Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Centralità della prospettiva ecumenica
nei documenti del concilio
di Lorenzo Cappelletti




Il Simposio annuale che il COP organizza assieme all'Istituto teologico leoniano è giunto alla sua VII edizione e dunque comincia ad assurgere ormai alla dignità di un appuntamento tradizionale in questo mese di gennaio. Il tema scelto quest'anno, «Parrocchia, comunità di vita ecumenica. Esperienze di ecumenismo in parrocchia», oltreché stimolante è, per molteplici ragioni, legato alla natura e al compito tanto del COP quanto dell'Istituto teologico.

Lascio ad altri autorevoli interventi di rappresentanti del COP, in primis quello di mons. Bonicelli per tanti anni suo presidente, di introdurre i lavori, situando nell'attualità pastorale tale tema. Per conto mio vorrei solo ricordare innanzitutto la centralità della prospettiva ecumenica nei documenti del concilio ecumenico Vaticano II. A cominciare dal discorso d'apertura della seconda sessione del concilio, il 29 settembre 1963, quando Paolo VI disse che, insieme a una più meditata definizione che la Chiesa doveva dare di sé e al suo rinnovamento, «terzo scopo che interessa questo concilio e ne costituisce, in un certo senso, il suo dramma spirituale è quello che riguarda gli altri cristiani, coloro, cioè, che credono in Cristo ma che noi - diceva il papa con la sua prosa accurata - non abbiamo la fortuna di annoverare con noi compaginati nella perfetta unità di Cristo».

D'altra parte, tanto in apertura che in chiusura dei lavori di quel concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI ne affermavano all'unisono la natura tipicamente pastorale: «Si dovrà ricorrere a un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale», diceva papa Giovanni l'11 ottobre 1962; gli facevano eco le parole di Paolo VI nella omelia di chiusura del 7 dicembre 1965, quando diceva che «il concilio aveva scelto la sollecitudine pastorale come nota specifica dei suoi lavori».

Se si uniscono le due prospettive, si vede che niente è più congruo al mandato del concilio di un simposio che metta a tema l'ecumenismo in chiave pastorale. E specificamente all'interno delle attività di una realtà impegnata nella pastorale come il COP e delle attività di un centro di studi come l'Istituto teologico leoniano. Si legge infatti in Unitatis redintegratio 5 che «la cura di ristabilire l'unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca a ognuno secondo le proprie capacità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici». E ancora al n. 10 che «l'insegnamento della sacra teologia e delle altre discipline specialmente storiche [questo, in quanto storico, mi riguarda anche più personalmente] deve essere fatto anche sotto l'aspetto ecumenico».

Altri documenti usciti recentemente fra cui il Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo del 1993, a cura del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, o l'enciclica Ut unum sint del 1995, sono venuti non solo a ribadire che «tutti i fedeli sono chiamati ad impegnarsi per realizzare una comunione crescente con gli altri cristiani» (Direttorio § 55), ma a dettagliare le modalità di tale impegno. Affermando che ambiti privilegiati della formazione ecumenica debbano essere la parrocchia (cf. § 67), gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali (§ 69) e le Facoltà ecclesiastiche, tanto che, «nell'insegnamento e nella ricerca teologica non deve mai mancare la dimensione ecumenica» (§ 88). Ma è anche in ragione della sua origine da Leone XIII che l'Istituto teologico leoniano deve mantenere viva una particolare attenzione alla riunificazione dei cristiani, a cui il suo fondatore dedicò ben 6 encicliche, 7 lettere apostoliche, 14 allocuzioni e 5 discorsi. Scrive Bernard Stasiewski: «Con il pontificato di Leone XIII, che, oltre alla sua generosa politica di comprensione nel campo politico e sociale,intendeva perseguire una riconciliazione con gli anglicani e con le Chiese orientali autonome, cominciò una nuova fase dei rapporti fra Roma e la cristianità dell'Oriente».

Eppure quel papa proveniva da una terra che non aveva conosciuto per esperienza diretta i problemi e le opportunità legate alla compresenza di differenti confessioni cristiane.

