Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 19 Gennaio 2005 21:56

1. Che cosa è la Bibbia (Rinaldo Fabris)

L'espressione italiana: “La Bibbia”, viene da un plurale greco tà Biblía, “i libri”, passando attraverso il latino medievale Bíblia.

Mercoledì, 19 Gennaio 2005 21:22

Desmond Tutu. Non c’è pace senza perdono

Desmond Tutu.
Non c’è pace senza perdono






Desmond Tutu nasce nel 1931 a Klerkdorp, nella regione sudafricana del Transvaal. Studia nelle scuole riservate al Bantu, una delle etnie nere più numerose nel suo paese, ma non ha i soldi per studiare medicina e trova un impiego come maestro. Conosce il reverendo Huddleston che lo avvicina alle problematiche dell'apartheid: nel frattempo Tutu decide di diventare pastore della Chiesa anglicana, e riceve l’ordinazione nel 1961.

Dopo alcuni anni di studio in Inghilterra, si dedica all'insegnamento universitario e nel 1975 è il primo nero nominato decano della cattedrale anglicana di Johannesburg. Successivamente, Tutu viene eletto Segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese Sudafricane, e la sua opera lo porta a subire calunnie e intimidazioni da parte del governo sudafricano. Nel 1984 riceve il Nobel per la pace per la sua lotta contro l’apartheid fino al 1996 è stato arcivescovo di Città del Capo. Dal 1995 al 1998 ha presieduto la Commissione perla Verità e la Riconciliazione sudafricana fortemente voluta dallo stesso neopresidente Mandela al termine dell'apartheid. È attualmente visiting professor presso l'Università di Atlanta.


«L'oppressore si disumanizza nella misura in cui disumanizza le sue vittime, e ritrova la sua dimensione di umanità nella misura in cui le sue vittime ritrovano la loro. Ma, più ancora, egli ha un urgente bisogno del loro perdono».
(D. Tutu, Anch'io ho il diritto di esistere)





Tutu ha sempre ricordato ai cristiani che predicavano la rassegnazione di fronte alle ingiustizie del mondo che la Buona Novella di Gesù comporta anche la ricerca della pienezza di vita su questa terra, cioè la cura dell'affamato e del malato, la ricerca della giustizia per l'oppresso e la ricerca della pace e della riconciliazione tra gli uomini. Perciò il cristiano non può restare indifferente di fronte alle ingiustizie, limitandosi a predicare la visione consolatoria dell'altra vita.

Tutu ha dapprima operato nella città-ghetto dei neri di Soweto, dove ha cercato di stimolare i fratelli neri ad essere fieri di essere tali (black consciousness) e a credere in Dio come liberatore del popolo nero. La teologia nera (Black Theology), nata per dare ai neri la coscienza "di non dover più chiedere scusa per il solo fatto di esistere", è stata ostacolata dalle autorità bianche, in un contesto generale di crescente repressione che ha portato al massacro dei neri di Soweto nel 1976 e a violenze sempre più efferate. In un contesto sempre più difficile, la teologia nera si è occupata della sofferenza dell'uomo nero, causata dal razzismo bianco, e ha messo in discussione la pretesa tipica della cultura bianca per cui i suoi valori assumono un carattere universale. L'opera di Tutu è stata fondamentale perché inizialmente la politica razzista del governo sudafricano era approvata dalla Chiesa riformata, e Tutu, nella sua qualità di vescovo anglicano, ha testimoniato con forza che il razzismo era assolutamente contrario al Vangelo e incompatibile con esso.

L'elezione di Tutu come Segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese Sudafricane, un organismo che rappresentava milioni di protestanti di tutto il mondo, gli ha dato la visibilità per mobilitare maggiormente l'opinione pubblica mondiale: come presidente di questo Consiglio ha proposto una campagna per la disobbedienza civile dei neri in Sudafrica, e il governo gli ha ritirato il passaporto per aver incoraggiato la Danimarca a boicottare il carbone sudafricano. La posizione di Tutu è stata forte e chiara: di fronte alla legge che propone e copre le ingiustizie è lecito disobbedire.

Una volta rimossa la vergogna dell'apartheid, dopo che nel 1996 la nuova Costituzione ha eliminato gli ultimi residui del regime razzista, l'opera di Tutu non ha conosciuto sosta: egli si è impegnato nel tentativo di transizione pacifica dal regime alla democrazia. L’impegno era difficile: si trattava di trovare il coraggio da parte della gente di affrontare i massacri e le violenze del passato senza desiderio di vendette, ma anche senza voler passare un colpo di spugna radicale, come se nulla fosse accaduto.

