Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Sabato, 04 Agosto 2007 20:37

I tamburi del profeta (Guido Ceronetti)

I tamburi del profeta

di Guido Ceronetti


Quando si fa più atroce la coscienza di essere in questo formicolante deserto cosi abbandonati, nazioni alla deriva, continenti oscurati, senza nessuno che guidi, che venga per salvare illuminando, mi ridà un poco di respiro pensare che Qualcuno, già domani, o nell'ora più nera, potrebbe anche sorgere, da questo fango stregato.

Chi? Un uomo, un inviato, un'incarnazione… Profeta, profetessa, santo, vergine, imperatore. Santa Giovanna, genio di guerra, miracolo di pace, eresiarca, Paracleto, Messia, non importa: purché venga dalla Luce, e la porti, e sia unto di olio sacro, uno che abbia la forza di rompere le prigioni della forza, di fermare l'empietà scientifica, e che porti la sua pietà per risuscitare la pietà: uno che sbaragli le leggi per stabilire la Legge, che ci prenda per mano, tutti, che a un cospicuo numero di carogne schiacci la testa e alle loro vittime la rialzi, che ci stacchi dal palo di questo rogo, che ci liberi da questa colossale trappola per topi che è la barbarie contemporanea.


Qualcuno che «non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore et virtute » (Dante, Inf. I: anche lui, povero veggente angosciato, era in attesa di una Venuta) e per il quale valga in senso assoluto il dilexisti iustitiam et odisti iniqietatem (salmo 45, 8). Uno per cui «il fragore dei tamburi diventi l’annuncio della Legge» (quarto Editto su Roccia di Asoka) e che «con la sua maestà mantenga sull’esterno sentiero dell’ordine il mondo tutto» (Nitisara di Kamandaki), un difensore e un maestro, un legislatore e un oracolo…

Anche Machiavelli, deposta la tragica penna sul calamaio, aspettava: «acciò che l’Italia dopo tanto tempo vegga un suo redentore». Un cavaliere, annunciava Petrarca «pensoso più d’altrui che di se stesso»: sembra poco, no è un’enormità. Léon Bloy, tra gli irrespirabili cannoneggiamenti del 1916, aspettava Qualcuno che sarebbe dovuto venire inaspettato da un Estero inimmaginabile, uno che sarebbe stato il Portento personificato. Il lemma visionario lo definiva meglio in questa formula: «un riflesso della Gloria in una cloaca». Sarà così, se sarà.

Se aspetto anch'io qualcuno fuori dei momenti e dei giorni di inutile disperazione, è per fare qualcosa che non sia un fare, perché ogni fare pubblico è ormai indicibilmente satanico: tutto quel che si fa, anche il buono, finisce nello stesso pozzo avvelenato, da cui esce un vapore che ci fa ciondolare ubriachi di miasma, istupiditi. In profondo, è un’attesa da lager: ma è lì che siamo, in un lager, tanto gli oppressi dalla libertà come gli oppressi dall'oppressione. Da Brest a Vladivostok un Liberatore avrebbe un lavoro infinito da compiere per liberare.

***

Qualcuno che non sia inquadrabile da una telecamera. Nel tentativo di catturarne l’immagine, le telecamere dovrebbero incendiarsi. Per riscattare l'umanità bisogna sterminare tutto quel che condanna l'uomo a non essere che la propria ombra, immagine trasmissibile e impacchettabile, gelatina del Nulla. Bisogna abbandonare il teleschermo alle sole canaglie, alle nullità a cui non importa di rappresentare il Nulla: dall'apparire in quel luogo li si riconoscerà. L’uomo probo, l'uomo pio conserva per sé l'immagine che sposta l'aria, santuario dell'Abitatore ignoto: un certo grado di iconofobia è necessario alla purezza morale. Siamo in una pattumiera terrificante di immagini in movimento: le peggiori sono quelle che stanno lì, davanti a un tavolo, e parlano.

Dante chiamava il suo Atteso veltro: per esprimere la sublimità del suo concetto ha assunto l'immagine di un cane; il veltro dantesco e una divinità cinocefala. Infatti, un redentore d'uomini come può avere l'immagine disonorata dell'uomo?

Ci precipiteremmo fuori, nelle strade dove si ammucchierebbero questi ignobili attrezzi della nostra fine, automobili, televisori, calcolatori diventati repentinamente oggetti di illuminato disgusto, per andare dietro a uno che facesse fondere tutte le manette che portiamo attaccate alle tempie, avesse pure la testa di un cane. E tagliasse pure le teste delle guide false, delle guide criminali, dei carismatici usciti dal sottosuolo, di quelli che accendono, nei bambini messi in riga e in uniforme, nelle donne e nei religioso l'istinto omicida, la brama di estendere il deserto, di assassinare portatori di un passaporto. Ego repletus sum fortitudine spiritus Domini, il Veltro lo dice a se stesso, nell’ombra, non davanti al cameraman.

***

Non potrà essere la politica a farlo, e neppure, se sarà quel che deve essere, a disfarlo. La politica non genera bodhisattvas, né veltri, né redentori. La nostra appassionante sventura vuole che non generi neppure più dei politici. Ne sforna ancora, per antica abitudine, la polis anglo-americana, dove la funzione pubblica non è dissolvente, ma formatrice per chiunque la eserciti: nel resto del mondo siamo alle canaglie, ai mediocri, a qualche isolato impotente, ai funzionari di partito unico, ai dominatori di lugubri apparati stratocratici, ai paranoici e agli idrofobi.

L’uomo che ci vuole al momento giusto ha fatto la sua ultima apparizione nel 1958. In realtà la politica è un mestiere perduto, perché serve le modificazioni della Tecnica e va dietro alla Tecnica, che impugna la frusta sadica dell’Economia, come l’alcolista va dietro all’immagine della bottiglia che ha nascosto nell’armadio. Vorrei vederne uscire delle strutture ossee intellettuali e morali davanti a cui si arretrasse con rispetto e timore: ma già, allora, sconfineremmo nello spirto gentil che arriva vestito di ferro e fa le rose uscire dal mistero delle sue mani.

Mi conforta un pensiero di Tocqueville: «Ci sono momenti in cui il mondo somiglia a uno dei nostri teatri prima che si levi il sipario. Si sa che si sta per assistere ad un nuovo spettacolo. Si sentono i preparativi in scena; quasi tocchiamo gli attori, ma senza vederli, e ignoriamo che cosa si rappresenterà». Può darsi che la recita a cui stiamo per assistere sia lo stesso teatro che salta in aria insieme agli attori e al pubblico: tuttavia è bello che l’attesa di qualche nuovo e prodigioso evento ci divori.

Siamo qua, patriai tempore iniquo, né verrà Cesare a sciogliere, con la sua magica forza di Megalurgo, i nodi, una volta per tutte; immersi in una oscena farsa non osiamo fiatare, perché il diritto ci garantisce la parola, il crimine sghignazzante nell’ombra ce lo annulla, come il pugno del marinaio che turò la bocca alla Costituente russa per ordine di Lenin, che non era né Cesare né messia, ma un capo di fanatici in cui era agonizzante o spinta del tutto la legge morale.

Tuttavia aspettare qualcuno che sia in assoluto altro, uno Straniero, un Esiliato che abbia in comune con noi soltanto la forma umana, o neppure quella: la parola soltanto, la parola davanti a cui niente resiste, e la mano, ma guaritrice, esercitata a guarire toccando, è una interessante vendetta, un’ombra, se non la carne, di un rimedio, un modo per attenuare il dolore della piaga civile, per consolare il gemito insistente del cuore indecentemente oltraggiato.

