente risultante dalla loro azione» (2). Questa osservazione ha portato il teologo francese a condividere il disagio istituzionale delle nuove generazioni e a giudicarlo positivamente, sostenendo che il futuro della Chiesa dipenderà proprio da «una personalizzazione molto più grande delle convinzioni e dei comportamenti» (3).

Il nodo della comunione

Il Vaticano II ha posto solo i primi passi di un'ecclesiologia diversa, chiamata di «comunione» L’intento era quello di rinvigorire la Chiesa sul piano spirituale e di cercare una forma organizzativa meno centralizzata e più sinodale. Gli anni successivi sono stati caratterizzati dalla ricezione di questo tema con dichiarazioni solenni come quella del Sinodo straordinario dei vescovi che, convocato in occasione del ventennio del concilio, ha sostenuto di dover considerare la comunione come «l'idea centrale dell’eccclesiologia conciliare» (4). Cosa però comporti concretamente l’assunzione di questo modello concettuale e quale tipo di ordinamento ecclesiale si stabilisce sul suo fondamento, sono aspetti che gli ecclesiologi non hanno ancora pienamente risolto. Per questo non mancano anche le perplessità e le attenzioni. Grazie a questo modello l'ecclesiologia è comunque costretta ad approfondire nuovi percorsi, tre dei quali qui meritano di essere sottolineati: la fraternità, la corresponsabilità e la sinodalità.

La fraternità ecclesiale va vissuta attraverso un concorso di sentimenti affettivi ma anche con gesti concreti ispirati all’amore, alla giustizia, all'incontro, allo stare in-sieme, allo scambio, all'ospitalità, al servizio, tutti valori che corrispondono all'indole comunitaria che caratterizza il mistero ecclesiale. La coscienza di una tale comunione non può che avere un respiro universale ma è anche vero che, per sua natura, essa ha bisogno di strutturarsi in modo concreto, partendo dal centro pulsante del mistero ecclesiale che è l'eucaristia. L'autonomia delle Chiese locali e lo sviluppo legittimo delle loro diversità rientra quindi a pieno titolo fra i compiti di una ceclesiologia di comunione. Ogni Chiesa deve potere esprimere la sua novità, l'elemento differenziante con cui concretizza e dà forma al tempo di Dio, con parole ed eventi sperimentati nella dimensione dell'hic et nunc.

Resta la questione spinosa della tensione fra località e universalità. Il noi dei fedeli in un luogo stabilisce un'identità plurale delle Chiese sparse nel mondo ma lo Spirito, che è garanzia della pienezza locale, è anche colui che rifiuta gli esclusivismi e le autonomie faziose. Il ministero petrino svolge un ruolo chiave ma dovrà anche apparire come garanzia di un'unità molteplice, in grado di tutelare «le varietà legittime e insieme vegliare affinché ciò che è particolare non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13). Forme e modi sono però qui ancora da cercare e il tema è uno di quelli che conosce il maggior fermento. Un vero nodo ecclesiologico.

Un elemento che ha incoraggiato la riscoperta della Chiesa locale è stata la nuova sensibilità per rapporti ecclesiali che si vogliono meno formali e più veritieri sul piano umano. Questa singolare congiunzione di antropologia ed ecclesiologia ha contribuito non poco a intensificare ulteriormente il movimento della localizzazione per ricreare vecchie organizzazioni bloccate come la parrocchia e per inventare cellule ancora più piccole come il movimento, l'associazione o il gruppo che fossero capaci di offrire un'esperienza più significativa della vocazione fraterna della Chiesa con la realizzazione di rapporti realmente interpersonali. Un riconoscimento particolare andrà ai nuovi soggetti, in macro come quello delle unità pastorali, e in micro, come le comunità di base. Parlando sempre in termini di futuro il citato Rahner scrive: «La Chiesa sarà sorretta, necessariamente, dalla fede libera dei suoi membri e dalle comunità di base che non si limitano a ricevere le cure della Chiesa ufficiale, ma costituiscono la chiesa in modo responsabile, autonomo e attivo» (5).

L'ecclesiologia della comunione dispiega inoltre una teologia della corresponsabilità, portando ogni Chiesa locale (ogni gruppo, ogni cristiano) ad elaborare processi autonomi di decisione e collaborazione, perché è solo nella libertà reale che si può comunicare e produrre un autentico consenso. Il problema punta qui su una questione centrale: come accordare il principio dell'autorità con il principio dei carismi? Come risolvere i conflitti che, nonostante la buona volontà, ancora si presentano su questo terreno?

La soluzione potrà essere cercata operando su due fronti: creare una classe di ministri ordinati capace di pensare in un'ottica di cooperazione e promuovere in modo concreto il laicato. Sul primo è da condividere questa intensa opinione di J.M. Tillard. «Il ministro non manifesta la sua natura se non nell'atto di tutta la comunità in cui esso si trova esercitato. Considerarlo semplicemente nella sua attività propria, isolata dalla sinfonia delle attività che lo Spirito suscita, significa condannarsi a non comprenderlo» (6). Occorre allora superare le scorrette forme di esercizio dell'ufficio ministeriale, il clericalismo, l'atteggiamento autoritario, la supponenza, che fanno del prete un separato dal resto dell'ecclesia. Uscire dalla sterile contesa sulle competenze del potere implicherà l'attuazione di una collaborazione vasta del popolo di Dio, favorendo e non semplicemente «rassegnandosi» alla maturazione di una coscienza adulta dei fedeli (laici o altri) anche nel vasto campo del fare.

Parlare di sinodalità significherà, infine, imparare ad acquisire uno stile ecclesiale che sa dare alla collegialità, intesa nelle sue diverse forme, la forza di un sogno sacramentale. Il modello sinodale non nega l'autorità ma afferma che essa non può «fare» e «decidere» senza impegnare gli altri, mettendo in pratica, nelle diverse questioni della vita ecclesiale, il principio relazionale. A livello universale c'è il nodo della collegialità episcopale e delle sue diverse espressioni come le conferenze episcopali, mentre a livello di Chiesa locale il riferimento è ai rapporti fra vescovo, presbiteri e laici. Possono un vescovo o un parroco prendere decisioni che interessano la vita delle comunità in modo autarchico, senza comunicare, informare, consultarsi? Tutto impone la necessità di costruire un'ecclesiologia relazionale che sul piano dell'organizzazione diventi un'ecclesiologia sinodale dove nessuno può essere escluso.

Il vero passo in avanti, inaugurato dal concilio, è qui consistito nella creazione di strutture finalizzate a una collaborazione vasta per dare ai fedeli la possibilità di esprimersi a livello personale, di gruppo, di Chiese locali, di Chiese particolari e di Chiesa universale. Un'intensificazione e una seria attuazione di queste strutture di comunione, che ancora stentano ad essere attuate nella pratica, non può che essere una via profetica per chi vuole attuare in modo serio il modello di una ecclesiologia sinodale. Va letto in questa prospettiva l'auspicio di Giovanni Paolo II che al n. 21 della Tertio millennio adveniente, parlando dei sinodi, scrive: «Questi sinodi costituiscono già per se stessi parte della nuova evangelizzazione: nascono dalla visione del concilio Vaticano II sulla Chiesa; aprono un ampio spazio alla partecipazione dei laici, dei quali definiscono la precisa responsabilità nella Chiesa; sono espressione della forza che Cristo ha donato a tutto il popolo di Dio, facendolo partecipe della propria missione messianica, profetica, sacerdotale e regale».

I nodi da sciogliere su questo tema sono numerosi ma si concentrano nel tipo di rapporto che deve stabilirsi fra comunione e istituzione. La fisionomia giuridica diventa rilevante per il rischio insito alla teologia della comunione di rimanere sul piano della pura interiorità o di esaurirsi in intenzioni di carattere nominalistico. Sembra evidente, infatti, che senza un riconoscimento empirico della sinodalità, la communio non avrebbe alcuna garanzia realizzatrice e verrebbe affidata alla buona volontà dei singoli, riportandola sul piano delle intenzioni.

Il nodo ecumenico

Alla chiusura del concilio la consapevolezza dello scandalo della divisione e il desiderio dell'unità sono stati i sentimenti più condivisi che si sono tradotti in una serie di passi concreti, nella convinzione che il dialogo fosse la via migliore per avanzare nell'unione, dialogo da condurre nel rispetto dell'altro sul piano della prassi e della dottrina. Alcuni osservatori ritengono che se sul primo si sono fatti passi da gigante, almeno a livello ufficiale, il secondo conosce una fase di ristagno. Si tratta di un luogo comune che occorre sfatare perché la lettura dei documenti ecumenici mostra un'incredibile convergenza su numerose questioni in altri tempi ritenute irriconciliabili Lo testimonia il documento “Chiesa e giustificazione. La comprensione della Chiesa alla luce della dottrina della giustificazione”, firmato a Wurzburg nel 1993 (7). Il riavvicinamento teologico raggiunto è senza precedenti: cattolici e luterani, dopo quattro secoli di lotte non solo ideologiche, si sono ritrovati a condividere il principio fondamentale del Vangelo che è salvezza per l'uomo, senza che comporti una negazione del ruolo della Chiesa. Per la profondità con cui sono state affrontate le tematiche ma anche per il rigore con cui si è stati in grado di offrire una comunicazione capace di realizzare un punto di contatto, questo documento si presenta come una sorta di «carta» sulla quale costruire concretamente l'unità. Gli stessi vescovi firmatari si sono chiesti se questo e gli altri documenti, ormai, «non costituiscano un consenso sufficiente per permettere alle nostre Chiese di avviare passi concreti, diventati sempre più urgenti verso l'unità visibile». Mai le precedenti commissioni ufficiali si erano spinte a tanto.

L’attesa di questi passi concreti è dunque il nodo ecumenico che occorrerà sciogliere. Nella citata Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ha inserito una profezia prevedendo un improvviso gesto di accelerazione ecumenica tale da far sperare di giungere alla soglia del duemila «se non proprio tutti uniti, almeno più prossimi a supérare le divisioni del secondo millennio». Espressione profetica è anche quella in cui Luigi Sartori indica una possibile strada: «Occorre partire dalla comunione nello Spirito Santo per far uscire le Chiese dall'angustia dell'egocentrismo, e recuperare già in partenza un'apertura pienamente ecumenica, ossia universale» (8). È allora necessario saper uscire dai pretesti per dare mano coraggiosamente a possibili progetti di riunificazione che in ogni caso siano però leali e non accomodanti. Più che un'impasse, il cammino ecumenico dà l'impressione di dibattersi in uno strano circolo vizioso: quando si vive la comunione della prassi ci si lamenta dei ritardi causati dal consenso teorico ma quando si riesce a raggiungere un consenso su questa materia si sostiene che non basta la comunione dottrinale se non si raggiunge una presa di coscienza ecclesiale. Insomma i tempi sono sempre considerati immaturi e nessuno riesce a spezzare questo cerchio fatale. Non può essere qui la causa di quell’inverno ecumenico cui tutti vanno parlando?