Grazie al lavoro della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, presieduta da Tutu, le vittime o i loro parenti potevano per la prima volta raccontare le violenze subite e ricevere ascolto, mentre gli oppressori potevano ricevere l'amnistia in cambio dell'intera verità. Grazie al pentimento degli assassini e al perdono concesso dai familiari delle vittime, nasceva la possibilità di ripartire nella vita quotidiana nel segno della pace. Frutto di un compromesso tra chi chiedeva un'amnistia generalizzate e chi invocava una nuova Norimberga, la Commissione ha avuto il compito di ascoltare tutte le persone che si dichiaravano vittime di gravi reati contro i diritti umani e tutti coloro che, accusandosi di tali crimini, chiedevano l'amnistia.

Più di 20mila persone si sono presentate davanti alla Commissione. Alcune erano vittime venute a piangere pubblicamente, ad aprire il loro cuore e a liberare l'angoscia che per tanto tempo era stata ignorata o forse negata. Altre erano autori di crimini, bianchi e neri, che cercavano uno spazio dove sfogare la loro colpa e riconoscere il loro errore, per  ottenere amnistia e riconciliazione. L'obbiettivo della Commissione non era quello di accertare la colpa. Infatti, non veniva emessa una sentenza di innocenza o di colpevolezza. L'obiettivo era invece quello di stabilire la verità. Tra il modello di Norimberga dove i colpevoli sono puniti e l'amnistia generale "copritutto", il Sudafrica optò per una "terza via" che si è rivelata un modello da esportare. L'amnistia veniva concessa a chi ne faceva domanda e accettava di comparire davanti alla Commissione facendo una confessione piena e dettagliata dei propri crimini, commessi dal 1961 al 1994, negli anni dell’apartheid Insomma, si dava la libertà ai colpevoli in cambio della verità. Opponendosi all'idea di una giustizia punitiva, Tutu ha rilanciato l'idea della "giustizia restituiva", a cui era improntata la tradizionale giurisprudenza africana. Il nucleo di quella concezione non è la giustizia o il castigo, ma la convinzione che fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. "Una nazione che non sa riconoscere e ammettere la verità del proprio passato, per quanto brutale sia, è condannata a ripetere questi errori nel futuro", ha dichiarato Tutu a quanti tentavano di rallentare i lavori della Commissione.

Perdonare non significa far finta che le cose sono diverse da quelle che sono, chiudere gli occhi di fronte a quello che non va: una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i sentimenti, meschinità, violenza dolore, degradazione, verità. Come ha notato Luigi Bonanate, docente di Relazioni internazionali a Thrino: "eravamo abituati a pensare che quando gli oppressi si liberano dalla catene si vendicano, e invece questo rituale collettivo, questa confessione e purificazione generalizzate, ha svuotato la transizione di tutti i suoi aspetti violenti. Ha "proceduralizzato" il conflitto e ha aperto la via alla democrazia". L'esperienza della Commissione sudafricana è stata seguita da altri paesi dilaniati da conflitti intermi - dal Guatemala al Sudafrica, da Timor Est allo Sri Lanka, dal Perù alla Sierra Leone - che l'hanno affiancata o sostituita alle normali corti giudiziarie.

Negli ultimi anni l'attenzione di Tutu si è progressivamente allargata ad altre situazioni assimilabili a quella sudafricana, come la condizione dei Palestinesi in Israele o l'impegno per sostenere le iniziative volte a lottare contro la devastante povertà che affligge milioni di persone che non hanno accesso all'acqua e all'elettricità.

(da Cem-Mondialità, aprile 2004)


Il sesto gradino dell'umiltà si ha se il monaco si accontenta di tutto ciò che è più vile e spregevole e in tutto quello che gli viene comandato si considera come  un operaio inetto e indegno (RB 7, 49).

Non si può sperare senza fondamento, "ma come può la speranza essere certa se rimane speranza? Allora il testimoniare questo, predicare questa agonia, questo a me interessa del teologo, cioè di colui che è appeso alla croce, non di colui che la spiega. Qui trovo una differenza con il mio ragionamento che mi spinge alla relazione con l'altro".

Quattro vie
per l'educazione alla pace


Nel momento confuso che stiamo vivendo, con il terrorismo che ha portato la paura nel quotidiano della gente e con il rischio di scelte politiche sempre più improntate alla chiusura e alla demonizzazione dell'altro/straniero, o ispirate al principio della guerra preventiva, quali possono essere le pedagogie di pace? Quali temi devono avere quelle pedagogie - anche senza intenderle come un indirizzo teorico in senso stretto ¡ che potrebbero contrastare il virus della potenza e del dominio? A nostro parere l'educazione alla pace può passare attraverso quattro vie privilegiate: la pedagogia interculturale, l'ecopedagogia (le pedagogie attente alla terra), la democrazia partecipativa (l'opera delle persone che si associano e si mettono in rete per fare azioni concrete di pace), l'impegno delle religioni.


