Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

V. MARIA PRESSO LA CROCE

La pericope di Gv 19,25-27 è veramente una scena notevole, inserita nel cuore del mistero pasquale di Cristo. La sua importanza emerge dalla densità del brano, dal contesto dell'"ora" e del suo rapporto con l'episodio di Cana.


Cana e la Croce

Iniziando da quest'ultimo, bisogna dire che la scena delle nozze (Gv, 1-12) non solo annunzia ed anticipa, in qualche misura, quella della croce, ma attinge in essa senso compiuto e rivela la sua densità. Poste all'inizio e al termine del Vangelo, costituiscono due episodi-chiave, fondamentali non solo per comprendere la figura e il ruolo di Maria, ma lo stesso messaggio giovanneo.

Le due scene, attentamente orchestrate appaiono in evidente parallelismo. I personaggi sono i medesimi:

  • Gesù, rispettivamente all'inizio e al compimento della sua opera;

     

  • La madre di Gesù (sua madre) - la "donna";

     

  • I discepoli.

     

In un caso come nell'altro, la Vergine non viene presentata col nome di "Maria", ma come "la madre di Gesù" e come "donna" titolo mai usato da un figlio nei confronti di sua madre! In ambedue i brani si parla dell'"ora" di Gesù, che a Cana non è ancora giunta (cf 2,4) e sul calvario è compiuta (cf 19,27). Sia l'episodio di Cana come quello della Croce sono seguiti dalla medesima espressione: "Dopo questo…" (2,12; 19,28).

E' una formula non semplicemente temporale, ma consequenziale, che nel contesto rivela notevole importanza:

  • v. 2,12: "Dopo questo" si ha una comunità di fede riunita intorno a Gesù;
  • v. 8,27: "dopo questo" tutte le cose sono compiute.

Possiamo dire, in generale, che se Cana si presenta sotto il segno dell'ora non ancora venuta, la Croce costituisce il compimento dell'ora.

Se a Cana c'era il "principio" dei segni, il segno archetipo, sulla Croce c'è il segno per eccellenza (il Figlio dell'uomo innalzato) che rivela la gloria di Dio, grazie al quale i discepoli credono in lui.

Gv 19,25-27 nel contesto dell'"ora" di Gesù

La scena di Gv 19, 25-27 riceve luce dal confronto con Cana, ma rivela la sua eccezionale densità nel contesto immediato degli "atti" di Gesù in croce (Gv 19, 17-37). Si tratta di cinque episodi nei quali si articola l'ultima fase della passione;

  • iscrizione del titolo sulla croce (vv. 19-22)
  • la divisione delle vesti (vv. 23-24)
  • le parole alla madre e al discepolo (vv 25-27)

     

  • il compimento dell'opera affidata dal Padre (vv. 28-30)
  • la trasfissione del costato (vv. 31-17).

La nostra pericope, come si vede, è al centro degli aventi supremi dell'ora di Cristo, tutti altamente simbolici e di eccezionale portata teologica.

Non si può non sottolineare con Bultmann la profonda unità di queste scene e la loro importanza dal momento che l'evangelista le presenta quale misterioso compimento delle Scritture.

Non possono dunque essere lette su un piano materiale e fenomenologico, ma devono essere intese quale rivelazione pasquale. Sembra anzi che proprio nel nostro episodio sia presene una scena di rivelazione, nella quale si manifesta la vera identità della madre di Gesù e del discepolo amato.

Nonostante la presenza di altre persone, al centro della scena del calvario ci sono - come si è notato - tre protagonisti:

  • Gesù, che nella sua maestà regale di Figlio dell'uomo innalzato sulla croce, comunica le rivelazioni supreme e dona le ultime disposizioni testamentarie.

     

  • Maria, la quale, a differenza di Cana, non parla, ma è al centro dell'attenzione quale depositaria principale della volontà del Figlio. Ella viene nominata quattro volte come madre di Gesù, una volta come madre del discepolo e una come "donna".

     

  • Il discepolo, non menzionato all'inizio tra coloro che stanno presso la croce, ma poi reso destinatario, come Maria del dono del Maestro.

     

Dal punto di vista della frequenza, la figura maggiormente sottolineata è Maria. Ella appare anzitutto quale madre di Gesù, ma anche come la "donna" madre del discepolo. Questa rivelazione esplicita, peculiare del quarto Vangelo, faceva parte dei segreti del Padre e del Figlio, dei misteri della salvezza, che solo al momento dell'"ora" vengono svelati.

Il discepolo, a sua volta, non è solo colui che segue il Maestro ed è da lui amato, ma - appunto perché tale - è anche il figlio della "donna".

Maria è così madre di Gesù e "donna"-madre del discepolo.

Se la maternità nei confronti di Gesù è tradizionalmente accettata, il titolo di "donna" e la maternità nei confronti del discepolo richiedono delle spiegazioni.

Il discepolo di Gesù

Come sempre nel quarto vangelo, e specialmente in queste scene della Passione, non ci si può limitare ad una comprensione materiale e dunque superficiale del messaggio. La nostra non è un semplice atto di pietà familiare nei confronti di una madre che sarebbe rimasta sola, come spesso si afferma, specie in ambito non-cattolico. Ciò contraddice al testo stesso che sottolinea anzitutto la presenza e il ruoli di Maria ("Donna, ecco il tuo figlio"), e solo in secondo luogo, come conseguenza, affida al discepolo la madre.

E poi i rapporti che intercorrono tra di essi non sono nell'ordine della natura, ma della generazione secondo lo spirito.

Chi è dunque il discepolo? E' una persona e al tempo stesso un simbolo. Secondo Bultmann le parole di Gesù innalzato solennemente sulla croce hanno in fondo lo stesso significato di quelle rivolte al Padre nella preghiera sacerdotale di Gv 17,20ss: "non prego soltanto per loro, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…".

Anche secondo M. Dibelius "il discepolo amato" esprime "il tipo dei discepoli": l'uomo della fede, il testimone della croce, "il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, con la loro posizione in rapporto a Dio, sono diventati essi pure fratelli di Gesù (20,17)".

Si noti che il discepolo, nel nostro testo, è presentato per tre volte (vv. 26-27) e sempre con l'articolo determinativo, per così dire, in forma enfatica: il discepolo amato rappresenta tutti coloro che hanno creduto ed hanno accolto Gesù. Essi costituiscono il nuovo popolo di Dio: sono la comunità dei redenti dal sacrificio dell'Agnello (al quale non dev'essere spezzato alcun osso) (vv. 33.36); sono la chiesa nata dal sangue e dall'acqua, scaturiti dal costato del Redentore (v. 34), la nuova Eva tratta dal fianco del nuovo Adamo dormiente sulla croce (cf Ef 5,23-32).

La "donna", madre dei figli di Dio

La "donna", per conseguenza, è madre del discepolo e dei discepoli, anzi della comunità di tutti coloro che erano dispersi e per i quali Gesù è morto. "Egli infatti doveva morite… per raccogliere nell'unità i dispersi figli di Dio" (Gv 11,51s).

Nel pensiero veterotestamentario i "dispersi figli di Dio" sono i figli d'Israele esiliati tra le genti a motivo dei loro peccati (cf Dt 4,25-27; 28,62-66; 30,1-4, ecc.). Il Signore che li aveva disseminati tra i popoli, lontano dalla loro terra, li ricondurrà nel loro paese e nella loro casa. Dei regni divisi di Israele e di Giuda farà un solo popolo e un discendente di Davide sarà il loro pastore (cr. Es 34, 23-24; 37,24). Con essi stringerà un'alleanza nuova, il cui mediatore sarà un misterioso "servo" di Dio (cf. es 42,6; 49,8), il quale offrirà la sua vita in riscatto per le moltitudini (cf 53,10s).

Tutte le genti verranno allora e si raduneranno in Gerusalemme, la quale diventerà madre di figli innumerevoli (cf Is 49,19-20; 60,1-9; Tb 32,12s). Già sposa di Dio - abbandonata a causa delle sue infedeltà e privata dei suoi figli - essa vedrà il ritorno del Signore ed accoglierà entro le sue mura una discendenza che non si può contare. Sarà una maternità prodigiosa ed universale. La città ed il popolo vengono indicati frequentemente col simbolo di una donna, sposa e madre, e con il titolo di "figli di Sion", invitata a gioire per la redenzione e il ritorno dei suoi figli. "Agli occhi della prima generazione cristiana - osserva A. Serra - la madre di Gesù si configurava come l'incarnazione ideale della "figlia di Sion". In lei, persona individua, maturava esemplarmente la vocazione di Sion-Geruasalemme e di tutto Israele, popolo dell'Alleanza".

Su questo sfondo, il discepolo amato rappresenta tutti i redenti, e Maria, la "donna"-figlia di Sion, simboleggia la comunità dell'alleanza, madre dei figli di Dio dispersi ed ora raccolti in unità.

Maria non è figura soltanto dell'antica figlia di Sion, nella quale peraltro le splendide promesse si realizzarono solo parzialmente e temporaneamente: ella realizza e inaugura, quale primizia, la vocazione della nuova Sion, la comunità del Nuovo Testamento, madre di tutti i credenti. Proprio perché madre di Cristo, "primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29), Maria è madre di tutti coloro che sono rinati per la fede in lui. La sua maternità, iniziata con al nascita di Gesù, attinge sul Calvario la sua pienezza. Come si vede, l'episodio di Gv 19,25-27 va ben al di là di una semplice scena domestica, d'un atto di premura filiale da parte di Gesù.

L'accoglienza della madre

Di fronte a questa maternità, dono-rivelazione del Maestro, il discepolo è chiamato ad un atteggiamento di fede, a un'adesione vitale, a una decisione che sorge dal profondo della sua libertà: decisione libera, ma non facoltativa. Il discepolo amato non può non accogliere il dono del suo Signore. L'accoglienza della madre è una delle note che caratterizzano il vero discepolo di Cristo. E "immediatamente, in quel momento stesso" (è l'esatta traduzione del testo) (v. 27), il discepolo l'accolse come madre.

