Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Mauro Làconi
Preannunciato già nell' Antico Testamento per i tempi messianici, come lo stesso libro degli Atti sottolinea fin dal principio (2,17-21), il discorso sullo Spirito di Dio permea, caratterizzandolo, tutto il Nuovo Testamento. In un certo senso tende ad esprimerne l'incomparabile novità: mediante il suo Spirito, Dio interviene nella vicenda umana per farne una storia del tutto nuova. Accentuato in modo particolare negli scritti di Paolo, soprattutto nel contesto della «giustificazione per grazia», si trova sottolineato nei Vangeli fin dall'inizio come per comunicare subito il senso del «divino» presente con Gesù (Mc 1,10; Mt 1,20 e Lc 1,15 e 35; Gv 1,32-34); ma nessun autore vi ritorna su con l'intensità di Luca, particolarmente - senza possibilità di confronti - nel suo «secondo volume»: il libro degli Atti degli apostoli. Il lettore attento ne coglie presto il motivo: mediante la presenza attiva dello Spirito nella Chiesa continua l'opera di Gesù. (1)
1. Il discorso sullo Spirito in Luca: dal Vangelo agli Atti
Nel Vangelo di Luca il discorso sullo Spirito inizia e conclude tutto (Lc 1,35-24,49), e nel corso del racconto compare con frequenza senza dubbio maggiore che negli altri vangeli (per es. Lc 4,18; 10,21; 11,11; ecc.). Ma è soprattutto nel libro degli Atti che ritorna con eccezionale frequenza. Ed è proprio Luca che ha reso abituale nel Nuovo Testamento l'espressione completa «Spirito Santo» destinata in seguito a diventare classica; molto più frequentemente che lo stesso Paolo. Mentre negli altri vangeli, Giovanni compreso, è assai più rara. Praticamente fino al c. 21 Luca menziona lo Spirito - presenza personale e operante nella Chiesa - praticamente in tutti i capitoli. Le eccezioni sono rare. In almeno una decina di essi poi con un rilievo particolare. Per esser più precisi: l) nella prima grande sezione dell'opera (cc. 1-12: la chiesa di Gerusalemme) il tema sullo Spirito raggiunge l'apice; 2) nella seconda (cc. 13-21: attività missionaria di Paolo) rimane insistente, seppure con qualche flessione; 3) nella terza (cc. 22-28: Paolo il prigioniero) misteriosamente - fatto raramente sottolineato - questo tema straordinariamente tipico del libro, scompare quasi del tutto.
A parte questo ultimo fatto di difficile spiegazione, tutto questo dimostra chiaramente che Luca segue il tema dello Spirito verso la Chiesa per se stessa, quasi a volerla definire (e non tanto verso il singolo credente); particolarmente orientandolo verso la Chiesa delle origini (cc. 1-12), fatto storico «di vino» che solo lo Spirito può spiegare; specificamente poi verso la Chiesa missionaria, che Paolo autorevolmente riesce a rappresentare (cc. 13-21).
Questa la visione globale, che ora conviene esaminare maggiormente nel dettaglio.
2. Impostazione cristologica del discorso sullo Spirito
È caratteristica costante del Nuovo Testamento, e specificamente dei Vangeli, la dimensione cristologica in cui si muove la teologia dello Spirito, Luca non fa eccezione; anzi accentua questo aspetto all'inizio del vangelo (Lc 4,1.14.18). Nel libro parallelo degli Atti la cristologia fluisce nell'ecclesialità: come Gesù, anche la Chiesa dà inizio alla sua storia e alla sua attività mossa dallo Spirito Santo, proprio come Gesù stesso aveva predetto (At 1,8). E non si tratta solo di una promessa, ma di un suo «dono» personale - sia pure in stretto rapporto «trinitario» -, affinché la continuità «cristologia» - «ecclesiologia» anche in questo risulti perfetta: «Dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso» sulla Chiesa (At 2,33). E così risulta perfetta anche la continuità storico-letteraria fra i due volumi di Luca: il Vangelo (storia di Gesù) e gli Atti (storia della Chiesa).
Da questo momento l'azione dello Spirito continua inarrestabile, ma sempre in ordine a Gesù. Sarà proprio lo Spirito a mandare Pietro a Cesarea per evangelizzare i primi pagani (10,19; 11,12), ma per annunciare loro Gesù (10,3743). Lo stesso era avvenuto per Filippo (8,29-35) e avverrà per Paolo (13,2.4.23). Con perfetta logica Luca aveva già presentato lo Spirito, nella Chiesa, come «il testimone di Gesù». Impressionanti, e persino audaci a questo riguardo, le parole di Pietro davanti al Sinedrio: «Di questi fatti [riguardanti appunto Gesù] siamo testimoni noi e lo Spirito Santo!» (5,32). Espressione sorprendente, e tuttavia perfettamente in quadro, che troverà un parallelo molto più tardi nel Quarto vangelo (Gv 15,26). Luca distingue senza equivoci Gesù e lo Spirito, ma nello stesso tempo comunica al lettore il senso di una profonda unità; addirittura a un certo punto arriverà - per l'unica volta! - a definire lo Spirito Santo come «lo Spirito di Gesù!» (16,7). Espressione che potrebbe suonare addirittura sconcertante; e tuttavia senza equivoci se letta nel contesto di Luca. Troverà persino un parallelo - anche qui una sola volta! - in Paolo (Fil 1,19)!
Su questo argomento, che evidentemente sta molto a cuore a Luca - tensione cristologica nel suo discorso sullo Spirito -, si è voluto persino scoprire un netto parallelismo letterario all'inizio dei due volumi lucani:
- Vangelo (storia di Gesù): Gesù riceve lo Spirito (Lc 3,22)e pronuncia il suo discorso inaugurale a Nazaret (Le 4,16-27);
- Atti (storia della Chiesa): la Chiesa riceve lo Spirito (At 2,1-4)e Pietro pronuncia il discorso inaugurale cristiano a Gerusalemme (At 2, 14ss).
Una buona conferma: la Chiesa continua - nello Spirito - l'opera di Gesù.
3. La Pentecoste e la dimensione «divina» della storia
All'inizio del suo discorso di Pentecoste, per spiegarne il senso e parlare della discesa dello Spirito, Pietro si rifà al profeta Gioele (Gl 3,1-5); senonché le prime parole della citazione profetica non sono affatto del profeta biblico, ma personali di Pietro, comunque riferite da Luca, e cioè «cristiane»: «Negli ultimi giorni, dice il Signore ... » (At 2,17). Per l'apostolo dunque, e per l'evangelista, con la discesa dello Spirito ha inizio l'era finale e propriamente «divina» della storia. Certo non ancora «il giorno del Signore, giorno grande e splendido» (queste sono parole del profeta: At 2,20), cioè la fine risolutiva di tutto, che anche per Luca rimane lontana e misteriosa; ma in qualche modo il suo inizio, perché, inviando lo Spirito, e quindi con l'annuncio del mistero di Gesù, Dio è entrato da «Signore» nella storia degli uomini, conferendole un significato e una portata completamente nuova. In qualche modo, iniziale e non ancora definitivo, ma tuttavia autentico e operante nella vita di ognuno, l'atteso Regno di Dio si è reso già attuale e presente. È la tesi evangelica di Luca formulata nel suo vangelo con le parole stesse di Gesù: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21), che finalmente trova nella Pentecoste la sua autentica interpretazione. Questo dinamismo messo in atto dallo Spirito nella diffusione del Vangelo e nel diffondersi della Chiesa - un fatto per lui autenticamente divino e non puramente umano - trasforma la vicenda umana rendendola «storia della salvezza», anticipo del Regno e della salvezza. Nello stesso senso già Paolo aveva parlato delle «primizie dello Spirito» (Rm 8,23) o anche della «caparra dello Spirito» (2 Cor 1,22; 5,5; e anche Ef 1,13); come anche Giovanni, sia pure senza parlare direttamente dello Spirito, vedrà nel credente in Gesù «la vita eterna» - cioè «divina» - già presente e in atto («Chi crede nel Figlio ha la vita eterna»: Gv 3,36). È caratteristica di tutto il Nuovo Testamento una certa propensione a sentire il fatto della salvezza «futura» già in qualche modo anticipata nella vita «presente» di chi crede nel Cristo Risorto. Il merito di Luca, e anche di Paolo, è quello di aver identificato concretamente questo misterioso anticipo del futuro nella vitalità dello Spirito di Dio all'opera nella missionarietà evangelica.