1. La pedagogia interculturale

La scuola svolge la funzione primaria e insostituibile di dare cittadinanza all'uomo planetario che è già in cammino
. (Franco Cambi)

Anzitutto la pedagogia interculturale: siamo consapevoli che la pace deve essere radicata nella cultura, e non può rimanere come un messaggio isolato e affidato ad un elite di pochi testimoni illuminati. La sfida è inserire la pace nell'ambito della cultura, nella convinzione che solo una cultura che sia capace di meticciarsi con le altre può essere la cultura del futuro.

Conosciamo benissimo cosa accade alle culture chiuse e autoreferenziali, perché abbiamo presente il destino della nostra cultura eurocentrica, che ha prodotto dei modi di pensare che sono serviti a giustificare gli imperialismi e le colonizzazioni. La filosofia del soggetto ha prodotto un uomo che ha "esportato la sua civiltà" tra indios, pellerossa, africani e asiatici, in cambio dello sfruttamento delle risorse altrui; la filosofia della tecnica ha portato l'uomo a imporsi sulla natura fino al punto di violarla, ma anche di mettere a repentaglio l'esistenza delle generazioni umane future. Pedagogia di pace é una pedagogia che sappia affrontare le ombre della nostra cultura (come la presunzione di superiorità e il razzismo), che sappia formare individui capaci di vivere nella complessità, "cittadini del mondo" grazie all'inclusione delle differenze, e non alla loro sottrazione: non tanto passando per la rinuncia all'identità nazionale (che spingerebbe alcuni al fondamentalismo), quanto cercando un'identità che sia plurale e non abbia paura dell'altro.

Perciò concordiamo pienamente con Franco Cambi quando scrive: "nell'interculturalità è posta una sfida alla e della pedagogia; sfida verso un nuovo modello di cultura, radicalmente diverso rispetto a quello tradizionale - occidentale o greco-cristiano-borghese -, capace di revisionare i fondamenti di quello e di proporne dei nuovi, attuando una macro-rottura all'interno dell'Occidente stesso, in quanto ne rimuove millenarie certezze e pone nuove frontiere (etiche, cognitive, antropologiche, prima che sociali e politiche) alla sua cultura, anzi frontiere del tutto nuove" (1). L'intercultura come sfida, come riscoperta e rilancio di valori positivi della cultura occidentale per superare l'etnocentrismo e le tentazioni di egemonia culturale. Questi valori sono il dialogo, il pluralismo, la convivialità delle differenze: immaginiamo una pedagogia interculturale che sia ermeneutica, capace di prestare attenzione al non-detto, al rimosso, all'emarginato capace di dialogare con quelli che la narrazione dominante pone a margine.

Una pedagogia di pace prevede quel dialogo tra culture che recepisce le aperture più illuminate della filosofia contemporanea, come le teorie di Lévinas e Derrida, che tematizzano il carattere incondizionato dell'ospitalità e cercano di superare un'aporia del pensiero occidentale, la chiusura di fronte allo straniero, e che rilanciano le categorie dell'alterità e della differenza.

NOTA

    (1) F. CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001, p. 15





    2. Ecopedagogie

    L'uomo non è il padrone della creazione. (...) Bisogna passare all'ecosofia, cioè alla saggezza stessa della terra di cui l'uomo prenderebbe coscienza e si farebbe portavoce. (R. Panikkar)

    La sensibilità verso la terra sta lentamente cambiando, anche se purtroppo talvolta cambia più per la consapevolezza dei pericoli che si corrono (1'euristica della paura di Jonas) che per una maturazione sempre consapevole e diffusa. Una pedagogia della pace deve prevedere l'educazione ambientale e l'alfabetizzazione ecologica: per non ripeterci rimandiamo alle considerazioni espresse su questa rivista da Luigina Mortari (numero di gennaio) e da Carlo Baronoelli (febbraio), e agli articoli che sono stati dedicati alla "Carta della Terra".

    Aggiungiamo un riferimento all'ecopedagogia. Come detto, il punto critico a cui sembra essere arrivato l'uomo nel suo rapporto con l'ambiente obbliga a cambiare necessariamente la nostra mentalità. É necessario guardare al futuro, a una diversa presenza dell'uomo sul pianeta, proiettarsi in una dimensione inedita di cittadinanza planetaria. L'ecopedagogia è la riflessione, oggi necessaria, su una teoria e una prassi educativa che tengano conto che l'uomo ha il diritto/dovere non di essere il dominatore della Terra, ma soprattutto il principale custode delle sue risorse, delle sue bellezze e delle diverse forme di vita.