Il nodo dell'impegno nel mondo

La Chiesa conciliare ha preso particolare coscienza del fatto che la sua missione è «in ordine all'elevazione della dignità umana e alla preparazione di condizioni più umane» (Ad gentes 12). Ma anche questo punto nel dibattito successivo si è tramutato in un nodo ecclesiologico, acceso dalle diverse interpretazioni che fanno capo alle diverse scelte della teologia della liberazione. Si tratta di chiarire con maggiore precisione i contenuti della missione, il rapporto che c’è tra salvezza e liberazione, il valore evangelico di attività come la responsabilizzazione sociale e la costruzione terrestre. Le soluzioni offerte sembrano non accontentare nessuno con conflitti che a volte appaiono insanabili: da una parte c'è una Chiesa che, avendo emarginato il problema della sua identità a livello dell’eterno, si esaurisce nell'impegno sociale, dall’altra chi critica questo modello richiedendo un maggiore nutrimento a livello di spiritualità. I primi si appellano al Cristo solidale e liberatore, i secondi denunciano un adattamento all'opinione dominante. Così in un libro di Luigi Accattoli si può leggere: «Se dovessi scegliere tra una comunità cristiana che riduce tutta la sua attività comunitaria all'impegno per la giustizia e un’altra che lo trascura totalmente e si limita a predicare la risurrezione di Cristo e la fine del mondo, scegliere la seconda» (9).

Seguendo il principio guida di una Chiesa che non vive per sé ma per-gli-altri le cose non dovranno mai essere poste sul piano delle alternative: la responsabilità nei confronti della fede (l'amore per Dio) e sempre, nello stesso tempo, anche una responsabilità nei confronti del mondo (amore per il prossimo).

L'una si comprende nell'altra, ma si dovrà anche riconoscere il principio locale, dando alla situazione il diritto di pensare le priorità. La presenza di una duplice anima non dovrebbe nemmeno essere motivo di guerre ecclesiali: azione e contemplazione, impegno e preghiera si ispirano a due modelli teologici specifici, quello dell’incarnazione e quello dell’escatologia.

Un punto irrinunciabile sarà quello di uscire dalla spiritualizzazione del concetto di salvezza perché la missione conferisca piena dignità teologica a contenuti riguardanti la vita, la salute, la fraternità, la giustizia e la libertà. Ma anche la spinta escatologica verso il regno richiama la responsabilità nella costruzione di questo mondo: «Il cristiano è "collaboratore" per questo regno promessoci di pace e di giustizia universale (cf. 2Pt 3,13). L’ortodossia della sua fede deve sempre "avverarsi" nella ortoprassia della sua azione escatologicamente orientata, in quanto la verità promessa e una verità che deve essere "fatta"» (10).

Un elemento chiarificatore riguarda i destinatari. Se il regno viene come compimento e come speranza, allora il compito si rivolge di preferenza proprio a coloro che vivono l'incompiuto e che sono senza speranza, diventando sazietà per chi ha fame, consolazione per chi piange, liberazione per chi è oppresso, giustizia per chi è perseguitato (Lc 6,20-25). Per la Chiesa ciò vuol dire prendere posizioni concrete che devono condurla decisamente dalla parte dei poveri. Nei citati Orientamenti, i vescovi italiani scrivono; «Il cristianesimo non può accettare la logica del più forte, l'idea che la presenza di poveri, sfruttati e umiliati sia frutto dell'inesorabile fluire della storia: Gesù ha annunciato che saranno proprio i poveri a regnare, a precederei nel regno dei cieli. Sono essi i nostri "signori". Su questo punto il cristianesimo non può scendere affatto a compromessi: il povero, il viandante, lo straniero non sono cittadini qualunque per la Chiesa, proprio perché essa è mossa verso di loro dalla carità di Cristo e non da altre ragioni» (43).

La Chiesa non è spazio chiuso, non è luogo extraterritoriale, ma è nel mondo, vive del mondo. Esaurire il campo della sua responsabilità solo all’interno di attività propriamente sacrali significherebbe tradire il senso della missione. Anche questa è una linea ecclesiologica per il futuro. Lo Spirito spinge a farsi protagonisti della trasformazione del mondo perché questo si liberi dalla corruzione, dall'odio delle guerre e dall'ingiustizia, progredendo verso la maturità del regno di Dio che verrà per il dono di Cristo Salvatore. Ogni epoca ha i suoi testimoni, la nostra che è così sensibile alla storia ha bisogno di testimoni e di protagonisti concretamente impegnati nel campo di una salvezza intesa in senso integrale.

La soluzione di tutti questi nodi ecclesiologici è certamente in linea con lo spirito del concilio. Molti altri problemi potevano essere affrontati, primo fra tutti quello della comunicazione, da non intendersi solo sul piano etico-pastorale ma su quello ben più urgente di un certo modello di Chiesa. Occorreva però fare delle scelte e i temi elencati costituiscono certamente una sfida sufficientemente motivata per fondare gli sforzi di una Chiesa che intenda proiettarsi nel futuro.

Note

(1) K. RAHNER, Trasformazione strutturale della chiesa come compito e come chance, Queriniana, Brescia 1973, 32.

(2) Y. CONGAR, Vrai et fausse rèforme, Cerf, Paris 1968, 16.

(3) Id., L’Avenir de l’Eglise, in L’Avenir. Atti della settimana degli intellettuali cattolici, Cerf, Paris 1964, 212.

(4) Relatio finalis, II C, 1 (85), in Enchiridion Vaticanum, 9/1779-1818, EDB, Bologna 1987.

(5) K. RAHNER, Sollecitudine per la chiesa, in Nuovi saggi VIII, Paoline, Roma 1982, 391.

(6) J. M. TILLARD, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 201.

(7) Cf. Il Regno-documenti 19 (1994).

(8) L. SARTORI, Brevi note di bilancio prospettico, in Studi ecumenici XI (1993) 230.

(9) L. ACCATTOLI, La speranza di non morire, Paoline, Cinisello Balsamo 1992, 85.

(10) J. B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1974, 89.

Venerdì, 05 Maggio 2006 00:47

I cristiani e la guerra (Massimo Toschi)

I cristiani e la guerra
di Massimo Toschi

In un tempo di grande stanchezza per la nostra chiesa e anche per la società, siamo chiamati a vivere il tema della fede come resistenza e della resistenza della fede. Questo ci costringe a guardare con coraggio dentro noi stessi, le nostre scelte, le nostre omissioni. Troppe volte abbiamo fatto passare come resistenza ciò che invece aveva il volto cinico di un adeguamento astuto al mondo. Basterebbe guardare al fatto che la profezia si è svuotata, nella chiesa, in proclamazione di astratti principi e che la dignità della politica si è frantumata in una logica di opportunismo e di piccola furbizia.

Attualizzazione di una pagina di Bonhoeffer

Scrivendo a dieci anni dall’avvento di Hitler in Germania, Bonhoeffer si pone il problema di chi resiste di fronte all’ostensione del male, nella sua abissale malvagità. Si cercherà di leggere questo testo, provando a farne un’attualizzazione rispetto alla situazione di oggi, con tutti i limiti di un’operazione di questo genere. In modo particolare prenderemo come riferimento le guerre di oggi, a partire dalla guerra del Kosovo. Questo testo, presente in Resistenza e resa, presenta una tipologia di coloro che pensano di resistere.

1. Bonhoeffer denuncia innanzitutto il fallimento degli "esseri razionali", di chi cioè crede che la ragione sia qualcosa al di sopra delle parti, capace di regolare e di trovare soluzioni adeguate al conflitto delle parti.

Sono coloro che quando il conflitto diventa supremo, non hanno più parole da dire né gesti da compiere, ma si arrendono, diventandone partecipi e giustificatori, ai meccanismi sottili della forza e del dominio. Sono gli illusi che pensano di contenere la guerra con la forza della ragione, e si trovano a predicare le ragioni della forza.

2. C’è poi il fallimento del "fanatismo etico". Sono coloro che si accontentano dell’astratta declamazione dei principi, dei loro principi, senza assumersi la fatica e la responsabilità di analizzare i reali meccanismi di violenza e di dominio. Essi non sanno guardare lontano, oltre le pareti della loro ideologia, non si piegano su chi si trova nella prova, ma si ritengono soddisfatti di comprimere il mondo nelle loro idee.

Sono inevitabilmente destinati a stare nel coro di chi canta le lodi dei più forti. Essi arrivano sempre dopo gli eventi e cercano di affermare ad alta voce le loro ideologie, nella convinzione che questo basti a cambiare il mondo.

3. C’è poi l’uomo di coscienza", che da solo pensa di combattere contro le contraddizioni e le complessità della storia. "S’accontenta di avere una coscienza salva, invece che una buona coscienza, finché non mente alla propria coscienza per sfuggire alla disperazione".

Sono coloro che non sanno misurarsi con la durezza della realtà, che arrivano a manipolare la realtà, per avere la coscienza tranquilla. Pur di custodire la coscienza, si preferisce credere a ciò che altri ci fanno credere. Basti ricordare, nel nostro paese, un certo solidarismo a buon mercato e consolatorio, che è stata l’altra faccia di una guerra fatta credere come umanitaria.

4. Viene poi indicata "la via del dovere": "Ciò che viene ordinato viene inteso come la cosa più certa; la responsabilità dell’ordine è di chi l’ha impartito, non di chi lo esegue. Ma attenendosi strettamente al dovere, non si giunge mai al rischio di agire sotto la propria responsabilità, che è la sola maniera di colpire in pieno il male e per superarlo".

È la via di chi nasconde le proprie responsabilità dietro al rispetto comodo e astuto delle alleanze e degli impegni presi, che usa dei conflitti e della guerra per accreditarsi come colui che è capace di rispondere agli obblighi dati. La tipicità di questo atteggiamento si trova in coloro che fanno dell’obbedienza alle alleanze il paravento dietro cui porre il loro opportunismo politico, che li esenta dalla fatica di trovare vie impervie e originali alla pace.

5. Ci sono poi coloro che si vogliono "sporcare le mani, per trovare una qualunque soluzione ai conflitti": "Chi è disposto a sacrificare lo sterile principio al compromesso fruttuoso, la sterile saggezza della moderazione al radicalismo fruttuoso, badi che la sua libertà non lo porti alla rovina. Egli accetterà il male per allontanare il peggio e non sarà più in grado di riconoscere che proprio il peggio, che egli vuole evitare, potrebbe essere il meglio. Qui sta la matrice originaria di tante tragedie".

Dietro questa descrizione stanno i difensori del minor male, che in questo modo hanno giustificato i mali peggiori. Sono i padri e i figli di una cultura di guerra, che pensano che la guerra sia l’unico strumento capace realisticamente di produrre la pace. E dunque hanno inventato degli aggettivi nobili per dare dignità di pace alla guerra: dalla guerra giusta alla guerra umanitaria. Volendo resistere alla guerra, ne hanno fatto l’unico strumento per realizzare la pace, rendendo così credibile ogni guerra, anche la più terribile.

6. C’è infine chi pretende di resistere "chiudendosi nello spazio della sua interiorità, lasciando che la storia prosegua il suo corso, con il risultato o di rimanere schiacciato sotto la responsabilità per quello che non fa e potrebbe fare o di assumere la logica del fariseo, che trova la sua autogiustificazione nelle sue leggi religiose".