Così ogni mattino mi dico: dovrà pur venire qualcuno, forse oggi stesso lo sapremo, scoprendo qualcosa di cambiato in una delle solite facce che s’incontrano, e venendo disperderà con un soffio, prima di ogni altra cosa, questa verminaia terra di poteri senza legge che ci intortiglia. E che si muoia aspettando, davanti al sipario che non si alza, mentre le ore passano: morire aspettando un redentore che non viene è un migliore morire che vivere senza averne neppure l’idea, il desiderio, la speranza.

È vero che aspettare una salvezza esteriore non è ortodossamente filosofico; ma è raro che, nelle tremende ore di questo transito tra i viventi, vita, morte, amore e filosofia non viaggino clamorosamente sconnesse. Forse il momento più felice della vita di Cristo fu quello in cui una prostituta si mise a ungerlo con begli unguenti. Aspettare è un unguento, e il lampo che ci abbaglia misteriosamente sostiene.

Mercoledì, 18 Luglio 2007 01:04

Per leggere il Messale Romano (Silvano Birboni)

Un nuovo commento a quattro mani uscito dalla penna di Rinaldo Falsini e di Angelo Lameri offre ancora l’occasione di ripercorrere la storia e il contenuto dottrinale e rituale dei riti della liturgia. Una lettura guidata, completa e aggiornata, che cerca di individuare la mens che sta dietro alle rubriche e alle ultime modifiche del Messale per favorire celebrazioni eucaristiche corrette e pastoralmente efficaci.

Una nuova domanda di etica
per frenare il neoliberalismo

di Giannino Piana

Sono tante le vicende che, in questi ultimi anni in Italia (ma non soltanto), hanno reso evidente l’esistenza di una profonda crisi del capitalismo con effetti devastanti per l’intera comunità: dai casi Cirio e Parmalat fino a quello americano della Enror (e l’elenco potrebbe continuare) siamo di fronte a disastrosi fallimenti, che obbligano a riflettere seriamente sulle cause che li hanno provocati e sulla necessità di individuare in quali nuove direzioni camminare. A farne le spese sono infatti, in larga misura, lavoratori dipendenti (operai in particolare), che vedono improvvisamente messo in pericolo il loro posto di lavoro, e piccoli risparmiatori, ai quali viene sottratta una fonte (spesso non secondaria) di sostentamento.

In molti casi a determinare tali situazioni è la spregiudicatezza di singoli imprenditori, guidati da una sete irrefrenabile di guadagno e disposti a tutto pur di riuscire a emergere sul mercato. L’assenza di scrupoli morali e l’atteggiamento predatorio sono le ragioni di comportamenti (non infrequenti) che minano la credibilità del mondo imprenditoriale, non favorendo il reimpiego dei capitali e la stabilità lavorativa.

Ma, al di là dei comportamenti soggettivi, il problema assume contorni più vasti, che chiamano in causa il sistema in quanto tale e che reclamano soluzioni di portata più generale. Sussistono, infatti, risvolti strutturali, che impongono un ripensamento dell’economia in un orizzonte più ampio di quello della semplice ricerca del profitto; che esigono, in altre parole, un allargamento della riflessione ad altri parametri, che rivestono un’importanza sempre maggiore per il buon funzionamento dello stesso sistema economico. Del resto già nel 1988 Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, sosteneva che «una globalizzazione che non consideri parametri come l’opportunità sociale, l’analfabetismo, l’aspettativa di vita, la salute, può solo creare problemi che non possono essere attribuiti alla globalizzazione in sé, ma alle politiche con cui essa si è coniugata». E’ questa la ragione per cui, a partire dagli anni ‘90, la crescita di un Paese non viene più valutata sulla sola base del Pil, ma con riferimento a un indice umano più globale, che tiene conto anche di fattori legati alla qualità della vita. Ed è per questo che le aziende devono andare oltre il puro bilancio finanziario e tendere alla definizione di un bilancio di sostenibilità, non solo ambientale ma anche (e soprattutto) umana.

Ciò che viene emergendo è dunque una rinascita, all’interno dell’economia, di domanda etica per ragioni anzitutto economiche, per correggere cioè i difetti, sempre più evidenti, di un mercato senza regole. Non mancano anche oggi coloro che sollevano (anche se in misura più limitata che per il passato) obiezioni riguardanti la difficoltà oggettiva di conciliare la finalità di lucro con altri scopi: si tratterebbe - secondo costoro - di un vero conflitto, in quanto l’attenzione ai fini sociali (e il loro effettivo perseguimento) porterebbe, inevitabilmente, a distruggere ricchezza. E questo, a maggior ragione, in un contesto di globalizzazione, dove la concorrenzialità allargata rende necessario, se si vuole rimanere sul mercato, un livello sempre maggiore di competitività, e perciò un processo di costante innovazione tecnologica, i cui costi vanno conteggiati nell’ambito del bilancio.

Per quanto non sottovalutabili, tali obiezioni non sono tuttavia incontestabili, soprattutto se si considera che l’economia non può limitarsi oggi - ce lo ricordano gli studiosi più seri - a valutare i risultati in base ai parametri tradizionali - livello di produttività raggiunto ed entità del profitto conseguito - ma deve introdurre altre variabili, quali la protezione dell’ambiente, la stabilità del lavoro e, in un contesto mondiale come l’attuale, la ricerca di nuovi equilibri tra Nord e Sud del mondo. L’appello all’etica è dunque tutt’altro che superfluo: essa è infatti necessaria per ristabilire una corretta mediazione tra efficienza produttiva e solidarietà sociale. E forse utile ricordare, in proposito, un’esperienza paradigmatica che ha avuto luogo nel nostro Paese, quella di Adriano Olivetti, che è riuscito a dar vita, sia pure in tempi diversi, a un sistema in cui ai risultati finanziari si è congiunto lo sforzo di costruire una comunità umana in un contesto ambientale sano. Non può essere proprio questo modello un importante riferimento per restituire all’economia la capacità di perseguire il fine che le appartiene, quello di essere cioè al servizio della vera promozione umana?


Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:33

L’invidia (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi

Tra i vizi capitali un posto particolare occupa l’invidia. La tradizione cristiana, fondandosi sul testo di Sap 2,24: “per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo”, ne colse l’estrema pericolosità. Il primo atto di invidia, del diavolo nei confronti dell’uomo, ebbe effetti devastanti, e si rivelò contagioso: l’uomo, da invidiato divenne invidioso e la storia biblica è piena di casi di invidia e di figure di invidiosi.

Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:26

A passo di danza contro la rassegnazione (g.f.)

(g.f.)


«Cerchiamo di cogliere i segni di novità che il Vangelo introduce nella trama del quotidiano»

Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:21

La religione del Figlio (Giovanni Vannucci)

La religione del Figlio

di Giovanni Vannucci

Due simboli nella narrazione di Mt 14, 22-33 ci indicano che si tratta di un evento rivelatore: il monte ove Cristo passa la notte in preghiera, il mare sconvolto sulla cui superfìcie cammina impavido e sereno.

La montagna come luogo di incontro del cielo con la terra si trova in tutte le tradizioni religiose. In India troviamo il monte Meru, la cima più alta della terra, il centro di tutto l’universo; nell’Iran il monte Alborj, considerato il centro del mondo attorno al quale si muovono il sole e i pianeti; in Cina la montagna di giada ove cresce il pesco dell’immortalità; nell’Islam la montagna Kaf, che ha per base uno smeraldo che si estende a tutta la terra; un po’ ovunque alla montagna santa approdò l’arca del diluvio, l’arca di Noè si fermò sulla cima del monte Ararat, e da lì iniziò la seconda creazione dell’uomo.