    Secondo i teorici dell'ecopedagogia, Francisco Gutiérrez e R. Cruz Prado, la chiave di volta di un futuro possibile deve essere una nuova forma di razionalità, che sia all'insegna di una relazionalità flessibile, intuitiva e processuale, in grado di recepire tutte le istanze della vita sulla Terra, in qualunque forma esse si manifestino. La quotidianità è il luogo e il tempo privilegiato dello sviluppo sostenibile. L'ecopedagogia si propone pertanto come una nuova scienza che trascende i modi occidentali di concepire l'universo e coincide sorprendentemente con il pensiero e la visione del mondo delle culture tradizionali di tutte le latitudini.

    Le pedagogie della pace devono porsi il problema di educare le giovani generazioni ad abitare la terra, prendendosene cura e valorizzandone i beni.


    3. La democrazia partecipativa

    Dobbiamo sentirci solidali, corresponsabili: una solidarietà che si impara nelle piccole fraternità per allargarsi sempre di più. (R. Goldie)

    É uno dei dati sociali più importanti di questi ultimi anni, legato ad una teoria di cambiamento che si incontra con la vita pratica: si tratta della crescente voglia di partecipare espressa dalla gente comune, che si esprime non solo attraverso le consuete modalità "politiche" (ad esempio le manifestazioni) ma anche attraverso gesti quotidiani che denotano un cambiamento di coscienza.

    Già da tempo si è rilevato l'impatto positivo della diffusione di buone pratiche come la spesa nei negozi del commercio equo e solidale o l'aprire un conto corrente allo sportello della Banca Etica: l'elemento che vorremmo qui evidenziare è il fenomeno della creazione di reti di collaborazione solidale a livello locale, regionale e mondiale. Si tratta del tentativo di costruire un'alternativa democratica e non capitalista all'invadente globalizzazione, cercando una crescita economica che sia sostenibile sia dal punto di vista ecologico che da quello etico-sociale.

    L'obiettivo è ambizioso: convincersi che un altro mondo è possibile a condizione che i consumatori passino ad un consumo solidale, cioè scelgano i prodotti delle reti di collaborazione solidale anche se, in qualche caso, dovessero costare più di quelli della rete capitalista. Consumo solidale significa essere sempre consapevoli che le nostre scelte commerciali possono conservare o danneggiare gli ecosistemi, condizionare occupazione e disoccupazione, mantenere o ostacolare lo sfruttamento dei lavoratori.

    Ci sembra significativo citare il caso italiano della Rete di Lilliput, un'associazione di gruppi e cittadini impegnati nel volontariato, nel mondo della cultura, nella cooperazione Nord/Sud, nel commercio e nella finanza etica, nel sindacato, nei centri sociali, nella difesa dell'ambiente, nel mondo religioso, nel campo della solidarietà, della pace e della nonviolenza che, di contro alle leggi imperanti del mercato/profitto e alla perdita di credibilità delle istituzioni democratiche, hanno unito in un'unica voce le loro molteplici forme di resistenza contro le scelte economiche che concentrano il potere nelle mani di pochi e che trascurano la vita in nome del profitto e del consumismo.

    Adottare una strategia lillipuziana significa che è possibile per tutti i cittadini dare il proprio contributo al cambiamento delle istituzioni sociali. Per questo diventa necessario costruire le reti locali. La strategia lillipuziana può diventare uno dei modi per unire i luoghi e le forze, per mettere in rete i gruppi, laici e cattolici, e quindi per globalizzare la solidarietà.

    Del resto, l'aumento della complessità sociale richiede un aumento del livello di coordinamento dei soggetti e delle risorse. Come tutti sanno, il nome di "Rete di Lilliput" richiama la favola I viaggi di Gulliver (1725) dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift, e in particolare la situazione in cui i minuscoli "lillipuziani", alti appena pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante (metafora della globalizzazione), legandolo nel sonno con centinaia di fili. Gulliver avrebbe potuto schiacciare qualsiasi "lillipuziano" sotto il suo stivale, ma la fitta rete di fili lo immobilizza e lo rende impotente.