Ora questa terra è diventata, come tutta l'Italia, luogo di immigrazione di uomini provenienti da tanti Paesi dell'Europa, dell' Asia, dell' Africa, parte dei quali appartenenti a comunità non in piena comunione o anche soltanto con usi diversi da quelli latini. E dunque il dramma spirituale del concilio (il concilio, ricordiamolo, non solo di Unitatis redintegratio ma anche di Gaudium et spes e di Dignitatis humanae) è diventato obiettivamente il dramma di ogni singolo cristiano anche delle nostre parrocchie. Ma con ciò è diventato più nostro un aspetto del disegno provvidenziale di Dio che magari fin qui risultava incomprensibile: il movimento degli uomini, popoli e nazioni rende presente il senso provvidenziale che tutto governa, come si legge nel discorso di Paolo all'Areopago: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cercassero Dio se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui, infatti, viviamo ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto "Perché di lui stirpe noi siamo"» (At 17,26-28).

Come già riconosceva al suo esordio Unitatis redintegratio è «il Signore dei secoli che con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori» (n.1) l'autore primo di «questo movimento per l'unità chiamato ecumenico» (ivi). Non solo perché ha cominciato a effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l'interiore ravvedimento e il desiderio dell'unione, ma forse anche attraverso proprio quel grande muoversi di uomini e popoli che caratterizza la nostra epoca.

(da Orientamenti pastorali, 4, 2005)

I libri della Bibbia
e gli "apocrifi"
di Gaetano Castello


 

Una qualunque edizione cattolica della Bibbia elenca settantatre libri, divisi nelle due grandi sezioni dell'Antico (quarantasei libri) e del Nuovo Testamento (ventisette libri). Anche la loro successione è costante. È tuttavia naturale, per la natura stessa della Bibbia, per il suo lungo processo di formazione durato oltre un millennio, che la sistemazione dei libri riconosciuti dalla Chiesa come "ispirati" sia avvenuta nel tempo. Può meravigliare sapere che il "canone", la lista completa dei libri biblici, fu fissato in maniera autorevole e definitiva solamente nel 1546, con i Decreta de Sacris Scripturis del Concilio di Trento. Prima di quel momento non mancava certamente il riferimento a liste ritenute ufficiali, ma la crisi determinata all'interno del mondo cristiano con la riforma protestante che rifiutò la canonicità di alcuni libri, impose con urgenza il problema di stabilire in maniera definitiva "semel pro semper", quali fossero i libri ritenuti "ispirati" dalla Chiesa.

Il canone della Scrittura

Con questo breve accenno al problema del canone biblico, risulta chiaro che anche per questo aspetto bisogna parlare della Bibbia in termini storici. È già accaduto quando si è accennato alla formazione della Bibbia ed alla sua natura divino-umana. E per questa sua caratteristica fondamentale che la Sacra Scrittura non può essere assimilata a una sorta di scritto preconfezionato da Dio e semplicemente consegnato nelle mani dell'uomo. La collaborazione tra Dio e l'uomo iniziò già prima che nascessero i testi sacri, quando chiamò Abramo, quando svelò a Giacobbe il destino suo e del suo popolo: continuò nell'impulso divino che mosse alcuni uomini a mettere per iscritto esperienze e parole che avrebbero continuato a rivelare nel tempo la volontà e la natura di Dio; proseguì nell'opera di discernimento a cui i credenti furono chiamati per accogliere le divine Scritture distinguendole da tanti scritti simili per forma ma non ispirati da Dio. Questo processo continua oggi con l'azione dello Spirito che accompagna la lettura e la comprensione delle sacre Scritture nella comunità dei credenti, e nel servizio di discernimento, affidato ai successori degli apostoli, sull'interpretazione autentica della Scrittura.

È in quest'ampio contesto, storico e di fede, che va affrontato anche il problema del canone, altrimenti incomprensibile. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, al n. 8, afferma perciò che "la stessa tradizione (che trae origine dagli apostoli) fa conoscere alla Chiesa il canone integrale dei libri sacri".

A determinare la canonicità, il riconoscimento cioè che quei libri sono frutto dell'azione ispiratrice dello Spirito Santo, non fu un unico e determinato elemento, ma l'uso e l'accoglienza di essi nelle comunità cristiane vagliato dal discernimento attento di chi nellaChiesa continuò la missione degli apostoli.