L'"ora" dell'accoglienza della madre - che non è tanto indicazione cronologica, ma momento teologico - coincide (ed è di grande significato) con il compimento dell'"ora" di Gesù. l'espressione "dopo questo", con la quale inizia il verso seguente (v. 28) non è - come s'è notato - una semplice formula di transizione, ma intende sottolineare uno stretto legame tra quel che precede e quel che segue. "Dopo questo "In conseguenza di ciò), Gesù, sapendo che tutto era compito, affinché si compisse la Scrittura, dice… (v. 28). Come si vede è un linguaggio particolarmente solenne, nel caratteristico stile giovanneo, che colloca il nostro episodio al culmine dell'ora stabilita dal Padre e come suggello dell'opera salvifica. Con il dono-rivelazione di Maria quale madre dei credenti e con la sua accoglienza da parte del discepolo si compie l'opera di Cristo.

Sono visioni splendide e grandiose, che emergono quali perle preziose dalla profondità del Vangelo di Giovanni. La aveva già intuite il grande genio di Origene, per il quale nessuno può attingere il senso del quarto vangelo se non si è chinato sul petto di Gesù e se non ha ricevuto da Gesù Maria par madre.

Alla luce dell'episodio di Maria presso la croce, si illumina anche il misterioso "segno" di Cana. Si comprende meglio il senso delle nozze e dell'"ora", e il compito di quella "donna", nella vita dei discepoli del Signore.

L’enfant terrible del cristianesimo
di Daniel Marguerat *



In un recente, illuminante libretto, Daniel Marguerat ritorna sulla modernità di Paolo, l’enfant terrible del cristianesimo. Spirito dottrinario, tono ruvido, antifemminismo… non avrebbe sviato il puro messaggio di amore di Gesù in una opprimente dottrina del peccato? Già durante la sua vita, questo rinnegamento del giudaismo irritava. Oggi, molti cristiani lo hanno accantonato, e credono senza Paolo o malgrado lui. Chi legge ancora la corrispondenza di questo apostolo poco amato? Chi coglie l’importanza della "giustificazione secondo fede" o della "salvezza al di fuori delle opere della Legge"? Tuttavia, senza di lui, senza il suo genio a formulare le verità essenziali del cristianesimo, la cristianità sarebbe rimasta un’oscure setta. Senza di lui, duemila anni fa, il messaggio di Cristo non avrebbe infiammato il mondo intero. Se si vuole comprendere la rivoluzione che ha rappresentato nel I secolo lo slancio della fede cristiana, non si può evitare di leggere, e di voler comprendere, questo gigante definito talora il "fondatore del cristianesimo". Non senza fondamento: egli fu, più di chiunque altro, fondatore di comunità.

* Professore di Nuovo Testamento
Facoltà di Teologia, Università di Losanna



Tra Saulo di Tarso (il suo nome aramaico) e Gesù di Nazareth vi è ben poco in comune. Come spiegare allora che l'uno è stato preso per l’altro? Gesù è un ebreo della campagna palestinese, di professione falegname, figlio del popolo e amico di peccatori. Il suo messaggio si rivolge agli uomini e alle donne di Israele. Il suo ministero si è limitato alla Galilea, con un breve sprazzo finale a Gerusalemme. Saulo è un intellettuale della diaspora, nato a Tarso vicino ad Antiochia. Uomo di città e di cultura. Il suo impegno netto nel movimento farisaico lo ha introdotto nell'èlite religiosa del giudaismo del tempo. Forse fu allievo del grande rabbi Gamaliele (At 22,3). Ad ogni modo, la sua formazione all'esegesi rabbinica fu quella di un allievo brillante, capace di maneggiare la Scrittura secondo le regole dei maestri. La pratica del gezera shava, consistente nell'accostare due citazioni per interpretare l'una grazie all'altra, non ha per lui segreti (esempio: Gal 3,l0 e 12). Anche sostenere una parola della Torà con una citazione dei profeti è altrettanto comune in lui come nei rabbini della miglior tradizione. D'altra parte, le più recenti ricerche sul suo modo di condurre l'argomentazione mostrano che l’apostolo delle Genti è esperto nella pratica della retorica greco-romana, alla pari di un Cicerone o di un Quintiliano. Nulla di sorprendente, se si sa che la città di Tarso ospitava un'apprezzata scuola stoica: il padre di Paolo si fece un punto d'onore di mandarvi il figlio. Attraverso l’apprendimento della retorica passava una cultura raffinata.



Le sottigliezze di una doppia cultura

Queste due componenti della cultura di Paolo di Tarso spiegano la difficoltà di comprenderlo oggi; il suo stile, la sua logica, sono quelli di un uomo che suona costantemente su due tastiere: lo stile figurato, analogico del rabbi, e l'argomentazione lineare del retore romano (con introduzione, tesi, dimostrazione e perorazione). L'estrema difficoltà, per gli esegeti, consiste proprio nel tenere collegate le due modalità della sua riflessione, senza farle pendere completamente dal lato della sottigliezza rabbinica o dal lato del rigore dialettico. Ma il confronto con Gesù di Nazaret ripropone il problema: come capire che Paolo, l'intellettuale fariseo di alto livello, sia stato conquistato dal destino dell'uomo di Nazaret? La risposta va cercata nel folgorante sconvolgimento che è la "conversione" di Paolo sulla strada di Damasco. La si fa risalire all’incirca all'anno 32, cioè due anni dopo la morte di Gesù. La fede cristiana, Paolo non l'ha scoperta al suo tavolo di lavoro. Neppure nella profondità della meditazione. All'interno della sua pratica, all'interno della sua militanza, Paolo è stato fermato da Dio. Bloccato nel suo slancio. Ma che cosa è accaduto sulla via di Damasco perché Paolo ne esca stordito, demolito, smarrito? L'uomo si manterrà sempre riservato su questo punto. Quel che certo, è che, un giorno, le basi su cui aveva costruito la sua vita gli sono improvvisamente venute meno. Ne resta traccia in un passaggio autobiografico della lettera ai Filippesi. Paolo inizia elencando il suo impressionante albero genealogico-religioso: "circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge (Fil 3,5-6). Non si potrebbe pretendere maggiore garanzia di appartenenza ebraica! L'eccellenza dell’uomo di Tarso in materia di pietà legale gli permetteva di definirsi, con fierezza, "irreprensibile". Questo forte radicamento nella Torà lo aveva condotto, con tutta la tradizione farisaica, a rifiutare qualunque credito alla fede cristiana in un Messia crocifisso. Che il Dio onnipotente avesse qualche cosa in comune con il corpo di Gesù appeso al legno della croce non poteva essere che una ridicola superstizione, pericolosa e sovversiva. "L'appeso è una maledizione di Dio": questa frase del Deuteronomio (21,23) era citata come un anatema contro questi eretici. Si può confondere la grandezza divina con la fine miserabile di un Galileo, giudicato e condannato come blasfemo? È questo il motivo per cui, nella sua logica estremistica (la sua personalità lo porta a questo), Paolo si era ripromesso di difendere l'onore di Dio punendo quelli che iniziavano ad essere chiamati "cristiani". (Gal 1,13).



Fallimento della religione

Damasco è la scoperta di un fallimento. Non lo scacco di un uomo che non sarebbe stato capace di adempiere ai precetti della Torà. Al contrario: "irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge" (Fil 3,6). È lo scacco della Legge o, più esattamente, lo scacco della fede nella Legge che si presenta a Paolo come una folgorazione. Ecco dove conduce la Torà: a mettere in croce il Messia. Damasco è questo volgersi dello sguardo di Paolo sulla croce, che lo porta a capire come, al culmine dell'impegno per Dio, al culmine della pietà, l'uomo costruisca una croce per il Figlio. Paolo non determina lo scacco del giudaismo, come se altre credenze potessero meglio cogliere il mistero di Dio. Riflettendo su questo problema all'inizio della lettera ai Romani (1,18-3,20), Paolo giunge alla conclusione che "l'ebreo come il greco" falliscono nel loro tentativo di conoscere Dio. Paolo segna lo scacco di ogni religione. Non, una volta di più, attraverso il raziocinio, ma per averlo vissuto nella sua personale esperienza di vita. Ogni religione fallisce nel momento in cui fa nascere nell'uomo l'illusione di poter costruire il proprio valore davanti a Dio. Che si tratti di ammansire Dio attraverso l'osservanza della Torà (l'indagine dell'ebreo) o che si tratti di avvicinarsi a Dio attraverso la ricerca della sapienza (l'indagine del greco), l'errore è lo stesso: in entrambi i casi la pietà diventa un modo di catturare il divino per accattivarselo (I Cor 1,18-25). È il motivo per cui, dirà Paolo ai Corinzi, Dio ha scelto di salvare gli uomini attraverso il messaggio insensato, risibile, della croce: "E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1,22-23).
Alla sconfitta della religione che tenta di catturare Dio, Paolo oppone la pura gratuità della grazia.



Dio di tutti e di ciascuno

Non si comprende nulla del pensiero di Paolo se non si coglie a quale punto la sua immagine di Dio si è trovata proiettata: lo scorge all’opera nella sua fragilità. Lo credeva tirannico, lo scopre solidale. Lo pensava lontano, ed eccolo presente in ogni sofferenza. Dio non si lascia scoprire che da parte di coloro che abbandonano l'immagine del dio tirannico e si lasciano "giustificare", cioè accogliere, sulla sola base della loro fede in Lui.

Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell'umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l'aveva affermato con altrettanta forza. Che l'essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue (buone) intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teologia di Paolo. E, nelle categorie farisaiche della retribuzione, Paolo dirà: Dio giustifica ognuno senza badare alla sua osservanza della Legge. Egli concede la vita all'uomo "senza le opere della Legge" (Rm 3,21-28).

Di questa idea si alimenterà un concetto che segnerà profondamente l'Occidente cristiano; il concetto di individuo. Sotto l'influsso del pensiero paolino, l’umanità accoglie questa idea che l'individuo, sono qualsiasi latitudine viva, ha lo stesso valore. La Rivoluzione francese aggiungerà: deve godere degli stessi diritti.