Nelle regioni ove non esistono montagne vennero costruite delle colline artificiali, oppure i templi furono costruiti in forma di montagna: così in Babilonia le torri-tempio erano a forma conica a sette scaglioni raffiguranti i sette cieli; in Egitto la piramide era il centro di congiunzione del cielo con la terra e della terra con il cielo, la rampa che conduce alla sua cima simboleggiava l’ascesa della vita, dal verme all’uomo regale che domina tutti gli aspetti della natura.

Nella Bibbia numerose sono le montagne sacre: il Sinai il Garizim, l’Horeb, il monte di Sion, che è il fondamento della città santa, il monte Moriah; nel Nuovo Testamento il monte della trasfigurazione, il Tabor, il monte Calvario, il monte degli Ulivi, luogo dell’ascensione; nell’Apocalisse l’Agnello sta sul monte Sion (Ap 14, 1).

Il valore simbolico della montagna è stato usato ovunque nella cristianità; ogni volta che era possibile le chiese venivano costruite su delle alture. L’altare, la cui radice è altus, alto, quindi luogo alto, i cui gradini venivano, nell’antica liturgia, saliti dal sacerdote che recitava il salmo «ludica me», «manda la tua luce e la tua verità, esse mi condurranno sul tuo monte santo».

Il mare è simbolo di tutte le possibilità delle manifestazioni delle forme viventi e della loro distinzione. Nel pensiero biblico l’acqua, il mare, è l’elemento che contiene una vita tumultuosa, confusa, prodigiosamente ricca, feconda e tenebrosa. Su di essa lo Spirito di Dio compie la sua opera creatrice. Il mare è il simbolo dell’inconscio personale e collettivo, sotto le cui profondità insondabili son racchiusi la vita e i mostri. Il popolo ebraico, separandosi dallo spirito di massa delle popolazioni egiziane, attraversa con piede asciutto il mare, raggiunge cioè l’individuazione di se stesso come popolo, chiamato a vivere un suo preciso destino in mezzo agli altri popoli. Il passaggio del mar Rosso costituì la distinzione del popolo ebraico da quello egiziano, che venne sommerso e assorbito dall’onda marina; sul monte Sinai Mosè ricevette la Legge che avrebbe dato la forma religiosa, morale, sociale al popolo eletto.

Confrontando le figure di queste strutture simboliche, monte e mare, nella narrazione evangelica, possiamo osservare alcuni particolari che sottolineano l’aspetto specifico della religione del Figlio che con Gesù Cristo cominciava. Nell’esodo dall’Egitto è tutto un popolo che attraversa il mare senza esserne travolto; Mosè ascende sul monte insieme ad Aronne, mentre il popolo era alle sue falde. Nella nostra narrazione: Cristo,dopo aver rimandato la folla alle sue case e ordinato ai discepoli di andare nel mare con la barca, sale solo sul monte, e solo attraversa il mare in tempesta incontro ai discepoli sgomenti per la burrasca. Gesù è solo sul monte e sul mare, la folla sicura nelle sue case, i discepoli protetti dall’imbarcazione.

La solitudine eroica e feconda di Gesù Cristo, in questo episodio del monte e del mare, ci rivela la natura singolare e unica della religione del Figlio. Gli uomini non sono più chiamati, per vivere la loro aspirazione all’Assoluto, a unirsi in gruppi di popoli eletti o di Dio, a rifugiarsi in imbarcazioni che, sicure, attraversano il mare agitato dell’esistenza. Ma a sentire la propria vita personale come un’avventura iniziatica, un audace impegno di trasformazione del proprio essere, che li porta a de porre le sicurezze, le protezioni che cullano la personalità e a risvegliare la propria essenzialità divina, il proprio «io» vero, non nato dalla carne e dal sangue, non formato da idee di gruppo o di società, ma che è il principio e l’assoluto psichico, l’io cosciente che, nell’esperienza della religione del Figlio, tende a rifondersi con l’io cosciente di Cristo. «Siate in me come io sono nel Padre» (Gv 14, 20). «Non io vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

L’io cosciente dell’uomo, per quanto piccolo sia, ha il potere di contenere e riflettere l’intero sole, Cristo, e il sole, Cristo, riflesso e contenuto negli altri frammenti dell’umanità. Chi vive la religione del Figlio affronta i rischi dell’inconscio personale e collettivo, ne attraversa le onde scomposte e violente con lucida coscienza, resa ardente dalla tensione verso uno scopo sovrumano: divenire il figlio di Dio, tendere verso la conoscenza di sé, dell’universo e di Dio, cercare la coscienza e la luce assoluta, evitare ogni passività dell’intelletto, ogni eccitazione passionale del corpo e dell’anima.

I discepoli nella barca, presi da passionale sgomento, sono incapaci di vedere con lucidità mentale e scambiano Cristo per un fantasma, e Pietro affonda per deficienza di quella fede che è propria dei figli di Dio. Le onde dell’inconscio, personale e collettivo, arretrano dove l’io cosciente, l’io cristico avanza. Solo nell’io cosciente e consapevole, nell’io costruito da virtù e intelletto, risiede la libertà di scelta e di orientamento; fuori di esso non vi è scelta di fronte ai vari stimoli delle forze inconsce personali e collettive. L’io cosciente e consapevole raggiunge il potere dei figli di Dio, potere di creare mentalmente, non di ripetere i pensieri pensati da altri; potere di esplicare il creato, di dominare le leggi della natura, di portare la pace nei flutti sconvolti del mare; potere di ricollegare la terra e il cielo.

(da Giovanni Vannucci, «La religione del Figlio», 19a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) CENS, Milano 1984, pp. 144-146).
Sabato, 30 Giugno 2007 02:05

Il sacerdozio universale dei laici

Il sacerdozio universale dei laici


Le traduzioni greche del testo ebraico dell’Antico Testamento (così la versione di Aquila), applicano il termine laikos, laico, non agli uomini ma alle cose. Per esempio un “viaggio laico”, una “terra laica”, il pane laico (1 Sam. 21,4) (bebelos, nei Settanta, laices panes nella Vulgata) sono le cose “profane” che non sono destinate al servizio del Tempio (1 Sam. 21, 5-6; Ez. 48, 15).

Il sogno di Dom Helder:
il grande giubileo della giustizia

di Marcelo Barros

Se dovessi presentarmi direi che io sono uno della "periferia del villaggio globale", anzi della periferia della periferia. Vengo, infatti da una regione-che-non-conta di un Paese, il Brasile, il cui governo, perfettamente ligio alle direttive del Centro, ha già deciso chi deve vivere e arricchirsi e chi deve morire.

Faccio parte di una comunità che si sforza di testimoniare e di annunciare che la vita può essere vissuta, pur tra le inevitabili contraddizioni, sotto il segno dell'alleanza, nella custodia e dedizione reciproca dei fratelli e delle sorelle. Come figura e anticipazione, nel suo piccolo, del Regno che viene.

Vorrei portare l'attenzione su una figura profetica del nostro tempo, che ha segnato la storia della Chiesa, la storia del mio Paese, la storia dei poveri del mondo ed anche la mia storia personale: Dom Helder Camara, scomparso nel settembre dello scorso anno. Credo valga la pena affrontare il discorso del Giubileo da questa angolazione, perché già qualche anno fa Dom Helder aveva avuto un'intuizione profetica in proposito.

Nel 1992, quando il mondo ricordava i 500 anni dalla conquista dell'America, Helder Camara, già arcivescovo emerito di Olinda e Recife, assieme ad altri pastori latino-americani, come Pedro Casaldaliga, Sèrgio Mendes Arceo, Samuel Ruiz, propose un Giubileo di grazia per il continente latino-americano e per il mondo intero. Doveva essere un Giubileo segnato dalla giustizia per i poveri, dalla riconciliazione tra le Chiese, dal dialogo tra le religioni e da un nuovo patto di convivenza dell'umanità con la terra.