4. la Pentecoste si rinnova continuamente nella Chiesa
Le fasi di questo sviluppo «pentecostale» vengono marcate minuziosamente. Poco dopo il racconto della Grande Pentecoste (c. 2), inizio decisivo della storia di Dio fra gli uomini, Luca ci fa assistere a una «seconda» (detta anche «piccola») Pentecoste (4,31), come sempre nel clima della preghiera comunitaria (4,24-30: la più antica preghiera ecclesiale che possediamo) e sempre anche se più modestamente, in clima di sconvolgimenti cosmici («il luogo in cui erano radunati tremò»). Questo «secondo miracolo di Pentecoste» (Schneider) non è una semplice ripetizione del primo, in tono minore. Ha una sua autonomia e un significato suo: sostiene la Chiesa in una generosa e impavida proclamazione missionaria (la «franchezza»: vv. 29 e 31; però il termine greco è più forte), date le resistenze che vanno profilandosi e il tempo ormai imminente del «martirio» (cc. 6-7). E così, sostenuta dalla forza dello Spirito, la «Parola» non si ferma: sconfina dal territorio giudaico (c. 8 in Samaria con Filippo, segnando una forte ripresa del tema dello Spirito), e finalmente, per esplicito intervento dello Spirito (10,19), raggiunge i pagani (cc. 10-11). Luca insiste nel sottolineare qui l'iniziativa dello Spirito (e non della Chiesa!: 11,2.15-18), ma soprattutto nel sottolineare il parallelismo fra questo fatto - (che potremmo già definire «terza Pentecoste», o «Pentecoste missionaria») - e la Grande Pentecoste degli inizi: lo Spirito prende l'iniziativa (anticipando addirittura il battesimo!: vv. 44-48) e manifestandosi, anche se in tono più moderato, esattamente come agli inizi («li sentivano parlare in lingue e glorificare Dio»: vv. 45-46). Fatti subito riconosciuti, con stupore e gioia, dalla comunità madre di Gerusalemme (11,17-18). E dopo questa «Pentecoste che segna l'inizio della missione ai pagani» (Schneider), altre se ne potrebbero cogliere nel testo di Luca, senza alcuna forzatura; per esempio quella che segna i veri inizi della chiesa in Efeso, significativamente improntati di aspetti anch'essi «pentecostali» (vedi 19,1-7: una «Pentecoste ... ecumenica»?). Comunque si sente affiorare l'intento profondo che guida Luca nel dedicare questi testi straordinari alla sua comunità: egli invita con forza i suoi lettori a non leggere nella sua testimonianza sulla Pentecoste un semplice, anche se straordinario, ricordo; sta invitando la sua Chiesa a un sincero confronto, per una ripresa di coscienza sulla vitalità dello Spirito che continua a costruirne la storia.
5. Tensione missionaria nel discorso lucano sullo Spirito
Già fin dalle prime righe che il libro degli Atti dedica allo Spirito (1,8) è chiaro che l'interesse di questo discorso è prevalentemente missionario e apostolico. Si potrebbe persino dire esclusivo. Anche i passi, appena elencati, sulla continuità dell' evento pentecostale nella Chiesa, lo provano: il dono dello Spirito, costantemente rinnovato, spinge la Chiesa alla testimonianza, e persino al martirio. Tuttavia questo libro dedica un'intera sezione (cc. 13-21: viaggi di Paolo) alla diffusione missionaria della Parola; ed è proprio lì che si trova la conferma di questo fatto nèl secondo volume di Luca.
Risulta immediatamente dal primo viaggio, quello che porterà all'evangelizzazione della Pisidia; viene deciso direttamente dallo Spirito (13,2), e Luca ricorda esplicitamente che i missionari partono «inviati dallo Spirito Santo» (v. 4). Naturalmente in un contesto ecclesiale: i membri della comunità di partenza (Antiochia) pregano, digiunano, impongono loro le mani (v. 3). Nel secondo viaggio, quello che porterà in Macedonia e in Grecia (Atene e Corinto), la forza dominatrice dello Spirito si manifesta in maniera addirittura estrosa; e cioè bloccando il cammino dei missionari e orientando li in maniera perentoria in una direzione nuova (16,6-8: una lettura persino sorprendente). E tuttavia non è nemmeno una novità: in questo libro è sempre lo Spirito che, ovviamente rivelandosi attraverso i profeti cristiani, decide l'itinerario missionario (vedi 8,29.39 per Filippo, e 11.12 per Pietro). E lo Spirito interviene ancora al termine del terzo viaggio per preannunciare e stabilire autorevolmente l'esito finale di tutta la missionarietà di Paolo: la drammatica testimonianza a Roma e il martirio (20,22-23: espressioni forti di Paolo stesso: «avvinto dallo Spirito!»; inoltre 21,4-14). Nel suo vangelo Luca riesce a variare i suoi interessi teologici a proposito dello Spirito; invece in Atti 1'orientamento missionario sembra proprio assoluto. Difficilmente, in tanta documentazione, si potrebbero trovare appigli di interessi diversi, per la vita religiosa o morale del credente per esempio. Orientamento massiccio, che, osservato frettolosamente, potrebbe lasciare un'impressione di unilateralità. Ma lo scritto lucano esprime nel suo insieme un' evidente impressione di rigore. Anche per questa scelta una motivazione rigorosa ci dev'essere. Per esempio un messaggio forte, riguardante, più che il singolo credente, la Chiesa impegnata nella storia. Lo Spirito, con i suoi interventi vigorosi, la sta trasfigurando, trasformandola in «storia di salvezza». Ma attraverso la Chiesa e la sua generosa testimonianza. Per questo Luca chiede alla sua Chiesa una consapevolezza «pentecostale» e una fedeltà allo Spirito totali e assolute.
(da Parole di vita”, n.1, 1998)
1) Nel loro essenziale schematismo possono risultare preziose le trattazioni sul tema nelle più recenti Introduzioni sul Nuovo Testamento. Ci limitiamo a ricordare le ultime: G. SEGALLA, La teologia di Luca-Atti: storia e teologia della salvezza, in Evangelo e Vangeli, EDB 1992, pp. 250-268; M. LÀCONI, Atti degli apostoli: Il Risorto e la forza dello Spirito, in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli (Logos 6), Elle Di Ci 1994, pp. 573-579; A. RODRIGUEZ CARMONA, L'Opera di Luca: la dimensione teologica - Cammino ... animato dallo Spirito, in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, 6, Paideia 1995, pp. 278-282; R. PENNA, Spirito Santo. Nuovo Testamento, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, 1988, pp. 1507-1517. Non vanno trascurate le trattazioni nei commenti, soprattutto i più approfonditi e recenti; ci limitiamo a ricordare la sintesi succosa di G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli (Comm. N.T. V), I, pp. 356-360.di Mauro Orsatti
di Silvano Pinato
Il Concilio ha riconosciuto alla vita religiosa uno statuto teologico che la colloca nel cuore stesso della Chiesa. Ma questa scoperta va valorizzata. Ecco quindi farsi avanti una nuova coscienza ecclesiale nei religiosi, che fa intravedere un orizzonte di relazioni e di comunione: i modi sono in parte ancora da inventare.
di Javier Melloni
Solo nel cammino comune le religioni possono liberare il meglio delle energie umane per trasformare il mondo.