Un problema di libertà

La doppia cultura di Saulo di Tarso (greco-romana ed ebraica) gli permette sintesi folgoranti, di cui la cristianità si alimenterà per crescere. La sconfitta della religione è una prima sintesi. L’approccio paolino al problema della libertà ne è un'altra. Gli stoici (ad esempio Epitteto o Seneca) ponevano con insistenza la questione della libertà umana. L'uomo è libero nelle sue scelte? Governa la propria vita? Alla constatazione negativa, gli stoici aggiungevano una risposta: dominare le passioni permette all'uomo di avvicinarsi alla libertà. Paolo riprende la questione, ma la sua constatazione è più radicale: non solo l'uomo non è libero, ma non è in grado di riconquistare la sua libertà attraverso un progetto di autocontrollo. Il peccato - nessuno nel Nuovo Testamento penserà il peccato con maggiore profondità di Paolo - aliena l'uomo e lo scaglia contro Dio. La sola via d'uscita per l'essere umano è di essere liberato dal di fuori, dal momento che non può farlo da solo. Il cap. 8 della Lettera ai Romani descrive questo lavorio dello Spirito nel credente, che, liberandolo dalla costrizione di costruire la sua propria salvezza, lo libera dalla preoccupazione di sé e lo apre alla cura di un altro.



Distruttore della Legge?

Rifiutando la Legge come via di salvezza, Paolo si è attirato l'incomprensione e la collera dei suoi antichi correligionari. Malgrado i suoi dinieghi ("la Legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento", Rm 7,12), l'apostolo delle Genti non si libererà mai dal sospetto di essere un trasgressore della Legge. All'intento del nascente cristianesimo, questo punto costituisce una grande divergenza tra Paolo e il giudeo-cristianesimo di Gerusalemme dominato dalla figura di Giacomo, fratello del Signore. In realtà, se Paolo nega alla Torà la capacità di essere strumento di salvezza (ormai conta solo la fede), Paolo non rifiuta la Legge quando si tratta di segnalare la fedeltà di vita cui sono chiamati i credenti. Arriva anche a dire che "la giustizia della Legge si compie in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito" (Rm 8,4). In pratica, il credente, non più preoccupato per sé, può aprirsi all'amore dell'altro, cosa che costituisce - per Paolo come per Gesù - il centro della Legge.

Se il rimprovero di distruggere la Legge non è giustificato per quanto riguarda Paolo, il suo discorso sul fallimento della religione (compresa quella ebraica) poneva l'apostolo davanti ad una via senza uscita: Dio, dando già da millenni, la Legge ad Israele, avrebbe sbagliato?



Perché il giudaismo?

La storia del popolo eletto sarebbe stata una storia inutile? Nei capp. 9-11 della Lettera ai Romani di Paolo, costretto ad affrontare la questione, propone una riflessione fondamentale sul destino di Israele. Essa rimane essenziale su quello che noi potremmo (e dovremmo) pensare oggi delle relazioni tra cristianesimo e giudaismo. La formula della salvezza offerta a "chiunque crede" fonda in realtà l'universalità della grazia, ma, contemporaneamente, sottrae ogni consistenza alla particolarità di Israele. Se il cristianesimo è la religione del Dio universale, perché il giudaismo? Seguiamo da vicino le argomentazioni di Rm 9-11. Paolo comincia col constatare il rifiuto opposto da Israele al Messia: gli ebrei non vogliono il Cristo (Rm 9), La parola di Dio è sconfitta? No, Dio indurisce chi vuole, dice Paolo, ed apre il cuore a chi vuole. Questo non impedisce, continua Paolo (Rm 10), che la maggioranza degli ebrei si sia chiusa alla parola del Vangelo. Essi hanno sentito la notizia, ma non vi hanno creduto. Dio avrebbe dunque rifiutato il suo popolo? Il semplice enunciato della questione fa sobbalzare Paolo (Rm 11): assolutamente no! In realtà, la storia di questo popolo ha sempre conosciuto l’indurimento della maggioranza e la fedeltà di un piccolo resto. I cristiani non ebrei corrispondono oggi a questa logica del piccolo resto: essi credono, mentre la maggior parte di Israele rifiuta.



L'enunciato di un mistero

Giunto a questo punto, Paolo sfiora la contraddizione: da un lato Israele è colpevole di chiudersi al Vangelo; dall'altra, fede e indurimento del cuore sono opera di Dio. A quale conclusione arrivare? Da questa scomoda posizione, l'apostolo fa la professione di un mistero: "Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che non saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato" (Rm 11,25-26).

Conclusione sbalorditiva! Al pericolo di cadere in contraddizione, Paolo sfugge enunciando un mistero teologico, cioè di una verità che non è data come la conclusione di un ragionamento, ma come una rivelazione. Il suo contenuto è chiaro: alla fine dei tempi, Israele sarà salvato. In altri termini Paolo ammette Israele ai beneficio della giustificazione per fede (quello stesso messaggio che Israele rifiuta). Se è vero che Dio salva per grazia, e senza tenere una contabilità degli sforzi dell'uomo per soddisfarlo, allora non terrà conto del rifiuto che Israele oppone al Messia. La grazia vale anche per il popolo eletto. Attraverso questo mistero, Paolo perviene a rendere giustizia da un lato alla scelta della maggioranza degli ebrei, che rompe col Cristianesimo e non vuole questo Messia. Egli prende dall'altro in considerazione la fedeltà di Dio alle sue promesse: Dio non rinnega la sua parola, nè i suoi. L'apostolo lascia così aperto l'avvenire di Israele, come una storia che deve compiersi tra Dio e il suo popolo eletto, e non riguarda che loro due. Se i cristiani hanno ragione di considerarsi beneficiari della grazia, il destino del popolo ebraico non li riguarda. Questo destino appartiene, giustamente, ad un mistero che si è già avviato tra Abramo e Dio. A questa inviolabile tenerezza di Dio per Israele, nessuno potrebbe attentare. Ma questo dovuto annullamento davanti alla grazia sovrana di Dio non significa per Paolo essere ridotto al silenzio: nel corso della sua intera corrispondenza, egli non cesserà di testimoniare che un dialogo esigente e serrato con il giudaismo è indispensabile alla ricerca della propria identità da parte del cristianesimo.

(da Il mondo della Bibbia n. 53)


Venerdì, 04 Marzo 2005 00:52

L’accompagnamento spirituale

L’ambito "spirituale" non si sottrae all’influsso dell’immenso mercato consumistico che offre, senza sosta, sempre nuovi prodotti. Le proposte, gli approcci e i metodi si moltiplicano rivendicando efficacia e successo.

18a Riunione del Comitato Internazionale
di Raccordo tra Cattolici ed Ebrei

Dichiarazione congiunta

Buenos Aires 5-8 luglio 2004.
Incontro dell’ International Catholic-Jewish Liaison Committee (ILC) sul tema:

Giustizia e Carità.
Affrontare le sfide del futuro:
 i rapporti ebraico-cattolici nel 21° secolo

I rapporti tra la Chiesa cattolica ed il popolo ebraico hanno sperimentato grandi cambiamenti dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate (1965), che ha sottolineato le radici ebraiche del Cristianesimo e il ricco patrimonio spirituale condiviso da Ebrei e Cristiani. Nell’ultimo quarto di secolo, il Papa Giovanni Paolo II ha approfittato di tutte le occasioni che si sono presentate per promuovere il dialogo tra le due comunità di fede, che considera inerente alle nostre identità. Questo dialogo ha generato un’intesa e un rispetto reciproci. Speriamo di continuare ad arrivare a circoli sempre più ampi e di toccare le menti ed i cuori di Cattolici ed Ebrei e dell’intera comunità.

La 18ª Riunione del Comitato internazionale di raccordo tra Cattolici ed Ebrei ha avuto luogo a Buenos Aires dal 5 all’8 luglio 2004. Questo incontro, celebrato per la prima volta in America Latina, ha avuto come tema centrale Tzedek and Tzedakah (Giustizia e Carità) nei loro aspetti teorici e nelle loro applicazioni pratiche. Le nostre decisioni sono state ispirate dal comandamento divino "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Lev 19,18; Mt 22,39). Dalle nostre diverse prospettive, abbiamo rinnovato il nostro impegno nei confronti della difesa e della promozione della dignità umana in base all’affermazione biblica per la quale ogni essere umano è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Ricordiamo la difesa dei diritti umani di Papa Giovanni XXIII per tutti i figli di Dio enunciata nella sua enciclica Pacem in Terris (1963) e le rendiamo un tributo speciale per aver iniziato questo scambio fondamentale nei rapporti ebraico-cattolici.

Il nostro impegno reciproco nei confronti della giustizia ha una profonda radice in entrambi i Credo religiosi. Ricordiamo la tradizione di aiutare la vedova, l’orfano, il povero e lo straniero derivanti dal comandamento di Dio (Es 22,20-22; Mt 25,31-46). I Maestri di Israele hanno sviluppato un’ampia dottrina di giustizia e carità per tutti, basata su una profonda comprensione del concetto di Tzedek. Costruendo sulla tradizione della Chiesa, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, Redemptor Hominis (1979), ricordava ai Cristiani che un vero rapporto con Dio richiede un forte impegno nel servizio nei confronti del nostro prossimo.

Anche se Dio ha creato l’essere umano nella diversità, lo ha dotato della stessa dignità. Condividiamo la convinzione per cui ogni persona ha diritto ad essere trattata con giustizia ed equità. Questo diritto include il fatto di condividere la grazia e i doni di Dio (hesed).

Vista la diffusione della povertà, dell’ingiustizia e della discriminazione, abbiamo il dovere religioso di preoccuparci per i poveri e per coloro che sono stati privati dei propri diritti politici, sociali e culturali. Gesù, radicandosi profondamente nella tradizione ebraica dei suoi tempi, ha fatto dell’impegno nei confronti dei poveri una priorità del Suo ministero. Il Talmud afferma che il Santo, sia Benedetto, ha sempre cura dei bisognosi. Attualmente questa preoccupazione deve comprendere ampi gruppi in tutti i continenti: gli affamati, gli orfani, le vittime dell’AIDS, tutti coloro che non ricevono cure mediche adeguate e quelli che non sperano in un futuro migliore. Nella tradizione ebraica, la forma superiore di carità consiste nell’abbattere le barriere che impediscono ai poveri di uscire dalla loro condizione di povertà. Negli ultimi anni la Chiesa ha sottolineato la propria scelta preferenziale per i poveri. Gli Ebrei e i Cristiani hanno lo stesso dovere di lavorare per la giustizia con carità (Tzedakah), arrivando così alla pace (Shalom) per tutta l’umanità. Fedeli alle nostre rispettive tradizioni religiose, vediamo questo impegno comune nei confronti della giustizia e della carità come la cooperazione dell’uomo con il piano divino per costruire un mondo migliore.

