Uno spazio nostro - Ecco un primo aspetto: perché diciamo "permesso?", quando entriamo da estranei in una casa? Perché riconosciamo che è territorio dell'altro; se l'estraneo vi entrasse senza chiedere permesso, si comporterebbe da invasore, da occupante. Qualcuno di noi ha ancora nello sguardo di bambino l'arroganza dei soldati tedeschi che spadroneggiavano nella sua casa, facendo razzia di ogni bene; e ciò avviene - notiamolo bene - in ogni guerra territoriale dove, prima ancora che dagli ordigni, le case sono devastate dalla presenza dei - sia pur provvisori - vincitori. Chi viene "invaso" nella sua casa si sente non solo offeso, ma umiliato: non gli viene riconosciuta nemmeno una provvisoria signoria di un territorio; anche chi ha la casa in affitto, chi vive in una baracca, chi, perfino, occupa un pezzo di marciapiede con i suoi cartoni ed i suoi stracci, si aspetta che l'altro chieda permesso. Anche per un bambino che magari non ha la sua cameretta, almeno un "cassetto" è una casa, luogo che è riconosciuto suo; il nostro nipotino di cinque anni si fece scrivere dal nonno un cartello con un sontuoso: "questa è casa mia, non toccare" sull'anta di un armadio, che la sorellina di due anni avrebbe dovuto leggere e rispettare! È dunque appartiene alla condizione umana avere uno spazio quasi come sé, come prolungamento di sé, come espansione del sé: vi leggiamo l'idea di inviolabilità che accompagna la persona; spetta soltanto al "signore del proprio castello" dare il permesso di entrare e simile permesso trasforma l'altro in ospite, in amico: uno che è a favore della inviolabilità della persona-territorio dell'altro. C'è di più: nessuno di noi può reggere uno spazio indifferenziato, dove non ci siano confini, specificazioni, dove tutto sia di tutti, dove tutto sia indifferente. Certe camere di adolescenti ci fanno impressione per l'assoluto caos: nulla è al suo posto o - il che fa lo stesso - il posto di ogni cosa è scambiabile. Forse, con un po' di buona volontà, potremmo trovarvi una sorta di differenziazione, di ordine strano, non combaciante con i canoni della casa; e forse anche questo caos è un messaggio. Fatto è che l'impressione che promana da tale spazio caotico è che non vi si possa abitare ("ma come fai a stare in questa stanza?") se non provvisoriamente, da "sfollati", ci si passi la metafora.
Uno spazio che ci parla di noi - Un secondo aspetto emerge dal nostro abitare: perché soltanto a casa ci sentiamo "a casa"? È esperienza comune l'aver abitato in stanze magari più lussuose, comode, confortevoli come quelle di un hotel, ma di essere sollevati al ritorno, quando siamo "arrivati a casa". Il sentirsi "a casa" non dipende dunque dal nostro stare più comodi o rilassati, ma dal fatto che lo spazio-casa trattiene le orme/tracce del nostro viverci. Lo sguardo di un estraneo può misurare, quantificare, apprezzare, valutare una casa e soprattutto il suo interno, ma solo lo sguardo di chi vi ha abitato (oppure di chi ama colui/colei che vi ha abitato) può percepire le tracce, i modi delle presenze che hanno abitato la casa. Sappiamo tutti che le impronte restano, anche se a noi invisibili: ma non sono soltanto impronte fisiche, sono molto di più: sono gli echi dei pensieri, degli atti di amore o di dolore che rimangono in qualche modo dentro quello spazio. E ci fanno compagnia. La casa abitata dalla nonna, che ora non c'è più, ha le sue tracce, il cucchiaio di legno con cui mescolava i suoi odorosi sughi non ha solo le sue impronte, è reso "suo" dagli infiniti gesti, dal come lo usava, dal che cosa viveva mentre cucinava per i suoi. C'è di più: in casa ci si divide gli spazi. E vero, si può essere presi da "deliri di compresenza" come quello di una famiglia che aveva costruito un appartamento completamente senza porte, o di un'altra che aveva messo un gran materasso per terra, il doppio di quello matrimoniale, per poter dormire tutti insieme, loro e i tre bimbetti. Perfino in tali famiglie che avevano teorizzato il "tutto di tutti" si erano però creati benefici angoli, spazi, maggiormente "frequentati" da ciascuno. Il computer di papà, il tavolo da scrivere della mamma, la localizzazione degli utensili da cucina eccetera... ci rivelano la stesura spaziale del principio della reciprocità, dove ciascuno sa che rispetta il piccolo spazio dell'altro. Per inciso, certi figli che spadroneggiano in ogni angolo, che possono entrare da ogni porta, che prendono possesso duraturo perfino del lettone non sono figli felici: se non imparano a rispettare, non imparano a chiedere rispetto. E viceversa. E, ancora per inciso, certe mal sopportate invasioni di spazi concepiti come rigidi denunciano l'assenza di simile stesura spaziale. "Non ne posso più che mia figlia quindicenne lasci i libri sul tavolo in sala!", diceva una madre astiosa. "E dove li dovrebbe lasciare?"; saltò fuori che la camera da letto era divisa con la sorella, ragazza madre, e invasa da un piccolo di un anno che ovviamente aveva l'hobby di non lasciare le cose al posto suo. Non c'era altro spazio che il tavolo della sala, con il quale l'adolescente proclamava il suo diritto ad esistere!
Uno spazio che abbiamo contribuito a creare - Possiamo interrogare un terzo aspetto della fenomenologia dell'abitare: il "metter su casa", cioè il progettare un'altra casa da parte del figlio che sta per lasciare la casa paterna. È vero, oggi nell'epoca della "famiglia lunga del giovane adulto", si lascia provvisoriamente la casa paterna per molte ragioni (legittime) come gli studi universitari, le prove di autonomia ecc. Ma noi vogliamo recuperare lo spessore simbolico del "mettere su" casa da parte della coppia che si sposa. Diciamolo con chiarezza, la convivenza non è un mettere su casa: è la provvisoria - denunciata come tale! - coabitazione di due, da cui si può recedere semplicemente dividendosi i costi investiti. E con un alto tasso di ingenuità o di superficialità, quando si voglia trasformare in casa del matrimonio l'appartamento dove si era convissuti; o perfino dove si "tira in casa" un nuovo partner: in una casa già fatta, dove l'altro/a è richiesto di sentirsi a casa propria, mentre le mura, le disposizioni delle stanze e dei mobili, tutto denuncia che il nuovo partner è ospite! Questo perché il "metter su" casa implica un progetto comune, una fondazione che deve nascere da quegli specialissimi individui con storia che sono i coniugi. Anche il linguaggio dice che il "mettere su" equivale al fondare, al creare una nuova piccola patria, il che si può fare solo in due; sicché si può dire che uno, in quanto single "si fa una casa", ma "mette su casa" quando in due si concerta, si negozia, si progetta uno spazio specialissimo abitato dal noi (e dove non è detto che ciò che va bene ad uno debba andare bene all'altro!). Due persone con storia, nell'inventare una casa mettono a nudo la fatica e l'esaltazione del distacco dalla casa di origine, e creano un nuovo (e noi coppie anziane sappiamo quanto di nuovo c'è nelle casa dei nostri figli sposati!) che è negoziato e perciò stesso originale ed unico! E così che la coppia scopre che nel suo ciclo di vita il "mettere su casa" non è soltanto un rito di fondazione delle origini, ma è un atto creativo che continua... ma ciò ha a che fare con le relazioni che fanno della casa un laboratorio.
Gilberto Gillini e Maria Teresa Zattoni, esperti di counseling pedagogico