Due anni dopo, fu il papa stesso che, riprendendo e rielaborando questa proposta, indisse il Giubileo dell'anno 2000. A sua volta Dom Helder tradusse la decisione del papa nell'ultima campagna della sua vita: "Per un anno 2000 senza miseria", uno slogan che riassume tutte le grandi operazioni che questo profeta ha lanciato.

Un Giubileo che rievangelizzi la stessa Chiesa

A Roma, in pieno Concilio, Camara riunì molti vescovi del Sud del mondo e alcuni dell'Europa. Con l'aiuto di teologi, come Congar, Chenou e altri, stilarono un documento profetico, nelle cui risoluzioni era detta la sostanza dell'impegno che intendevano assumere: "Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, rilevate le mancanze nella nostra vita di povertà secondo il Vangelo, [...] con umiltà e nella consapevolezza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e con tutta la forza di cui Dio ci farà grazia, ci impegniamo a:

- cercare di vivere come la gente comune del nostro popolo, per quanto riguarda l'abitazione, l'alimentazione, i mezzi di trasporto e tutto ciò che ne deriva;

- rinunciare all'esibizione e alla realtà della ricchezza, quale si manifesta in special modo negli abiti (tessuti ricchi, colori sgargianti) e nelle insegne di materiale prezioso (oro e argento):

- non possedere beni mobili o immobili, né conti bancari a proprio nome, intestando tutto, in caso di necessità, a nome della diocesi o di opere sociali e benefiche;

- affidare ai laici l'amministrazione delle diocesi, affinché possiamo essere più pastori che amministratori;

- rifiutare che ci si rivolga a noi con nomi o titoli che richiamino l'idea di grandezza e di potere;

- evitare tutto ciò che negli atteggiamenti e nei rapporti sociali, possa apparire come privilegio e preferenza per i ricchi e i potenti;

- dare priorità al lavoro di evangelizzazione e con i più poveri" (cfr. Concilium, n. 4/1977, pp. 43-44).

Questo progetto, che segnò una generazione di pastori, indica un primo obiettivo per questo Giubileo: rievangelizzare la vita, cominciando dalla Chiesa e dalle sue strutture.

E si può ben dire che Helder Camara tradusse in pratica questo programma, in profondità. Mai abitò in un palazzo, né possedette un'automobile, né accettò di essere chiamato "eccellenza" e nemmeno con la forma di rispetto alla terza persona, ecc. Ma, soprattutto, non confuse mai la missione profetica di testimoniare e annunciare il Vangelo con il potere ecclesiastico.

In piena dittatura militare brasiliana, quando l'ottimismo dei primi anni '60 andò svanendo, Helder Camara lanciò l'Operazione Speranza. Questo progetto cominciò con la distribuzione delle terre che appartenevano alla Chiesa e con la formazione di comunità nelle quali i contadini gestivano la terra e i suoi prodotti collettivamente. L'Operazione Speranza fu un eccellente lavoro educativo, affrontò il tema della dignità dei poveri e la ricostruzione della speranza per chi si sentiva escluso.

Dom Helder sosteneva che se l'analisi della realtà viene fatta soltanto a partire dall'osservazione dei fatti, la diagnosi non potrebbe che essere molto pessimista. Ma, se nelle "lenti" con cui osserviamo, c'è l'opzione della fede e della speranza, anche nella notte più fonda sapremo sempre distinguere le prime avvisaglie dell'aurora. Oggi, più che mai, è necessario "ricostruire la speranza".

Gli anni '70 videro la delusione di molte attese che erano fiorite nel decennio precedente. In America Latina si spense la speranza recata dalla "teoria dello sviluppo", le dittature si rafforzarono e, anche a livello ecclesiale, si assistette a una svolta conservatrice. Dom Helder fu allontanato dalla segreteria della Cnbb (Conferenza dei Vescovi brasiliani), dal Celam (Conferenza dei Vescovi latino-americani) e, in seguito, dovette assistere, in molti casi, alla messa in discussione di ciò che aveva costruito dopo il Concilio. Fu allora che egli lanciò il grido: "In tutto il mondo esistono minoranze abramiche, capaci di sperare contro ogni speranza e nuotando controcorrente. Bisogna animarle e riunirle".

Penso che oggi, in Italia, gruppi di solidarietà con il Sud del mondo vivono questa vocazione di essere "minoranze abramiche". Progetti come la Banca Etica, il bilancio di giustizia e il mercato equo--solidale sono espressioni di questo cammino e, in questo senso, sono anticipazioni del grande Giubileo della giustizia che Dio desidera per il mondo.

"Per un 2000 senza miseria"

Da molto tempo Helder Camara parlava della campagna contro la miseria. La proponeva come obiettivo, perché si continuasse, nel contempo, a lavorare agli altri progetti che sono stati qui ricordati. Quando rinunciò all'esercizio dell'episcopato, continuò a vivere a Recife, seguendo da vicino tutto ciò che accadeva. Numerosi sacerdoti, laici impegnati e semplici contadini mantennero uno stretto legame con il loro vecchio vescovo. Dom Helder ascoltava tutti e, non di rado, piangeva senza dir nulla. Progressivamente anche il fisico venne segnato dalla sofferenza. Cominciò a rinunciare a viaggi e discorsi. A quanti incontrava non si stancava di ripetere il suo: "Per un 2000 senza miseria". E quando gli chiedevano in che modo, rispondeva: "Favorendo una cultura dell'austerità e della solidarietà".

Sfortunatamente, il mondo entra nell'anno 2000 in una situazione di povertà e di ingiustizia ancora più grave di quella di allora. Ma, certamente, le "minoranze abramiche" - che anche noi siamo chiamati ad essere - non lasceranno che questo Giubileo sia solo un evento ecclesiale o transitorio.

Il Giubileo, il Giubileo biblico, se vogliamo dire così, per chi lo vuole intendere - e dom Helder lo intese bene -, ci chiama a ritornare al sogno e al progetto di Dio, cominciando a correggere quanto di contrario ad esso non cessa di rendere disumana la nostra storia, le nostre società, le nostre relazioni, le nostre esistenze. "Con le poche forze che ancora ci restano, continuiamo la nostra lotta alla miseria, in ogni luogo in cui sia possibile. Vogliamo fare ciò con tutti voi". Facciamo nostro quest'invito. Da subito e per ogni anno a venire. Allora anche il Giubileo 2000 avrà più senso e, soprattutto, sarà sempre Giubileo.

Le immagini violente di Dio:
la politica e il sacro

di Gabriele Mand’el khân *

«Nulla salus in bello. pacem teposcimus omnes»

(Nessun bene nella guerra; pace, noi tutti ti invochiamo).

(VIRGILIO Eneide, XI, 362).

Tema di questo intervento è: «Le immagini violente di Dio: la politica e il sacro». Inizio chiedendovi se vi siete mai accorti di questa semplice, abissale differenza: il sacro dà, il sacro dona, mentre la politica, qualsiasi politica, chiede, a principiare dal voto che ogni politico chiede che gli si dia. Poi domandiamoci: l’immagine di Dio nell’Islam è violenta? Leggendo correttamente il Corano, la risposta è: no! E' sempre e solo una immagine di pace. Tocchiamone allora, rapidamente, i punti salienti.

Il saluto usuale di un musulmano è: âlSalâm âleikum, «la pace sia con voi.» I cattolici hanno la bellissima frase: «Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis (Pace agli uomini di buona volontà), che è anche un concetto che si legge nel Corano, in cui la parola «pace» è citata trentacinque volte.

Ogni giorno il musulmano osservante compiendo le sue cinque preghiere quotidiane pronuncia la parola pace: venticinque volte nelle cinque preghiere canoniche (obbligatorie) e ventisei nelle eventuali preghiere supererogatorie. Poi dice il Corano (36a58): La parola di Dio è «Pace». E ancora (33a44): Il giorno dell’incontro il saluto [degli angeli ai fedeli] sarà: «Pace».