Alla luce di questo impegno comune, riconosciamo la necessità di trovare una soluzione per queste grandi sfide: la crescente disparità economica tra i popoli, la grande devastazione ecologica, gli aspetti negativi della globalizzazione e il bisogno urgente di lavorare per la pace e la riconciliazione.

Sono quindi benvenute le iniziative congiunte delle organizzazioni internazionali cattoliche ed ebraiche che hanno iniziato a lavorare per risolvere i problemi dei poveri, degli affamati e degli ammalati, dei giovani, di coloro che non hanno accesso all’educazione e degli anziani. Sulla base di queste azioni di giustizia sociale ci vogliamo impegnare a raddoppiare i nostri sforzi per soddisfare i bisogni più pressanti di tutti attraverso il nostro impegno comune nei confronti della giustizia e della carità.

Man mano che ci avviciniamo al 40° anniversario della Nostra Aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II che ha ripudiato l’accusa di deicidio contro gli Ebrei, ha riaffermato le radici ebraiche del Cristianesimo e ha condannato l’antisemitismo, prendiamo nota dei molti cambiamenti positivi che la Chiesa cattolica ha operato nei suoi rapporti con il popolo ebraico. Questi ultimi 40 anni di dialogo fraterno contrastano in maniera sostanziale con quasi duemila anni di "insegnamento del disprezzo", con tutte le sue dolorose conseguenze. Prendiamo energia dai frutti degli sforzi collettivi, che includono il riconoscimento del rapporto unico e continuo tra Dio e il popolo ebraico e il rifiuto totale dell’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni, incluso l’antisionismo come espressione più recente dell’antisemitismo.

Da parte sua, la comunità ebraica ha evidenziato un desiderio crescente di portare a termine un dialogo interreligioso ed azioni congiunte su questioni religiose, sociali e comunitarie a livello locale, nazionale e internazionale, come illustra il nuovo dialogo diretto tra il Gran Rabbinato di Israele e la Santa Sede. La comunità ebraica, inoltre, ha compiuto numerosi passi a livello di programmi educativi sul Cristianesimo, sull’eliminazione dei pregiudizi e sull’importanza del dialogo ebraico-cristiano. La comunità ebraica ha poi preso coscienza, deplorandolo, del fenomeno dell’anticattolicesimo in tutte le forme in cui si manifesta nella società.

Nel 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti, dichiariamo la nostra decisione di impedire la rinascita dell’antisemitismo che ha condotto al genocidio e alla Shoah. Su questo punto siamo uniti e seguiamo gli indirizzi delle principali conferenze internazionali su questo problema che sono state realizzate recentemente a Berlino e presso le Nazioni Unite a New York. Ricordiamo le parole del Papa Giovanni Paolo II, che ha affermato che l’antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’umanità.


Venerdì, 04 Marzo 2005 00:11

Yom Kippur

Yom Kippur
Il giorno dell’Espiazione o della Riconciliazione


Il Kippur, che ricorre il 10 del mese Tishri, conclude un periodo di penitenza della durata di 10 giorni e che inizia con il Capodanno (Rosh Ha-Shanà). Per gli ebrei è la solennità più importante, la celebrazione più sacra e quella che coinvolge maggiormente la sfera personale.

Secondo la tradizione ebraica, i quaranta giorni che precedono il giorno di Kippur, alla fine del periodo estivo e prima di inoltrarsi nell'autunno, sono il momento migliore per concentrarsi e per chiedere perdono (selicha') per le colpe commesse dall'individuo e dalla collettività.

E' detto anche Sabato dei Sabati per la sua importanza. In tale giorno sono proibiti ogni lavoro ed ogni attività umana. La giornata viene dedicata alla preghiera, alla confessione dei peccati, alla commemorazione dei defunti. Giorno dedicato al perdono da concedere alle persone che si sono macchiate di qualche colpa nei nostri confronti ed a quello da chiedere in vista delle riconciliazione con l’Eterno (per le colpe commesse verso D-o). È attraverso l'osservanza dell'assoluto digiuno (l’astensione dal mangiare e dal bere per 25 ore è obbligatoria per tutti gli adulti) e la preghiera che trascorre la giornata.

A Kippur le sinagoghe di tutto il mondo rimangono aperte per l’intera giornata, affinché tutti possano partecipare alla preghiera comune. Si recitano sette benedizioni in ciascuna delle cinque preghiere del giorno. Al termine viene suonato lo Shofar (strumento musicale a fiato usato fin dai tempi più antichi nel rituale ebraico e originariamente tratto da un corno di ariete).

Molti ebrei che sono lontani da una osservanza e da una pratica dell'ebraismo, si mostrano tuttavia particolarmente attenti ad osservare la ricorrenza del Kippur - almeno parzialmente - recandosi in sinagoga, seppure abitualmente durante l’anno non lo facciano.

Originariamente, Yom Kippur era l'unico giorno dell'anno in cui il Sommo Sacerdote entrava nel santuario interno del tempio (il Santo dei Santi) per offrire il sacrificio.

Giovedì, 03 Marzo 2005 00:37

Una storia per la pace (Enrico Peyretti)

Una storia per la pace
di Enrico Peyretti

"La storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera" (detto attribuito a Lev Tolstoj)

"La storia è una bugia su cui ci si è messi tutti d'accordo" (Napoleone)

Intendo che il compito dato a questo intervento sia la ricerca di un modo di concepire e raccontare la storia, tale da contribuire alla possibilità della pace. Perciò non darò qui bibliografie sulle ricerche storiche di pace, che possono essere trovate altrove (1).

Proverò invece a rispondere a tre domande: quale concezione della storia per una cultura di pace?; quale sentimento di fronte alla storia e quale ricerca storica contribuiscono alla pace?

Il presupposto, che mi pare ovvio, è che la storia non si impone a noi come un oggetto dato, ma noi la vediamo, la raccontiamo, la leggiamo, la orientiamo, la pratichiamo in una direzione o nell’altra, nella logica della violenza o della costruzione pacifica, secondo lo spirito con cui la viviamo e la osserviamo. La scelta preliminare della pace positiva dà luce su un certo profilo della storia, sia come pensiero interpretativo dei fatti passati, sia come azione presente nel mondo.

NOTE

    1. Una bibliografia da me curata, più volte pubblicata in edizioni successivamente crescenti e pur sempre incomplete, può essere richiesta a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Una sua sintesi è stata pubblicata in Effe, n. 9, estate 1998, rivista bibliografica delle Librerie Feltrinelli e, nell'aggiornamento a quella data, nell'Annuario di pace, Italia/maggio 2000-giugno 2001, Trieste, Asterios, 2001, pp. 339-352.



    1. Quale concezione della storia?

    La storia può essere pensata almeno secondo tre principali concezioni, ognuna delle quali può prevalere senza necessariamente escludere del tutto le altre:

    1. storia determinata o guidata principalmente da una dinamica di forze materiali: economiche, militari, organizzative, quantitative;

    2. oppure storia mossa da energie e risorse dello spirito umano, cioè come possibile progresso umano, possibile evoluzione umanizzatrice, civilizzatrice;

    3. storia composta da forze non solo umane ma umane e divine in libera sinergia, per l'affermazione del bene sul male (la salvezza), come nelle visioni religiose (dette di solito provvidenzialiste, termine che non deve essere inteso nel senso di fatalistiche e necessarie), specialmente nelle religioni storico-profetiche, del ceppo di Abramo, meglio che in quelle cosmiche, del ceppo indù (2).

    La prima di queste immagini della storia è quella che più facilmente si impone. Per esempio, i fatti del 1989 nell'Europa dell'Est, sono stati interpretati come la vittoria militare ed economica dell'Occidente nella terza guerra mondiale non combattuta, ma pur sempre decisa dalla forza militare, negando importanza decisiva, pur insieme ad altri fattori, alle rivoluzioni popolari nonviolente (3).

    Molte generazioni, ancora alcuni di noi, hanno imparato a scuola che la storia è mossa e promossa in definitiva dalle guerre, perché la storiografia è stata per lo più opera degli scribi delle corti e dei governi, occupati nelle guerre, o degli intellettuali delle classi dominanti. Poi è venuta l'attenzione degli storici alla vita dei popoli, fino alla microstoria del quotidiano, ben più seria, reale, interessante e istruttiva. Se la storia è questa, se è la storia della vita, allora essa comprende la guerra e la pace, l'amore e l'odio, la distruzione e la costruzione.

    La seconda visione della storia come fatta dallo spirito umano è propria non solo delle filosofie idealiste, ma anche delle filosofie etiche.

    Gandhi, quando gli viene contestato che la nonviolenza è fuori dalla storia, scrive: "La storia in realtà è una registrazione di ogni interruzione della costante azione della forza dell'amore o dell'anima [...], è una registrazione di un'interruzione del corso della natura. La forza dell'anima, essendo naturale, non viene registrata dalla storia". La storia è dunque, per Gandhi, un sismografo, che non scrive nulla quando la terra vive tranquilla e non trema, e si sveglia solo per registrare distruzione e morte. Gandhi dice pure che "il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi ma sulla forza della verità e dell'amore" (4).

    Cioè, questo fatto dimostra per Gandhi che la storia reale dell'umanità non è quella delle guerre. La vera storia è il tessuto continuo della vita, nel quale prevale, pur con mille limiti, la cooperazione; nel quale procedono le cose umane, pur con i problemi che la vita sa risolvere più o meno bene. In questo tessuto, violenza e guerre ne sono soltanto gli strappi. Le guerre e la violenza, anziché essere la storia, sarebbero proprio la non-storia, l'arresto e i vuoti della storia umana.

    Aldo Capitini ha questa idea della storia: "La storia vivente ha dimensioni molto più vaste di quella scritta. La storia non ha soltanto aperto questa strada, costruito questo argine, spostate queste pietre dal monte alla piazza architettonica; la storia ha dato moltissimo a me direttamente e interiormente, mediante l'umanità scesa in me dai miei, e abitudini, tendenze, linguaggio, mentalità, che provengono dalla storia e continuano in essa. Anche riguardo a cose elementari la storia mi ha mutato; e certamente non guardo l'alba, il monte, il mare, con lo stesso animo con cui avrei guardato quegli eventi così semplici tremila anni fa. Ormai non posso e non debbo disfarmi dell'attestazione interiore dei valori, perché mi parrebbe di spiantare la ragione d'essere e di svilupparsi di qualsiasi coscienza umana" (5). La sostanza della storia degli uomini è ciò che altrove Capitini chiama la "costruzione corale dei valori", che avviene nell'intimo, nel silenzio, nel continuo delle esistenze, nelle loro dimensioni di incontro e non di scontro eliminatorio.