Nel passaggio attraverso il deserto non ci sono solo sete e desolazione. Ci sono anche incontri sorprendenti, e albe e tramonti di una bellezza sconvolgente di fronte ad un orizzonte aperto e illimitato. Ma tutto questo non si conosce se non si inizia la traversata se non si esce dalla città, dove la luce del Sole si intravede solo attraverso le strade strette del già noto e troppe volte attraversato.
All'inizio dell'esodo c'è solo il dolore perché lo sradicamento ci lacera. Però, andando avanti nel cammino, sorge una domanda: e se la nostra casa, il nostro focolare, le nostre famiglie non fossero alle nostre spalle, ma davanti a noi?
di Vladimir Zelinskij
I tanti anni di ricerca di una rapida e visibile unità ci hanno convinto che non esiste ancora un unico grande ponte che possa unire le due estremità del burrone che da mille anni separa l’Oriente dall’Occidente. Ma si può trovare o, piuttosto, costruire di nuovo dei piccoli ponti – se non ancora tra le Chiese storiche, almeno tra le persone, le culture, le iniziative, gli slanci dello spirito che cercano uno spazio comune nelle realtà divise. Uno di questi ponti porta il nome di San Clemente, papa e confessore della fede del I secolo, morto nel 101 (secondo la tradizione, martire) a Chersones sul Mar Nero. Nella stessa città, quasi 9 secoli dopo, ha ricevuto il battesimo il gran principe di Kiev San Vladimir, il quale ha trasportato a Kiev una parte delle reliquie del papa. Un’altra parte del corpo del Santo fu portata da San Metodio a Roma. Oggi, 19 secoli dopo la morte, San Clemente, presente nelle sue reliquie a Roma e a Kiev, può fare un lavoro – discreto, ma miracoloso – per la costruzione di quei piccoli legami di unità che a volte si mostrano più resistenti e duraturi di tanti ambiziosi progetti.
L’ultimo di questi miracoli è stata l’apertura del Centro “San Clemente” a Kiev l’8 dicembre scorso (proprio nel giorno del Santo, secondo il calendario giuliano e della festa dell’Immacolata per la Chiesa Cattolica). Il Centro è stato inaugurato da una parte dal cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione Pontificia per l’unità dei cristiani e dall’altra, dall’arcivescovo di Poltava Filippo, presidente della Commissione per l’educazione religiosa, il catechismo ed il lavoro missionario della Metropolia ucraina del Patriarcato di Mosca. Questa iniziativa ha ricevuto il pieno appoggio e la benedizione anche dal capo della Chiesa Ucraina, il metropolita Vladimir Sabodan e del capo della Chiesa greco-cattolica in Ucraina, il cardinale Lubomir Husar.
“Con la vostra benedizione – ha detto il cardinal Kasper durante la sua omelia davanti al pubblico riunito nella sala – l’importante Centro ecumenico, come speriamo, sarà un punto di riferimento, per lo studio, il dialogo e l’incontro fraterno tra le Chiese. Sembra che questo sia un albero piccolo, ma con l’aiuto di Dio e con il vostro sostegno, esso potrà portare buoni frutti”.
Certo, l’apertura in un appartamentino di tre stanze a Kiev dove si trova il nuovo Centro, non è avvenimento che possa attirare l’attenzione dei grandi quotidiani in Occidente. Ma chi conosce dall’interno la situazione ecumenica nell’Est dell’Europa capisce che anche le piccole cose possono acquistare un significato simbolico. Prima di tutto è significativo il contesto storico di oggi, condizionato da due avvenimenti che non sono legati fra di loro. Il primo è l’incontro di Ravenna (dove la Chiesa Russa non ha partecipato) e nel quale si è fatto un grande passo verso la riscoperta della lingua comune del primo millennio cristiano. La lingua comune presto o tardi aprirà la strada anche alla piena comunione – e pur se il cammino sarà lungo e difficile, un passo importante è stato fatto. Un altro avvenimento o, meglio, processo – molto meno visibile per l’Occidente, che si sta svolgendo proprio nei nostri giorni – è “l’ucrainizzazione” graduale della Chiesa Russa in Ucraina. Processo che si esprime anche nella sua crescente indipendenza, se non canonicamente, di certo nella sua “linea” ecumenica e pratica. Davvero, bisogna avere un po’ di fantasia per immaginare nelle condizioni attuali che un cardinale della Chiesa Romana insieme al nunzio apostolico abbiano partecipato ad ogni azione comune – specialmente all’apertura comune del Centro ecumenico – con un arcivescovo ortodosso. Anzi, con il responsabile degli affari interni della Chiesa Ucraina, l’arcivescovo Mitrofan Yurchuk, accanto al nunzio apostolico Ivan Yurkovic, con il rettore dell’Università Cattolica di Lviv, Boris Gudziak ed il presidente dell’Università nazionale Pietro Mohila, Vyacheslav Briuchovetsky e con tanti altri. Basta ricordare la visita recente del patriarca Alessio in Francia, accolto con grande entusiasmo a Notre Dame di Parigi, ma sospettato in Russia dai fondamentalisti ortodossi per il “reato” di aver pregato per qualche istante insieme con i cattolici. I fondamentalisti non mancano, certo, anche in Ucraina, ma non sono loro a dare il là. Così l’ultimo Concilio della Metropolia Ucraina ha condannato senza mezzi termini la cosiddetta “Unione dei cittadini ortodossi”, il bastione dell’integralismo locale.
Il Centro di San Clemente, secondo il progetto del suo promotore e direttore Constantin Sigov, è destinato a costruire – attraverso gli incontri, le conferenze, i corsi teologici, i seminari – un altro ponte che possa mettere in comunicazione l’educazione nelle scienze umane con la formazione propriamente religiosa – la quale rappresenta il nucleo di ogni conoscenza autentica dell’uomo. Il Centro stesso è collegato al Campus Universitario Politecnico, la più importante fra le università ucraine. Tutti i paesi dell’Est europeo soffrono della totale mancanza del sapere più elementare in materia spirituale, a causa del vuoto lasciato in eredità dall’epoca sovietica.
Un altro scopo del Centro è la fondazione, in un futuro abbastanza vicino, di una nuova casa editrice, la “San Clemente”, la quale pubblicherà nella traduzione ucraina e russa degli agevoli volumetti (che presenteranno alcuni classici del pensiero teologico del nostro tempo). Una collana del tipo “Farsi un’idea”, dedicata proprio all’ambito del pensiero spirituale. Fra gli autori previsti ad essere pubblicati per primi: Yves Congar, Hans Urs von Balthasar, Jean Danielou, Tomas Spidlik, Enzo Bianchi ed altri ancora...
Ma lo scopo, se dobbiamo formularlo in una frase, è la creazione di un clima per la comunione, proprio nel suo senso originale di koinonia – oggi si potrebbe chiamare anche “ecumenismo nello spirito”. “Possa lo Spirito di Cristo risorto, - ha detto il cardinale Kasper durante l’apertura, - consentire al nostro cuore e alla nostra mente di recare i frutti dell’unità nelle relazioni tra le nostre Chiese, affinché possiamo servire insieme l’unità e la pace di tutta la famiglia umana. Possa lo stesso Spirito condurci alla piena espressione del mistero della comunione ecclesiale, che noi riconosciamo con gratitudine come un dono meraviglioso di Dio al mondo, un mistero la cui bellezza rifulge specialmente nella santità alla quale siamo tutti chiamati. Ed il centro di San Clemente dovrebbe diventare un segno di speranza”.
Nello stesso giorno durante il ricevimento a casa del metropolita Vladimir, il metropolita stesso ha fatto un brindisi per coloro che lavorano per l’unità. Il suo tono era sobrio, ma pieno di speranza. “Noi lavoriamo per l’unità, ma non riusciremo a fare tutto durante la nostra vita. Tuttavia il nostro lavoro sarà compiuto da coloro che attraverseranno i ponti costruiti da noi”.
Il buddismo offre attraenti metodi di lavoro su di sé. Ma è sempre ben compreso dagli Occidentali che tendono ad applicarvi delle categorie che non sono necessariamente le sue?