Basti pensare all’uso che si è fatto delle infinite veglie di preghiera per la pace, all’uso civile di liturgie riparatrici quando c’è un grande lutto nel paese, quasi che si potesse usare la preghiera per coprire le nostre omissioni e le nostre responsabilità. La preghiera in queste situazioni sembra darci una coscienza tranquilla, che ci permette di riprendere il cammino senza che nulla cambi nella nostra vita, senza sentire la responsabilità di cambiare nel profondo la storia.

Il vero resistente

Il testo si conclude con una domanda: chi resiste? La risposta di Bonhoeffer è netta: "Soltanto colui che non ha come ultima istanza la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma è disposto a sacrificare tutto questo, quando viene chiamato a un’azione responsabile e obbediente, nella fede e in un vincolo esclusivo con Dio: il responsabile, la cui vita non vuole essere che una risposta all’interrogativo e alla chiamata divini".

Il vero resistente, allora, è colui che vive in modo radicale la chiamata di Dio e la sua obbedienza a lui. È proprio questa sottomissione assoluta alla signoria di Dio che genera una fecondità storica, che dona al credente di compiere azioni che operano nella storia secondo il realismo dell’Evangelo, non temendo l’opposizione del mondo.

Ma ci sono testimoni di questa resistenza? La domanda di Bonhoeffer rimbalza su di noi, senza offrire risposte consolatorie. Anzi la sua conclusione è ancora più drammatica: "Siamo stati testimoni muti di azioni malvagie, ci siamo lavati con molte acque, abbiamo imparato l’arte della mistificazione e del discorso ambiguo, l’esperienza ci ha resi diffidenti verso gli uomini e spesso abbiamo loro mancato nella verità e nella libera parola; conflitti insopportabili ci hanno reso arrendevoli e forse persino cinici. Serviamo ancora a qualcosa? Ci sarà rimasta tanta forza di resistenza interiore contro le situazioni imposteci, ci sarà rimasta tanta spietata sincerità verso noi stessi da poter ritrovare la strada della semplicità e della rettitudine?".

La fede come resistenza

Scrive Pietro: "Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà la grazia agli umili… Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi" (1 Pt 5,5-10).

La citazione tratta dal Libro dei Proverbi è ripresa anche da Giacomo, che la colloca in un passaggio che riguarda le cause della guerra e all’interno di un’alternativa secca: "Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio" (Gc 4,4).

Dunque c’è una prima resistenza ed è quella di Dio davanti ai superbi e i cristiani partecipano e sono chiamati a rendere visibile questa resistenza. Essa ha il suo centro nella passione del Signore: è in Gesù che Dio resiste ai superbi, è la croce il luogo di questa resistenza: "A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia" (1 Pt 2,21-23).

La resistenza di Gesù si manifesta nella perfetta obbedienza al Padre e al tempo stesso nella resistenza assoluta alla logica violenta della forza, in qualunque modo giustificata e legittimata. Proprio l’obbedienza al Padre chiede questo, proprio la comunione con il Padre genera questo.

Dio resiste ai superbi perché è il Dio della pace e dei poveri, il Dio crocifisso, che giudica i pensieri dei superbi e ne smaschera i mezzi violenti con la consegna del Figlio sulla croce. Dio resiste alla logica del mondo inaugurando con l’evento della croce il tempo del perdono, della condivisione, della pace.

Resistere è vivere la mitezza là dove la violenza è più grande; è testimoniare la pace al cuore dei conflitti, è stare nella casa dei poveri di fronte al dominio dei potenti. Questa è la via di Gesù, iniziata a Nazareth e compiuta sulla croce. Quando Pietro ci indica di seguire le orme di Gesù, indica esattamente questa strada: una strada a caro prezzo.

La resistenza dei credenti

I discepoli del Signore non hanno una loro resistenza da fare, ma partecipano e vivono dell’unica resistenza che Dio ha compiuto in Gesù di fronte al mondo e al suo principe.

Resistenza come sequela

Se la resistenza di Dio si compie in Gesù, la sequela indica per il credente la misura concreta della resistenza cristiana. Pietro indica in una condizione umiliata, nella vigilanza e nella sobrietà le caratteristiche della sequela, là dove Dio dona la grazia della resistenza nella fede. Tutto questo per discernere dove la mondanità e lo spirito del mondo prendono il sopravvento e cercano di catturare il cuore dei credenti, conformandoli al buon senso comune e a una riduzione etica della fede.

I giorni della guerra hanno mostrato un forte adeguamento dei credenti alla ragione politica, spesso giocata sulla menzogna e sulla manipolazione ideologica. Oppure hanno reso visibile un pacifismo ideologico del giorno dopo, che non cerca di prevenire le guerre e i conflitti, ma si contenta moralisticamente di condannarli, spesso con ambigue intenzioni.

Abbiamo percepito in questo tempo un’assenza di profezia e un’assenza di politica, segno concreto di un sale che perde il sapore, di una chiesa che non sa più riconoscere la sua casa tra i poveri e tra le vittime.

Siamo stati operatori di solidarietà, ma non di pace. La pace scandalosa dell’Evangelo è stata messa tra parentesi. È stata consegnata nella mani di generali e politici, con il risultato che ci è toccato di vedere degli agnelli diventati come lupi e dei lupi che pretendevano di apparire agnelli.

Non abbiamo seguito le orme di Gesù, ma quelle dei soldati e dei bombardieri. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che hanno perso la fede e la politica, sono aumentate all’infinito le sofferenze dei poveri e delle vittime, è cresciuto l’odio, sono germogliati motivi per nuovi conflitti.

Resistenza come ascolto di Dio

La resistenza al mondo, ai superbi del mondo, è frutto dell’ascolto di Dio. È’ nell’ascolto del Signore che si genera la forza per resistere: "Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché lo ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi assiste… per questo rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,5-7).

È perché il servo ha ascoltato, che la sua faccia si è fatta dura di fronte ai violenti del mondo. È la sottomissione a Dio che rende possibile la resistenza di fronte ai potenti. Quando i cristiani si perdono in ragionamenti vuoti che servono a legittimare la guerra e la violenza, mostrano che non sono figli dell’ascolto di Dio, che non sono plasmati da questo ascolto, che preferiscono stare alla tavola dei potenti per elaborare nuove etiche che diano buona coscienza ai signori del mondo, piuttosto che essere incatenati nei pretori, solidali davvero con le vittime della terra. Si vuole essere interlocutori credibili, si cerca di esser efficaci, in realtà si rimane prigionieri nel coro di una cultura di guerra.

Resistenza come ascolto delle vittime

Alla fine di questo secolo, di cui la guerra è la cifra più profonda, possiamo dire che ogni guerra che in esso è avvenuta ha sempre trovato un cristiano pronto a difenderne le ragioni in nome di una astratta etica, che non è mai stato capace di guardare nel profondo il volto delle vittime. Basti pensare alla teoria degli "errori" durante la guerra nel Kosovo, che permetteva alla guerra "umanitaria" di mantenere la sua coerenza anche se si uccidevano civili inermi, che non avevano nessun legame con obiettivi militari, che avevano tutto il diritto di vivere e la cui uccisione è condannata da ogni diritto anche di guerra. Ma le vittime non hanno volto, non hanno nome. Nei filmati sono apparse sempre come una scomoda coreografia di una guerra capace di colpire obiettivi con la massima precisione. Quei filmati in realtà nascondevano tutta la tragedia degli inermi che morivano, delle sofferenze che si aprivano nella vita di molti.

Hanno cercato di spiegarci che tutto questo era, come si dice nella cultura della guerra, un male necessario, che per una pace giusta si dovevano sopportare anche questi errori e che anche i credenti dovevano riconoscere le ragioni di questa guerra. Qualcuno, molto autorevole, è arrivato a parlare dell’ingerenza umanitaria in Kosovo e dunque dell’azione della Nato come la realizzazione storica del "buon samaritano".

Ma i discepoli del Signore che si fa vittima sono chiamati ad ascoltare non le parole dei sapienti della guerra, ma il grido muto delle vittime: perché in quel grido c’è il grido del Signore sulla croce, là dove è vittima in mano di altri: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio". Dio chiamerà suoi figli gli operatori di pace, perché ameranno i nemici e faranno la pace a misura del Figlio che si fa vittima, resistendo alla tentazione della violenza per sconfiggere il male alla radice, e inaugurando il tempo del perdono. Dio diventa vittima perché le vittime siano ascoltate; i cristiani riconoscono la via della pace secondo Dio e non secondo il mondo quando stanno dalla parte delle vittime, di tutte le vittime.

Resistenza come martyria

La resistenza cristiana ha il suo punto alto nella testimonianza del Vangelo fino alla consegna della vita. Oggi il martirio in molte parti del mondo è la misura di una resistenza cristiana che si affida alle armi del Signore: l’annuncio del Vangelo, la pace, la condivisione di vita e di destino con i poveri e con le vittime.

Da Romero ai sette monaci dell’Atlas, appare una nuova fecondità storica del Vangelo, che non si esprime in un progetto o in una ideologia, che non si affida ai mezzi forti del mondo, ma che si incarna nella vita e nella morte violenta di coloro che resistono alla logica del mondo non cercando un dominio religioso, ma consegnando la vita per tutti, in primo luogo per i nemici, come ha fatto il Signore.

Questa linea di resistenza così è presentata da mons. Claverie, vescovo martire di Orano, in una drammatica omelia in cui affronta il decisivo problema dei cristiani in Algeria, chiamati a scegliere se partire o restare: "È il momento di restare, anche in silenzio ed impotenti, al capezzale di coloro che amiamo: una semplice offerta di presenza, per stare vicini a chi soffre anche solo tenendolo per mano. Questo attesta la nostra volontà di amare gratuitamente… i calcoli troppo umani rischiano di pervertire il meccanismo interiore della missione cristiana: la chiesa non è nel mondo per conquistarlo e neppure per salvarsi, insieme ai suoi beni e al suo personale. Essa è, con Gesù, legata all’umanità sofferente".

Conclusioni

Quando si parla di resistenza cristiana, non si vuole dunque indicare un modo di difendere spazi di società o un progetto per influenzare l’economia e il governo del mondo, ma stili e di forme di presenza ecclesiale che, nella loro debolezza e fragilità, cercano solamente di resistere alla mondanità, nelle sue molteplici forme, con la forza inerme e creatrice del Vangelo.

Non c’è una dottrina della resistenza cristiana, ma ci sono cristiani che, per grazia di Dio, al cuore dei conflitti, là dove sistemi ingiusti pretendono di esercitare il loro dominio, resistono testimoniando che l’amore è più forte della morte: secondo il paradosso evangelico del seme che muore per produrre frutto, del farsi poveri per arricchire tutti, del diventare maledizione perché tutti siano benedetti, del dare la vita per i nemici, del perdonare fino a settanta volte sette. Quando questo accade, diventa visibile la resistenza di Dio nei confronti dei superbi.