    Per Levinas la ragione totalitaria, linea di fondo della filosofia occidentale, eleva la storia universale a giudizio inappellabile dell'operato dei singoli, considera la guerra come strumento risolutivo del confronto politico, e infine giustifica tutti i regimi totalitari (6).

    Ma col termine "infinito" opposto a "totalità", egli indica ciò che rompe la totalità, ed è la relazione etica, che sorge dall'appello veniente dal volto bisognoso ed indifeso dell'altro uomo. Questo atto etico non ha bisogno di alcun riconoscimento da parte del giudizio storico per essere sensato, e neppure ha bisogno della promessa religiosa (7), perché è esso stesso significazione di senso. L'atto etico è dunque la vera vicenda umana, che realizza l'umano, e non dipende dal cosiddetto successo storico (8).

    La storia registrata e celebrata, dunque, non è tutta la realtà. Uno dei "convincimenti etici fondamentali" che "molta parte, la parte migliore dell'umanità, ha posto a base del suo vivere in società, ha espresso in una straordinaria varietà di culture popolari tra loro non isolate e ha trasmesso, soprattutto attraverso la sapienza della donna, sino al momento presente", uno di questi convincimenti è "la tranquillità e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla storia" (9).

    Anche Gianni Vattimo, rifacendosi a Marcuse, ha espresso l'idea che la storia abbia come senso la riduzione della violenza (salvo poi vedere senz'altro la modernizzazione come effettiva riduzione di violenza, che è giudizio ben discutibile) (10). E dunque, quando avanza la violenza, la storia umana si arresta o arretra, e viceversa.

    Tutti questi modi di interpretare il cammino attraverso vicende che hanno come protagonista eminente lo spirito umano, vedono la storia come consistente soprattutto nelle opere di pace.

    Nella terza delle concezioni indicate, la visione religiosa o teologica della storia come storia della salvezza, attraverso i liberi e fallibili atti umani Dio vive insieme all'uomo la liberazione dal male e la crescita nel bene. Nessuna necessità divina sostituisce l'uomo, ma l'alleanza di Dio lo accompagna. La storia non è garantita dal rischio di fallire (la fedeltà infedele del popolo d'Israele nella Bibbia ebraica, poi, nella Bibbia cristiana, l'immagine mitica dell'inferno e della dannazione, o della distruzione apocalittica, significano questa possibilità di fallimento personale e collettivo), ma è sostenuta dalla speranza attiva. In particolare, nel cristianesimo, Dio si è abbassato (kenosis di cui parla la lettera di Paolo ai Filippesi 2,5-l1) nella condizione umana per condividere con l'umanità tutta l'esperienza del male e dell'ingiustizia più assurdi, per spezzarne l'assolutezza del potere con la forza dell'amore totale e infinitamente vitale. Questa storia di Dio con l'uomo si svolge non nei momenti isolati del rito religioso, ma nel tempo comune, dentro la storia umana, laica, quotidiana, fermentandola senza forzarla. Attraverso la libera fede e la risposta attiva e pratica, nella vita vissuta come amore, si compie la promessa e la profezia di salvezza, come disse Gesù nella sinagoga di Nazareth: "oggi questa parola si realizza tra voi" (11).

    Questo genere di vita nell’amore generoso e sovrabbondante, non può essere altro che costruzione di una storia di pace. In questa visione, la storia vera e salvifica è in corso, è il cuore di tutta la vicenda umana, ed è storia di pace attiva, nella lotta interiore contro il male, nella resistenza forte opposta alla violenza, ma nel perdono e nella mitezza anche verso il violento, per riguadagnarlo all'umanità.

    NOTE

      2. Per questa distinzione, che non va forzata, vedi. H. Küng , Cristianesimo e religioni universali, Milano, Mondadori, 1986, pp. 327-329; A. Rizzi, Il senso e il sacro. Lineamenti di filosofia della religione, Torino, Editrice Elle Di Ci, 1995, pp. 61-70. Raimon Panikkar, filosofo e teologo interculturale, euro-indiano, propone la visione della storia cosmo-teandrica, composta da energie naturali, divine, umane.

      3. Mi scriveva Norberto Bobbio, in una lettera del 10 settembre 1994: "La ragione principale per cui sono capi quei regimi, a cominciare da quelli della Germania Orientale, e della Russia stessa, è la sconfitta in una guerra (la guerra fredda), non combattuta, ma vinta, se non con l'esercizio diretto della violenza, con la minaccia d'una violenza, che si è manifestata alla fine di per sé stessa efficace. La pratica della nonviolenza non c'entra". G. Salio, in Il potere della nonviolenza, Torino, Gruppo Abele 1995, esamina una dozzina di diverse interpretazioni di quegli eventi, scegliendo poi quella di Johan Galtung, che riconosce tra i fattori decisivi l'azione popolare nonviolenta.

      4. M. GANDHI, Teoria e pratica della non violenza, Torino, Einaudi, 1996, pp. 64-65.

      5. A. CAPITINI, La vita religiosa, 2ª edizione, Bologna, Cappelli, 1985, p. 24, citato anche in G. ZANGA, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci editore, 1988, p. 78.

      6. E. LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano, Jaka Book, 1990, pp 19 20.

      7. ID., Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Roma, Città Nuova, 1984, p. 124

      8. Cfr. G. FERRETTI, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 102-103, 156-162,262-263.

      9. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, 2ª edizione, Genova, Marietti, 1995, p. 108.

      10. N. BOBBIO, G. BOSETTI, G. VATTIMO, La sinistra nell'età del karaoke, I libri di Reset Roma, Donzelli 1994. p. 54,

      11. Cfr vangelo di Luca 4,21. Questa lettura del cristianesimo non anzitutto come dottrina, nè morale, né culto rituale, ma come storia profetica, storia santa in atto, lettura che era più chiara nella teologia biblica del primo millennio cristiano, è richiamata oggi efficacemente, per esempio, da un grande monaco, scomparso nel novembre del 2000, Benedetto Calati, i cui saggi principali si possono vedere nella raccolta Sapienza Monastica, Roma, Studia Anselnilana, 1994. Nell'Introduzione a questo volume, Innocenzo Gargano scrive: "La profezia è insomma il mistero che si dispiega progressivamente nelle manifestazioni della bellezza cosmica, nella storia dei popoli, nel mistero nascosto in ogni uomo e donna e nella crescita di ciascun individuo", op. cit., pp. 55-56. Una più rapida e colloquiale esposizione del pensiero di Calati si trova nell'intervista-testamento raccolta da R. LUISE in La visione di un monaco, Assisi, Cittadella, 2000.



      2. Quale sentimento della storia?

      Questa seconda domanda vuole individuare gli atteggiamenti profondi ed esistenziali, prima che elaborati ed interpretativi, con cui gli umani si pongono davanti agli avvenimenti e ai movimenti della storia umana: atteggiamenti e sentimenti di rassegnazione e adattamento a ciò che avviene? Oppure volontà di cambiamento verso un maggior valore, verso un senso migliore, discernendo bene e male, giusto e ingiusto, positivo e negativo? E quale sarà il criterio distintivo tra questi opposti?

      Se ci si pone davanti alla storia avvenuta e alla storia in atto in modo attivo e positivo, il passato sarà osservato per trarne esperienza, ma non sarà proiettato sul presente e sul futuro come una legge fatale, ed il futuro potrà essere progettato e voluto con caratteri migliori di tante situazioni ed eventi del passato.

      Qui entra in gioco davvero l'opzione profonda tra violenza e nonviolenza, tra la legge della forza e della sopraffazione da un lato e, dall'altro lato, la legge dell'equivalenza, cioè dell'uguale valore tra gli esseri umani e del necessario reciproco rispetto assoluto. La "regola d'oro" presente in tutte le culture umane, detta in decine di modi diversi ma analoghi (ne ho raccolti circa venticinque), esprime e comanda questa equivalenza e questo rispetto: non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te (in negativo); fai agli altri quel che desideri che gli altri facciano a te (in positivo).

      L'opzione è dunque essenzialmente morale, ed avviene nell'intimo dell'animo umano, nella libera (relativamente ma realmente libera) decisione fondamentale. Come opzione fondamentale, essa può essere contraddetta da singoli atti della persona, ma vale ancora se rimane l'orientamento di fondo di quella persona.

      Di fronte al male pesantemente presente nella storia e nel presente, la persona che ha scelto di agire secondo la regola d'oro, impegnandosi a superare la violenza della storia anzitutto a cominciare da sè (12), imparerà a indignarsi senza odiare (13), ad impegnarsi, sentendosi presa-in-pegno dal valore degli altri, sentendo che il confine buoni-cattivi, bene-male non passa tra due campi o categorie, ma tra due comportamenti, due spiriti e atteggiamenti tra i quali ognuno ha da scegliere e decidersi, dentro di sé.

      NOTE

        12. Cfr. E. HILLESUM: "È proprio l'unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri" (Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, p. 212).

        13. N. NERI, autrice di Un'estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Milano, Bruno Mondadori, 1999, nel quale mostra come nessuna vittima, nel Novecento, era riuscita come lei a "trasformare il dolore in forza", evidenzia la centralità in Etty Hillesum dell'indignarsi senza "odiare", in un intervento torinese del maggio 2000, ora leggibile nell’opuscolo Il pensiero di un 'estrema compassione, Coop. Studi, via Ormea 69, 10125 Torino, tel 011-650.31.58, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., p- 35.




        3. Quale ricerca storica?

        La ricerca, in generale, dipende da ciò che già si preconosce in parte e per ciò si desidera conoscere, proprio perché non si conosce del tutto: Eros, per Platone, è figlio di ricchezza e povertà: ha e non ha ciò che cerca; è filosofo chi non è sapiente come gli dei, né ignorante come gli animali bruti, ma ha un po' di sapienza e ne desidera altra, come gli esseri umani; Agostino intuisce che Dio dice a chi lo cerca: "Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato".

        Che cosa si cerca nella storia? La scelta degli oggetti, degli ambiti, dei profili che andiamo a cercare nel mare immenso della realtà storica dipende dai sentimenti con cui alla storia guardiamo. E questi derivano dalla prime esperienze dell'esistenza personale, dalla cultura in cui si viene educati, e infine dalle scelte morali con cui personalmente si reagisce alle influenze ricevute e alla realtà incontrata.

