Famiglia Giovani Anziani

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Sabato, 01 Ottobre 2005 14:12

Quando devo ubbidire?

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Quando devo ubbidire?

 

· Un’esperienza di rapporto con l’obbedienza (che – come diceva Don Milani - «non è sempre una virtù»…) letta in un orizzonte psicologico · Per essere «obbedienti», non alla lettera ma allo Spirito, e poter stare a fronte alta di fronte alla verità, in tutti i contesti in cui siamo chiamati a vivere ed operare, in famiglia, nella professione, nella società e nella Chiesa.

 

Il rispetto delle leggi

È garanzia di immortalità.

E l’immortalità fa stare vicini a Dio

(Sapienza 6,18)

 

Dopo quasi dieci anni di collaborazione con Famiglia Domani, sento il diritto di concedermi una sosta e lo faccio nella maniera più semplice e più antica che si conosca: partecipando ai lettori una confidenza circa un evento come tanti ne accadono nella quotidianità e che, anche se passato inosservato per chi mi stava intorno, ha lasciato un segno nella mia vita.

 

Una banalità insignificante

Chi potrebbe dire con chiarezza quando e come sia cominciata la storia che non sempre bisogna ubbidire? Può darsi che la tentazione a disubbidire sia insita nell'uomo, dato che chi ubbidisce lo fa sottomettendo la propria volontà a quella di un suo simile. Per quanto mi riguarda, ricordo con chiarezza di essermi scandalizzato delle parole di don Milani il quale, senza ombra di dubbio e nella precisa volontà di rompere tanti se e ma, cominciò a predicare che l'obbedienza poteva essere la più subdola delle virtù. Allora ero un giovane che si affacciava alla vita; avevo assolto gli obblighi di leva, per di più come ufficiale, ed avevo finito con l'interiorizzare i concetti di gerarchia e subordinazione come dogmi indiscutibili. Ricordo anche di essermi adirato, in varie occasioni, se qualcuno mi faceva notare assurdità di certi principi su cui si basava la vita militare. Poi, inopinatamente, accadde un fatto che mise al passo tutte le mie sicurezze.

Ero a letto con una banale influenza - già sposato e con due figli - e mi annoiavo. Non avevo la testa per occuparmi di cose pesanti e concettose, così misi gli occhi, giusto per ammazzare il tempo, su un rotocalco che avevo a portata di mano. Doveva essere un anniversario della morte del priore di Barbiana e quel numero parlava copiosamente di lui: impossibile ignorarlo. Mi misi a leggerlo; da prima con lo scopo di trovarvi qualcosa da contestare, poi con la curiosità di scoprire come andava avanti il racconto e alla fine con l'avidità di chi si sente preso da una storia dal finale insospettato.

Mi fermai per guardare i contorni della stanza e mi sorpresi a pensare che io, di don Lorenzo, non sapevo niente, perché non avevo mai voluto sapere niente e che lo avevo sempre additato, perché altri mi avevano convinto che le sue idee erano pericolose, che era un prete sovversivo, che non rispettava le gerarchie, che non sapeva stare al suo posto... che non conosceva l'ubbidienza e la subordinazione. Cercai, allora, tutto quello che aveva scritto (compreso 1'introvabile, perché censurato, Esperienze Pastorali) e lo lessi con una attenzione come avevo fatto con pochi autori fino ad allora e scoprii quella persona che avrei sempre desiderato conoscere e, della quale - mi ripetevo spesso - avrei voluto essere discepolo, prima ancora che amico se avessi avuto la fortuna di incontrarla. In certi momenti ho pianto pensando a quanto gli avevo mancato di rispetto tutte le volte che lo avevo citato nei miei dialoghi senza il debito riguardo, ma mi sono anche riconciliato con lui quando ho capito che nei suoi messaggi c’era una grande spiritualità, che ero sempre in tempo per cambiare vita, che l'unico affronto che si può fare al nostro Creatore è rinunciare all'arbitrio di cui siamo dotati. Feci anche un gesto che in altri momenti mi sarebbe apparso come un atto di vigliaccheria: presi carta e penna e, in allegato, rimandai al Ministero della Difesa la lettera di fine servizio con la quale vengono immessi nella riserva gli ufficiali al termine della leva, dichiarando che da quel momento volevo essere considerato un obiettore.