I. LA MISTICA MEDIEVALE IN INGHILTERRA
Anche in Inghilterra la mistica ha vissuto nel medioevo un eccellente periodo di fioritura. Qui ricevette un impulso decisivo allorché monaci cistercensi vennero inviati dal loro abate Bernardo di Chiavaralle sull’isola, per diffondervi quella nuova religiosità «affettiva» che considerava come vertice della vita cristiana la dedizione d’amore dell’anima alla persona del Dio fatto uomo. Ancora oggi chi viaggia per l’Inghilterra può ammirare le rovine impressionanti delle abbazie cistercensi di Byland, Fountains e Rievaulx (tutte nella contea dello Yorkshire).
«Andate, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo tutte le genti» (Mt 28, 19).
Due brevi precisazioni sulla terminologia di questa frase. Battezzare è sommergere qualcuno nell’onda vivificante e purificatrice. L’onda in cui i credenti son chiamati a sommergere l’umanità è il Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Cos’è il Nome? Per gli antichi, il nome non era un qualcosa di convenzionale o di secondario, definiva l’essenza della cosa o della persona che lo portava. Per noi che valutiamo il nome dal punto di vista delle nostre lingue esclusivamente fonetiche, è molto difficile capire questa particolarità. Il nome divino specificato nelle sue tre personali componenti, sulle labbra di Cristo indica la viva realtà di Dio, avente un legame diretto con tutta la realtà cosmica, come Creatore, come animatore di vita e di ascesa, come compimento del faticoso e glorioso cammino della creazione nello sconfinato oceano dell’Amore.
Siamo chiamati a immergerci e a immergere in quest’onda divina tutto il creato! A vivere cioè nella consapevolezza che la creazione non è la risultante di un cieco impulso di cellule e di facoltà, ma il frutto di un intervento costante, a-temporale, sempre nuovo, la cui natura, pur sfuggendo alla coscienza razionale - tributaria com’è del tempo e dello spazio - è avvertita e creduta per la fede. A vivere nella certezza profonda che il tribolato cammino del creato non è abbandonato a se stesso, ma accompagnato da una Presenza che prende su di sé gli errori, i peccati, la morte, bruciandoli per trasformarli in germinazione di vita. A muoverci nella fiducia che l’esistenza creata, nonostante le sue tragiche ombre, le sue dure chiusure, le sue disperanti esperienze, un giorno sarà illuminata da una luce, una pace, una pienezza di gioia e di amore inimmaginabili.
Sì, il cammino è duro. La mèta sognata dalle più profonde esperienze umane è in contraddizione con l’esperienza normale. Immersi in una forma di coscienza embrionale, tortuosa, avida, aneliamo al possesso di Dio; legati a una mente incerta e oscura, sogniamo una luminosa e completa conoscenza; lacerati da guerre, ingiustizie, bramiamo trasformare le lance in aratri; aneliamo a una libertà assoluta e costruiamo delle società sempre più condizionanti; avendo un corpo fragile e caduco, nutriamo la speranza che la nostra mortalità si rivesta d’immortalità. La ragione, constatando il divario insormontabile tra l’ideale e la realtà, diffida degli elevati sogni e preferisce l’umile e dolorosa realtà, chiudendosi in più limitati orizzonti e in uno, apparentemente giustificato, scetticismo.
Noi che crediamo, che per la nostra fede vivente siamo chiamati ad accendere nei cuori i più folli sogni, ad annunciare la parola magica della speranza, a comunicare a tutti la coppa del vino migliore, non possiamo che continuare ad attendere e ad annunciare il compimento del miracolo della trasmutazione della morte nella vita, della coscienza imperfetta nella luminosa pienezza della coscienza vivente in Dio, della carne nello Spirito.
Nell’insufficienza dell’esistenza c’è il germe della redenzione e della pienezza della vita. Nelle tenebre esiste la luce che le consumerà, nelle strutture limitatrici un’energia liberante.
Sono sogni di una mente esaltata? Proviamoci ad avere pensieri immensi come l’immensità divina, rompiamo i nostri piccoli amori in un amore sempre più vasto, dilatiamo le nostre piccole libertà nella sconfinata libertà dei figli di Dio. E vedremo che la realizzazione di Dio, nell’intimo e nell’esteriore, è il più alto e legittimo senso della vita umana.
«L’annuncio trinitario», Ascensione del Signore, Anno A; in Risveglio della coscienza, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 81-82
di Mary Getui
Salvezza e guarigione sono in relazione l'una con l'altra, in quanto ciascuna di esse, ed entrambe, implicano una restaurazione laddove c'è stata rottura, un ritorno alla totalità, al benessere, alla salute e alla pienezza della vita.
Una prospettiva cristiana africana della salvezza e della guarigione deve prendere in considerazione la comprensione cristiana e il suo coinvolgimento in materia, così come la comprensione autoctona africana. I due sistemi dì credenze hanno molto in comune riguardo a ciò che la salvezza e la guarigione implicano, agli ostacoli sulla strada della loro realizzazione e del loro raggiungimento, ai passi necessari per affrontare tali ostacoli. Le differenze, se esistono, saranno più sulla diversità di accento. Questa discussione presenta un approccio collettivo, che puntualizza gli aspetti unici e appropriati.
Salvezza e guarigione sono centrate sull'apprezzamento e il rispetto per la vita come dono di Dio e per i beni e valori che contribuiscono alla pienezza della vita, come la buona relazione con Dio, la fertilità della terra, il cibo, la salute dei bambini e delle famiglie, il rispetto per la dignità umana, la sicurezza, la giustizia, la salute, la libertà dei prigionieri, il riso e la gioia, la speranza, l'unità, il lavoro, la vitalità e la spiritualità profonda.
Purtroppo, la situazione non può essere considerata ideale, dal momento che la pienezza della vita è assente o sperimentata parzialmente a causa della realtà dell'esistenza umana, caratterizzata dalla povertà, dalla fame, dalle malattie, dalla sofferenza, dalla disperazione, dalla desolazione, da relazioni familiari spezzate o conflittuali, dai conflitti etnici, a livello nazionale e internazionale, dalla devastazione dell'ambiente, dalle inondazioni, dagli incidenti, dai rifugiati, dalla solitudine, dalla mancanza di abitazione, dalla corruzione di massa e cronica, dalla decadenza morale e da carenti politiche di assistenza sociale.
Mentre la comprensione cristiana della salvezza enfatizza la dimensione individuale, quella autoctona africana riconosce che la vita è un ciclo che incorpora esseri vivi, quelli che non sono nati e persino i morti. I vivi hanno la grande responsabilità, mediante uno stile di vita morale retto, di preparare il cammino per una vita sana a coloro che non sono ancora nati. I vivi devono anche mantenere una relazione cordiale con coloro che sono morti, compiendo certi doveri, come quello di mantenere il buon nome della famiglia, di nuovo attraverso una vita morale retta.
La comprensione cristiana della salvezza non si limita alla realizzazione escatologica futura, ma la enfatizza. Il sistema di credenze africano vede la vita nella sua totalità, guidato dall'importante considerazione - indicata nei vari miti dell'origine/creazione - che la vita ha un inizio, un proposito e un destino dati da Dio.
L'amalgama di questi due sistemi di credenze si può riassumere nell'idea che la salvezza non è limitata al piano spirituale ma abbraccia la vita intera: la dimensione psicologica, mentale, emotiva, sociale e anche cosmica. Ciò si applica anche alla guarigione, che si riferisce non solo al benessere fisico dell'individuo, ma alla guarigione interiore e alla ricostruzione delle relazioni spezzate, come a una sana relazione con la natura. Per esempio, esistono vari tabù relativi all'uso sano delle risorse come l'acqua e la terra e al rispetto della flora e della fauna.
Le ragioni del perché l'ideale non si realizza e, pertanto, della necessità di guarigione e salvezza sono varie. Si possono ordinare su una scala che va dalla deviazione dal piano divino fino al modo in cui gli individui si relazionano con se stessi, con gli altri e con il mondo intero, tanto visibile quanto invisibile.