    4. Religioni per la pace

    Non ci sarà pace nel mondo finché non ci sarà pace tra le religioni. (Hans Küng)

    Anche senza entrare nell'analisi della complessa situazione geo-politica attuale dal punto di vista dei rapporti con il mondo islamico, purtroppo non possiamo ancora consolarci pensando che le Crociate e le guerre di religione appartengano ad una pagina che è stata definitivamente voltata. Come ricorda Gianni Novelli: "non è religioso, ma ha una forte connotazione confessionale, il sanguinoso conflitto nord-irlandese tra cattolici e protestanti. Le guerre balcaniche hanno registrato un aspro antagonismo tra cattolici (croati) ortodossi (serbi) e musulmani (maggioranza bosniaca). Nelle repubbliche baltiche e in molte parti dell'ex-Unione Sovietica la lotta tra cristiani ortodossi e uniati (1egati a Roma) è sempre aperta. In Asia (pensiamo all'Iran o all'Afghanistan) e in Africa (pensiamo al Sudan ma pure al Rwanda) le lotte politiche e pure le stragi assumono connotazioni religiose intrecciandosi con le ragioni etnico-tribali. Sovente queste tristi pagine di storia non sono sottoscritte dalle gerarchie delle diverse parti religiose che non hanno altra responsabilità se non quella del silenzio e della mancata educazione alla pace dei loro fedeli" (2). Si può dire, in generale, che le voci dei pastori che richiamano le vocazioni pacifiche delle religioni restano inascoltate laddove gli interessi della politica e del potere sono preponderanti. Eppure il compito di essere educatori di pace deve essere proprio delle religioni, che devono essere sufficientemente chiare da non farsi strumentalizzare e da essere tenute fuori dai conflitti religiosi (non dimentichiamo che nei messaggi lanciati all'Occidente da Bin Laden si parla ancora di "crociati").

    Serve un impegno convinto all'interno delle comunità religiose, da parte dei pastori e da parte dei laici, perché vivano la loro dimensione religiosa sempre accompagnandola con un messaggio di pace per tutti. In coerenza con quanto recita il Messale Romano nella Messa per la pace e la giustizia: "Dio della pace, non ti può comprendere chi semina la discordia, non ti può accogliere chi ama la violenza: dona a chi edifica la pace di perseverare nel suo proposito, e a chi la ostacola di essere sanato dall'odio che lo tormenta".

    NOTA

        (2) L. Bettazzi, Ecumenismo e pace: le Chiese e la pace, in V. Savoldi (a cura), Mai più guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998, pp. 252-253.



          BIBLIOGRAFIA

          Cambi F., Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001.

          Derrida J. (con A. Dufourmantelle), L'ospitalità, Baldini e Castoldi, 2002,

          Elamè E., Intercultura, ambiente, sviluppo sostenibile, Emi, Bologna 2002,

          Gallie W.B., Filosofie di pace e guerra, Il Mulino, Bologna 1993.

          Gutierrez F-Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, Emi, Bologna 2000.

          Lévinas E., Umanesimo dell'altro uomo, IL Nuovo Melangolo, Genova 1998.

          Mance E. A., La rivoluzione delle reti. L'economia solidale per un'altra globalizzazione, Emi, Bologna 2003.

          Salvoldi V. (a cura), Mai più la guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998.

          Ucodep (a cura), Pace, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Diritti umani, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Sviluppo, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Intercultura, Emi, Bologna 2004.

          (da Cem Mondialità, maggio 2004)


          Spiritualità Marista 

          di Padre Franco Gioannetti
           


          Ventottesima parte


          In primo luogo faccio ora riferimento ad alcuni brani del volume "Parole di un Fondatore", che riporta discorsi, riflessioni, esortazioni del P. Colin, citandoli sinteticamente.

          Nei paragrafi 42, 3; 117, 3; 119, 9 il P. Colin ci dice che:

          "la Chiesa nascente è il modello della società di Maria che non ha altri modelli che quella".

          Nel paragrafo 115, 5: "la Società di Maria ne deve rappresentare i primi tempi".

          Nel 120, 1 afferma che la Società deve irrigare una nuova Chiesa.

          Nel 150 che deve imitare la Chiesa nascente.

          Vorrei ora puntualizzare in modo più approfondito, secondo la Tradizione (dei Padri) e secondo il pensare di Colin, le parole apostolato ed apostolico, sulle quali avremo modo di tornare quando esporremo la spiritualità della missione Marista.

          Ciò che diciamo ora di apostolato ed apostolico è un approfondimento di quanto esposto brevemente nella parte XXIV.

          Nelle costituzioni della Società di Maria del 1872 al numero 8 il fondatore ci dice: "nei vari ministeri a cui devono attendere (i religiosi) si comportino con tale modestia, dimenticanza di sé ed abnegazione da risultare veramente sconosciuti e come nascosti in questo mondo".

          La missione così concepita nasce e matura in uno stile di vita determinato dall’esempio di Cristo unico modello degli apostoli.

          Leggiamo in proposito quanto dicono le Costituzioni del 1872 al n. 244.