        In conseguenza di ciò che ognuno cerca e va a vedere nella storia, si forma la propria concezione della storia. La quale è quell'immagine del cammino umano nel tempo che una data tradizione, un dato insegnamento, una data ricerca e un dato orientamento personale ci danno. Una certa selezione dei fatti storici, da un certo punto di vista, forma quella certa filosofia della storia, che poi determina l'ottica con cui torniamo a cercare fatti e significati nella storia conoscibile. La ricerca storica dipende dal sentimento con cui guardiamo la storia e plasma l'idea della storia, che continuerà a guidare la nostra ricerca. Se abbiamo visto solo guerre e non abbiamo reagito con una indignazione attiva e impegnata a vedere di più, continueremo a vedere solo guerre, a cercare solo guerre nel passato, e a non aspettarci altro che inevitabili guerre nel futuro.

        Per esempio, nei fatti del 1989, Johan Galtung vede la combinazione di tre fattori: il primato della politica, la politica di pace, il potere popolare dei due tipi di movimenti di base, per la pace all'ovest, del dissenso all'est, perché, in quanto cercatore di pace, ha la vista preparata a riconoscere le condizioni che rendono possibili grandi rivolgimenti politici senza uso di violenza. Altri, i più, anche Bobbio, hanno visto soltanto la maggiore minaccia militare e la più forte pressione economica come causa della vittoria occidentale nella guerra non combattuta, ma rimasta minaccia effettiva, la Guerra Fredda. Così la guerra, le armi, la sopraffazione sono riconosciute regine inamovibili della storia (14).

        Un altro esempio: la Resistenza italiana al nazifascismo è stata per lungo tempo interpretata unicamente in termini militari. Anna Bravo ha ricordato che nel dopoguerra l'apposita commissione del Ministero della Difesa riconosceva la qualifica di partigiano soltanto a chi aveva partecipato a tre azioni armate (15).

        Ma Anna Maria Bruzzone affermava: "Nel nostro libro (16) abbiamo dato lo stesso valore a chi ha sparato e a chi ha nascosto in casa gli ebrei" (17).

        Nel lavoro citato alla nota 15, La Resistenza civile nelle ricerche storiche, ho cercato di seguire e dimostrare l'evoluzione, fino al 1995, della storiografia della Resistenza nello scoprire e riconoscere la realtà della resistenza civile. Claudio Pavone, che, nel suo saggio maggiore del 1991 (18) era rimasto insensibile alla ricerca della resistenza civile, non armata, nel 1995 riconosceva chiaramente, grazie al lavoro di Bravo e Bruzzone, il "valore euristico" del concetto di resistenza civile, che è "qualcosa di più ampio della cosiddetta resistenza passiva (19)

        Jacques Semelin, il maggiore storico europeo della resistenza civile, ha scritto nella sua opera principale: "Non è stata la sola curiosità storica a motivare questa ricerca: essa è nata da un interrogativo più profondo, di natura etica e strategica, sulle capacità delle società di resistere senz'armi ad una aggressione (o occupazione militare o potere totalitario)" (20).

        Dunque, sono il bisogno e il desiderio di vedere che permettono allo storico serio di vedere, non di sognare, ciò che senza quel desiderio non saprebbe vedere. Il bisogno e la scelta della pace permettono di vedere la pace anche nella storia e non solo nell'utopia. Il pensiero desiderante, spesso disprezzato dai realisti duri, aiuta, guida, illumina la conoscenza della realtà effettiva.

        Per superare la guerra, metterla fuori dalla storia, liberare l'umanità da questo flagello, bisogna inventare e valorizzare le alternative. In questo modo bisogna vedere anche la storia, evidenziando non tanto le paci imposte dai vincitori ai vinti, che sono l'atto di guerra culminante e lo scopo delle guerre stesse, non le paci-intervallo tra le guerre, ma le paci-invece-delle-guerre, cioè i conflitti condotti a soluzioni non distruttive e non omicide.

        Così pure, è da fare anche una storia controfattuale. Non è vero che la storia non si fa con i "se". È invece importante studiare le alternative di pace lasciate cadere, o non viste per incapacità immaginativa, o soffocate per volontà contraria, e ipotizzare le differenti condizioni ed opportunità che ne sarebbero seguite. Non è vero che la storia si fa unicamente con i fatti pesantemente avvenuti. Anche le occasioni perse sono realtà storica da meditare, per fare oggi e domani una storia di qualità umana migliore.

        Questa è ricerca storica per la pace. La ricerca delle alternative alla guerra è particolarmente convincente quando è possibile rintracciare, nella storia fattuale, casi reali (pochi o tanti) di difesa dei giusti diritti, di liberazione da un'oppressione, di lotte condotte senza riprodurre la violenza omicida che si vuole respingere. Quel che è fatto è possibile, anche se appare difficile. La dominante cultura di guerra ha di fatto ignorato queste forme di resistenza e di liberazione, facendole apparire impossibili. A questa scoperta un ramo della cultura della pace sta lavorando in questi anni.

        A conclusione della presente relazione, segnalo il libro di due intrepidi ricercatori per la pace dell'Università di Granada (21), che imposta precisamente il lavoro per una Storia della Pace. Da questa opera traduco alcune righe, a pag. 29, nelle quali si può vedere una profonda consonanza col brano di Gandhi da me citato all'inizio:

        Vorremmo cominciare formulando questa asserzione: le esperienze pacifiche, di scambio, cooperazione, solidarietà, diplomazia, sono state dominanti nella Storia. E, tuttavia, questa è una storia che, forse perché la sua quotidianità e naturalezza non lasciano tracce visibili e dimostrabili, e perché nemmeno fa rumore, non ha avuto bisogno di essere fatta risaltare. Nei paragrafi seguenti proponiamo alcune linee sulle quali costruire una storia della pace: la pace silenziosa; la storia della socializzazione umana, della solidarietà e cooperazione; la storia e le esperienze della "bassa entropia"; la negoziazione come articolazione positiva di realtà in conflitto. Evidentemente, non saranno le uniche linee possibili per la costruzione della Storia della Pace (Peace History), ma con buona probabilità serviranno per alimentare il dibattito a questo riguardo". (In nota, è indicata la rivista Peace and Change come lo spazio nel quale si sono concentrati molteplici sforzi in tal senso).

        Alberto L'Abate ha studiato le precedenti esperienze di interventi alternativi alla guerra in zone di acuti conflitti (22) e ne ha realizzati egli stesso (23). Anche per questo aspetto di prima importanza del suo lavoro lo ringraziamo e lo festeggiamo oggi (24).

        NOTE

          14. Cfr. E. HILLESUM: "È proprio l'unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri" (Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, p. 212).

          15. N. NERI, autrice di Un'estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Milano, Bruno Mondadori, 1999, nel quale mostra come nessuna vittima, nel Novecento, era riuscita come lei a "trasformare il dolore in forza", evidenzia la centralità in Etty Hillesum dell'indignarsi senza "odiare", in un intervento torinese del maggio 2000, ora leggibile nell’opuscolo Il pensiero di un 'estrema compassione, Coop. Studi, via Ormea 69, 10125 Torino, tel 011-650.31.58, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., p- 35.

          16. Cfr. la lettera di Bobbio e il libro di G. SALIO, Il potere della nonviolenza, citati alla nota 3.

          17. Anna Bravo citata da E. PEYREITI in La Resistenza civile nelle ricerche storiche, in Fascismo, Resistenza, Letteratura. Percorsi storico-letterari del Novecento italiano, I Quaderni del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, n. 2, febbraio 1997, pp. 61-87. La citazione è a p. 67.

          18. A. BRAVO, A.M. BRUZZONE, In guerra senza armi. Storie di donne 1943-1945, Bari, Laterza, 1995.

          19. Cfr. La Resistenza civile..., cit. alla nota 15, p. 67.

          20. C. PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

          21. Id., I percorsi di questo speciale, articolo introduttivo al fascicolo de Il Ponte, n. 1/1995, dedicato a Resistenza. Gli attori, le identità, i bilanci storiografici, p. 13.

          22. J. SEMELIN, Senz'armi di fronte a Hitler, Torino, Sonda, 1993. p. 13.

          23. Historia de la Paz. Tiempos,, espacios y actores, a cura di F.A. Munoz, M. Lòpez Martìnez, Colleccion Eirene, n. 12, Instituto de la Paz y los Conflictos, Granada, Universidad de Granada, 2000.

          24. A. L'ABATE, Forze nonarmate e nonviolente di pace. I precedenti storici, in volontari di pace in Medio Oriente, a cura di Alberto L'Abate e Silvano Tartarini. I Quaderni della D.P.N.,. n. 21, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 1993, pp. 17-35.

          25. Si veda, per esempio, il fascicolo citato nella nota precedente e, di A. L’ABATE, Kossovo: una guerra annunciata. Attività e proposte della diplomazia non ufficiale per prevenire la destabilizzazione nei Balcani, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 1999. In questo libro L'Abate riassume l'attività che ha svolto per due anni nella "Ambasciata di pace" a Pristina.

          26. Il saggio qui pubblicato è una rielaborazione della relazione tenuta nel convegno in onore di Alberto L'Abate, per i suoi settant'anni: "La nonviolenza nella ricerca, nell'educazione, nell'azione", Torino, 12.02.2001.

          (Tratto da Quaderni Satygraha n. 4 – dicembre 2003 – pag. 105)

          Spiritualità Marista 

          di Padre Franco Gioannetti
           




          Ventinovesima parte

          Per Colin la nostra congregazione si riaggancia idealmente e spiritualmente alla Chiesa nascente, alla comunità apostolica di Gerusalemme, radunata con Maria, inviata dalla Spirito Santo verso i confini della terra. In “Parole di un fondatore” (42/3), dice: “Noi non prendiamo come modello alcun corpo; non abbiamo che altro modello che la Chiesa nascente, la società di Maria ha cominciato come la Chiesa; bisogna essere come gli apostoli e come quelli che si unirono a loro: cor unum et anima una”.  