Nello sforzo di cercare la guarigione, si sono adottate varie soluzioni. Ci si può rivolgere alla medicina tradizionale, visitando ospedali e altre postazioni mediche create e amministrare dai missionari. Molto spesso, tuttavia, la gente si avvicina all'eredità culturale africana attraverso un intermediario e, segretamente, consulta curanderos che variano dagli indovini che indicano la causa dell'infermità agli erboristi o a qualunque altro specialista che offra una cura. Il rimedio può essere preventivo o curativo. La consultazione attraverso un intermediario o in segreto avviene perché molte delle principali Chiese tendono a condannare le pratiche curative indigene africane. Le Chiese africane carismatiche ed evangeliche accettano maggiormente le pratiche africane autoctone.
I servizi di guarigione nelle Chiese cristiane variano dall'imposizione delle mani agli infermi alle visite a persone malate in casa e all'ospedale, all'unzione con olio consacrato e acqua benedetta e altri simboli speciali. Considerando che la guarigione include altri aspetti della vita, le preghiere per la buona salute si applicano anche ad altre necessità, come ad esempio quelle di coloro che sono stati danneggiati socialmente perché la loro famiglia è stata distrutta o di coloro che sono stati abbandonati. Le preghiere legate alla cura o alla prosperità si rivolgono nel momento in cui la gente intraprende qualcosa di nuovo, come un nuovo lavoro, una nuova casa, o quando si celebra un matrimonio, un compleanno o un anniversario, quando si costruisce un nuovo edificio o quando si ara il campo per la semina, o quando si utilizzano nuovi strumenti di lavoro. Il rito della riconciliazione invoca anch'esso la cura. Tali servizi sono condotti principalmente da sacerdoti, ma è comune che anche i laici “unti” partecipino ad essi. La partecipazione di piccole comunità cristiane, gruppi di preghiera e di studio biblico è anch'essa considerevole.
Un elemento significativo della guarigione è dato dalle testimonianze di quanti hanno sperimentato o assistito a casi particolarmente straordinari di cure ricevute. Tra questi casi straordinari vi sono quelli che riguardano l'infertilità, le malattie croniche, le benedizioni ricevute sotto forma di lavoro o di matrimonio. Si esprimono certe riserve sul carattere genuino o fraudolento di queste cure. E questo continua a destare sospetti, ma la tendenza continua ad essere viva e in crescita.
Anche la salvezza ha creato controversie in circoli cristiani, quando viene interpretata come destinata unicamente a coloro che sono “nati di nuovo", perché hanno vissuto un'esperienza o una rivelazione speciale. Essi sono stati accusati di adottare un atteggiamento "più papista del papa". Ciò provoca conflitto e malintesi.
Risulta chiaro come da un contesto teologico africano la salvezza e la guarigione siano intimamente legate. La conclusione per entrambe è che ogni individuo riconosce e promuove la volontà di Dio per l'esistenza umana, che si percepisce come pienezza di vita nel passato, nel presente e nel futuro. E chiaro anche che la pienezza di vita può essere ostacolata o può rimanere incompleta a causa delle azioni umane e delle loro idee su Dio, su se stessi e sugli altri, inclusa la natura. Mentre la salvezza può essere più orientata verso la pienezza ultima della vita alla fine dei tempi, la guarigione è vincolata all'esistenza quotidiana.
(da Adista, n. 86, 02.12.2006, pp. 14-15)di Jon Sobrino
1. Introduzione - il bisogno di interpellanza alla chiesa odierna
I martiri, presi nel loro insieme come martiri gesuanici, che vivono e muoiono come Gesù, e come popoli crocifissi, che vivono e muoiono come il servo di Jahweh (1), offrono alla chiesa luce e salvezza, come è stato già detto in precedenti articoli. In questo contributo vogliamo insistere sul fatto che essi sono pure interpellanza, cosa che è buona e necessaria.
Paragonata a quella che è sorta dal Vaticano Il, la chiesa universale vive un processo di involuzione. Certamente ci sono numerosi gruppi di cristiani solidali con il dolore del mondo, profetici e utopici, che cercano di rinnovare lo spirito e la fede. E anche oggi vi sono alcuni martiri gesuanici, soprattutto in Africa. Ma nel suo insieme la chiesa si sta configurando come istituzione alla ricerca di una “pastorale del successo" (Pedro Trigo) che mantenga o le restituisca presenza sociale e una dimensione di massa. Per paragonarla a quella di Medellin bastano queste parole di J. Comblin:
“Oggigiorno l'impressione dominante è che la gran parte delle Chiese, nei pastori e nelle pecore, sta tornando al passato. Mantiene lo stesso linguaggio, ma la pratica è diversa. Torna alle sagrestie e alle case parrocchiali. Non ascolta più la voce delle maggioranze povere e ascolta di più il suo pubblico tradizionale, quello che partecipa al culto. La Chiesa torna a preoccuparsi di se stessa. Cerca di recuperare posizioni di potere culturale, politico e perfino economico. Torna ad alimentare i sentimenti religiosi, le emozioni. Non le manca la clientela, perché il modello neoliberale ha fatto crescere l'angoscia, la disperazione, l'insicurezza, lo sconcerto dei popoli” (2).
Per invertire questa involuzione non è sufficiente riconoscere che la chiesa è peccatrice, casta meretrix, e chiedere perdono nel modo in cui è stato fatto negli ultimi anni dal vertice ecclesiale; in quanto astratta e poco coinvolta, infatti, la confessione del proprio peccato è stata inefficace. La domanda è dunque cosa può interpellare la chiesa.
Indubbiamente può interpellarla Dio, ma, a causa della sua trascendenza, Dio può rimanere distante e la sua interpellanza rimanere inascoltata. E, come ogni creatura, la chiesa fa in modo che così sia. Anni addietro, in epoca di antimarxismo viscerale, ho scritto che “la chiesa non ha paura del marxismo, ma di Dio". Può pure interpellarla Gesù Cristo, presenza storica del Dio trascendente, ma anche Gesù Cristo può essere situato in una lontananza senza volto né vigore interpellante. E quando si presagisce che il suo avvicinarsi è reale, allora può succedere quanto è accaduto nella leggenda del grande Inquisitore: il cardinale arcivescovo di Siviglia dice a Cristo: “Signore, non tornare".
Ma la fede cristiana è ostinatamente incarnazionale. La chiesa deve confessare che Cristo è presente nell'eucaristia, nella celebrazione della parola, nella comunità, nei pastori. Ed essa può essere interpellata da tutto questo, anche se può disattendere queste interpellanze. Ma c'è un'ultima specificazione - che in realtà è la prima - della presenza di Dio e del suo Cristo: “Ha voluto identificarsi con speciale tenerezza con i più deboli e poveri" (i Documenti della Terza conferenza genera/e dell'episcopato latinoamericano, Puebla 1979, n. 196). I poveri sono la massima presenza di Cristo nella storia: “vicari di Cristo" venivano chiamati nel Medioevo. Essi, pertanto, sono buona novella ed evangelizzano la chiesa. Ma essi sono pure lamento e chiamano alla conversione (Puebla 1979, n. 1147). Il motivo formale è stato già detto: sono presenza di Cristo. Il motivo materia/e è che i loro lamenti non possono essere zittiti (i Documenti della Seconda conferenza generale dell'episcopato latinoamericano, Medellin 1968; I: Giustizia, 1).
Facciamo ancora un passo. I poveri e i loro lamenti trovano la massima manifestazione nei martiri - in quelli gesuanici e, soprattutto, nei popoli crocifissi -, e per questo essi hanno la massima capacità di interpellare la chiesa. Dal punto di vista quantitativo essi sono tanto numerosi che solo con cecità e sordità colpevoli è possibile ignorarli. Dal punto di vista qualitativo è tale l'orrore che manifestano, che sono in grado di scuotere coscienze - e spingere pure alla conversione. E, inoltre, non permettono di utilizzare la fallace scusa cui la chiesa è incline - solo Dio può interpellarla -, perché Dio è in loro.
