Famiglia Giovani Anziani

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Martedì, 24 Gennaio 2012 12:46

Comunità d'accoglienza. Che fine faranno?

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Alla fine degli anni 70 in Italia fu un fiorire di comunità di accoglienza. Quasi in ogni città ci fu qualcuno (sacerdote, religioso, religiosa, laico) che attivò sul proprio territorio una comunità per accogliere minori, giovani tossicodipendenti, ragazze madri, stranieri, prostitute, malati psichiatrici, malati di aids...

Lo schema del loro sorgere fu quasi sempre uguale: un iniziatore (fondatore/fondatrice) che si attiva per una sensibilità propria, circondato da giovani che credono nella sua idea, per offrire risposte che allora, né i servizi sanitari, né quelli sociali avevano previsto. Le origini sono sempre molto umili, fatte di poche cose, abitazioni sistemate alla meglio, un coraggio propositivo molto alto.

Da subito le caratteristiche di queste iniziative seguono tre filoni di indirizzo: la prima pedagogica, fondata sulla relazione, con un sistema di operatori e di regole adeguate a ridare autonomia e dignità alle persone, curando molto la futura prospettiva di vita. La seconda, più scientifica, a cavallo tra la psicologia e la psichiatria: molto spesso la malattia nascosta procura disagio; è necessario seguire un percorso terapeutico per ridare salute fisica e psicologica. Infine, quella più carismatica: una risposta che trova fondamento sull'autorità del capo che infonde una sua propria linea di vita; ambienti molto tutelati, schemi di vita dettati facendo appello all'esperienza e all'intuizione del fondatore.

Pochi anni più tardi si costituiranno vere e proprie Federazioni: CNCA, CEIS, FICT, Comunità Incontro, Comunità Papa Giovanni; San Patrignano, Saman... I risultati furono molto positivi, poiché si sono inventate nuove forme di assistenza, affrontando problemi - soprattutto la tossicodipendenza - trattati allora con schemi semplicemente repressivi.

I numeri delle persone accolte e di quelle impegnate furono significativi. La forza propulsiva di quel movimento ebbe i suoi effetti. Il mondo istituzionale, ma anche quello delle famiglie, della società civile e della comunicazione si accorsero e approvarono, solidarizzando, quelle intuizioni allora coraggiose. Quelle iniziative fecero capire che il vecchio sistema assistenziale era definitivamente tramontato. accorrevano nuovi approcci e soprattutto una nuova concezione del disagio per dare risposte efficaci.

Il sistema aveva però una falla: essere parcellizzato in mille rivoli di peculiarità che facevano di ogni comunità una sua irrepetibile storia.

Due esempi concreti

Sono accaduti recentemente due episodi molto distanti tra loro per collocazione e per contenuti che possono far riflettere sulla forza e sulla debolezza, in prospettiva, delle comunità di accoglienza.

A Trentola Ducenta a un "gruppo famiglia" facente parte della Comunità di Capodarco "La Compagnia dei felicioni" è stato intimato lo sfratto dalla casa dove abitano. È un bene confiscato alla mafia e affidato al comune di Trentola. Il sindaco ha deciso, appena eletto, di non dover più rinnovare il comodato: senza motivazioni, ma semplicemente perché – a suo dire - essendo un bene a discrezione del comune, aveva la libertà di deciderne le sorti secondo le proprie convinzioni. Nessun appunto alla gestione, nessuna critica o rimprovero, ma semplicemente la propria libertà di destinare: in un territorio a grande rischio di trasparenza non è difficile immaginare i veri motivi della decisione assunta. Il vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, ha sentito il dovere di essere solidale con la comunità, per dare la propria concreta disponibilità a far proseguire l'iniziativa.

In tutt'altro ambito i giornali hanno dato comunicazione dell'abbandono di Andrea Muccioli dalla guida di San Patrignano, dopo sedici anni di responsabilità dopo la morte del padre Vincenzo. Chi guiderà la comunità non è dato ancora sapere: molto dipenderà anche dalla famiglia Moratti che da sempre finanziava comunità.

Due episodi che dimostrano come le comunità di accoglienza siano in balìa di variabili difficilmente gestibili. Nel primo episodio la mancanza di una struttura patrimoniale solida, nel secondo la mancanza di un'organica gestione della comunità stessa.

La storia delle comunità è intrecciata di situazioni simili. Riflettere sulla cronaca degli ultimi trent'anni su un fenomeno che - a nostro parere - ha rivoluzionato la concezione stessa dell'accoglienza, è molto utile.

La reazione istituzionale

Quando le comunità di accoglienza iniziarono a sorgere in Italia, la reazione da parte delle istituzioni pubbliche fu di perplessità e sospetto.

Il motivo di tale diffidenza era insito nel seme nuovo che queste iniziative portavano: prime fra tutte il Gruppo Abele di Torino (1965) e la Comunità di Capodarco (1966).

Per la prima volta veniva capovolto lo schema assistente-assistito; malato-sano; normale-emarginato. Il punto di partenza era la persona che aveva problemi: per questo occorreva accoglierla e aiutarla per realizzare i propri sogni di integrazione. Non a caso si iniziò a parlare di condivisione. Il mondo assistenziale della fine degli anni 60 veniva invece dagli istituti, dai collegi, dalle carceri, dalle strutture chiuse che miscelavano custodia e insignificanza.