Il Corano dice ancora: (10a25) Dio chiama al soggiorno della Pace, e dirige chi Egli vuole sulla via diritta. (15a46) Entrate [in Paradiso] in pace e con sicurezza. E ancora (20a47): «Pace su chiunque segue una giusta Via».

Di Gesù il Corano dice (19a15): La pace su di lui il giorno in cui nacque, il giorno in cui morirà, e il giorno in cui verrà resuscitato vivo. E ancora nel Corano Gesù stesso ripete (19a33): La pace su di me il giorno in cui io nacqui, il giorno in cui morirò e il giorno in cui sarò risuscitato vivo.

Il termine «guerra» appare nel Corano nove volte, come pure il termine «lotta». «Combattimento», in modo esplicito ed implicito, in tutti i suoi significanti e tutte le sue accezioni, trenta volte. Guerra in arabo si dice harb. Anche qitâl, muqâtâl radicale che si legge nel versetto 2°190: Combattete [qâtilûâ] sulla Via di Dio quelli che vi combattono, ma non eccedete. Certo, Dio non ama quelli che eccedono. Guerra santa si dice âlharb âlquds (o anche âlharam âlqitâl), espressione che non appare mai nel Corano, per il quale in effetti nessuna guerra è santa.

Il termine jihâd viene tradotto a volte, in Occidente, con «Guerra santa», ma questa è una traduzione del tutto errata e capziosa. Jihâd significa «sforzo», ed è lo sforzo che ognuno deve compiere all’interno del sé per vincere le proprie passionalità terrene. Nel Corano appare cinque volte. Il termine «Guerra Santa» fu coniato invece in Europa, nel 1096, quando Pietro l’Eremita organizzò la Prima Crociata.

Si tenga presente, comunque, che il Corano, come la Bibbia, è anche un libro storico; quindi dà relazioni anche di battaglie del tempo del Profeta; per cui accenni specifici al combattimento armato sono spesso da riferirsi al tempo e alle circostanze, e non fanno parte dei precetti religiosi.

Per il Corano, comunque, la guerra è solo di difesa, ed è autorizzata in casi specifici. 22a39-40: E data autorizzazione a coloro che sono attaccati, dal momento che in verità sono lesi (e Dio è certo atto a soccorrerli); e a coloro che sono espulsi dalle loro dimore senza diritto (solo perché dicevano: «Dio è il nostro signore»). Se Dio non difendesse le genti deboli quando contro di esse muovono guerra le genti malvagie e violente, le abbazie verrebbero demolite, e così le chiese, le sinagoghe, le moschee, in cui il Nome di Dio è molto invocato. Dio sostiene coloro che Lo adorano. Dio certo è forte, è potente.

Riguardo a ciò, ecco un chiaro hadîth del Profeta: «Quando due musulmani si gettano l’uno contro l’altro con la spada in mano, entrambi, assassino e vittima, andranno all’inferno (Bukhârî, II,22)». E ancora in modo più specifico il Corano ingiunge, in 4a93: Chiunque uccide un credente, la sua ricompensa è l’Inferno, e vi rimarrà in eterno. E su di lui la collera di Dio e la Sua maledizione, e gli prepara un castigo enorme.

Inoltre, come proibizione generale per l’omicidio, in 17a33: Tranne che secondo Diritto (di legittima difesa), non uccidete anima alcuna: Dio l’ha proibito. E in 5a22: Abbiamo prescritto (ai figli di Israele) che chiunque uccide un essere umano non colpevole d’assassinio o di corruzione sulla terra è come se avesse ucciso tutta l’umanità; e chiunque gli concede salva la vita, è come se facesse dono della vita a tutta l’umanità.

Va considerato inoltre che per il Corano la religiosità non consiste soltanto nel seguire un ritualismo e basta. li Corano enuncia chiaramente: (2a177) La religiosità non consiste nel volgere il vostro volto verso oriente o verso occidente. La religiosità consiste (…) nel dare per amor Suo dei propri beni ai parenti, agli orfani, agli indigenti, ai viaggiatori, ai mendicanti, e per la liberazione degli schiavi; nell‘osservare la preghiera, nel versare la zakât. Sono veri credenti quelli che rimangono fedeli agli impegni assunti, che sono perseveranti nelle avversità, nel dolore e nel momento del pericolo. Ecco le genti sincere.

E ancora (2Sa63-76): Ecco come sono i servi del Misericordioso: camminano sulla terra con umiltà; quando gli ignari si rivolgono loro, dicono loro: «Pace» [...]. Quando dispensano, non sono ne’ prodighi né avari, poiché il giusto sta nel mezzo; e non invocano altra divinità accanto a Dio; e non uccidono anima alcuna se non secondo il diritto (di legittima difesa), perché Dio l’ha proibito; e non compiono atti osceni; chiunque lo fa incorre nel peccato, avrà un castigo doppio il giorno della risurrezione, e rimarrà oppresso dall’ignominia, a meno che non si penta, creda e compia opera buona; perché a quelli Dio muterà il male in bene - perché Dio è perdonatore, compassionevole. E non testimoniano falsamente, e passano nobilmente attraverso la vanità; e quando i versetti di Dio sono recitati non rimangono sordi e ciechi. E dicono: Signore, da’ a noi, alle nostre mogli, ai nostri discendenti, la serenità; e fa di noi un esempio ai fedeli». Del pari il Corano vieta vigorosamente e più volte il suicidio consapevole, e nessuna ragione, nessunissima ragione lo giustifica.

Poi chiaramente il Corano indica quale deve essere l’atteggiamento del musulmano nei confronti delle altre religioni rivelate: (2a 62) Sì, i musulmani, gli ebrei, i Cristiani, i Sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel Giorno ultimo e compiuto opera buona, per costoro la loro ricompensa presso il Signore. Su di loro nessun timore, e non verranno afflitti.

(2a136): Dì: noi crediamo in Dio, in quel che ci ha rivelato, e in quello che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle Tribù, in quel che è stato dato a Mosè e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti dal loro Signore: noi non facciamo differenza alcuna con nessuno di loro. E a Lui noi siamo sottomessi. (5a68-69) Dì: Genti del Libro, sarete sul nulla fintanto che non seguirete la Torà, il Vangelo e ciò che vi è stato rivelato dal vostro Signore(…). Sì, i musulmani, gli Ebrei, i Sabei, i Cristiani - chiunque crede in Dio e nel Giorno ultimo e compie opera buona - nessun timore per loro e non verranno afflitti.

(4a163-165): Sì, noi ti abbiamo fatto rivelazione, come Noi abbiamo fatto rivelazione a Noè e ai profeti dopo di lui. E noi abbiamo fatto rivelazione ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Tribù, a Gesù, a Giobbe, a Giona, ad Aronne, a Salomone, e abbiamo dato il Salterio a Davide. Per comunicare con Mosè Dio ha parlato. E vi sono dei messaggeri di cui ti abbiamo narrato in precedenza, e messaggeri di cui non ti abbiamo narrato, messaggeri annunciatori e messaggeri avvertitori, affinché dopo i messaggeri non ci fossero più per le genti argomenti contro Dio. E Dio è Potente e Saggio.

Ma continuiamo a leggere che cosa dice il Corano a proposito della tolleranza interreligiosa: (9a6) Se un idolatra ti chiede asilo, concedigli asilo. Ascolterà la Parola di Dio. Poi fallo giungere in un luogo per lui sicuro. Ciò perché in verità è gente ignara. (18a29) La verità emana dal Signore. Creda chi vuole, non creda chi non vuole. E inoltre il Corano raccomanda il rispetto per i culti di tutte le religioni: Dio dice (22a67): Ad ogni religione abbiamo dato i suoi riti che vanno osservati. Perciò non discutano con te: invitali al Signore, e allora sarai su una giusta Via.