L'interpellanza dei martiri gesuanici si verifica più puntualmente in determinate epoche della storia (gli anni successivi a Medellin sono stati una di queste epoche in America Latina, e pure in Africa e in Asia), anche se, per interpellare, rimane sempre il loro ricordo. L'interpellanza dei popoli crocifissi e permanente, come lo è il mysterium inquitatis che permea la storia.
Abbiamo fatto un piccolo carosello teologico per mostrare quale sia la radice più profonda ed efficace dell'interpellanza alla chiesa, anche se questa radice - poveri, vittime e martiri - è palmare per qualunque cuore di carne. E tuttavia ci è sembrato importante farlo, tenendo conto che si tratta di interpellare la chiesa. Questa non può difendersi da una interpellanza che viene da loro, perché sono loro la massima presenza di Dio. E dato che l'interpellanza proviene da loro, e non da altro, l'interpellanza di fondo non verterà su alcunché di generico, ma sul nucleo stesso della fede cristiana: la misericordia, l'amore e la difesa del povero, l'identificazione con le vittime.
La conclusione è che la chiesa può essere interpellata e, come diceva mons. Romero, ne ha bisogno: “Abbiamo bisogno che qualcuno serva da profeta anche a noi, perché ci chiami alla conversione, perché ci impedisca di collocarci in una religione ormai del tutto intoccabile" (Omelia dell'8 luglio 1979) (3).
E, per finire questa introduzione, diciamo che, secondo quanto affermato, la prima e fondamentale interpellanza alla chiesa verte sul fatto stesso se essa sia o meno disposta a lasciarsi interpellare. Su cosa? Se somiglia o no a Gesù, se segue Gesù nella sua incarnazione, missione, croce e risurrezione. Vediamo.
2. Prima interpellanza: l'incarnazione, "superamento della irrealtà”
In questo terzo millennio la situazione delle masse del nostro mondo è miserabile. Vivere continua ad essere il loro impegno più difficile, e morire - nel proprio corpo, nella propria dignità, nella propria cultura, nel proprio spirito - la sorte più vicina. Orbene, la prima cosa che la chiesa deve fare per divenire "reale” e incarnarsi in questa realtà.
Una tale incarnazione non è facile per la chiesa anche se, partendo dalla sua fede, l'esigenza dovrebbe essere ovvia e fondamentale. Il Prologo di Giovanni esprime la volontà di Dio stesso di essere reale nel nostro mondo, volontà che consiste non solamente nel farsi storicamente carne, ma nel farsi carne debole. E, nel linguaggio della cristologia conciliare, la realtà assunta dal Figlio non è semplicemente l'humanitas, ma la sàrx, ciò che nella carne è debolezza. E nel cristianesimo trascendenza è in ultima analisi trans-discendenza (L. Boff). E questa discendenza non è solo diventare "l'altro", ma "il debole e piccolo".
Ciò a livello teorico è basilare, ma non suole esserlo nella vita della chiesa. Anche per essa - e non solo per la cristologia - il problema più grande è il docetismo (W. Kasper), ovvero crearsi un proprio ambito di realtà - dottrinale, liturgica, canonica - che la renda distante e così possa difenderla dal mondo reale, soprattutto dalle sue croci. Superare questo docetismo non è facile, ma almeno bisogna essere coscienti di quanto siamo inclini a cadervi e di quanto siamo assopiti dinanzi a questa realtà. E allora bisogna essere aperti all'interpellanza che Antonio Montesinos ha fatto cinque secoli fa: "Come è possibile che siano addormentati in un sonno letargico così profondo?".
Come aprire gli occhi alla realtà e superare questo docetismo che diventa quasi un esistenziale storico? Il miracolo può essere fatto dai popoli crocifissi che gridano con gemiti inenarrabili e invitano ad abbassare lo sguardo. E i martiri gesuanici ce ne danno un esempio. Perché non ci siano pretesti, questi mostrano le diverse maniere di farlo nel mondo attuale: Martin Luther King nel contesto di un movimento sociale, Silvia Arriola [religiosa salvadoregna, assassinata] nel contesto di una comunità popolare, Ignacio Ellacuria nel contesto universitario.
Per mons. Romero era evidente che la chiesa dovesse essere, innanzitutto, "reale". Con parole estreme, alcune davvero tremende, soleva dire: "Sono contento, fratelli, che la chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e per il suo tentativo di incarnarsi nell'interesse dei poveri" (15 settembre 1979). "Sarebbe triste che in una patria dove si sta assassinando in modo così orrendo non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una chiesa incarnata nei problemi del popolo" (24giugno 1979).
Chi scorgesse in queste parole sacrificalismo o masochismo non ha compreso né come era la realtà salvadoregna di allora né la profondità della scelta di mons. Romero nei confronti di questa realtà. Ciò che mons. Romero veniva a dire è che una chiesa che non è povera in tempi di povertà, che non è perseguitata in tempi di persecuzione, che non è assassinata in tempi di assassinii, che non si coinvolge in tempi di impegno e non incoraggia ad esso in tempi di indifferenza, che non ha speranza in tempi di speranza e non incoraggia ad essa in tempi di disincanto, non è una chiesa reale, ma una chiesa docetista. Va bene formulare l'ideale della chiesa come quello di una chiesa santa, autentica... Ma innanzitutto, l'ideale è il minimo-massimo di essere una chiesa reale.
Della chiesa di mons. Romero si potrebbe dire che era una chiesa con limiti, errori e peccati, ma ciò di cui non si potrebbe dubitare è che fosse una chiesa "salvadoregna", "reale". E perché partecipava non solo alla sofferenza della realtà salvadoregna, ma pure al suo spirito e alla sua creatività. "Voi, una chiesa così viva, così piena di Spirito!". Era una chiesa salvadoregna, segnata dalla generosità e dall'impegno della sua gente.
Superare il docetismo non è mai stato facile. La vera umanità di Cristo, pur essendo evidente nel Nuovo Testamento, è stata definita a Calcedonia (451) molti anni dopo che ne era stata definita la divinità a Nicea (325), che non era così evidente. C'è qualcosa di profondo che ci fa propendere verso il docetismo. Al suo superamento ci invitano e ci spingono i martiri: il popolo crocifisso in se stesso è un grido a volgere gli occhi su questa realtà, i martiri gesuanici insegnano ad abbassarsi a questa realtà.
3. Seconda interpellanza: la missione, "compassione verso la realtà
Medellin e Paolo VI nella Evangeli nuntiandi (n. 30) hanno fatto della liberazione integrale un elemento essenziale alla missione della chiesa. Vogliamo ora ricordare due caratteristiche di questa missione di liberazione, non per riprodurle oggi meccanicamente, quanto per raccogliere il pathos di quella missione che sta morendo la morte di mille scuse.
La prima caratteristica è la salvezza di un intero popolo. Mons. Romero è stato definito da Ignacio Ellacuria "un inviato di Dio per salvare il suo popolo" (4), e lo stesso arcivescovo ha visto se stesso come portavoce della parola di un intero popolo, un "essere voce per i senza voce" (29 luglio 1979). Ignacio Ellacuria insisteva sull’"invertire la storia, sovvertirla e lanciarla verso un'altra direzione" (5), e ha formulato l'utopia come una nuova "cultura della povertà" (6).
Il tentativo di lavorare per "un intero popolo" può - o ha potuto - essere più facile empiricamente in alcuni posti (America Latina) piuttosto che in altri, laddove i cristiani sono minoranza, e in alcune epoche, due decenni addietro, piuttosto che ora. Ma ciò che qui vogliamo sottolineare è l'orizzonte della missione, capace di coinvolgere e inglobare ciò che è vita e dignità delle maggioranze oppresse: il regno di Dio, la famiglia umana. Le chiese, grandi o piccole, devono tenerlo in considerazione e agire da lievito efficace. Questo è stato l'orizzonte di molte chiese, quella del Brasile per esempio; ma la tendenza odierna è quella di concentrarsi e di favorire la salvezza individuale, al massimo familiare -buona e necessaria -, più che quella di un popolo, ossia la salvezza interiore più che quella storica.