          Poiché fa parte dello scopo della Società andare di luogo in luogo a diffondere la parola di Dio e catechizzare gli incolti, al fine di adempiere un così santo imitare sempre Nostro Signore Gesù Cristo, il quale, prima di insegnare in pubblico, volle restare quaranta giorni nel deserto; dopo andò per le città e i villaggi della Giudea predicando ovunque che il regno di Dio era vicino e invitando i peccatori a penitenza.


          Sabato, 01 Gennaio 2005 18:39

          Il mistero del Natale (Sr. Germana Strola)

          Nei testi liturgici del Natale si intrecciano molti motivi di varia natura e ricchi di diverse prospettive: non solo si compie, in modo inaudito e per tanti aspetti paradossale, l'attesa messianica vissuta durante l'Avvento, e nemmeno soltanto si celebra l'incarnazione del Dio con noi, o la visita del Verbo nell'anima;

          Le difficoltà maggiori si riscontrano nell'uso dei titoli attribuiti a Maria. La sensibilità teologica del protestantesimo ha letto nella letteratura cattolica eccessivi "abusi" che hanno stimolato la devozione popolare in base a "parallelismi" troppo marcati tra cristologia e mariologia.

          Mercoledì, 29 Dicembre 2004 00:01

          Catastrofi e immagini di Dio (Faustino Ferrari)

          Come è possibile insegnare che Dio è amore quando si è capaci di parlare soltanto di catastrofe e di morte? Si può amare Dio perché sperimentato come Dio e non per timore o per paura.

          Martedì, 28 Dicembre 2004 01:25

          La necessità dell’unico padre

          La necessità dell’unico padre






          «Il nostro padre è Abramo» (Giovanni 8,39)..

          Chi non conosce, nel Nuovo Testamento, la sfida lanciata a Gesù dai suoi interlocutori di cui denunciava le azioni? O ancora, l’invettiva di Giovanni Battista alle folle che venivano ad ascoltarlo nel deserto: «Non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre!» (Lc 3,8-9).

          Così, alle soglie dell’era cristiana, la figura di Abramo appare nel mondo giudaico come una figura non solo di primo piano, ma unica, il padre per antonomasia di tutti coloro che si richiamano alla fede ebraica.

          «Noi siamo discendenza di Abramo», dicevano gli Ebrei, «e non siamo mai stati schiavi di nessuno!» (Gv 8,33). Se, secondo il retroscena di questa affermazione, non ci si poneva la questione se Abramo fosse o no un personaggio storico, un’altra domanda si poneva, domanda che ci fornisce una via per comprendere tradizioni conservate in particolare nel libro della Genesi: in nome di chi si poteva reclamare Abramo come padre? In questo modo, affrontare il personaggio di Abramo come figura emblematica del padre unico costringe ad un’altra linea di lettura che la Bibbia nel suo stato attuale ci impone: quella secondo un ordine cronologico che, discendendo dall’unica figura paterna, ordina il seguito della storia. Bisogna dunque ripartire non più dalla figura di Abramo «all’origine», ma da un momento tardivo della storia ebraica e partendo di qui risalire sino alla figura di Abramo.

          In ognuno di questi casi, il gioco è particolare. Il primo, quello della lettura cronologica che parte dall’inizio (Gn 11,27ss), impone un personaggio, degli eventi, dei luoghi, che possono essere passati al setaccio della critica storica, cosa di cui Thomas Romer (vedi pp. 4-9) ricorda gli esiti. Il secondo, quello che risale a partire da uno o più precisi momenti posteriori, s’interroga in primo luogo su ciò che ha indotto i redattori e i teologi biblici a scegliere questo o quell’evento, ad accentuare questa o quella affermazione, in una parola, ad elaborare così, e non diversamente, a partire da questi momenti tardivi della storia di Israele, il personaggio e la sua storia così come la scopriamo nella Genesi e in talune allusioni dei libri profetici, dei salmi, delle lettere di Paolo e dei vangeli.

          Questo procedimento coinvolge certo la comprensione del personaggio di Abramo stesso, ma privilegia soprattutto la comprensione che Israele ha voluto farsi e dare di lui, rivelando allo stesso tempo un certo processo di composizione dell’Antico Testamento.



          Valorizzazione della storia di Abramo





          All’inizio del processo, bisogna ricordare questo dato di fatto, che Abramo compare nella storia di Israele molto prima che questo popolo esista con una propria autocoscienza, dal momento che a lui per primo fu detto: «Fa un grande popolo» (Gn 12,2). La sua realtà di «padre», di «antenato» dipende dunque dalla realtà di un Israele ancora da venire. E la lunga durata che, secondo lo stato attuale del testo biblico, lo separa dai primi momenti in cui si può riconoscere Israele come popolo sulla sua terra (nei libri di Giosuè e dei Giudici), non fa che acuire la domanda: perché la storia di Abramo è stata sviluppata, e dunque valorizzata, in questo momento?