Il canone ebraico

La definizione del canone biblico fu dunque graduale. Già molto tempo prima di Gesù Cristo, nel mondo ebraico venivano venerati come scritti sacri i rotoli della Torah, i primi cinque libri della Bibbia definiti dai cristiani, con termine greco, Pentateuco. La loro origine divina non fu messa in dubbio nemmeno nelle travagliate vicende storiche che portarono a conflitti e separazioni all'interno stesso dell' ebraismo. Così, per es., i samaritani, pur divisi ed in lotta con i giudei, conservarono e venerarono sempre, fino ad oggi, la Torah come parola di Dio. Anche per gli scritti profetici, che per gli ebrei comprendono i "profeti anteriori" (Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele e 1 e 2 Re) ed i "profeti posteriori" (Isaia, Geremia, Ezechiele, e i dodici profeti minori) vi sono testimonianze molto antiche circa il loro uso liturgico ed il riconoscimento della loro ispirazione.

Ne dà testimonianza, in particolare, il prologo del Siracide che parla, già alla sua epoca (II sec. a.C.), di Torah, Profeti e Scritti. Proprio la terza categoria fu quella più fluttuante. Comprendeva infatti libri di diverso genere, dai salmi ai libri sapienziali, a libri di tipo storico. Dall'altra parte vi sono testimonianze antiche circa l'uso di libri che poi non entreranno nel canone ebraico né in quello cristiano. Ciò non deve meravigliare. La definizione del canone avvenne, come si è detto, non per un principio unico prestabilito, ma per la graduale, comune presa di coscienza che alcuni di quei libri presentavano autenticamente la parola di Dio a differenza di altri che pure utili, consigliabili per la consultazione e per l'edificazione, non esprimevano autenticamente la parola di Dio.

Gesù e i suoi discepoli condivisero, all' inizio dell' era cristiana, quest'uso spontaneo delle scritture sacre dei giudei, il cui primo posto era senza dubbio assegnato alla Torah. La liturgia sinagogale, come riferiscono gli stessi Vangeli, sin da allora prevedeva la lettura di pagine dei profeti, come Gesù stesso ebbe modo di fare (cf Lc 4,16-19). Tuttavia ancora a quell'epoca non si può parlare di un "canone" ebraico, di qualcosa che corrisponda alla nostra idea di una lista ben fissata e definita di tutti i libri ispirati. Il bisogno di una definizione dovette farsi sentire soprattutto nel conflitto crescente tra sinagoga e Chiesa. Il fatto che i cristiani si ritenessero gli eredi legittimi delle scritture di Israele portò, tra le prime conseguenze, al rifiuto ebraico della traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta (in sigla L XX). Il largo uso che i cristiani fecero delle scritture ebraiche nella loro versione greca, portò i giudei a sostituire quella traduzione, nata per i tanti giudei sparsi nell'area mediterranea e che comprendevano ormai solamente il greco, con nuove versioni greche comparse nel secondo secolo dopo Cristo (Aquila, Simmaco, Teodozione).

È dunque in questo contesto di tipo polemico, soprattutto a difesa della propria identità, che si andò a mano a mano precisando quali fossero i libri sacri per il mondo giudaico. Il processo di definizione fu sollecitato anche dal grande disastro determinato dai Romani che nel 70 d.C. ad opera di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme, deportarono molti giudei, annientando dal punto di vista organizzativo, politico, militare, religioso, quello che era sino ad allora il mondo giudaico. Dopo una simile catastrofe è indubbio che fosse avvertito con urgenza il problema di una ricostituzione, del recupero della propria identità nazionale e religiosa che dovette passare, tra l'altro, attraverso la distinzione da quel gruppo di giudei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia atteso e che utilizzavano gli scritti sacri dell'ebraismo.

Gli ebrei esclusero così alcuni libri di cui non si conosceva l'originale ebraico o che furono addirittura composti in greco. Si tratta dei cosiddetti deuterocanonici: Tobia, Giuditta, i due libri dei Maccabei, Baruk ed epistola di Geremia ( = Bar 6), Siracide, Sapienza, con le sezioni di Daniele ed Ester scritte in greco (Dn 13-14; Est 10,4-16,24). È per questo che la Bibbia ebraica presenta sette libri in meno rispetto all'AT dei cattolici. Al canone ebraico si uniformeranno più tardi i riformatori protestanti che definiranno "apocrifi" i libri deuterocanonici sopra elencati, escludendoli dalle loro Bibbie.

