Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 62

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 65

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 66

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 126

Sabato, 08 Aprile 2006 21:03

Delitti in famiglia? Ripartiamo dalle ragioni del cuore

Vota questo articolo
(4 Voti)

I delitti che accadono in famiglia ci lasciano ogni volta un senso di stupore e di orrore. Come non volessimo credere, in principio, alla possibilità di questi abissi. Come volessi­mo difenderci, poi, da una contaminazione fra orrore e nor­malità, attribuendo dunque al dominio della follia l'impro­nunciabile accaduto.

Lo stupore è una reazione difensiva: si tratta spesso di famiglie come tutte le altre, "normali", benestanti, senza problemi sociali; si tratta di persone, fino al giorno prima, miti, inoffensive, tranquille; questo ci sgomenta per­ché significa ammettere l'incapacità di controllare il manifestarsi del "male".
E anche l'orrore grida una sua repugnanza difensi­va, e proietta nella follia quello che la ragione non sopporta, e lo espelle così dal campo della realtà razionale.

C'è un sovrappiù di dolore in tanti fatti di sangue che maturano tra le mura domestiche. Ma i crimini sono ­frutto di famiglie naufragate, non del naufragio della famiglia. Allora bisogna riscoprire emozioni e sentimento. E la speranza di una gioia possibile.

Resta vero che nei delitti di famiglia c'è un sovrap­più di dolore, un sovrap­più di crudeltà, Qualcosa di misterioso sta imprigio­nato nei miti atavici delle tragedie antiche, Edipo, Medea, Oreste. Qualcosa ancor oggi spinge il nostro pensiero dentro quel buio, a cercare il seme del sangue e della morte, quando le cronache ci pugnalano con le sequenze delle moderne tragedie. C'è forse una criminogenesi endofamiliare? Aveva ragione André Gide nel gridare «Famiglie, io vi odio»?

Il fatto è che i delitti familiari rispecchiano emozioni di rovina, di disperazione, di distru­zione. Questi delitti di figli e di madri e di padri e di sposi chiamano "inferno" la vita; e in ciò evocano la insopprimibile nostalgia – annegata nella bestemmia del male in cui precipitano ­di un paradiso, esattamente perché l'inferno è nient'altro che la verità rovesciata di un "para­diso perduto".

A volte sembra di trovarsi di fronte a una spe­ranza invelenita, come dopo aver investito la vita sulla strada della felicità promessa (la pie­nezza dell'essere nell'alleanza d'amore fra uomo e donna, l'accoglienza della vita e la fio­ritura della vita accolta, la crescita nell'apparte­nenza solidale, la certezza di essere amati e di amare) e aver incontrato invece la delusione della felicità negata, l'incomprensione, la soli­tudine, l'ostilità, il conflitto perenne. I legami fra i delitti familiari e la sofferenza, malattia dell'anima, sono tenaci e profondi. Bisogne­rebbe avere occhi attenti, per cogliere i segni premonitori di ciò che s'incrina, frana, rovina, travolge.

Noi siamo così attenti agli handicap fisici, ma non ci accorgiamo che esistono anche forme di invalidità psicologiche, di lesioni spirituali che mettono l'anima su una sedia a rotelle. La disperazione è il filo conduttore di molti gesti di sangue. Essi il più delle volte si collocano dentro l'aura di dissoluzione che smembra la famiglia, scioglie il patto di alleanza, separa, divide, e ancora confligge sulle spoglie. In fon­do, la sequenza più tragica, il comportamento di omicidio-suicidio, è il picco della tentazione catastrofica assecondata.

La china criminogena non è dunque quella del­la famiglia, ma della famiglia naufragata. Il soc­corso, l'antidoto, non è la gestione delle scia­luppe, ma la difesa dalle tempeste mortali.

Che cosa può ridarci speranza, che cosa può restituirci la verità umana di una famiglia ade­guata non dico al sogno, ma al bisogno della gioia possibile, al bisogno di dare e ricevere amore, a ciò che sentiamo connaturato e neces­sario al nostro destino, alla nostra vita? Credo sia venuto il tempo di inventare qualcosa di grande, o di riscoprirlo, di mutare costume.

Se il mito sacro primario rimane oggi quello di "realizzarsi" a tutti i costi, sulle spalle degli altri che diventano un ingrediente necessario della felicità, la vita sarà vissuta in modi polemici e violenti, senza "familiarità" a dispetto dei vin­coli di sangue. Se non si apprende ad amare neppure si insegna ai figli ad amare. Se la vita è far compere, lavare la macchina e scambiarsi i convenevoli, la famiglia va incontro fatalmen­te a una anoressia emotiva, a una aridità spiri­tuale e umana, a un vuoto insopportabile che suscita fantasie di fuga.

È impressionante l'assenza di sentimento, il deserto emozionale, l'anestesia etica che con­trassegna molti protagonisti di vicende familia­ri atroci e crudeli. La rimonta allora deve cominciare dal cuore, prima ancora che dalla ragione; deve riscoprire le ragioni del cuore, che innervano il senso della vita. Esse non han­no giardino più connaturato che la famiglia, perché la vita lì germoglia e lì prende la sua lin­fa, il suo desiderio, il suo volo. Ma anche il suo impegno, la sua fatica. La pazienza e l'umiltà di ascoltarsi, di dialogare, di perdonarsi, di rico­minciare. In una parola, di salvarsi.   

Giuseppe Anzani

magistrato

Letto 5186 volte Ultima modifica il Venerdì, 27 Aprile 2012 20:49

Search