          Per dare una risposta, non si tratta più di legge-re questa storia come se si trattasse di scoprirla alla maniera di una serie di episodi sconosciuti e sorprendenti; si tratta di leggerla come portatrice di elementi che giustificano che sia riportata così e soprattutto collocata «all’inizio» della storia di Israele.

          Tre elementi si impongono allo spirito del lettore che ha concluso la storia dell’Antico Testamento ed è giunto, nel Nuovo Testamento, alle dichiarazioni sia degli ebrei sia di Giovanni Battista: il personaggio di Abramo, i suoi movi-menti migratori e il suo insediamento in una terra che accoglierà le sue spoglie.

          Antenato di tutti gli ebrei, Abramo ha vissuto una storia che lo ha condotto dapprima dall’oriente mesopotamico (Gn 11,31) all’Occidente egizio (12,10), prima di stabilirsi sulla terra del futuro Giuda. Nel passaggio, alcuni luoghi sono destinati a ricevere una sorta di istituzione sacrale della sua presenza, dell’intervento divino e dunque delle promesse ricevute e delle gesta del patriarca. Santuari celebri (Sichem, More, Mamre, Bersabea...) riceveranno così la loro autenticazione e allo stesso tempo la garanzia della loro antichità.

          Una buona memoria biblica vi riconosce una geografia e una toponimia che permettono, sin dal libro della Genesi, di leggere in filigrana di volta in volta la geografia e la storia di Israele nel corso di parecchi secoli. Tra l’esilio in Babilonia, come punto d’arrivo, e il ritorno dall’Egitto, come punto di partenza, con i luoghi di culto e di pellegrinaggio sulla terra di Canaan, è proprio l’itinerario di Abramo che traccia il modello di quello che Israele ha percorso nello spazio di alcuni secoli, e secondo gli stessi luoghi di riferimento in cui egli ha professato la sua fede. Come l’itinerario di Israele fu dunque quello del suo antenato, così i luoghi in cui egli fece culto e professò la sua fede in JHWH sono i medesimi fondati da Abramo con un senso di pietà segnato da esperienze divine effettivamente fondanti. Ma questa lettura ascendente che, partendo dalla storia tardiva di Israele, stabilisce una concordanza tra le esperienze religiose e gli eventi vissuti dall’uno, Israele, e le pratiche religiose e gli episodi della storia dell’altro, Abramo, permette di andare oltre nella comprensione dell’elaborazione dell’una e dell’altra storia e del loro organico legame.

          Che il popolo di Israele abbia vagato, come Abramo, nel deserto, che abbia abbandonato la Mesopotamia, che sia ritornato, come lui, dall’Egitto, che abbia dunque ricevuto, proprio come lui, la terra in eredità secondo una promessa divina, non dice che una parte di questa storia nazionale. C’è anche, infatti, nel flusso stesso di questa storia, una serie di tensioni che rivela, trattandole o tacendole, lo sviluppo della storia dell’antenato unico. La storia di Abramo non appartiene così soltanto all’ordine della riproduzione in microcosmo, o della negazione, della lunga storia successiva di Israele; essa appartiene anche all’ordine di una soluzione delle tensioni che quest’ultima ha prodotto, rivelando allo stesso tempo una delle spinte del processo di composizione della storia nell’Antico Testamento.

          Per limitarci per il momento al ritorno dall’esilio, ci sono ad esempio le tensioni tra i sostenitori di un rigore morale che arrivava sino al rifiuto delle spose straniere (Esd 9), e quelli che predicavano l’apertura e la tolleranza. Questo ritorno, così fortemente desiderato dagli ebrei più zelanti, rivelava tuttavia che era fortemente intaccata un’antica unità che forse era stata solo un sogno. Tra coloro che ritornavano da Babilonia, e gli altri che si erano trovati in Egitto o erano rimasti in Palestina durante l’esilio, non cessava di emergere una grande varietà nel modo di intendere la religione, la Legge e la storia, di cui lo scisma dei Samaritani, per non parlare degli ebrei sedotti dall’ellenismo, è un chiaro sintomo.
          Parallele e correlate con quelle del ritorno dall’esilio, queste tensioni si manifestano nella storia anteriore come si troverà più o meno tardi unificata nei libri dell’Esodo e dei Re. A questa storia le cui tradizioni vedono nell’Egitto e nel deserto i grandi luoghi della nascita del popolo in attesa di ricevere la sua terra e di penetrarvi a partire dal libro di Giosuè, sembrano opporsi tradizioni più «indigene» che, nelle storie in particolare dei libri dei Giudici, lasciano intendere che Israele fu sempre là, sulla sua terra, una terra che dovette difendere contro i vari nomadi venuti dal deserto. Anche nella storia di Saul e di Davide si nota la tensione tra le ricche terre del nord, la Galilea e la Samaria, e le terre povere del sud, la Giudea, di cui Davide deve accontentarsi in un primo tempo. I problemi si risolveranno momentanea-mente alla morte di Saul, ma non saranno dimenticati, cosa che sarà, in gran parte, fondamento del tentativo di colpo di stato di Assalonne contro Davide, suo padre...