Come si diceva, la Chiesa primitiva condivise la comune fede ebraica nell'autorità dei libri ritenuti sacri. Vi sono testimonianze, anche presso alcuni antichi autori cristiani, circa l'uso di libri che non entreranno a far parte del canone biblico, né di quello ebraico né di quello cristiano; il caso più evidente è quello della lettera di Giuda che al v. 14 cita il libro di Enoch, uno scritto giudaico che non entrerà nel canone ebraico né in quello cristiano. Segno evidente che l'estensione del canone dell'AT andrà chiarendosi solo gradualmente.

Il canone del NT

Sempre in questa chiave storico-religiosa, va individuata l'origine del canone del Nuovo Testamento. Anche per le comunità cristiane delle origini abbiamo testimonianze di un uso antichissimo e costante di alcuni libri ritenuti universalmente come ispirati (è il caso dei Vangeli, delle lettere di Paolo), ed un uso diversificato di altri libri, ritenuti sacri ed utilizzati in alcune comunità e non in altre.

È il caso della lettera agli Ebrei, quella di Giacomo, la seconda lettera di Pietro, la seconda e la terza di Giovanni, quella di Giuda e l'Apocalisse.

Al contrario, vi furono testi utilizzati da alcune comunità che saranno abbandonati e non riconosciuti, alla fine, come testi ispirati. Anche per il NT non esistette un unico criterio per decidere della canonicità, benché l'origine apostolica (reale o apparente) e la conformità degli scritti alla fede apostolica dovettero essere elementi importanti nel discernimento.

La formazione del canone dipese, insomma, dalla coscienza dell'ispirazione. Nella misura in cui ebraismo cristianesimo si andarono organizzando e uniformarono gli usi nelle diverse comunità, sorse il problema di elencare con precisione i libri da proporre alla comunità dei credenti come "parola di Dio". Testimonianze di questa esigenza risalgono a tempi molto antichi. È il caso della lista contenuta nel famoso "Frammento muratoriano", del II secolo d.C.; della lista di Origene (III sec.) o di quella di Eusebio (IV sec.). Tuttavia solo alla fine del IV sec., con le liste di Atanasio e di Agostino, e soprattutto con quelle dei Concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) si avrà la lista lunga valida nell'Occidente cristiano. Si tratta del canone che sarà poi ripreso dal Concilio di Firenze (1441).

Nessuno dei Concili citati aveva tuttavia affrontato il problema in maniera esplicitamente definitiva, quasi non avvertendone il bisogno, che invece si presentò come urgenza quando i riformatori esclusero dal canone i libri deuterocanonici. Essi designarono, tali libri con il nome di "apocrifi", riservato dai cattolici a quei testi che pur trattando di argomenti simili ai libri biblici, ed in forma simile, furono esclusi dal canone delle Scritture Sacre perché non riconosciuti come libri "ispirati".

Questi libri conservano naturalmente un interesse del tipo storico e culturale sempre meglio apprezzato, nella misura in cui si distingue anche per essi il genere letterario, le circostanze e le finalità per le quali vennero scritti. In relazione all’ AT è il caso di quella vasta produzione letteraria che si sviluppò nell’ambito della cosiddetta "apocalittica giudaica", tra il II sec. a.C. ed il I d.C.

Un caso particolarmente interessante per i cristiani è quello dei cosiddetti Vange li apocrifi da cui derivano addirittura notizie mantenute nell'ambito della tradizione cristiana (come per es., le notizie sull'infanzia e sui genitori di Maria, Gioachino è d Anna, dei quali si ha notizia nel Protoevangelo di Giacomo, del 200 d.C., ca.).

Sempre relativamente ai vangeli apocrifi non è difficile notare come si differenzino notevolmente dai Vangeli canonici. Mentre questi ultimi conservano una certa sobrietà nel raccontare le vicende di Gesù di Nazaret, finalizzata alla testimonianza di fede, vero scopodegli scritti evangelici (cf Gv 20,30-31), gli apocrifi abbondano di tratti descrittivi che hanno a che fare con la ricerca del prodigioso.