I tempi maturi

In più di un'occasione mi sono interrogato su cosa sia e quanto sia doverosa l'obbedienza. Per darmi una risposta ho dovuto fare un’ulteriore sforzo di pensiero: chi ha l'autorità di pretendere l'obbedienza altrui? E qui, sul problema dell'autorità, ho incontrato gli scogli più duri. Escluse le persone che deliberatamente si legano con un voto specifico alla volontà di un superiore, per tutte le altre devono esserci per forza altre variabili in grado di legittimare l'obbligo di obbedire senza attentare alla libertà che resta il dono più grande fatto da Dio all'uomo. È facile, qui, entrare nei meandri del relativismo culturale e correre il rischio di non trovare più il primo anello della catena: senza obbedienza non ci sono regole, le quali nascono da esigenze temporali le quali, a loro volta, sono il prodotto di volontà contingenti e aleatorie e che pertanto devono rendere costantemente conto del loro operare... Bisogna allora cercare altri referenti che abbiano in sé il conforto di un valore impregnato di assoluto. Io credo che la risposta venga solo dai concetti di ordine e di verità. Eppure anche qui si incontrano delle sabbie mobili. Non può essere considerato un ordine quello che, nell’immaginario comune, si contrappone al disordine; come sarebbe riduttivo invocare la verità come strumento capace di dissipare i disagi di una menzogna. L'ordine, prima ancora che un fenomeno pubblico, è una conquista interiore e si identifica con la capacità che possiede ogni persona di sapersi districare tra i meandri della propria esperienza con il minimo dispendio di energie; la verità ci dà il privilegio di scrutarci allo specchio senza dover abbassare lo sguardo.

L'esempio più eclatante che mi giunge in aiuto in questa riflessione, viene dal dilemma che si consuma nella mente di Pilato. È autorità riconosciuta; può pretendere l'ubbidienza; è garante dell'ordine; le sue sentenze sono esecutive, cioè, la verità. Arriva anche per lui il momento di vedere vacillare le proprie sicurezze e, al culmine di quel disordine interiore di cui tutti conosciamo il dramma e i passaggi, di fronte alla difficoltà di darsi una risposta che lo avrebbe vincolato a decisioni che non voleva prendere, si abbandona a false elucubrazioni dal sapore retorico: «Che cosa è la verità?». Ma per tutti coloro che conoscevano l'uomo sottoposto a giudizio, la risposta era chiara già da tempo, perché lui, il Signore di ogni ordine, scandalizzando i suoi ascoltatori, aveva pubblicamente affermato: «La verità vi farà liberi». 

In ogni contesto l'esigenza dell'ordine, del rispetto delle regole, della proclamazione della verità appaiono come valori sempre più invocati e capaci di garanzia. Ma chi ha posizioni di responsabilità può assolvere agli obblighi legati al proprio ruolo nelle forme più svariate. Dal nucleo più piccolo, la famiglia, al più vasto, un'assemblea di nazioni, si può esercitare la leadership in modo autoritario - pugno duro, imposizione e pretesa di obbedienza - o in modo amorevole, con l'insostituibile carisma della credibilità. Ed è proprio a questo dono che Pietro, nella sua prima lettera, fa riferimento: «Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità, ...amatevi gli uni gli altri».

Oggi gli insegnamenti di don Milani, a pochi anni dalla sua morte, dopo aver assaporato in maturità dei tempi in momenti segnati da grande impulso alla riflessione, rischiano di apparire superati agli occhi di una cultura eccessivamente presuntuosa. Le raccomandazioni di don Lorenzo di profanare i tabù nascosti nella superficialità, di non arrendersi di fronte alla prepotenza dei più forti, corrono il rischio di essere fuori moda o fraintese. Tutti sono informati su tutto; ogni cosa che accade è nota in tempo reale. Siamo così capaci di assuefarci alla ricorrenza delle catastrofi che la stanchezza diventa la sola conseguenza che proviamo nel prevederle o nel prenderne atto con coraggio. C'è da chiedersi se esista ancora un'autorità alla quale si debba davvero obbedienza. E la risposta, la stessa che darebbe il maestro di Barbiana, credo sia sempre la stessa: la sola autorità con cui possiamo conciliare le nostre aspirazioni è quella che ci garantisce un ordine interiore e che ci toglie ogni paura, mettendoci a confronto con la verità.

Giovanni Scalera

Psicologo – Siena

Da “Famiglia domani” 1/2001

Letto 2237 volte Ultima modifica il Domenica, 29 Gennaio 2006 22:52

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