Quindi, la guerra è un atto umano prevaricatorio per chiari appetiti terreni, ma nessuna guerra è santa. Non è possibile muovere guerra per imporre la religione. Lo dice il Corano (2a256): Nessuna costrizione in fatto di religione: la giusta direzione si distingua da sé dall’errore, e chiunque rinnega il Ribelle e crede in Dio ha afferrato l’ansa più solida, che non si spezza. Dio sente e sa. Ancora nel Corano (23a62) Dio dice: Io non costringo nessuno, se non secondo le sue capacità. E nessuno verrà leso, poiché il detentore del Libro che dice la verità sono Io. D’altronde il Corano vieta di considerare ebrei e cristiani come nemici dell’Islam a causa della loro religione, poiché dice (29a46): Con le genti del Libro parlate in modo cortese (salvo che con coloro che sono ingiusti). E dite loro: «Crediamo in ciò che è stato rivelato a voi e in ciò che è stato rivelato a noi; il nostro Dio è lo stesso vostro Dio. A Lui noi siamo sottomessi».

E infine, lo stesso Profeta disse: «Tre sono i nemici dell’Islam: gli estremisti, gli estremisti, gli estremisti». Nulla vieta di intendere come estremisti sia gli integralisti sia i terroristi.

Oggi tutti invocano la pace ma, secondo i concetti di SEYYD HOSSEIN NASR, grande filosofo iraniano contemporaneo:

«La Pace non è mai raggiunta proprio perché dal punto di vista metafisico è assurdo aspettarsi che una cultura consumistica ed egoistica, dimentica di Dio e dei valori dello spirito, possa darsi la pace. La pace fra gli esseri umani è il risultato della pace con se stessi, con Dio, con la natura, secondo una componente etica che abbia superato false morali, preconcetti, interessi unilaterali e presuntuose ignoranze. Essa è il risultato dell’equilibrio e dell’armonia che si possono realizzare soltanto aderendo agli ideali precipui delle correnti mistiche. In questo contesto è quindi di vitale importanza la pace fra le religioni.

In tema di pace va poi detto qualcosa a proposito della “pace interiore”, che oggi gli esseri umani cercano tanto disperatamente da aver favorito l’insediamento in Occidente di pseudo-yoghi e di falsi guaritori spirituali. In realtà si avverte per istinto l’importanza dell’ascesi mistica ed etica, ma ben pochi accettano di sottoporsi alla disciplina di una tradizione autentica, la sola che possa produrre effetti positivi».

Il senso della pace, insomma, non è ancora il senso cosciente di condizione umana, quale la fede in Dio e l’adesione sincera alla religione (qualsiasi essa sia) suscitano autenticamente in ogni essere umano.

Così i Sufi dicono che l’ebraismo è la religione della SPERANZA, il cristianesimo la religione dell’AMORE, l’Islam la religione della FEDE. Ed ecco, questo è il terzo polo, equilibrio delle vicende umane in tutta la loro estensione: la Fede, la Speranza e l’Amore, origini della mistica, della spiritualità, dei valori sublimati che ci conducono alla comprensione di Dio, nostro Signore unico ed assoluto, il Creatore di tutto. La comprensione dei «valori dell’altro», il giusto equilibrio fra rispetto e reciproca conoscenza, sono i valori eminenti che possono restituire al mondo, dopo due millenni di incomprensioni e di lotte fratricide, quando la pace cui ambiscono tutti gli «uomini di buona volontà».

Un’altra considerazione, di carattere generale, è questa. Sorgono dappertutto movimenti per la pace, ma il concetto è ancor oggi uno stereotipo privo di senso reale. È più facile suscitare l’interesse di un popolo per la guerra pur usando lo specchietto per allodole della parola pace. Basta giustificare la guerra con i soliti luoghi comuni: «autodifesa; lezione di civiltà a gente barbara; portare la giusta via agli sbandati; un sacrificio nel nome della patria; diritti imprescindibili d’autoderminazione e di sovranità territoriale; difesa dalla barbarie altrui». In linea di massima si tratta solo di proiezioni (in senso psicologico). Pare che sia in vigore ancor oggi, nonostante secoli e secoli di esperienze negative, l’antico motto latino di Vegezio: «Qui desiderat pacem, praeparet bellum» (Epitome rei militaris). In psicologia questo si chiama «proiezione».

I romani avevano una frase ben nota e precisa: Homo hominis lupus. Solo se l’ebreo segue la Bibbia, se il cristiano segue i Vangeli, se il musulmano segue il Corano, l’uomo potrà vincere la sua bestialità terrena e conquistare la pace universale. Purtroppo la maggior parte degli esseri umani si professa religiosa, ma non segue in nulla i dettami della sua religione, o, ancor peggio, opera negativamente in nome della religione. Ogni religione, in effetti, predica la pace; mentre gli egoismi personali cancellano ogni propensione alla bontà, alla fratellanza, alla pace. E questo, questo sì è un considerevole soggetto di meditazione per tutti gli uomini di buona volontà.

Viviamo in un momento difficilissimo, per altro non molto dissimile da tanti altri che lo hanno preceduto. La propaganda politica fomentatrice di divisioni e di odio semina in perfetta malafede lo sconcerto, addirittura l’angoscia, per propri scopi che mirano ad un potere economico egoisticamente dittatoriale. La conseguenza è una sorta di stato di guerra continuo, e le vittime innocenti sono migliaia. Poiché gli imbecilli sono la maggioranza in questo basso mondo, la gente più proterva e più caina plaude a questo stato di cose, segue ed osanna i nuovi Hitler, beandosi del male e delle prevaricazioni che, in ultima analisi, alla fine essi stessi subiscono. Solo la pace, e solo i seminatori di pace, potranno portare a questo mondo martoriato la serenità che dopotutto è ancora in grado di desiderare.

Tutto ciò, naturalmente, quando le religioni vengono intese come espressione della propria fede, e non usate e abusate per le proprie mire politiche. Quando vengono espresse genuinamente e non sono corrotte da ignoranza, presunzione, malafede, malvagità, egoismo; quando la parola di Dio, che si riflette luminosa in ogni testo sacro che in Suo nome, predica la pace, viene seguita con purezza d’animo e con la bontà che si accompagna ad ogni fede autentica.

Tutto ciò è comunque quanto dice autenticamente il Corano. Certo, leggerlo e non capirlo è ignoranza; leggerlo, capirlo, e non metterlo in pratica è ignavia; leggerlo, capirlo, e mettere in pratica il suo contrario è scelleratezza; ma leggerlo, capirlo, mettere in pratica il suo contrario e indurre gli altri a seguire il proprio esempio è l’empietà più peccaminosa che ci sia. Notate bene: sostituendo il termine Corano con Bibbia, Vangeli, Canone buddhista, Grahant Mahal Sahib, e gli altri testi sacri, i fattori non cambiano!

E per finire. Noi sufi prediligiamo un detto del profeta Muhammad: Înna Âllâh jamîll yuhibbu âlJamâl (Certo: Dio è bello e ama la bellezza). In questo detto vi è tutto ciò che occorre all’essere umano: Dio, amore, bellezza. Se fossimo consapevoli che ogni nostra azione la compiamo al cospetto di Dio e che dopo la morte a Dio dovremo renderne conto; se compissimo ogni nostra azione amando noi stessi e amando gli altri, e se compissimo azioni belle, con il ritmo e la simmetria che Dio ha posto nel creato, allora tutto il mondo sarebbe un mondo di equilibrio e di pace, perché ognuno di noi sarebbe uno strumento di equilibrio, di pace e di amore per quel Dio unico che è il creatore di tutti noi e di tutti i nostri modi per adorarlo.