La seconda caratteristica è il pàthos dialettico, profetico. All' annuncio del regno era consustanziale la denuncia dell'antiregno, e così si originava il conflitto. Oggigiorno la missione non mette la chiesa, nel suo complesso, in seria opposizione al mondo oppressore, anche se vi sono alcune scaramucce. Su tutto ciò può essere che stiano esercitando il loro influsso la postmodernità, con la sua allergia verso i grandi racconti, e l'ideologia della globalizzazione, che ignora ciò che è dialettico per canonizzare - quasi sempre ipocritamente - il dialogo e la tolleranza, che quasi per necessità degenerano in indifferenza nei confronti dei poveri. Ma una chiesa che non è dedita alla difesa dei popoli, che non lotta né entra in conflitto per questo, diventa una setta chiusa o forse anche una istituzione di massa, ma certamente disinteressata alla realtà, un nuovo tentativo di cristianità socio-culturale.
E tuttavia, non può sparire la memoria sovversiva interpellante. Dove sono la profezia, le omelie e le lettere pastorali degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Dov'è l'abbassarsi verso i poveri, il condividere la loro impotenza e il loro destino? Insomma, dov'è quel primo amore della chiesa del Vaticano II, rispetto alla dignità del cristiano all'interno della chiesa, e soprattutto della chiesa di Medellin, rispetto all'essere chiesa dei poveri?
È evidente che le cose cambiano, ma né la realtà né il vangelo sono cambiati in tal guisa che il vecchio pathos sia ormai irrilevante. Questo pathos di liberazione, utopico e profetico, non è altro che la compassione che consegue allo stare di fronte ai popoli crocifissi. Non che la chiesa non abbia più nulla di tutto questo, ma essa rimane più a livello etico che profetico, cerca il dialogo con altri poteri e rifugge dal conflitto con essi, parla molto di nuova evangelizzazione ma poco della dimensione agonistica della missione, parla di comunità ecclesiale ma poco del regno di Dio come mensa di condivisione che mette al centro i poveri. Comblin lo ha affermato con forza - e ironia: "Si continua a ripetere il discorso dell'opzione preferenziale per i poveri, ma la pratica è altra cosa. Sono parole... Words, words, words... Una volta le parole esprimevano ciò che si diceva" (7).
Oggi, ovviamente, vi sono compiti nuovi nella missione: genere, indigeni, afroamericani, rifugiati, AJDS, ecologia, dialogo interculturale e interreligioso... E nello sguardo dall'oggi si scoprono i limiti della visione precedente. Comblin, per esempio, riconosce che la teologia della liberazione "non ha dedicato attenzione sufficiente al vero dramma delle persone umane, al loro destino, alla loro vocazione e, di conseguenza, al fondamento della loro libertà" (8). Ma una cosa è riconoscere le novità del presente e i limiti del passato, altra è ignorare il pàthos di cui prima era impregnata la missione: misericordia e verità, in opposizione all'assassinio e alla menzogna (Gv 8,44).
Recuperare questo pàthos non è facile. Vi possono pure essere - e vi sono - masse di poveri che non sono neppure interessate a ciò. Non va dimenticato che la chiesa ha fatto una opzione per i poveri, ed essi se ne sono andati, in buona parte, nelle chiese pentecostali. Ma ciò non deve servire da scusa per non riprendere il pàthos di Medellin. "La chiesa dei poveri è latente. Una nuova circostanza può portarla nuovamente alla superficie della storia. Medellin riapparirà nuovamente domani come nuovo avvenimento ecclesiale" (9). La questione è se nella chiesa ci sia questo convincimento.
Mantenere vivo il pathos del Vaticano Il e, dalla nostra prospettiva, il pathos di Medellin soprattutto, è un problema basilare per la chiesa odierna, e a questo spingono i martiri. I martiri gesuanici non hanno dato la loro vita solo per cose buone, ma per qualcosa di più profondo: la salvezza di un popolo. I popoli crocifissi continuano ad attendere dalla chiesa compassione, che lavori e lotti - insieme a molti altri - per farli scendere dalla croce. Di elemosine e piccoli aiuti, di parole compiute a metà o incompiute, di disinteresse o disprezzo, di illusori orizzonti della globalizzazione che li emargina hanno avuto già a sufficienza. E non va dimenticato che nel portare a compimento la missione in un modo o in un altro la chiesa si gioca la propria identità; infatti "non e la chiesa a creare la missione, ma la missione a creare la chiesa" (J. Moltmann).
4. Terza interpellanza: la croce, farsi carico del peso della realtà
La realtà è un carico pesante per i milioni di vittime e diventa carico oneroso per coloro che solidarizzano con esse. I popoli crocifissi sono espressione della prima e i martiri gesuanici della seconda. Su quest'ultimo concetto vogliamo insistere ora.
Per i martiri farsi carico della realtà non è stato masochismo né mero desiderio mistico di identificarsi con il Cristo crocifisso, ma la conseguenza derivante dal seguire quel Cristo, ovvero dal praticare la misericordia sino alla fine, e pertanto senza rifuggire da conflitti e rischi. In un certo senso la pretesa di Gesù ("Prendi la tua croce e seguimi") è tautologica: essere e fare come lui - seguirlo - porta a farsi carico di ciò di cui egli si è fatto carico - la croce.
In questo senso "croce" è la sofferenza e la morte che sopraggiungono per difendere l'oppresso e lottare contro l'ingiustizia, e proviene dalla volontà di incarnarsi nella conflittualità della realtà ingiusta. Analogamente, "croce" può esprimere altre sofferenze, angosce, malattie, insuccessi, disincanti, paure, che talora possono perfino essere più dolorose di quelle che provengono dalla lotta per la giustizia.
Ciò dovrebbe essere chiaro partendo dalla tradizione biblico-gesuanica. La storia è segnata da un conflitto teologale tra un Dio della vita e gli idoli di morte che esigono vittime per sopravvivere. Nella teologia di Giovanni il maligno non è solo "cattivo", ma pure "assassino". Per così dire il male è più che male, ha il potere di distruggere coloro che lottano contro di esso. La grande aporia della storia è che il peccato ha potere e, se la questione si pone così, la chiesa deve prendere posizione nei confronti di un male che è conflittuale.
Ciò avviene in alcune circostanze, e certamente è accaduto in America Latina in epoche passate: la missione della chiesa era essenzialmente conflittuale, al di là delle psicologie, per il fatto di essere incarnata nella realtà e per il fatto di difendere le vittime. Ma oggi c'è un deficit di tutto ciò. Ci possono essere scontri verbali tra gerarchia e poteri, ma le parole sono ordinariamente scelte in tal guisa che vi possono essere parole e testi conflittual4 ma non ci sono molti conflitti reali. Ci sono delle eccezioni come, solo per menzionare vescovi martiri, mons. Gerardi in Guatemala, mons. Isaías Duarte in Colombia, mons. Munzihirwa nella Repubblica democratica del Congo, ma nel suo complesso la chiesa non si fa carico oggi di croci notevoli per dire ciò che dice né fare ciò che fa, a differenza di quanto è accaduto anni addietro. E neppure canonizza questi e molti altri martiri dei nostri giorni - cosa che pure le causerebbe conflitti con i loro assassini ancora viventi. Di più, talora cerca il ritorno a una certa armonia con i poteri di questo mondo. In America Latina molte nomine di vescovi sono state guidate da questa logica.