          Ancora interessate è quanto dice in “Parole di un fondatore” (159): “Quelli che partono per l’Oceania imitino gli apostoli; quelli che restano in Europa imitino la Chiesa primitiva, alla fine dei tempi la Chiesa sarà come nei tempi apostolici” . Il termine apostolato in Colin si rifà alla concezione antica esistente nella chiesa, secondo la quale la vita apostolica prima di essere un compito è una forma di vita, un preciso modo di rapportarsi a Cristo, di imitarlo, di lasciarsi inviare da Lui, a portare la Sua Parola per le vie del mondo. Nell’antica e autentica tradizione della chiesa, nella patristica, nel nascere della vita religiosa: apostolato e apostolico significano l’imitazione del genere di vita degli apostoli e della chiesa primitiva radunata intorno ai dodici. Questo è il concetto che Colin ha recepito, vissuto e proposto. Da dove può aver tratto il padre Colin questa concezione?

          Egli aveva in mano ogni giorno il Nuovo Testamento: il gruppo dei dodici intorno a Gesù, il loro invio nel mondo, la loro umiltà di cuore e di anima, il legame tra la comunità apostolica e Maria, tutti temi che egli meditava ed interiorizzava e poi richiamava continuamente ai suoi religiosi. Ma non possiamo neanche escludere un influsso dai contatti avuti con la Trappa e con la Chartreuse.

          Quindi probabilmente una concezione nata dal Vangelo e dall’esperienza.
          Da questa concezione di vita apostolica cogliamo la tensione a voler riprodurre nel marista la consacrazione delle persone al vangelo come fu vissuta dai dodici apostoli e dai primi discepoli.

          Il fondatore vedeva chiarissimo l’innesto della società di Maria nella chiesa nascente, nella chiesa apostolica e pur aderendo fedelmente alla dottrina del servizio petrino nella chiesa universale aveva scelto per connaturalità ed istinto interiore l’ecclesiologia della chiesa nascente radunata ella Pentecoste intorno a Maria, una chiesa piccola, povera, umile.
          Padre Colin si collocava dunque nella linea della spiritualità antica dei Padri e della vita religiosa nascente che avevano visto nella chiesa apostolica il modello di ogni altra comunità cristiana. Pur nella fedeltà a Roma Colin recupera questa ecclesiologia e cerca di attuarla nella congregazione e nella missione marista.

          La chiesa nascente continua, in quanto movimento missionario, nella società di Maria, i cui membri partono dalla comunione per portare l’annuncio di salvezza.


          La divinizzazione che rimane come aspirazione nell'uomo può diventare una parola vuota, un'illusione crudele perché l'uomo si ritrova ad essere "secondo" l'immagine di ciò che ha creato, diventa a-logikós, folle e perverso perché adora ciò che non ha consistenza di vita eterna, adora la visibilità della vita creata.

          Martedì, 01 Marzo 2005 22:27

          I Padri Apologisti (Lorenzo Dattrino)

          I Padri Apologisti
          di Lorenzo Dattrino




          A confronto con giudaismo, paganesimo e impero romano.

          Un primo aspetto fondamentale del cristianesimo è l’universalità : una religione non di un solo popolo, ma per tutti. I cristiani adorano un solo vero Dio; professano una morale in antitesi con i criteri tradizionali del paganesimo; il mondo pagano cerca, a più riprese, ora di emarginare, ora di assorbire il cristianesimo. Ma i cristiani mantengono la propria identità e sopportano con coraggio le persecuzioni.  In questo clima ostile escono allo scoperto non pochi scrittori cristiani: loro primo obiettivo è dissipare le opinioni correnti che mettono in falsa luce la fede e la vita dei cristiani. 

          L’apparizione di tali opere va considerata come un fatto del tutto nuovo nella storia del cristianesimo, anche per la natura di tali scritti.  Gli apologisti intuiscono che occorre scendere sul terreno stesso degli avversari per dimostrare che è la dottrina cristiana la vera interprete della ragione dell’uomo, e non le molteplici e spesso contraddittorie enunciazioni della filosofia.  L’azione degli apologisti, inoltre, si propone di rendere accettabile la dottrina cristiana sotto la luce della piena credibilità, e di guadagnare proseliti alla chiesa.

          L’interrogativo drammatico che i pensatori cristiani si propongono è questo: dialoghiamo con il mondo, oppure, per mantenere la nostra identità, ci arrocchiamo e non permettiamo che il Kerigma venga “annacquato “ dalla filosofia pagana ?

          Scorgiamo due risposte : quella di Taziano, il quale intende “chiudere porte e finestre“ per non lasciare entrare nemmeno uno “spiffero di ellenismo“; quella di Giustino, il quale spalanca le porte e vuole dialogare a 360 gradi. Prevarrà la linea del dialogo e sarà vincente.  Il Kerigma cristiano, nato in contesto semitico, viene inculturato nel contesto ellenistico e permea l’area del bacino del Mediterraneo.

          Relazione introduttiva del presidente
          La spiritualità ecumenica
          Card. Walter Kasper


          La spiritualità ecumenica. Relazione introduttiva del presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani card. Walter Kasper, in "Il regno-documenti", 21 (2003), pp. 653-658; riduzione del testo a cura di Cesare Filippini.



          I princìpi

          Il Pontificio consiglio non fa ecumenismo a suo gradimento, né cerca di imporlo come gli aggrada, ma compie la missione che Gesù ha affidato ai suoi discepoli alla vigilia della sua morte (Gv 17,21) e agisce per mandato della Chiesa che ha scelto il cammino ecumenico inaugurato dal Concilio Vaticano II. L’ecumenismo non è una semplice appendice alla missione pastorale della Chiesa, ma appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione (Unitatis redintegratio, n. 1), ed esso è una delle priorità pastorali dell’attuale pontificato (Ut unum sint, n. 99).

          La promozione dell’unità dei cristiani è compito dell’ecumenismo ad extra, cioè ell’ecumenismo del dialogo; dell’ecumenismo ad intra, cioè la promozione e divulgazione dello spirito e dell’azione ecumenici nella stessa Chiesa cattolica. Questi due ecumenismi devono avvenire nella verità e nella carità. Il suo scopo dichiarato è l’unità visibile della Chiesa nella fede, nei sacramenti, soprattutto nella comune celebrazione dell’eucaristia e nel ministero gerarchico.


          La situazione ecumenica: luci e ombre

          1. Siamo testimoni di un’incoraggiante crescita alla base della consapevolezza ecumenica. L’ecumenismo è una realtà scontata, solidamente radicata nella vita della Chiesa. Esso non ha assunto soltanto la forma di un’attività esteriore, ma abbiamo un gran numero di testimonianze toccanti di una spiritualità ecumenica vissuta. Nell’insieme, si può affermare che il compito affidato al Pontificio consiglio corrisponde alle attese e alle aspirazioni di numerosi cristiani, "che tutti siano una cosa sola".

          È ancora attuale quanto Giovanni Paolo II ha sottolineato nell’enciclica Ut unum sint riferendosi ai frutti del dialogo (n. 41; EV 14/2741). Il Santo Padre afferma che il vero frutto è la fraternità ritrovata.

          L’unità della Chiesa è, al tempo stesso, segno e strumento dell’unità del genere umano (LG n. 1). Per questo motivo, la solidarietà dei cristiani tra di loro è un servizio reso a tutta l’umanità. In questo senso è stato commovente e significativo rilevare lo scorso anno, la sintonia non concertata delle Chiese e comunità ecclesiali, che si sono prnunciate a favore della pace e contro la guerra. Nella giornata di preghiera per la pace (2002 ad Assisi) hanno affermato insieme che Dio è una parola di pace, e che egli non può dunque, in alcun modo, essere invocato per giustificare la guerra.

          2. Inversamente, esistono purtroppo tendenze d’orientamento opposto che suscitano tensioni e, a volte, anche divisioni in seno alle Chiese. Se, da una parte, si perviene a vincere gli antichi contrasti, dall’altra insorgono nuove divergenze, per la maggior parte in materia etica: aborto, divorzio, eutanasia, omosessualità; analogamente i problemi etnici, sociali e politici hanno spesso l’effetto di causare divisioni. Le tensioni tra le Chiese ortodosse autocefale, nell’ambito della Comunione anglicana e delle comunità di tradizione della Riforma, come anche a volte nella Chiesa cattolica, nuocciono al dialogo.

          In tale contesto il Consiglio si chiede chi sono i suoi partner in una situazione in cui si constata la paralisi di alcune famiglie confessionali mondiali provocata dai loro conflitti interni. In linea di principio il Pontificio consiglio intrattiene un dialogo teologico con l’insieme delle Chiese ortodosse e con le famiglie confessionali mondiali.

          Un altro problema sorge dal fatto che la consapevolezza ecumenica e la pratica dell’ecumenismo sono spesso superficiali. Il pensiero pluralista e relativista moderno e postmoderno, che si discosta dalla questione della verità, vuole negligere le differenze attuali in materia di fede e si impone una tolleranza mal compresa, non basata sul rispetto dell’opinione altrui, ma su un atteggiamento indifferente nei confronti delle proprie convinzioni di fede e di quelle dell’altro. L’ecumenismo, allora, non è la causa, ma la vittima di questo relativismo.

          Di fronte a questo pericolo, in tutte le Chiese e comunità ecclesiali si notano i segni forieri di un nuovo confessionalismo. Malgrado le preoccupazioni, giustificate e non da trascurare, che affiorano in queste tendenze, non è una soluzione praticabile il ripiegarsi sulla propria identità confessionale che basta a se stessa. Il movimento ecumenico postula disponibilità al cambiamento di pensiero, alla conversione e alla riconciliazione. Quando alcuni comportamenti sconfinano nel fondamentalismo fanatico, essi possono condurre, anche oggi, a forme d’ostilità confessionale e perfino a manifestazioni violente.

          3. Quest’ultimo fenomeno si riscontra in modo particolare nelle sette, antiche e nuove, e in numerosi movimenti neo-religiosi. Il problema è estremamente complesso e le sue cause sono molteplici. Il concetto stesso di setta è molto difficile da definire e fino a ora teologi e sociologi della religione non sono pervenuti a intendersi sull’argomento. Abbiamo a che fare con una vasta gamma di fenomeni che non sono affatto uniformi tra loro e che emergono nelle diverse regioni del mondo con caratteristiche diverse.

          Sullo sfondo di questo movimento si intravedono diversi motivi ed elementi: delle autentiche preoccupazioni spirituali, elementi eclettici, sincretisti, ovvero ideologici di una nuova gnosi, motivi politici ed economici, smania del miracoloso, vanagloria, manifestazioni demoniache.