* Vicario generale per l’Italia della Confraternita sufi Jerrahi-Halveti.
Testo dell’intervento tenuto al Seminario dell’Associazione Itinerari e incontri all’Eremo di Monte Giove nel luglio 2003.

(da Vita Monastica, Gennaio-marzo 2006 n. 233)

Quadro sintetico delle relazioni
tra le comunioni gennaio- giugno 2005
(a cura di P. Franco Gioannetti)


I Cattolici ed altri Cristiani

Ortodossi

Il Cardinale Walter Kasper, presidente del PCUC si è recato a Mosca dal 20 al 23 giugno 2005 per continuare il dialogo con il Patriarcato di Mosca. Il primo incontro è stato con il metropolita Cyrille di Smolensk. Le due delegazioni hanno affermato che di fronte alla crisi morale esistente in tanti paesi del mondo le Chiese, Cattolica ed Ortodossa, debbono collaborare per promuovere i valori morali e spirituali della persona, della famiglia, della società. Poi sono stati toccati i problemi che esistono tra le due Chiese, in particolare le tensioni in atto in Ucraina tra greco cattolici ed ortodossi.

Precalcedoniani

La 16ma riunione della Commissione mista per il dialogo tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa siro-malankarese ortodossa (Chiesa indipendente) si è tenuta al Centro di Spiritualità di Kottayam dal 12 al 14 ottobre 2004.

La discussione si è svolta soprattutto su due documenti:

(1) “la tradizione liturgica dei cristiani di S. Tommaso fino al XIX secolo”

(2) “il primato petrino durante i primi quattro secoli: qualche punto di discussione”.

Le due chiese pur concordando, per molti aspetti, sul concetto di Chiesa come comunione hanno opinioni divergenti su alcune questioni essenziali, in particolare su quella relativa al primato petrino.

Per questo punto le due delegazioni hanno concordato sulla necessità di uno studio più approfondito. Si è parlato della necessità di una testimonianza comune e di un accordo e di una relativa pastorale per i matrimoni misti.

Il prossimo incontro è stato deciso per i giorni 7-9 dicembre 2005 e riguarderà:

“Riflessioni patristiche e liturgiche sul primato nella chiesa fino al secolo XVII”

“Una sola chiesa dei cristiani di S. Tommaso”.

La commissione mista per il dialogo tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Siro-giacobita Ortodossa (Chiesa autonoma dell’India sotto l’autorità del Patriarcato Siro-Ortodosso di “Antiochia che portava fino al 2004 il nome di “Chiesa Siro-Malankarese Ortodossa”) ha tenuto il suo IX incontro nel Centro di Spiritualità di Kottayam il giorno 11 ottobre 2004.

Il principale tema teologico che figurava all’ordine del giorno riguardava la Chiesa come comunione.

Sono stati discussi due documenti:

Il primo “Prospettive biblico-teologiche sulla comunione ecclesiale”

Il secondo “Camminare verso la piena comunione secondo il Concilio Vaticano II”.

Le due delegazioni hanno definito positivo lo stato del dialogo, hanno approfondito gli aspetti pastorali relativi ai matrimoni misti ed hanno deciso per i giorni 5-6/12/2005 uno studio più approfondito sui modelli di comunione del primo millennio.

La seconda riunione della commissione di dialogo tra le chiese cattolico-romana e pre-calcedoniane si è svolta a Roma dal 26 al 29 gennaio 2005 sotto la presidenza del Cardinale W. Kasper e del metropolita copto Bishoy di Damietta.

Vi hanno preso parte i rappresentanti delle chiese cattolica, copta, siriana, armena (dei due katolicosati), etiopica, malankarese, eritrea.

Vetero-cattolici

La riunione di primavera del dialogo nord-americano tra Chiesa Cattolica Romana e Chiesa Nazionale Cattolica Polacca (PNCC) ha avuto luogo a Buffalo (USA) nei giorni 10 ed 11 maggio 2005.

I punti principali della discussione sono stati un documento sulla Chiesa Polacca ed il suo impegno per l’unità ed il concetto di giurisdizione in un quadro di ecclesiologia comune.

Chiesa Assira d’Oriente

La commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Assira d’Oriente ha tenuto la sua decima riunione annuale dal 19 al 22 novembre 2004 a Londra.

I membri della commissione hanno riflettuto sugli emendamenti alla “Dichiarazione comune sulla vita sacramentale” proposti dal S. Sinodo Assiro.

Un ulteriore documento di lavoro ha riguardato gli “Elementi di Cristologia” nel Synodicon Orientale, in pratica l’eredità teologica antica della Chiesa d’Oriente.

Il tema centrale della riunione è stato però “Modelli di comunione attraverso la storia” e questo dall’età apostolica ai nostri giorni.

I partecipanti hanno convenuto che in materia teologica le tradizioni delle due chiese hanno molti elementi in comune.

Per questo quattro esperti, due per ogni chiesa, dovranno presentare degli studi alla prossima riunione di dialogo per una particolare attenzione alle implicazioni ecumeniche.

Battisti

L’Alleanza Battista Mondiale (ABM) ed il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità del Cristiani hanno organizzato congiuntamente un incontro a Washington nei giorni 10-11 dicembre 2004 per studiare i seguenti temi: “Il battesimo come ingresso nella Chiesa” e “Maria nella vita della Chiesa”.

Si è trattato del quarto incontro delle due Chiese. I documenti relativi al primo tema, sul battesimo, sono stati presentati dal Dott. Morrison, battista e da Suor Wood, cattolica.

Il tema su Maria è stato illustrato da Suor Butler per mezzo di due documenti: “Maria, madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa” e “L’Immacolata Concezione e la gloriosa Assunzione di Maria”.

Il dott. T. L. George, battista, ha invece parlato di “La Vergine Maria nella prospettiva evangelica”.

Discepoli

La commissione internazionale di dialogo tra Discepoli di Cristo e Chiesa cattolica si è riunita per la prima sessione della IV fase nel centro “Oasi S. Maria” a Cassano delle Murge (prov. Di Bari), dal 6 all’11 dicembre 2004.

In questa fase il principale tema di studio è stato:

“La presenza di Cristo nella chiesa con particolare riferimento all’Eucaristia”.

I temi dei precedenti incontri con relative “dichiarazioni d’accordo” erano stati:

- Apostolicità e Cattolicità nel 1982

- Chiesa in quanto comunione nel Cristo 1992

- Ricevere e trasmettere la fede: missione e responsabilità della chiesa 2002.

Questa sessione si è principalmente concentrata sulla “presenza di Cristo nella chiesa” e ne sono stati esaminati problemi e sfide che incontrano in proposito le due tradizioni.

II Ortodossi ed altri cristiani

Cattolici

In occasione della Festa dei SS. Pietro e Paolo una delegazione del Patriarcato Ecumenico ha comunicato che tutte le chiese ortodosse sono pronte a riprendere il dialogo teologico con la chiesa cattolica.

La delegazione ha assistito alla messa nella basilica di S. Pietro celebrata dal Papa il quale ha detto che, al di là delle divergenze esistenti sulla interpretazione e la portata del ministero petrino, cattolici ed ortodossi sono uniti nella successione apostolica; profondamente uniti nel ministero episcopale e nel sacramento del sacerdozio, inoltre essi confessano la medesima fede degli Apostoli, quale viene dalle Scritture ed è interpretata dai grandi concili.

La missione dei cristiani, ha aggiunto il papa, è di testimoniare insieme Cristo Signore e sulla base di questa unità, che è dono, aiutare il mondo a credere.