Talora questi cristiani non sono riconosciuti dalle chiese, talora le chiese non cercano la sottomissione a Dio e la resistenza alla mondanità, ma al contrario si sottomettono alla mondanità e induriscono il loro cuore di fronte alla Parola di Dio; ma questo non può giustificare nessuno dal venir meno alla vocazione di una resistenza secondo lo Spirito, perché i poveri e le vittime, per continuare a sperare, domandano cristiani che cercano solamente il Regno di Dio e non si arrendono alle culture e ai poteri dominanti.

La democrazia, la giustizia sociale ed economica, l’identità culturale e l’ambiente diventano luoghi teologici nei quali esercitare la profezia della fede, il discernimento della resistenza cristiana. Non si tratta di costruire una nuova dottrina sociale cristiana, ma di generare credenti che nello Spirito sappiano leggere i segni dei tempi, rendano visibile la fecondità storica del cristianesimo secondo un’originalità mai definita una volta per tutte ma continuamente alimentata dall’azione della grazia, e per questo siano capaci di una testimonianza, coraggiosa ed efficace secondo il Vangelo, dell’amore di Dio e del più piccolo dei fratelli.

Non ricette etiche ma la via della testimonianza

Le parole di Bonhoeffer erano dette quando Hitler era vincente in Europa e nel mondo, ma hanno straordinario valore anche per noi, in un tempo in cui la chiesa in Occidente sembra indicare più la via delle ricette etiche che quella della bella testimonianza.

C’è una stanchezza dei credenti, che è figlia di un ruolo etico che la società sembra sempre più domandare, e di un riconoscimento dell’azione ecclesiale, a cui si chiede una legittimazione etica della politica. Il risultato è "lo svuotamento della parola della croce", è il venir meno della testimonianza coraggiosa dei credenti, che sempre più stanno nel coro.

Spesso le parole e i gesti delle chiese sulla guerra e sull’economia hanno più il sapore di vecchie e stanche dottrine, sia pure aggiornate, che l’assunzione davanti al Crocifisso dei drammi della storia. Volendo incidere sui grandi poteri e modificarne i comportamenti, si percorre la via dell’ideologia e non quella della profezia. Il risultato è l’elaborazione di una dottrina sociale, che ha la pretesa di umanizzare l’economia e la guerra, con l’effetto di giustificarne i meccanismi profondi.

La resistenza cristiana

La resistenza cristiana è una resistenza nella pazienza e nella mitezza, che ha il volto della condivisione della vita con chi soffre e con chi è vittima. Una condivisione che ha il prezzo più alto e rappresenta una perfetta assimilazione al mistero di Gesù, il testimone fedele.

P. Christian, priore di Tibhirine, pochi giorni prima del sequestro, indica le parole costitutive della resistenza cristiana: pazienza, povertà, presenza, preghiera, perdono. Così conclude: "Perdono è il primo nome di Dio nella litania dei 99 nomi, Ar Rahman, Ar Rahma. E la pazienza è l’ultimo nome dei 99, Es Sabour. Ma Dio è al tempo stesso povero. Dio è al tempo stesso presente, è al tempo stesso preghiera. Ecco la pace che Dio dona. Non è come la dona il mondo".

Queste parole sono l’ultima consegna di Christian prima del suo martirio e il martirio dà ad esse la parresia del Vangelo.

(da Missione Oggi, dicembre, 1999)

La fede, come riconoscimento dell'esistenza di un altro, passa dall'esperienza di una relazione-rivelazione dove l'affermazione di Dio come Creatore non è cronologicamente prima né esclusivamente cristiana.

Mosè, ritratto di un legislatore
di Jacques Briend *



Fornire un ritratto di Mosè è un’opera rischiosa: non possediamo per crearlo che i soli elementi fornitici dalla Bibbia. Già vent’anni fa, R. Martin-Achard, un grande specialista dell’Antico Testamento, scriveva: «Esistono tanti ritratti di Mosè quanti sono gli autori che gli hanno dedicato uno studio». Può lo storico tracciarne una figura più obiettiva dopo aver esaminato tutti i testi che parlano di Mosè? Non è sicuro, perché è difficile ritrovare i momenti qualificanti di un’esistenza che una ricca tradizione ci presenta sotto molteplici prospettive.

Se non si considera il nome stesso di Mosè, che è molto probabilmente di origine egizia, si conoscono poche cose sul personaggio e sull'inizio della sua esistenza. Certamente si potrebbe citare qui il capitolo 2 del libro dell'Esodo che rievoca brevemente la sua infanzia e la sua adozione da parte della figlia del Faraone (Es 2,1-10). Un tale racconto non fa che tradurre secondo le categorie di pensiero degli antichi il singolare destino di Mosè e il ruolo della provvidenza divina, oltre al fatto che l'esposizione si modella su racconti dell'infanzia come quello di Sargon di Akkad, re mesopotamico (2334-2279 a.C.) che la madre aveva affidato al fiume in una cesta di vimini.

Il seguito del testo biblico (Es 2,11-22) ci mostra un Mosè cresciuto e che prende iniziative a favore dei suoi fratelli di razza, ma questo cambia presto bruscamente. Mosè è costretto a lasciare l'Egitto e a fuggire in Madian, una terra straniera, nella quale si sposa. In violento contrasto con questa sua volontà di insediarsi come capo, il capitolo 3 dell’Esodo narra come, a partire dall'episodio del roveto ardente, Dio scelga Mosè per far uscire il popolo ebreo dall'Egitto, perché Dio ha inteso il grido del suo popolo. Mosè riceve da Dio una missione e nello stesso tempo si interroga per sapere come il popolo accetterà di seguirlo. Di fronte al progetto di Dio, Mosè è dapprima sensibile alle difficoltà e alle obiezioni che gli verranno da parte del popolo.

Capo del popolo e intercessore

In realtà, a più riprese, l'autorità di Mosè si scontra con le proteste e le lamentazioni del popolo per tutta la durata del cammino nel deserto. Nonostante l'uscita dall'Egitto che testimonia la potenza del suo Dio, la contestazione sembra aggravarsi, si diffonde. A partire da Es 15,22, il popolo mormora contro Mosè perché non ha acqua da bere e Mosè invoca Dio; poco più tardi Mosè ed Aronne sono accusati di avere trascinato gli Israeliti nel deserto per farli morire di fame (Es 16,3). Un'altra volta, in Es 17, 1-7, Mosè è accusato di far morire il popolo di sete. La situazione è così grave che Mosè invoca Dio e dice anche che il popolo ha intenzione di lapidarlo. Questa contestazione si ritrova anche nel libro dei Numeri che descrive la prosecuzione della marcia nel deserto, interrotta dopo Es 19. In questi racconti, Mosè si fa il portavoce del popolo presso Dio. A più riprese, quando la situazione è particolarmente grave, egli assume il ruolo di intercessore. È il ruolo che esercita in occasione dell’episodio dell’adorazione del vitello d'oro (Es 32). Mosè riceve i rimproveri di Dio e si sforza di placare la collera divina con una preghiera molto argomentata. In primo luogo, egli ricorda a Dio l'evento dell'uscita dall'Egitto in cui si è manifestata la sua potenza, e che Egli non può rinnegare, poi evoca, in caso di una punizione radicale, la reazione degli anziani: che cosa penseranno di questo Dio che fa morire coloro che ha fatto uscire dal paese d'Egitto? Infine si richiama alle promesse fatte da Dio ai patriarchi (Es 32,11-14); e Dio rinuncia a castigare il popolo.

Mosè interviene dunque presso Dio in favore del popolo e, pur riconoscendo la colpa del popolo, rimane solidale con coloro che Dio gli ha affidato: egli domanda a Dio di perdonare il peccato del popolo; se Dio non lo farà, esige che Dio lo faccia morire, anche se lui, Mosè, non ha partecipato alla costruzione del vitello d'oro (Es 32,32). Questo ruolo di intercessore - che i racconti gli attribuiscono con grande continuità - Mosè lo trova pesante da sopportare e non esita a dirlo a Dio. L'esempio più chiaro ci è dato quando il popolo nel deserto si lamenta di non avere carne da mangiare e di nutrirsi solamente della manna (Nm 11,49). Mosè sente il pianto del popolo e dichiara a Dio: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? O l'ho forse messo al mondo io, perché tu mi dica: Portatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo?... Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto...!» (Nm 11,11-15). Sbalorditiva la richiesta di Mosè che non esita a dichiarare che Dio stesso deve occuparsi personalmente di questo popolo! Attraverso le parole e le immagini usate, Dio è agli occhi di Mosè la madre del popolo e spetta a lui nutrirlo. Un intervento così forte di Mosè è raro; non ha paralleli, ma rivela la vivacità del dialogo posto sulle labbra di Mosè.

Mosè, il legislatore

Per Mosè, Dio rimane il vero capo del popolo, cosa che non toglie nulla all'autorità che gli è propria e che è grande. La prova migliore è che Mosè è l’uomo dell'Alleanza e l'uomo della Legge. Solo Mosè sale, chiamato da Dio, sulla montagna (Es 19) ed è lui che legge al popolo il rotolo dell'Alleanza e gli comunica tutte le parole dette da Dio (Es 24,3-8); è sempre lui che prende il sangue dei tori per versarne una metà sull'altare che rappresenta Dio e l'altra metà sul popolo dicendo: «Questo è il sangue dell'Alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole». Se si mette da parte il Decalogo, in cui Dio si rivolge direttamente al popolo (Es 20, 1-2), le leggi sono trasmesse da Mosè ai figli di Israele (Es 20,22; Lv 1,1; Nm 36,13; Dt 28,69). Da un capo all'altro della Torà, Mosè è colui che trasmette le parole dell'Alleanza o le parole della Legge. Queste parole concernono tutti i campi dell'esistenza, compreso quello del culto e della sua organizzazione, benché Mosè non sia sacerdote. Questo denota come, in un certo senso, Mosè prevalga su Aronne, il capostipite del sacerdozio israelita. In ogni caso, la tradizione iconografica presenta Mosè come colui che riceve da Dio la Legge.

Mosè, intimo di Dio

Al di là di tutto quello che si può dire su Mosè e sul ruolo che assume nella nascita del popolo di Israele, bisogna insistere sui suoi legami con Dio, che la tradizione ha tramandato in maniere diverse. In Es 33,7-11, si scopre un Mosè che entra nella Tenda del convegno per consultarvi Dio. Il testo insiste sul fallo che Dio «parlava con Mosè», gli «parlava faccia a faccia, come un uomo parla con un altro». Quando Miriam ed Aronne criticano Mosè a proposito del suo matrimonio con una donna etiope, il testo non dice nulla della reazione di Mosè, ma fornisce dapprima la riflessione di un redattore: «Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3). Poi viene la reazione di Dio nella Tenda del convegno alla presenza di Mosè, Aronne e Miriam in un brano che merita di essere riportato per intero: «Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca io parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l'immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè?» (Nm 12,6-8). Che cosa si può aggiungere ad una tale descrizione? Mosè è «l'uomo di Dio» (Dt 33,1) nel senso più completo dell'espressione; egli è più che un profeta, anche se spesso ha ricevuto questo titolo (Os 12,14; Dt 18,18). Alla fine del libro del Deuteronomio, dopo aver ricordato la morte di Mosè, si afferma con forza: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34,10). Si ha in questa affermazione come la traccia della statura di questo Mosè di cui è difficile fare un ritratto.