          Così, nonostante laboriose limature e puliture per unificarla in una continuità cronologica senza fratture, la storia di Israele, dai Giudici all’esilio e nei secoli seguenti, non poté cancellare completamente queste tensioni che talora sfociarono nel fratricidio. Per rispondere ad esigenze di coerenza allo stesso tempo storica e teologica, era necessario andare oltre questa tappa delle limature e puliture tra tradizioni diverse, o anche contrapposte, per risalire ad un principio di unità che avrebbe ridotto definitivamente tensioni, disaccordi e antagonismi tanto regionali quanto religiosi.

          La storiografia biblica nella sua ultima sintesi rivela qui un processo particolare fondato non solo sulla necessità di raccontare degli eventi, ma di individuare da una parte e dall’altra un principio di unità, che si rivelava provvisorio sino ad un termine ultimo, un principio definitivo. Fu così necessario passare, risalendo sempre più indietro, al di là della Legge riconosciuta e letta al ritorno dall’esilio, al di là della divisione dei due regni, al di là delle contrapposizioni tra Saul e Davide come al di là dei sostenitori di un’origine straniera o esterna, dell’Egitto e del deserto fortemente simboleggiati nel libro di Giosuè, e quelli di un’origine puramente indigena come riecheggiano alcuni episodi dei libri dei Giudici o del primo libro di Samuele. In questa incessante risalita ad un’origine pura e definitivamente «unificante», si doveva superare anche la rivelazione a Mosè sul Sinai, e superare persino l’antenato eponimo, Giacobbe, colui che diede il suo nome a Israele. Si risalirebbe così a quell’Abramo la cui storia doveva necessariamente integrare, per riconciliarli e conciliarli, le diverse componenti di una storia plurisecolare, componenti vissute o sentite all’inizio come diverse, opposte, inconciliabili e talora fratricide.

          Percepire in questo modo il processo di una storiografia alla ricerca di origini pressoché assolute, cioè incontestabili ed «unificanti», significa percepire un progetto che non è solo di ordine storico, ma molto di più, di ordine nazionale e politico, e in modo ancora più definitivo di ordine religioso e spirituale, tanto che, nel contesto della scrittura biblica, non si possono separare e nemmeno distinguere i due ordini. In sé, sarebbe stato abbastanza insignificante che un uomo di Ur avesse deciso un bel giorno di lasciare la patria per dirigersi verso nord; e l’invito divino rivolto ad Abramo di compiere il suo periplo dal lato di Beerseba o di Ebron non avrebbe avuto maggiore significato di qualunque altra storia edificante.

          Ma che questo itinerario evochi «in un’eco interiore» l’itinerario del popolo di cui quest’uomo era detto l’antenato, che i luoghi santi fondati da lui sotto la diretta ispirazione divina fossero quelli a cui questo popolo si recava in pellegrinaggio, questo conferiva a questa storia che, per quanto religiosa, era personale, un significato esclusivo, ultimo e definitivo.
          Non si trattava più soltanto di una storia, nel senso dello storico; non si trattava più soltanto di pie leggende, per quanto fondanti un particolare santuario; non si trattava nemmeno più soltanto dell’itinerario mistico di un personaggio di alta levatura spirituale. Si trattava di far vivere un popolo indicandone il padre, colui in cui poteva non solo riconoscersi, ma riconciliarsi, assumendo tutta la sua storia nelle sue tensioni. Che si tratti di terra e di deserto, di nomadismo e di sedentarietà, d’alleanza e di legge (della circoncisione), Abramo, dall’oriente all’occidente, assicurava per finire e per cominciare l’unità di Israele.

          Così sognarono e scrissero i redattori della storia di Abramo. Così sognarono e lessero le generazioni ebraiche e cristiane, correndo il rischio del giudizio che uomini ebrei non esitarono a pronunciare, a partire da Giovanni Battista e Gesù stesso.




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