Si ripete oggi che non bisogna essere anacronistici, ma noi aggiungiamo che non bisogna essere acritici e neppure autoingannarsi. Sia la fede cristiana che la realtà storica continuano ad essere onerose e conflittuali. Comunque qualcosa bisognerà mantenere della parresia paolina, coraggio, audacia e fiducia, e non cadere nella vigliaccheria. Non vi esibito un cristianesimo fanatizzato, ma ancor meno un cristianesimo annacquato, che in ultima analisi potrebbe parlare allo stesso modo con le vittime e con i loro carnefici Non bisogna fare del cristianesimo una "grazia a buon mercato" che, come diceva Bonhoeffer, è il suo più grande pericolo. Non bisogna introiettare subliminalmente che la croce (e, logicamente, anche la risurrezione) sono cose buone nella liturgia e nella devozione privata, ma che non dicono nulla di serio sulla realtà di cui la chiesa deve farsi carico. In questa situazione i martiri ci interpellano e ci incoraggiano a farci carico della croce della realtà, e con ciò fanno un gran bene.
In primo luogo bisogna ricordare che, seppure non si tratti di una verità filosofica universale (ma certamente di una verità biblica e cristiana), per redimere il male esso va combattuto non solo dall'esterno, con tutti i mezzi legittimi ed efficaci, ma pure dal di dentro, facendosi carico di esso. Se non si accetta questo, vana è la parola di Dio sul servo sofferente e su Cristo crocifisso.
In secondo luogo, farsi carico della croce procura alla chiesa credibilità, cosa che non si consegue in alcun altro modo, e invera che la chiesa sta agendo cristianamente; infatti se non le accade, in maniera notevole, quanto è accaduto a Gesù, non si vede per quale ragione essa debba essere compresa e accettata come chiesa di Gesù. Così pensava mons. Romero: "Una chiesa che non soffre persecuzione, ma che sta godendo dei privilegi e dell'appoggio della terra, questa chiesa abbia paura! Non è la vera chiesa di Gesù Cristo" (11 marzo 1979).
A volte abbiamo eccellenti esempi di assunzione della realtà, rimanendo immersi in essa pur, nella consapevolezza che essa scaricherà tutto il suo peso. E il caso dei sette monaci trappisti di Thibirine (Algeria) che, nonostante le minacce, sono rimasti nel loro monastero, trasformato dal priore Christian de Chergé in un centro per il dialogo cristiano-islamico. Sono stati sequestrati e poi, il 26 maggio 1996, assassinati. Pur conoscendo quale sarebbe stato il loro futuro essi sono rimasti là. Sono stati "reali" fino all'estremo. Questo esempio, come le citate parole di mons. Romero, costituiscono ovviamente un caso limite, ma sono un esempio di come i martiri incoraggino - ordinariamente in modo più modesto - a farsi carico della realtà.
L'invito a "farsi carico della croce" è tanto antico quanto il cristianesimo. Non è mai stato facile ieri, e non lo è oggi. Ma almeno questo invito dovrebbe rimanere chiaro nella teoria cristiana e non si dovrebbero cercare strade per eliminarlo. E questo, che non è mai stato un compito facile, è ciò che viene reso facile dai martiri; ad ogni modo, essi ci interpellano al riguardo. Se i popoli crocifissi non muovono la chiesa a farsi carico della loro sofferenza e a partecipare al loro destino, nessuno sarà in grado di farlo. Se i martiri gesuanici non persuadono del fatto che l'amore più grande è possibile e umanizzante, e che passa dal farsi carico della croce della realtà, nessuno sarà in grado di farlo.
5. Quarta interpellanza: la risurrezione, “lasciarsi portare dalla realtà"
Formuliamo questo concetto in simmetria con il linguaggio precedente. I martiri ci interpellano-invitano pure a partecipare della risurrezione di Gesù.
Nella realtà c'è peccato; per questo essa è onerosa e bisogna farsene carico. Ma nella realtà c'è pure grazia; per questo essa è forza e può farsi carico di noi. I martiri - e tutta la gente buona lungo la storia - impregnano la realtà di amore e verità, cosa che rende questa più leggera perché ce ne facciamo carico, e la rende potente perché essa si faccia carico di noi. Per questo motivo non parliamo ora solo di interpellanza - scossone, messa in discussione -, ma pure di invito - offerta di grazia. Anche se aggiungiamo che, sebbene lo sembri, neppure è facile lasciarsi prendere in carico dalla realtà, perché sempre appare con vigore la hybris, l'arroganza degli uomini, il loro non lasciarsi donare. E per questo bisogna continuare a parlare di interpellanza.
Mettiamo ciò in rapporto con la risurrezione. Questa realtà impregnata di amore e verità rende possibile che possiamo già vivere come risorti nelle condizioni della storia. Per non cadere in forme angelicali ricordiamo che dal Risorto non sono sparite le piaghe, e ancor meno spariscono quelle di coloro che vivono la risurrezione nella storia. Non si trasformano in sostanze celesti. Ma una realtà di dono rende possibile il vivere con amore la sequela di Gesù, con la sfumatura di "pienezza e vittoria" che la risurrezione aggiunge. In termini storici questo significa, per la chiesa e per la vita dei cristiani, vivere con liberta, come trionfo sull'egocentrismo e l'egoismo, in maniera tale che nulla sia di ostacolo per fare il bene. Vivere con gioia, come trionfo sulla tristezza, in maniera tale che la sofferenza non produca amarezza ma purificazione. Vivere con speranza contro la rassegnazione, in maniera tale che il mistero dell'iniquità, l'ancora-no, il certamente-no, il disincanto, non seppelliscano la promessa... In questa libertà, in questa gioia e in questa speranza c'è già come un riflesso della risurrezione.
Questo è l'invito che i martiri fanno alla chiesa. E per tutto ciò l'interpellanza ultima è a non dimenticare. Non per il loro interesse - perché essi non vivono più in una struttura di egoismo -, ma per bisogno della chiesa.
6. Conclusione
Su questo bisogno diciamo una parola finale. Il Vaticano II ci ammoniva a far attenzione che "in questa genesi dell'ateismo possono avere non piccola parte gli stessi credenti che […] hanno velato più che rivelato il genuino volto di Dio" (GS 19). E con parole più forti la Scrittura denuncia: "Per causa vostra il nome di Dio è bestemmiato fra le nazioni" (Rm 2,24).
Orbene, i martiri gesuanici non hanno velato il volto di Dio: con la loro vita e la loro morte lo hanno rivelato. In chiese di martiri non si bestemmia il nome di Dio, ma lo si benedice o, almeno, lo si rispetta. A partire da loro si può dire con gratitudine: "A causa vostra il nome di Dio viene benedetto tra i poveri". Questo per quanto concerne il mondo che guarda alla chiesa.
Per ciò che riguarda i popoli crocifissi, che pure hanno lo sguardo rivolto alla chiesa, solo una chiesa di martiri gesuanici che si lasci coinvolgere da loro e ne raccolga l'eredità avrà credibilità dinanzi ai popoli crocifissi e manterrà viva la loro speranza nel tentativo di deporli dalla croce.
(traduzione dallo spagnolo di Mauro Nicolosi)
Note
1) Su questa distinzione, cf. il nostro articolo in Concilium 1, 2003: Il nostro mondo. Crudeltà e compassione, pp. 21-32.
2) J. COMBLJN, Medellin ayer, hoy y mañana, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79s.
3) [Cf O. ROMERO, Il mio sangue per la libertà di El Salvador. Le omelie dell'arcivescovo di San Salvador ucciso nella cattedra/e, Eurostudio, Milano 1980].
4) Cf I. ELLACURÌA, Monseñor Romero, un enviado de Dios para salvar a su pueblo, in Revista Latinoamericana de Teologia 19 (1990) 5-1 0.
5) ID., El desafio de las mayorias pobres, in Estudios Centroamericanos 493-494 (1989)1079.
6) ID., Utopia y profetismo desde América Latina, in Rivista Latinoamericana de Teologia 17 (1989)164-184.
7) J. COMBLIN, Medellin, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79.
8) ID., Called For Freedom, Orbis Books, Maryknoll/N.Y. 1998, 197.
9) ID., Medellin, cit., 81.
(da Adista, n. 30, 12.04.2003, pp. 9-13)