* Esegeta dell’Antico Testamento, Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, n. 51)

L’educazione interculturale in Italia corre spesso il rischio di una riduzione, di venire associata e confinata esclusivamente all'accoglienza degli alunni stranieri nella scuola, mentre meno presente è, invece, la riflessione sulle opportunità di sviluppare competenze interculturali in ambito educativo...

Gesù Cristo unico Signore
nella fede dei primi cristiani

di Daniel Marguerat
(Facoltà di teologia protestante – Università di Losanna)

Come hanno confessato i primi cristiani la signoria di Gesù? Cosa esprimevano quando dicevano «Gesù Signore»? A quale vocabolario, a quali immagini, a quale immaginario collettivo hanno attinto per dire la grandezza del loro maestro?

A questa questione non è nata tutta d'un tratto, immediatamente, come se confessare Gesù Signore si fosse imposto per una necessità imperiosa. È stato necessario un lungo cammino perché scaturisse una parola davanti all'Indicibile. I primi cristiani non hanno prodotto una sola parola, ma una profusione di parole, talmente l'indicibile che avevano da dire non poteva essere racchiuso in una formula unica. Questo Indicibile, questo sovrappiù di senso da esprimere, non era ciò che la Chiesa antica ha formulato molto più tardi con i termini di «unità senza confusione di due nature in una sola persona» (come farà il concilio di Calcedonia). Il mistero da esprimere non era: «Com'è accaduto che un uomo fosse Dio?»; ma: «Com'è accaduto che nella vita di quell'uomo, Dio abbia detto la sua ultima parola?». E per tentare di avvicinarsi a questo mistero, che doveva svelare il segreto di Gesù senza mettere in pericolo il monoteismo, la fede dei primi cristiani ha prodotto una profusione di parole. Il Nuovo Testamento ci dà accesso a questa splendida fioritura di linguaggi che dicono la signoria di Gesù. Questa fioritura denota l'intensa creatività teologica di cui il primo cristianesimo fu teatro.

La creatività dei primi cristiani si era resa necessaria perché Gesù non si era preoccupato di precisare i suoi titoli, non aveva posto limiti ai tentativi di definir

e la sua identità. Il Nuovo Testamento abbonda certo di titoli cristologici (Messia, Figlio di Dio, Figlio di Davide, Signore, Figlio dell'uomo), ma per lo più nascono dalla fede post-pasquale.

In seguito, quando il maestro non era più con loro, i discepoli hanno potuto mettere in parole ciò che egli era stato per loro. Si può notare infatti che, a parte il quarto Vangelo (più tardivo), quasi mai Gesù fa dichiarazioni di questo genere: «Io sono il Figlio di Dio» o «Io sono il messia». Al contrario, è lui che interroga: «E voi, chi dite che io sia?» (MC 8,29). La fede dei primi cristiani s'inscrive nel solco aperto da questa domanda, e come un tentativo multiforme di rispondervi. Confessare Gesù Signore non implicava, all'indomani della Pasqua, un lavoro archeologico di memoria per esumare quello che il maestro aveva detto di sé; si trattava piuttosto d'esprimere ciò che egli rappresentava per loro, e di trovare le parole per dirlo. Queste parole, i primi cristiani le hanno prese in prestito dal loro ambiente religioso, dalla loro cultura, dal loro mondo.

Ma la diversità di forme nella confessione della signoria di Gesù può anche spiegarsi in altri modi. Tra Gesù e le prime comunità che si radunano nel suo nome si interpone lo stupore della Pasqua. Secondo la percezione unanime degli evangelisti, la Pasqua ha preso in contropiede gli amici di Gesù, cambiando il loro sentimento d'insuccesso in speranza, confermando che Dio era dalla parte della vittima immolata sul legno. Pasqua segna l'irruzione dello Spirito nella comunità dei credenti.

Poiché la fede dei primi cristiani è frutto del lavoro dello Spirito, non bisogna essere sorpresi della diversità dei linguaggi usati. Lo Spirito Santo non è forse la firma del lavoro di Dio nel cuore di ciascuno? La stessa convinzione attraversava tutte le diverse correnti del cristianesimo primitivo: tutto ciò che si può dire del Cristo Signore deve verificarsi nella vita dell'uomo di Nazareth. I parametri sono così posti, irreversibili: la confessione di Cristo non uscirà dai limiti che le sono stati assegnati dal gesto dell'incarnazione. Il Cristo è Signore nell'esatta misura in cui Gesù, il Galileo, lo è stato.

Come cogliere la confessione di Gesù Signore nel Nuovo Testamento? Quattro vie d'accesso sono possibili; io elaborerò l'ultima.

Sino al 1950, si è creduto di poter parlare di «una» cristologia nel Nuovo Testamento. Uno sguardo più attento ha fatto concludere che riunire in uno stesso sistema dottrinale il modo differente con cui Paolo, Matteo, Giovanni e gli altri parlavano di Cristo, mutilava la particolarità di ciascuno.

Le teologie del Nuovo Testamento scritte negli anni Sessanta-Ottanta hanno eliminato questo sogno unitario; si parlerà così delle cristologie di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, ecc.; al limite, si può dire che ci sono offerti 27 piccoli trattati cristologici, quanti sono gli scritti del Nuovo Testamento. La coerenza dell'insieme sparisce a profitto di un quadro frantumato. Come mantenere la tensione tra unità e pluralità?

Nè i differenti autori neotestamentari danno allo stesso titolo il medesimo significato nei loro diversi scritti. Risultato: le stesse definizioni cambiano di senso seguendo gli autori biblici, e la signoria di Gesù non viene detta solamente attraverso il titolo di Signore.

È stata proposta una quarta via: seguire le «traiettorie». Esisterebbe una continuità teologica reperibile nei diversi scritti del cristianesimo primitivo, che può essere ricostruita; è identificabile quando diversi scritti attestano dall'uno all'altro un fenomeno di continuità e di ripresa. Si può parlare di una traiettoria giovannea o d'una traiettoria paolina.

Io m'interesso al concetto di traiettoria, ma per applicarla differentemente ai grandi orientamenti della fede dei primi cristiani. Seguendo quali linee di forza questi hanno confessato Gesù Signore? Si tratta, in qualche modo, di utilizzare uno scanner storico per tentare di identificare le linee di fondo che corrono sotto gli scritti del Nuovo Testamento. Si eviterebbe così una lettura frammentaria del primo cristianesimo ritrovando, dietro gli scritti, le convinzioni che hanno prevalso all'origine.

Le traiettorie sono quattro. La prima celebra in Gesù Colui che verrà. La seconda vede in lui l'uomo dai poteri soprannaturali. La terza proclama il Giusto rivelato tra i morti. La quarta si interessa al Gesù sapiente. Si tratta di quattro linee di forza che, a monte della redazione degli scritti del Nuovo Testamento, contribuiscono a costituire all'origine la fede cristologica dei primi cristiani. Queste quattro linee si sono costruite con l'aiuto di categorie religiose disponibili nell'ambiente culturale in cui vivevano i cristiani. Prima di depositarsi negli scritti (Vangeli e lettere), esse si sono articolate l'una all'altra, sovente legate, talvolta fuse.

Questa traiettoria è la più antica; ha avuto per effetto di spingere a raccogliere le parole di Gesù per farne memoria. Le rappresentazioni che sono all'origine di questa traiettoria sono da ricercarsi nell'attesa dei circoli apocalittici nel tardo giudaismo dell'era cristiana: è l’attesa intensa di un intervento liberatore che assicurerà la fine della dominazione degli empi sulla terra d'Israele, e secondo scenari vari, che installerà la sovranità d'Israele sulle nazioni del mondo.

La cristianità primitiva non ha solamente visto in Gesù la prefigurazione di colui che verrà ad animare la scena della fine dei tempi; essa ha identificato in Gesù l'atteso. L'attesa giudaica s'è dunque trovata modificata; la fine dei tempi non vedrà apparire una figura immaginata, supposta, ma vedrà venire colui che si è fatto conoscere nei tratti del Nazareno. È per questo che nella liturgia appare molto presto l'invocazione «Signore, vieni! » (Marana tha: I Cor 16,22; Ap 22,20).

La tradizione evangelica ci trasmette l'immagine di uno scenario della fine dei tempi, con sconvolgimenti cosmici, come i giudeo-cristiani se li rappresentavano. Le parabole della venuta del Regno richiamano alla vigilanza davanti all'ultima scadenza, specie nel libro dell'Apocalisse. Il titolo cristologico decisivo è quello di «Figlio dell'uomo».

Un'importanza cruciale è qui accordata alle parole di Gesù. Si comprende il perché: sono le parole pronunciate da colui che, alla fine dei tempi, interverrà come giudice del mondo. Si tratta sin da ora di custodire con cura le parole di colui che, al momento della sentenza finale, giocherà un ruolo determinante. «Io vi dico: chiunque si dichiarerà per me davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo si dichiarerà per lui davanti agli angeli di Dio; ma colui che mi avrà rinnegato davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Lc 12,8-9)

Una tale speranza non sorge a caso. Ci si può fare un'idea del luogo sociologico dove è stata coltivata? Lo spazio privilegiato di questa confessione del Signore dell'avvenire mi parrebbe essere il circolo millenarista, il gruppo di credenti che coltiva l'attesa del cambiamento dei tempi. La sua speranza nel futuro gli permette di sopportare la durezza del presente, in una società che nega gli ideali cristiani e sostiene il trionfo del male. I cristiani attendono qui, con terrore e speranza, il crollo di un mondo che nega Dio e la vittoria di colui che detiene la promessa di pace.

La società antica dava molta importanza e prestigio a coloro che si chiamavano «uomini divini»: guaritori, maghi, astrologi. In un modo o in un altro, dicono, i loro poteri soprannaturali testimoniano un legame particolarmente stretto con il divino. Parlare di un Gesù guaritore, d'un Gesù esorcista, d'un Gesù dai poteri meravigliosi, era per i primi cristiani partecipare al flusso dei racconti di miracoli attribuiti agli uomini divini.

Nei primi secoli dell'era cristiana, il mercato religioso si faceva molto concorrenziale, e quindi ogni gruppo sviluppava una propaganda missionaria in cui erano al primo posto i miracoli del suo eroe. La narrazione del miracolo era raccontata seguendo una forma stereotipata che si ritrova anche nel Nuovo Testamento. Ognuno si sforzava di vantare e di ingrandire gli atti di potenza del guaritore nel quale credeva, come nel culto degli dei guaritori, nella rilettura della vita di Mosè, nella biografia dei saggi che fanno miracoli o nei racconti dei rabbini guaritori.

Senza dubbio Gesù di Nazareth fu un grande guaritore. La tradizione evangelica abbonda dì narrazioni di guarigioni che gli sono attribuite. L'insistenza che gli evangelisti mettono nel raccontarle (in primo luogo Marco), provano a quale punto importava loro di mostrare come Gesù prendeva a carico la situazione precaria degli altri. Essi hanno raccontato anche dei piccoli miracoli, perché quello che li interessava non era la spettacolarità1 ma il modo con cui Gesù aveva rimesso in piedi gli esseri abbattuti per la malattia: «Andarono... nella casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone era coricata, aveva la febbre, e subito parlarono di lei a Gesù. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendole la mano: la febbre la lasciò ed ella si mise a servirli» (Mc 1,29-31).