          Il dialogo rimane molto difficile, se non spesso impossibile, con le sette che affermano in modo aggressivo un esclusivismo fanatico della salvezza. Nella pratica, tuttavia, molte sfumature sono possibili. Constatiamo ciò soprattutto con i movimenti carismatici e pentecostali.

          Il dialogo con le Chiese orientali

          1. Il dialogo con le Chiese orientali è stato una delle più accentuate priorità dell’attività del Consiglio durante gli ultimi due anni. Siamo molto vicini a queste Chiese nella fede, nei sacramenti e nel ministero episcopale e siamo legati ad esse in una "comunione della fede e della carità". Esse conservano una ricchezza spirituale che è patrimonio della Chiesa universale. Nei nostri contatti le difficoltà sono causate da fattori non teologici, dalla diversità di storia, di cultura e di mentalità. Tuttavia siamo lieti di poter affermare che i vincoli di communio fraterna con molte singole Chiese ortodosse si sono rafforzati in modo impensabile fino a poco tempo fa. A tali progressi ecumenici hanno ampiamente contribuito i viaggi del papa. Il Pontificio consiglio ha potuto anch’esso stabilire nuovi contatti e annodare nuove amicizie in occasione di una serie di visite.

          Un’ulteriore e incoraggiante esperienza di dialogo è stata realizzata con le antiche Chiese dell’Oriente.

          2. Le relazioni con la Chiesa ortodossa russa, nell’insieme buone fino alla svolta politica del 1989-1990, hanno assunto una configurazione delicata. A partire da quegli anni (’89-’90) vi sono state lamentele al riguardo del cosiddetto uniatismo (relativamente alla Chiesa greco-cattolica in Ucraina occidentale) e del proselitismo, lamentele che si sono riaccese nel febbraio 2002 con l’erezione di circoscrizioni ecclesiastiche nella federazione russa e, più recentemente, nel Kazakistan. A queste difficoltà si aggiungono i problemi teologici circa la comprensione della Chiesa (autocefalia, territorio canonico, comprensione del termine Chiesa sorella).

          Tuttavia il dialogo non si è mai completamente interrotto: una serie di contatti informali hanno avuto luogo negli ultimi due anni e, più di recente, sono emersi segni della volontà di un netto, anche se lento, miglioramento delle relazioni. Sarebbe auspicabile stabilire una sorta di codice di comportamento tra il Patriarcato di Mosca e la Conferenza episcopale cattolica di Russia (ovvero la Santa sede).

          3. Il problema principale nelle nostre relazioni con le Chiese orientali è costituito dall’impasse in cui si dibatte il dialogo teologico internazionale avviato nel 1980 con le Chiese ortodosse nel loro insieme. Difficoltà interne tra alcune Chiese ortodosse hanno impedito una nuova convocazione della Commissione, anche se si manifesta da parte di tutti il desiderio di continuare il dialogo.

          Nel maggio scorso, il Pontificio consiglio ha convocato un simposio accademico cattolico-ortodosso sul ministero petrino. La riunione è stata caratterizzata da interventi ad alto livello scientifico e si è svolta in un’atmosfera molto positiva. Il problema teologico centrale è quello della koinonia/communio, quello cioè che riguarda l’autocefalia. In prospettiva futura bisogna elaborare il concetto concreto e la prassi di una comunione universale nel pieno rispetto delle ricche e antiche tradizioni liturgiche, teologiche, spirituali e canoniche delle Chiese orientali.

          I rapporti della Chiesa cattolica con singole Chiese orientali seguono un cammino positivo e pieno di promesse.

          Il dialogo con le comunità ecclesiali occidentali

          1. Le differenze non soltanto storiche e culturali, ma anche di carattere dottrinale, con le comunità ecclesistiche occidentali sono più gravi di quelle con le Chiese orientali. Quanto è stato detto sui cambiamenti della scena ecumenica e sulle luci e ombre dell’ecumenismo si applica anche ai dialoghi con le comunità ecclesiali occidentali. Tra le Chiese e comunità ecclesiali, la Chiesa cattolica è di gran lunga la Chiesa che intrattiene il maggior numero di dialoghi ecumenici. Dalle Dichiarazioni ufficiali i dialoghi avanzano lentamente, ma con serietà.

          Un accenno particolare merita il dialogo con la Comunione anglicana che progrediva assai positivamente, ma che improvvisamente, a causa dei nuovi problemi etici, ha rallentato il cammino.

          2. Un’analisi più approfondita di tali difficoltà permette di constatare, al di là degli umori del momento, per la maggior parte passeggeri, il problema di fondo nel dialogo con le comunità ecclesiali di tradizione della Riforma. Abbiamo a che fare con delle ecclesiologie diverse che conducono a diverse concezioni dello scopo ecumenico al quale si tende. Tali concezioni suscitano attese differenziate che, per loro natura, provocano delusioni da una parte e dall’altra proprio per il fatto che un partner non risponde a ciò che l’altro si attende da lui. Questa situazione ha portato ad una sorta di situazione di stallo che rende impossibile ogni progresso sostanziale, fino a quando cioè le questioni dell’ecclesiologia non saranno fondamentalmente risolte.

          Lo scopo ecumenico, dal punto di vista cattolico, è la comunione piena e visibile nella fede, nei sacramenti e nel ministero gerarchico. Questa comunione – vedi l’esempio delle Chiese orientali – considera una ricchezza la pluralità delle forme d’espressione delle diverse Chiese locali a condizione che esse non comportino divergenze sostanziali. Da ciò si discosta il modello d’unità proposto dalla Concordia di Leuenberg (1973) diventato predominante soprattutto nel contesto del protestantesimo del continente europeo.

          Secondo tale modello, le Chiese confessionali fino ad ora separate adottano una forma di comunione ecclesiale che presuppone un consenso di principio circa la comprensione del Vangelo, pur lasciando sussistere professioni di fede diverse. Dal punto di vista confessionale ed istituzionale, le Chiese restano separate, ma sono in comunione per il pulpito e la santa Cena; inoltre riconoscono reciprocamente i loro ministeri rispettivi. Tale pluralismo confessionale è considerato legittimo sulla base del N.T.

          Risulta chiaro che una tale comprensione della comunione ecclesiale si distingue fondamentalmente dall’unità ecclesiale in quanto unità di communio secondo la concezione cattolica. Si comprende allora in che modo e per quale motivo le Chiese protestanti insistano attualmente sull’intercomunione ovvero sull’ospitalià eucaristica.

          3. Il modello di Leuenberg non è l’unico e solo modello applicato da parte evangelica; ci sono anche i risultati del dialogo con gli anglicani, la dichiarazione della Chiesa luterana evangelica d’America, la dichiarazione della Chiesa luterana del Canada. Studiosi di Lutero, sia protestanti che cattolici, hanno dimostrato che la sua intenzione – come quella degli altri riformatori – non era di fondare una propria Chiesa confessionale, ma di riformare, a partire dal Vangelo, la Chiesa universale esistente. Un tale progetto è fallito per ragioni sia teologiche che politiche. Poiché attualmente il movimento ecumenico accoglie le richieste legittime degli uni e degli altri come uno "scambio di doni", viene a cadere per ciò stesso ogni legittimità di una separazione delle Chiese.

          L’ecumenismo in un prossimo futuro

          La situazione che abbiamo descritto non deve essere motivo di rassegnazione. Nel frattempo il movimento ecumenico è pervenuto ad una situazione untermedia di buon vicinato e di communio ecclesiale più profonda sebbene non ancora completa. Si tratta ora di un ecumenismo di vita; si tratta di dare forma ad una situazione intermedia e d’infondere la vita in una tale situazione. Se potessimo realizzare tutto ciò che è fattibile, e anche opportuno, senza difficoltà e senza infrangere nessuna regola ecclesiale, saremo molto più avanti nel nostro cammino.

          Alla luce di quanto detto vorrei attirare particolarmente l’attenzione su un punto. Di fronte all’attuale pericolo di erosione di ciò che secondo i principi cattolici dell’ecumenismo costituisce la base di fede dell’ecumenismo – il battesimo e la fede battesimale, il Credo – è necessario rinforzare tali fondamenta. In conformità con l’ultima Assemblea plenaria il Pontificio consiglio ha iniziato questo compito chiedendo alle conferenze episcopali di pervenire ad un accordo sul reciproco riconoscimento del battesimo con i loro partner ecumenici, ovvero di verificare e approfondire gli accordi esistenti. Non si tratta soltanto del riconoscimento formale della validità del battesimo conferito con l’acqua e con la formula trinitaria, ma di un accordo sulla comprensione del battesimo e della professione di fede che di esso fa parte. Le reazioni che sono pervenute fino ad ora a queste iniziative del nostro dicastero sono incoraggianti.

          Aristotele ha dimostrato che ogni comunità, stato compreso, dipende, per la sua conservazione, dall’amicizia e dalla cerchia dei suoi amici (Nic. Etica 1155; 1160a-61a). L’amicizia è un’importante categoria del N.T. ed è un termine che i primi cristiani usavano per descrivere se stessi. (Gv 15,11-15; 3 Gv 15). L’ecumenismo non progredisce principalmente con documenti e azioni, ma grazie alle amicizie che superano le barriere confessionali. In ragione dell’unico battesimo, della comune appartenenza all’unico corpo di Cristo, della vita che emana dallo Spirito Santo, queste amicizie vanno al di là di una semplice simpatia umana e creano innanzitutto quel clima di fiducia e di reciproca accettazione che permette al dialogo teologico di fare sostanziali progressi.

          L’ecumenismo spirituale è l’anima e il fulcro del movimento ecumenico. Alla spiritualità ecumenica appartiene in primo luogo la preghiera, che si concentra nella settimana di preghiera per l’unità; grazie ad essa, cresce in noi la consapevolezza che l’unità non può essere frutto soltanto degli sforzi umani; l’unità è un dono dello Spirito; come esseri umani non la possiamo fare. Importante è la conversione e la santificazione personale, poiché non vi è ecumenismo vero senza conversione personale e rinnovamento istituzionale.

          Ritengo che, soprattutto a partire da una comprensione purificata e chiarificata della spiritualità ecumenica, si possa pervenire a una pratica ecumenica rinnovata e approfondita, capace di imprimere un nuovo slancio alla ricerca ecumenica, e liberarla dalle difficoltà, dalle aporie e dalle crisi attuali.


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