Il giorno successivo la delegazione è stata ricevuta dal papa, presente il Cardinale Kasper nel discorso di benvenuto Benedetto XVI ha detto che “l’unità che noi cerchiamo non è né assorbimento né fusione, ma rispetto della pienezza multiforme della chiesa che, conformemente alla volontà del Cristo, deve essere sempre una, santa, cattolica, apostolica”.

Il metropolita ortodosso Giovanni di Pergamo ha risposto dicendo che i santi venerati dalle due chiese ricordano che per 1000 anni cattolici ed ortodossi sono stati profondamente uniti condividendo la stessa successione apostolica e la stessa grazia sacramentale. Ha infine aggiunto che unità e cattolicità della chiesa sono inseparabilmente legate alla sua apostolicità e santità.

Precalcedoniani

Un incontro interortodosso sulle prospettive di dialogo teologico tra la Chiesa Ortodossa e le Chiese Ortodosse Orientali (precalcedoniane) ha avuto luogo dal 10 al 13 marzo 2005 presso il Centro Ortodosso di Chambesy presso Ginevra.

La riunione aveva all’ordine del giorno il proseguimento del dialogo, le critiche, formulate da molte chiese territoriali riguardo i documenti comuni del 1989 e1990. e’ stata sottolineata la necessità che la commissione mista prolunghi l’analisi dei punti controversi e chiarifichi eventuali formulazioni non chiare.

III Anglicani ed altri Cristiani

Cattolici

L’ultimo documento dell’ARCIC II: “Maria, grazia e speranza nel Cristo” è stato presentato a Seattle (USA) ed a Londra.

Si tratta di un documento che studia la mariologia, tematica contesa tra cattolici e protestanti.

Il tema ricorda che per anglicani e cattolici l’unico mediatore è Cristo e che quindi va rigettata ogni interpretazione del ruolo di Maria che possa oscurare questa affermazione.

I due copresidenti uno cattolico e l’altro anglicano, hanno affermato che la commissione ha voluto basarsi sulle Scritture e nella Tradizione comune esistente prima della Riforma e della Controriforma sforzandosi ad usare un linguaggio che evidenzi gli elementi comuni e trascenda le controversie del passato.

Maria, è stato detto, è un esempio di obbedienza fedele. Noi e Lei uniti nella preghiera e nella lode siamo una figura della chiesa.

I paragrafi § § da 6 a 30 del documento sono consacrati ad uno studio di Maria, madre di Gesù, nelle scritture..

Si è trattato di una lettura ecclesiale ed ecumenica che ha cercato di considerare ogni passaggio riguardante Maria nel contesto del Nuovo Testamento preso nel suo complesso, in rapporto al Vecchio ed alla luce della Tradizione.

I suddetti paragrafi affermano che i cristiani, nella continuità degli autori del N. T., hanno visto il punto culminante della traiettoria della grazia di Dio e della speranza di una risposta umana perfetta, nell’obbedienza di Cristo.

Su questo contesto cristologico si trova un modello similare in Maria. Il N.T. infatti non parla soltanto del fatto che Dio ha preparato la nascita di suo Figlio ma anche che ha santificato una donna ebrea nella linea delle Sante donne come Sara ed Anna.

A modo di riflessione scritturistica il § 30 afferma che la testimonianza della Scrittura chiede a tutti i credenti di ogni generazione di chiamare “Beata” Maria, questa donna ebrea che di umile condizione che viveva in una speranza di giustizia per i poveri e che Dio ha scelto e colmato di grazia.

Come era immaginabile critiche e perplessità sono state innumerevoli in casa anglicana dove si è detto che le conclusioni generali del documento sono state troppo cattoliche e quindi ben lontane dalla tradizione e comprensione anglicana.

Ma non si sono manifestate dure ostilità o progetti di interruzione al dialogo.

Ortodossi

La commissione internazionale di dialogo teologico tra anglicani ed ortodossi si è riunita dal 2 al giorno 8 giugno nel monastero ortodosso di Kikkos a Cipro. Nel suo discorso di benvenuto Mons. Nikiphoros ha espresso la speranza che questo dialogo possa portare dei frutti affinché un giorno sia possibile, per la forza dello Spirito Santo, tornare a comunicare allo stesso Pane ed allo stesso Calice.

Per giungere all’unità del mondo cristiano, ha aggiunto, bisogna pregare incessantemente e continuare il dialogo nella carità.

Il dialogo internazionale tra ortodossi ed anglicani è stato inaugurato nel 1973 con un esame dei fondamenti dottrinali del dialogo ed ha prodotto le dichiarazioni comuni di Mosca nel 1976 e di Dublino nel 1984.

L’attuale ciclo di conversazioni inaugurato nel 1989 ha per tema la fede comune nella Trinità, la persona di Cristo e lo Spirito Santo. La commissione si è riunita due volte ogni anno e nel complesso ha prodotto le seguenti dichiarazioni comuni su Trinità e Chiesa, il Cristo, lo Spirito e la Chiesa, il Cristo – l’umanità – la Chiesa, l’Episcopato – il Vescovo – la Chiesa, il Cristo – il Sacerdozio – la Chiesa, il ministero della donna e dell’uomo nella Chiesa, i concetti di eresia e di scisma, la ricezione.

Durante l’incontro di Kikkos la commissione ha rivisto gli ultimi tre testi.

Battisti

La Commissione Anglicana e l’Alleanza Battista Mondiale (ABM) hanno annunziato il 25.6.2005 la pubblicazione degli atti di cinque anni di dialogo comune.

Questa pubblicazione è il frutto di un processo ecumenico portato avanti con una formula originale; per assicurare, infatti, le voci cristiane e provenienti da tutti i continenti, i partecipanti di ognuna delle sei sessioni regionali di dialogo venivano dalla regione dove le conversazioni avevano luogo.

Soltanto un piccolo comitato di continuità ha partecipato a tutte le riunioni.

Ogni sezione regionale era stata messa al corrente dei lavori delle altre sezioni, ma ognuna di essa aveva la piena libertà di sviluppare le proprie intenzioni.

Alla fine della serie delle conversazioni il Comitato di continuità ha inviato ad ogni sezione regionale un rapporto finale pregando tutti i partecipanti di presentare reazioni e critiche.

Ambo le parti hanno espresso la loro soddisfazione per il lavoro e per i risultati raggiunti.

IV Luterani ed altri cristiani

Anglicani

Una nuova pubblicazione è apparsa, in inglese, contenente le dichiarazioni comuni ed altri risultati dei dialoghi tra luterani ed anglicani, a livello regionale, dal 1972 al 2002.

Riformati

Riunita in Sinodo generale a Parigi, la Chiesa Evangila Luterana di Francia (EELF) ha deciso di proseguire e di incoraggiare il processo di avvicinamento lanciato circa un anno e mezzo fa con la Chiesa Riformata di Francia (ERF), principale componente del protestantesimo francese con circa 300.000 membri.

Trenta delegati, su trentatre, del Sinodo dell’EELF ha approvato il processo di avvicinamento.

Una commissione composta da tre luterani e da tre riformati lavora per studiarne le modalità.






V Riformati ed altri cristiani

Pentecostali

Un incontro di Dialogo Teologico Internazionale tra i rappresentanti di alcune chiese pentecostali classiche ed i rappresentanti dell’Alleanza Riformata Mondiale ha avuto luogo dal 25 al 31 maggio 2005 a Detmold in Germania.

Si tratta della terza sessione di un ciclo di incontri aventi per tema “L’esperienza nella fede e nella vita cristiana”.

Il tema dell’incontro di Detmold era la maniera in cui i Pentecostali ed i Riformati fanno discernimento dell’azione dello Spirito Santo per comprendere la volontà di Dio e così sforzarsi di seguire Gesù Cristo e di testimoniare la presenza e la venuta del Regno di Dio.

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