Non è la dimensione del futuro che qui interessa, come nella precedente traiettoria. Al contrario, la sofferenza è percepita e alleviata nel presente. Ma perché richiamarlo, visto che Gesù non c'è più? In effetti, ripetere i racconti dei miracoli non mirava a commemorare un passato glorioso ma compiuto, dove il Figlio dell'uomo alleviava la sofferenza dei corpi ammalati. È invece una forma di protesta contro il male. La comunità credente proclama così che la sofferenza non è una fatalità per l'individuo; essa sfata il mondo richiamando che Dio si mette dalla parte di colui che soffre, e non dalla parte della sofferenza contro l'umanità.

Il luogo della confessione di fede di Gesù guaritore? È il gruppo terapeutico, dove i credenti vivono la convinzione che la forza di guarigione di Cristo è a tutt'oggi operante quando il Signore è invocato. La prima Lettera ai Corinti (12, 9-10) iscrive il dono di guarire tra i doni concessi dallo Spirito alla Chiesa; questa forza non era riservata a dei personaggi carismatici straordinari, ma rimessa alla comunità, come una delle caratteristiche dell'agire di Dio nel suo seno. In ogni caso ciò che si celebra è una signoria di Gesù che rinuncia al linguaggio del potere per manifestare la sua autorità nell'amore offerto gratuitamente ai sofferenti.

La nozione d'esaltazione escatologica del giusto, è una delle prime categorie alle quali hanno fatto ricorso i primi cristiani per trasmettere il mistero di Pasqua. In seno al giudaismo, in effetti, la speranza della resurrezione dai morti alla fine dei tempi non rispondeva a una preoccupazione di vita post mortem. La questione in gioco non era di sperare un supplemento di vita per i morti, ma d'essere certi che sarebbe stata loro resa giustizia da Dio. Nel libro di Daniele e in Maccabei, la resurrezione dei morti permette la riabilitazione dei martiri morti per fedeltà a Dio. Ugualmente, i salmi del giusto sofferente (in primo luogo il Salmo 2) esprimono la certezza che Dio non abbandona i suoi alla vergogna e all'aggressione dei cattivi.

La croce è così vista come l'abbassamento supremo del giusto, e la Pasqua rende noto che Dio lo ha accolto. La resurrezione di Gesù manifesta, già da ora, che Dio è solidale con la vittima appesa al legno. Una tale comprensione va evidentemente a mettere l'accento sulla sofferenza del giusto e sul suo valore espiatorio; la morte di Gesù è compresa come una morte «per noi», una morte liberatrice, una morte da cui scaturisce una parola di perdono. «Se dalla tua bocca, tu confessi che Gesù è Signore e se nel tuo cuore tu credi che Dio l'ha risuscitato dai morti, tu sarai salvato» (Rm 10,9). Il primo posto nella memoria cristiana non è accordato alle parole del giudice degli ultimi tempi, nè al ricordo degli atti di compassione; la memoria si concentra sulla fragilità di quest'uomo e la sua accettazione della sofferenza futura.

I luogo dove si fissa la memoria del giusto riabilitato da Dio non è il rapporto maestro-allievo, nè il rapporto malato-terapeuta, ma la comunità di riconciliazione. Il «per voi» della croce è ritualizzato nel corso della celebrazione della Cena, dove ciascuno è chiamato ad accogliere il dono della grazia e a confermare il suo posto nell'alleanza. Paolo ha magnificamente formulato l'importanza di questo spazio di riconciliazione parlando della Chiesa come «corpo» del Signore: essa diviene il luogo dove, per i legami che si tessono gli uni con gli altri, Cristo prende forma nel mondo. La traiettoria del giusto esaltato non coincide immediatamente con quella dell'uomo dotato di poteri soprannaturali: d'un lato un itinerario della sofferenza dove la fragilità fa senso, dall'altro il potere carismatico di realizzare grandi fatti. Una delle più grandi sfide lanciate alla riflessione teologica nella Chiesa delle origini fu precisamente d'articolare queste due traiettorie, a prima vista contraddittorie. Questa sintesi fu opera della seconda generazione cristiana.

Paolo afferma che la potenza di Dio non si mostra che nella miseria di un Crocefisso: «I giudei domandano dei segni, i greci ricercano la sapienza; ma noi, noi predichiamo un messia crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, tanto giudei che greci, egli è Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,22-23). Marco, creando il genere letterario del Vangelo, reinterpreta una forte tradizione di miracoli in supporto ad una teologia della croce. Giovanni mostra come il più grande dei miracoli, rendere la vita a Lazzaro, conduca Gesù a perdere la sua.

Paolo dice di Cristo che è «la sapienza di Dio». La formula non è scelta a caso. Tutti i cristiani di origine giudaica, cresciuti in seno al giudaismo di lingua greca, conoscono l'importanza data alla sapienza nella riflessione della sinagoga. Ne possiamo oggi cogliere sempre più l'importanza. Affermare che Gesù è «sapienza di Dio» vuol dire entrare in pieno in un dibattito dove si cerca chi possa essere colui che detiene la sapienza che fa vivere. Da una parte la sinagoga vive della convinzione che la saggezza umana è emanazione della sapienza divina. D'altra parte, la sophia (sapienza) è divenuta una figura mistica, celeste che media l'agire di Dio. L'inno di Giovanni 1,1-18 è impregnato di questa meditazione giudaica sulla sapienza: vi si vede bene sia chi crea il mondo («tutto è fatto per mezzo di. lui») sia l'ispiratore della Torah, la legge.

Nella memoria cristiana, Gesù prende la figura del sapiente. Il suo insegnamento abbonda di forme letterarie di tipo sapienziale: sentenze, proverbi, parabole, paradossi escatologici, ecc. Non c'è che da citare il paradosso «i primi saranno gli ultimi» oppure «chi si esalta sarà abbassato» per convincersene. Formule simili si trovano presso i rabbini.

Ma più ancora, è tutto il destino di Gesù che è visto come la sapienza che viene dal mondo di Dio, che condivide la condizione umana e poi torna alla sua dimora celeste. Si riconosce questo movimento di discesa/salita nel sottofondo dell'antico inno citato da Paolo nella Lettera ai Filippesi (2,6-1): «Lui che è di condizione divina non ha considerato come tesoro geloso l'essere uguale a Dio...». Si ammira una volta di più l'estrema audacia dei cristiani di quel tempo, che non esitavano a usare una struttura di pensiero forgiata dalla riflessione giudaica della sapienza per fare comprendere l'inaudito dell'incarnazione. Stessa constatazione per l'inno di Colossesi 1,12-20. Il luogo di questa riflessione è la scuola, dove si preserva l'insegnamento della sapienza del maestro, ma anche la comunità mistica, dove si esalta la comunione con colui che è l'incarnazione della sapienza eterna di Dio.

Le quattro traiettorie che ho delineato valorizzano, ciascuna, una dimensione di Gesù Signore. Esse non utilizzano lo stesso linguaggio. Il distinguerle permette di ben misurare le differenti sfaccettature della signoria riconosciuta al maestro dai primi cristiani.

Messe a confronto per esempio con la questione della sofferenza, hanno un'eco differente. Seguendo la prima traiettoria, si confessa la signoria di colui la cui venuta permetterà alla fine di fuggire ai mali del presente. La seconda permette di supplicare il guaritore compassionevole di prendere in carico la tristezza umana come ha fatto altre volte. Seguendo la terza si celebra il giusto la cui morte ci immette in una comunità di riconciliazione. La quarta traiettoria infine ci richiama il passaggio nel nostro mondo di colui nel quale Dio ha abitato la nostra condizione umana sin nella sua precarietà estrema. Gli scritti della seconda e terza generazione di cristiani hanno operato tra queste diverse traiettorie degli incroci e delle sintesi. Paolo mette in evidenza la croce come luogo della giustificazione del peccatore e come rivelazione dell'insondabile sapienza di Dio. Marco rilegge i miracoli a partire da una teologia della croce. Matteo dipinge Gesù come l'uomo dai poteri soprannaturali e come giudice della fine dei tempi. Giovanni tira tutte le conseguenze possibili di una cristologia della sapienza.

Le lettere ai Colossesi e agli Efesini rileggono il «mistero nascosto fin dal principio» (che è il radunarsi nella Chiesa dei giudei e dei pagani) nell'esaltazione di Cristo nel mondo. Solo l'Apocalisse di Giovanni sembra navigare in un'unica direzione, ma la lettura dell'avvenire ingloba la fragilità del Crocifisso (Ap 5,5-6): è all'«agnello immolato», dice il veggente dell'Apocalisse, che è stata rimessa l'autorità suprema. Per noi, oggi, chiarire le linee di forza che sottendono gli scritti del Nuovo Testamento ci permette di ritrovare le dimensioni nascoste della signoria di Gesù. Questo ci conduce così a costatare come le traiettorie si incrocino in composizioni ogni volta originali. I primi cristiani hanno adottato il contrario di una lingua fissa, di una espressione rigida. Un esempio da seguire.

(da Mondo e Missione, aprile, 1999)

Giovedì, 27 Aprile 2006 01:49

Riappropriamoci del futuro (Marcelo Barros)

Riappropriamoci del futuro
di Marcelo Barros

In quasi tutto il mondo, gennaio è il mese che avvia l'anno. La gente si scambia auguri, auspicandosi a vicenda che l’anno nuovo non sia uguale a quello che è appena terminato ma mi­gli ore, pieno di pace e gioia per tutti.

Un tempo, le comunità tradizionali solennizzavano questo nuovo inizio con riti in cui tutto ciò che era "invecchia­to”, nella vita delle persone (e l'anno ap­pena concluso lo era) veniva buttato via o smesso. A volte, il rito consisteva in un pellegrinaggio a una montagna, o in un bagno rituale nelle acque di un fiume o del mare. La gente si rinnovava per es­sere pronta ad accogliere il nuovo dalle mani di Dio.

Se penso agli odierni "riti” per il nuo­vo anno, essi mi appaiono segnati quasi esclusivamente dal consumismo più sfre­nato, che accentua disuguaglianze e in­giustizie. E allora, mi domando: che spe­ranza possiamo avere che il nuovo anno sia pieno di pace per la terra tutta e di fe­licità per tutti coloro che la abitano?

Oggi, in Brasile è in atto una crisi po­litica che tocca tutti. Il governo aveva promesso di "rinnovare" il paese, adot­tando un modello economico in grado di eliminare disuguaglianze sociali e ingiustizie strutturali, ma non sembra ca­pace di far decollare tale modello.

Per quanto riguarda il mondo intero, la situazione non mi sembra diversa: do­po tante promesse e piani decennali, l'Onu un'organizzazione dominata dalle nazioni ricche - "si umilia" e am­mette di non sapere come fare a fermare - o anche solo diminuire - la povertà e la miseria che ancora affliggono gran parte dell'umanità. Nel frattempo, con­tinua imperterrito lo scempio fatto del­la natura, che si traduce in disastri che colpiscono in particolare i più poveri e marginalizzati.