Le risposte assistenziali grezze di quegli anni, comunque fornite da enti pubblici e da strutture private, furono colte da sorpresa, non escluse quelle di origine religiosa. Fu per questo motivo che non fu facile vincere pregiudizi e resistenze. Sarebbero occorsi anni per farsi accettare e per condividere un'impostazione che offriva futuro e che era improntata alla valorizzazione delle persone.

Agli inizi degli anni 80 ci fu una vera e propria "esplosione" di iniziative che, accogliendo la nuova linea di risposta sociale, affrontarono i vari ambiti di disagio: dall'handicap fisico e mentale alla malattia psichiatrica; dal mondo dei minori a quello della dipendenza; dalle carceri agli stranieri; dalla prostituzione ai senza fissa dimora.

Ma tutte le iniziative nacquero "spontaneamente": su spinta di qualcuno particolarmente sensibile al problema che, magari occasionalmente, aveva incontrato nella sua vita.

La stragrande parte delle comunità proveniva dal mondo cattolico: preti, religiosi e religiose che, singolarmente, affrontarono il problema, convivendoci quotidianamente.

Quando il fenomeno divenne diffuso e anche indispensabile, iniziò la cosiddetta "regolamentazione" delle risposte. Per poter agire occorreva rispettare "standard" fissati dalle varie regioni. Da quel periodo (fine anni 80) si può dire che terminò il periodo epico delle comunità, per trasformarsi in strumenti gestionali, sempre più stretti da regole e da limiti.

E' il periodo che le comunità stanno vivendo, dovendo affrontare climi molto diversi da quelli delle origini. La gestione delle strutture esige regolarità con risorse finanziarie, accordi e convenzioni, formazione degli operatori adeguati. Una gabbia regolamentare alla quale non si sfugge: nemmeno per aprire una mensa dei poveri.

Da un punto di vista pastorale

Pastoralmente le iniziative delle comunità furono accolte con freddezza, anche se non osteggiate. Solo alcuni vescovi e superiori religiosi furono vicini, più per stima dei singoli che per approvazione delle iniziative. Una grande solitudine pastorale ha circondato la vita delle comunità. Sostanzialmente per due motivi. Il primo derivante dallo schema classico delle cosiddette "opere di carità" attivate dal mondo cattolico, che prevedeva lo schema dell'assistenza, combattuto dalle nuove comunità; il secondo dall'indipendenza - in questo caso voluta - dei vari fondatori che non accettavano interferenze di sorta da parte dell'autorità religiosa.

Anche se non ci fu un formale coinvolgimento nell'azione pastorale,molte comunità parrocchiali, associative e singoli sacerdoti e fedeli furono accanto alle comunità che nascevano. Diventarono spesso punto di riferimento per "i problemi" che pure nella periferia delle parrocchie si presentavano. Le comunità di accoglienza sono rimaste dunque elemento marginale, nemmeno significativo, dell'azione pastorale della Chiesa in Italia.

L'attenzione pastorale degli anni 80 e 90 fu tutta rivolta all'aggiornamento della sacramentaria, della catechesi, della liturgia. Unica eccezione fu il convegno ecclesiale di Palermo (1995) dal titolo Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia, anche se nessuno dei protagonisti delle comunità ebbe un ruolo significativo. Al termine dei lavori di quel convegno, fu presentato il "Progetto culturale della Chiesa in Italia" che, voluto dal card. Ruini, metteva l'accento della presenza politica dei cattolici in Italia, piuttosto che una presenza "fattiva e testimoniale".

Infine, il nascere e l'espandersi dei cosiddetti "movimenti ecclesiali" (neocatecumenali, focolarini, ciellini...) oscurò definitivamente le "piccole iniziative" sparse sul territorio che si occupavano di marginali. L'unica eccezione fu la Caritas italiana che ha avuto un'attenzione particolare per le comunità di accoglienza, almeno fino a che (1996) non le fu tolta autonomia e classificata come "ufficio" della Cei.

Il futuro

Non è facile prevedere il futuro delle comunità di accoglienza. I cosiddetti fondatori hanno reagito in maniera diversa: chi ha passato la mano, affidando a coloro che collaboravano la gestione della comunità; chi si ostina a rimanere al timone, pur avendo superato ampiamente l'età adeguata; chi non ha predisposto nulla. L'unica speranza è che le comunità siano sufficientemente strutturate e solide; in caso contrario, scompariranno, come già molte sono scomparse.

Da parte delle istituzioni occorre allentare la gabbia degli obblighi. Caricare di paletti e obblighi anche le più piccole strutture non le aiuta a vivere e soprattutto non aiuta coloro che sono a loro affidati.

Da parte della Chiesa italiana è forse giunto il momento di dedicare attenzione a realtà che, pur nella loro frammentarietà e provvisorietà, hanno agito in nome della fede dell'unico Signore, svolgendo una missione molto nobile: dare rispetto alla vita di ognuno, al di là di ogni condizione. Una risposta evangelica molto forte, anche se a volte scomoda.

Nella prima lettera ai Corinti (12,27-31), in uno degli elenchi dei carismi, san Paolo scrive: «Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue».

Di quel "dono di assistenza", forse, si è troppo poco tenuto conto.

Vinicio Albanesi; da: settimana anno 2011, n. 32, pag. 5

 

Letto 3957 volte Ultima modifica il Mercoledì, 29 Febbraio 2012 10:40

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