Questo stato di cose non fa che diffondere spirito di rassegnazione, mancanza di speranza e apatia socio-po­litica. E mentre alcuni gruppi, in preda alla disperazione, ricorrono a forme de­leterie e ingiuste di protesta politica (quali il terrorismo e la violenza di stra­da), molte persone, oneste e tranquille, cercano una realizzazione personale ri­fugiandosi in qualche intimo androne della propria vita individuale.

Se questo è il quadro generale, allo­ra si fa sempre più urgente il coraggio di fare una opzione fondamentale di vi­ta tale da poter riorientare la nostra spe­ranza.

L'aver trasformato i paesi ricchi - quelli del primo mondo, tanto per in­tenderci - in megalattici e lussuosissimi shopping centre non ha garantito la pa­ce né procurato felicità. Per contro, pur privi di tutto, i poveri del sud del mon­do non solo continuano a mostrare una esuberanza di vita, un carico di allegria e una capacità di sopportazione che ri­sultano inconcepibili a coloro che nuo­tano nel danaro, ma stanno sviluppando una vera e propria "scienza della resi­stenza", che li porta a cercare sempre nuovi cammini.

In molti paesi del sud del mondo si sta imponendo una economia di solida­rietà, definita anche "economia sociale", economia popolare", “economia del prossimo”... Si tratta di un modello eco­nomico che, noi, considerando l'altro un concorrente, ma un partner e un colla­boratore, favorisce la cosiddetta "pro­prietà sociale" (tipica delle società tradi­zionali e delle cooperative), prepara gruppi all'autogestione e privilegia sia il consumo critico che il mercato equo e solidale.

Sole le persone e i gruppi che accet­tano questo spirito di condivisione po­tranno esperimentare la verità del detto neotestamentario: «C'è più gioia nel da­re che nel ricevere» (Atti 20,35). Solo es­si potranno godere della vita e della pa­ce che sono il frutto della giustizia. E, fa­cendo gli auguri al proprio vicino, po­tranno fare proprie le parole di un'anti­ca benedizione irlandese:

Che il cammino sia lieve ai tuoi piedi
e la brezza soave alle tue spalle.
Che il sole illumini il tuo volto,
la pioggia cada leggera sui tuoi campi.
Fino ci quando ti rivedrò di nuovo,
Dio ti protegga nel palmo della sua mano.

(da Nigrizia, gennaio 2006)

Antichità cristiana…
intorno al 1000 e… dopo
di Franco Gioannetti

Anselmo d’Aosta dice che la verità è piantata da Dio nell’uomo.

Bernardo di Chiaravalle coglie il divino in un impeto d’amore.

Ildegarda di Bingen sente molto il suo influsso.

Ugo e Riccardo di San Vittore accolgono il concetto di Fruitio divina che esprime il contatto con il divino, la pienezza di vita, la liberazione dai limiti individuali.

Domenico di Guzman e Francesco d’Assisi indicano non solo la contemplazione del Cristo ma anche la sua imitazione; la salvezza consiste nell’unione con Dio resa possibile a tutti in Gesù fatto uomo.

Meister Eckart, in un’epoca di rottura tra teologia speculativa e vita spirituale, spinge la relazione tra Dio e l’uomo fino all’identità. L’anima, dice, è un’intima scintilla già unita a Dio nel’eterno principio del mondo, è l’organo della contemplazione intuitiva, ma perché si possa comprendere completamente Dio, è necessario lo svuotamento dell’io, l’abbandono totale.

Susone parla di gioia amorosa verso la Sapienza eterna; Giovanni Taulero si muove su una linea etico-volontaristica.

Ruusbroec parla dell’uomo che, grazie alla potenza del Cristo, gode della pienezza dell’unione con Dio.

Nel secolo XV l’umanesimo invita a guardare il mondo come la casa di Dio mentre l’umanità di Cristo spingerà alla consapevolezza della presenza amorosa di Dio.

Nel 1500 Sebastian Frank parla di Dio presente nel cuore di ogni uomo per illuminarlo con il suo verbo e per guidarlo con il suo spirito.

L’età moderna verdà poi Teresa di Gesù e Giovanni della Croce ed il nascere della mistica dell’azione.

L’esperienza poi di Ignazio di Loyola parte dalla convinzione che lo spirito di Gesù è al di dentro di ogni individuo.

Tale percezione mistica spinge l’apostolo a vedere tutte le attività in rapporto alla loro fonte divina.

Francesco di Sales tenta di presentare tutti gli aspetti di un amore di Dio da vivere in tutti gli stati di vita e così la mistica laicale, trascurata durante tutto il medioevo, inizia i suoi timidi passi. Mentre le comunità di Vincenzo dè Paoli e di Lonise de Marillac vivranno la mistica dell’azione come imitazione delle azioni di Cristo.

Per Pietro de Berulle le opere di Gesù sono presenti nella vita della Trinità, quindi sono possibili a tutti i credenti.

B. Pascal tenta l’unificazione tra scienza e fede, intelletto e fede.

La condanna del quietismo molinista nel 1600 e di Fenelon nel 1700 relegheranno la mistica ad un fatto marginale.

Giovedì, 27 Aprile 2006 01:30

La madre del mio Signore (Alberto Valentini)

La madre del mio Signore
di Alberto Valentini


A prima vista la visitazione sembra secondaria rispetto all’annunciazione tanto più se ci si limita, come nel nostro caso, ai soli versetti Lc 1, 39-45.

Le cose, in realtà, non stanno così, sia dal punto di vista narrativo e strutturale, sia a livello tematico

Sul piano della narrazione, se è vero che la visitazione non si spiega senza l'annunciazione, è vero in qualche misura anche il contrario: senza l'incontro con Elisabetta l'annuncio a Maria resta quasi sospeso e incompiuto.

Dal punto di vista della struttura la visitazione conclude il dittico degli annunci, a Zaccaria (1,5-25) e a Maria (1,26-38), ed opera la transizione a quello delle nascite di Giovanni (1,57-79) e di Gesù (2,1-21).

Sotto il profilo tematico la visita ad Elisabetta conferma ed esplicita la ricchezza dell'annuncio a Maria, che non di rado - proprio a motivo della sua importanza - viene estrapolato dal contesto, con la conseguenza di mortificarne gli sviluppi e il dinamismo salvifico, nonché gli echi nella comunità ecclesiale.

La visitazione, che nella tradizione esegetica non ha mai goduto del favore riservato all'annunciazione, a uno studio attento rivela notevole densità ed aspetti solitamente trascurati se non addirittura ignorati e misconosciuti.

Ovviamente, come ogni altro testo, la pericope va studiata non solo in se stessa, ma alla luce del contesto immediato e remoto. Nel nostro caso, il contesto immediatamente precedente e quello successivo acquistano importanza particolare, dal momento che la visita di Maria occupa una posizione e una funzione strategica nell'economia dei racconti dell'infanzia di Luca.

Intendiamo pertanto esaminare il brano alla luce di quanto precede e di quel che segue: retrospettivamente, con riferimento a Le 1,26-38 (ed anche a 1,5-25); in chiave prospettica, quale anticipazione della sezione delle nascite.

La struttura di fondo che lega i brani delle annunciazioni e quello delle nascite è costituita dal rapporto: annuncio-compimento. Al punto di incontro di questi due eventi, quale importante cerniera, si pone la pericope della visita di Maria ad Elisabetta

1. CONTINUITÀ CON GLI ANNUNCI

La visitazione è del tutto incomprensibile prescindendo dalla sezione degli annunci, con la quale è in rapporto di continuità e di sviluppo. Lo stesso contesto spazio-temporale, che forma la cornice della visita ad Elisabetta, rivela tale stretta connessione. L'inizio del viaggio (v. 39) e il ritorno "a casa sua" (v. 56) di Maria ha come punto di partenza e di arrivo - non nominato, ma evidente - Nazaret, che conosciamo grazie alla narrazione precedente (v. 26). Anche il contesto temporale, indicato a conclusione dell'intera pericope - "Maria rimase con lei circa tre mesi" (v. 56) - si giustifica sulla base dell'annotazione - "Nel sesto mese" - fornita dalla narrazione precedente (v. 26). La scena dunque si sposta da Nazaret, luogo dell'annuncio a Maria, a una città di Giuda, in casa di Zaccaria.

Col cambiamento di scena si assiste anche ad alcuni mutamenti di personaggi e di ruoli.

Finita la sua missione, è scomparso l'angelo (v. 38), ed è uscito di scena, almeno per il momento - proprio in casa sua! (v. 40) -, Zaccaria: entrambi precedentemente protagonisti.

Elisabetta, che nell' annuncio della nascita del Precursore compariva soltanto al termine e si teneva nascosta (vv. 23-25), appare qui in primo piano accanto alla madre di Gesù.

Anche il ruolo di Maria è invertito: mentre nell'annunciazione l'angelo prende l'iniziativa ed ella risponde, qui è lei che parla per prima recando il lieto annuncio della salvezza, cui Elisabetta risponde - a differenza del marito (v. 20) - con fede entusiasta. Mirabile protagonismo femminile! Si direbbe che in questa scena, in cui due donne a gara proclamano l'evento salvifico, si anticipi la missione affidata alle donne il mattino di Pasqua.

A Maria ed Elisabetta è attribuito un ruolo primario nella scena. Nonostante il rilievo dato alla madre del Precursore, il posto centrale è riservato alla madre di Gesù. I veri protagonisti, tuttavia, non sono le madri, ma i bambini: il figlio della Vergine e quello della sterile, i quali benché ancora non parlino, sono oggetto dell'annuncio, il primo, e autore della reazione gioiosa, il secondo. Protagonista ancor più misterioso e decisivo è lo Spirito santo: annunciato e promesso dal messaggio dell'angelo (v. 35) e disceso nel cuore e nella carne della Vergine per la generazione del Figlio di Dio, Egli spinge Maria al "santo viaggio" (cf Sal 84,6), mette sulle sue labbra il saluto messianico e suscita la risposta gioiosa e la confessione di fede di Elisabetta. Lo Spirito che ha operato in Maria l'evento salvifico è all'origine della sua proclamazione, che per il momento avviene in casa di Zaccaria e nella comunità lucana, ma dovrà esser diffuso fino ai confini della terra (cf At 1,8).

2. ANTICIPAZIONE DELLE NASCITE

La scena della visitazione è in continuità con gli annunci, ma segna anche uno sviluppo nei loro confronti e già introduce la sezione delle nascite. L'annuncio a Zaccaria - nonostante la sua incredulità - e quello a Maria grazie alla sua fede - si stanno infatti realizzando: ne sono segno evidente l'incontro delle due madri, donne in attesa del compimento del mistero in esse iniziato. La maternità di Elisabetta, già nota per la parola dell'evangelista (cf vv. 24-25) e dell'angelo (v. 36), appare qui nella sua concretezza e fisicità attraverso il sobbalzo del bambino (vv. 41.44); la maternità della Vergine, finora avvolta nel mistero, viene riconosciuta e proclamata a gran voce (vv. 42-43).

Tra l'annunciazione e la visitazione corre un parallelismo progressivo. Oltre che dai contenuti, il progresso è evidente dal punto di vista formale: mentre il racconto dell'annuncio a Maria poggia su una serie di verbi al futuro: "concepirai... darai alla luce... lo chiamerai... lo Spirito Santo verrà su dite... Colui che nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio", il brano della visita ad Elisabetta è caratterizzato da forme verbali al presente e al passato e da esperienze in atto: "benedetta... beata... colei che ha creduto... la madre del mio Signore".

Nei vv. 39-45 c'è già un inizio di compimento che sarà definitivo solo al momento delle nascite. Gli annunci dell'angelo hanno già rivelato la loro efficacia; ormai la tensione del racconto preme decisamente e in maniera irreversibile verso la conclusione.

I riferimenti alla maternità, rispettivamente di Maria e di Elisabetta, sono infatti molteplici: il primo segno viene dal sussulto del bambino di quest'ultima; tale movimento gioioso del piccolo nel grembo materno è la reazione suscitata dallo Spirito per la presenza di un altro bambino della quale Maria di Nazaret è portatrice. I due non sono ancora nati, ma già agiscono come se lo fossero, anticipando la foro futura missione: il Figlio di Dio in grembo alla Vergine fa già irruzione nella storia riempiendola di gioia messianica; il Precursore, dal seno di Elisabetta, è il primo ad avvertirne e a proclamarne la presenza. Il bambino reagisce di fronte al bambino, la madre al cospetto della madre. Elisabetta, illuminata dallo Spirito e scossa dal sussulto del suo bambino, dichiara a gran voce la maternità in atto della Vergine; non solo la proclama benedetta per il frutto del suo grembo, ma la saluta con stupore, quale madre del Signore (v43). È come se ella avesse già generato il Figlio, cui già si attribuisce il titolo di Signore! La funzione prolettica del brano è indubbiamente notevole.

Le parole di Elisabetta non solo rivelano e celebrano la maternità messianico-divina della Vergine, ma ne sottolineano anche la componente di fede e beatitudine, tipica della riflessione lucana. La fede della Vergine, posta a suggello dell'annunciazione (v. 38), non solo è ribadita alla luce del compimento, ma viene anche celebrata mediante un macarismo (v. 45), che sarà ripreso subito dopo (v. 48) e, più tardi, nel corso del vangelo di Luca (11,28). Con la sottolineatura della fede di Maria e con il macarismo conseguente si va ben al di là di una generazione umana, per quanto straordinaria: se ne proclama la dimensione dall'Alto, ad opera dello Spirito; e si evidenzia già una qualche forma di incipiente venerazione della madre del Signore da parte della comunità lucana di cui Elisabetta è testimone e portavoce.

3. IL MOTIVO DELLA VISITA DI MARIA

L'unico motivo esplicitamente indicato dal testo è quello del "segno" dato dall'angelo alla Vergine (v. 37), a conferma dell'efficacia della sua parola. A differenza di Zaccaria (v. 18) e di molti personaggi biblici, Maria non ha chiesto un segno, né ha preteso garanzie. Ella, tuttavia, va prontamente a constatare l'opera del Signore in Elisabetta con lo stesso atteggiamento col quale ha accolto l'azione di Dio nella propria vita.

La maternità straordinaria di Elisabetta addita e prepara un evento ancor più radicale: la maternità verginale con cui, secondo la promessa isaiana (Is 7,14), il Signore offre al mondo il segno definitivo: l'Emmanuele, Dio-con-noi, salvatore del suo popolo.

Il motivo della solidarietà - pur non essendo esplicito nel racconto lucano - è addotto molto spesso nella storia dell'interpretazione del testo, fino ai nostri giorni. Indubbiamente tale motivazione sottolinea un valore antropologico ed evangelico - al quale è molto sensibile il nostro tempo -, ma non sembra la ragione vera, dal punto di vista esegetico, del viaggio della Vergine.

Molto più convincente, e in linea con la concezione biblica e lucana, appare la dimensione "missionaria" del viaggio, in connessione e quale conseguenza della vocazione ricevuta. L'annuncio a Maria e la visita ad Elisabetta si presentano come due pannelli di un unico quadro: la vocazione si realizza nella missione. Maria, destinataria della chiamata e del messaggio dell'angelo, è inviata quale annunciatrice della salvezza di Cristo. Ella che nell'annunciazione ha accolto il Messia Figlio di Dio è la prima Teofora e testimone della salvezza.

È questo il motivo del sussulto di gioia di Giovanni nel grembo della madre, espressione del giubilo della creazione alla presenza del suo Signore; ciò spiega bene anche lo stupore gioioso di Elisabetta (v. 43). Tale interpretazione si pone sulla scia di un celebre testo isaiano, che potrebbe essere lo sfondo di questo viaggio frettoloso e del messaggio della visitazione: "Come sono belli sui monti / i piedi del messaggero di lieti annunzi / che annunzia la pace, / messaggero di bene / che annunzia la salvezza, / che dice a Sion: "Regna il tuo Dio". / ... Prorompete insieme in canti di gioia, / rovine di Gerusalemme, / perché il Signore ha consolato il suo popolo" (Is 52,7.9).

La visitazione presenta dunque reminiscenze di vaticini e di gioie antiche che in Cristo acquistano piena espressione e significato; d'altra parte, annuncia ed anticipa eventi futuri, legati in particolare alla Pentecoste lucana. Ricevuto lo Spirito del Signore e sospinti dal suo incontenibile dinamismo come Maria - gli Apostoli percorreranno le strade del mondo per annunciare la salvezza di Dio; e dovunque essi giungano esplode la festa di quanti accolgono la Parola.

Il viaggio di Maria appare dunque un frettoloso cammino di missione. Quanto nell'annunciazione era rimasto nel segreto del suo animo, adesso viene comunicato ad Elisabetta e da lei proclamato a piena voce per la gioia di tutti i credenti.

4. INDIZI DI VENERAZIONE DELLA MADRE DEL SIGNORE

Concludiamo queste riflessioni sulla visitazione sottolineando un aspetto - solitamente trascurato - che costituisce, a nostro avviso, una nota particolare della pericope lucana. Il brano presenta indizi, certo embrionali ma significativi, di venerazione della Vergine da parte della comunità lucana. Tale nota emerge anzitutto dal quadro generale del racconto che rispecchia nelle grandi linee la "celebrazione" di Giuditta da parte dei personaggi più rappresentativi e da tutto il popolo (Gdt 13-16): Giuditta giunge in fretta in città ad annunciare la salvezza; a quelle parole la comunità reagisce con grida di gioia, benedicendo Dio e colei che ha cooperato con Lui; la scena si conclude con un grandioso canto di lode e di ringraziamento a Dio salvatore che trova il suo pendant nel Magnificat. La struttura generale è confermata dalla benedizione rivolta a Maria (v. 42) che riproduce quasi alla lettera Gdt 13,10:

Gdt 13,1 O: "Benedetta sei tu, figlia, ... più di tutte le donne... e benedetto il Signore Dio";

Lc 1,42: "Benedetta tu più di tutte le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo".

Come si vede, la differenza decisiva consiste nel fatto che "il Signore Dio" è divenuto "il frutto del grembo" di Maria. Se Giuditta è benedetta e onorata per aver collaborato con il Dio altissimo, quanto più è degna di tale omaggio la Vergine che porta in grembo il Dio Salvatore!

Il contesto, chiaramente celebrativo, non teme alcuna confusione tra Dio, operatore della salvezza, e la creatura che vi ha collaborato. Alla lode e glorificazione di Dio è associata, con naturalezza, la sua serva.

I segni della venerazione della madre del Signore vanno tuttavia ben al di là del confronto con la figura di Giuditta. È impressionante nella scena della visitazione la serie e la qualità di titoli ed elogi rivolti alla madre di Gesù. Ella è dichiarata eulogh menh più di tutte le donne (v. 42), h mh h tr tou kuriou (v. 43), makaria (v. 45), h pisteusasa (v. 45); ella stessa, infine, con voce profetica annuncia: mi proclameranno beata tutte le generazioni (v. 48b). Le parole di Elisabetta esprimono l'atteggiamento della comunità lucana; anzi inaugurano la venerazione di tutte le generazioni nei confronti dell'umile serva, madre del Signore.

Il primo motivo della venerazione è senza dubbio la maternità per la quale Maria è benedetta più di tutte le donne. Che si tratti di una maternità unica - verginale e divina - appare da molteplici elementi presenti nel testo: il "saluto" della Vergine che riprende quello dell'angelo (vv. 27ss) e manifesta l'evento straordinario in lei operato; il sussulto del Precursore, riempito dallo Spirito fin dal seno materno (cf 1,15); la parola ispirata di Elisabetta che proclama il mistero di quella maternità; il riconoscimento e accoglienza di Maria come madre del Signore.

Il racconto della visitazione, per quanto denso, deve essere integrato con quello dell'annunciazione. Alla luce di questo brano il motivo della maternità si arricchisce di altri importanti connotati che giustificano e rafforzano la venerazione della madre di Dio.

Si tratta di una maternità verginale: il primo titolo attribuito alla fanciulla di Nazaret è quello di vergine, ripetuto due volte all'inizio del racconto (v. 27) e richiamato indirettamente, in seguito, mediante l'espressione "non conosco uomo" (v. 34). È una maternità regale, in riferimento al discendente davidico (vv. 32-33; cf 2Sam 7; Is 7,14), e divina, a motivo dell'opera dello Spirito (v. 35).

È maternità nella carne, ma anzitutto nella fede: Elisabetta che ha dichiarato Maria eulogh menh per il frutto del grembo (v. 42), svela la radice di tale mistero, proclamandola makaria per la fede (v. 45). L'umile adesione alla parola di Dio - secondo Luca - è l'atteggiamento caratteristico della Vergine: tutto è posto sotto il segno di quel iniziale che orienta e spiega l'intera sua vita.

La fede è posta a suggello della scena dell'annunciazione (v. 38) e dunque dell'accettazione della maternità messianico-divina; la medesima fede conclude la serie delle lodi e delle parole ispirate di Elisabetta (v. 45). Quanto l'angelo ha annunciato e la madre del Precursore ha constatato porta il sigillo della fede di Maria.

Tutto questo però è opera dello Spirito. A Lui si deve la maternità della Vergine e il di fedeltà sgorgato da un cuore nuovo, secondo gli annunci profetici concernenti la Nuova Alleanza (cf Ger 31,31-34; Ez 36,25-28; GI 3, l-5). Lo Spirito, che è all'origine delle "grandi cose" (Lc 1,49) operate in Maria, è anche l'autore della lode e venerazione che Elisabetta, la comunità lucana (cf Lc 11,28) e infine tutte le generazioni renderanno alla madre del Signore (1,48) per la sua fede e per la sua maternità.

La domanda può apparire una tautologia. In realtà sottende una questione non irrilevante: la liturgia del Vaticano II è deducibile da principi astratti e si attua in una forma rituale-rubricale 'aggiornata' da esperti del settore (cosa che chiamiamo inculturazione della liturgia)

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