Ne sono testimonianza alcune storie di cui ritroviamo l'eco in racconti tramandati soprattutto ai bambini sull'infanzia di Gesù, o alcune rappresentazioni della passione di Gesù (per es. il Vangelo di Nicodemo) con evidenti tendenze pro-romane, in cui Pilato, rappresentante del vittorioso mondo di Roma, appare quasi come un eroe del cristianesimo, vinto dalla protervia giudaica. Altri scritti apocrifi, come il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo ecc., ebbero una più chiara origine di elaborazione gnosticheggiante del messaggio cristiano. Proprio l’uso di alcuni di questi scritti da parte di gruppi eterodossi fu uno degli elementi che ne determinarono l'esclusione dal canone.

Oggi nel mondo protestante le Bibbie presentano l'AT nella forma ridotta dei primi riformatori. Come nei primi tempi della Riforma, tuttavia, i sette libri deuterocanonici vengono spesso raccolti in appendice all'AT chiarendo che essi sono esclusi dal canone ebraico. Non si presentano invece differenze per quanto riguarda il canone del NT.

Proprio la questione del canone biblico, uno dei motivi originari della rottura tra cattolici e protestanti, si presenta oggi come un campo fecondo di riflessione e di la dialogo ecumenico.

(da Parole di vita)

Giovedì, 07 Luglio 2005 01:33

Il fuoco sacro della pace (Marcelo Barros)

Il fuoco sacro della pace

di Marcelo Barros




Accesa da uno sciamano brasiliano quando cessano le piogge, o divampata in un braciere davanti al portale di una chiesa durante la veglia di pasqua, la fiamma dell'amore e della pace attende di essere appiccata ovunque. Per bruciare il vecchio e fare spazio al nuovo.

Nella parte centro-occidentale del Brasile, quando il tempo cambia, le piogge cessano e i venti d’autunno soffiano sulla folta foresta, in qualche luogo segreto della montagna qualcuno accende il fuoco sacro della pace. Si tratta di un antico rito indio, rivissuto da persone che si rifanno alla saggezza degli antichi maestri. Prima di accendere il fuoco, chi vuole ricevere l'energia degli antichi sciamani trascorre un intero giorno in meditazione e digiuno. La fiamma, attivata con pochi arbusti e una manciata di erba secca, divampa rapidamente, alimentandosi del legno degli alberi abbattuti dalle tempeste. Questo "sacrificio" del vecchio consentirà ai nuovi arbusti di germogliare e di crescere, preannunci di una pace totale che invaderà il mondo intero.

La notte del sabato 26 marzo scorso (o alle prime ore di domenica 27), due giorni dopo la prima luna piena della nuova stagione, tutte le comunità cattoliche del mondo si sono riunite nella Veglia pasquale ("la festa delle feste", "la madre di tutte le vigilie") per celebrare il centro della loro fede: la risurrezione di Gesù dalla morte e il dono a tutti della vita senza fine. Una liturgia suggestiva, ricca di simboli e gesti che coincidono con il mistero. Emozionante il momento del "lucernario", con l'accensione e la benedizione del fuoco nuovo, che la tradizione vorrebbe avviato da scintille sprigionate da due pietre focaie. Anche qui, il mistero è il significato del segno: questo fuoco è la somma espressione del trionfo della luce sulle tenebre, del calore sul freddo, della vita sulla morte; è l'inizio della nuova creazione; è il simbolo del rinnovamento, della purificazione, della trasformazione, del calore e della gioia. Giustamente, i cristiani collegano questo fuoco con il Cristo che esce vivo dalla pietra del sepolcro: luce per illuminare il mondo, amore per riscaldarlo, pace (shalom) per renderlo sempre più simile al Regno di Dio.

Sulla montagna brasiliana, lo sciamano chiede allo Spirito che il fuoco che egli ha acceso in quel piccolissimo punto del mondo si unisca a tutte le fiamme di amore e di pace che ardono in tutti gli angoli della terra, per indicare il senso di ogni sincera ricerca umana. E lo Spirito sussurra ai quattro venti che la persona è là dove c'è il suo cuore; che la fiamma intima che illumina il cuore non può essere attivata da nessuna pietra focaia percossa in questo o quel determinato rito; che la pace interiore si raggiunge solo attraverso il perseverante e arduo sforzo che ciascuno di noi è chiamato a compiere, per domare la fiera che è dentro di noi e per insegnare al cuore il linguaggio segreto dell’amore.

Cristo esclamò: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Luca 12:49). Il "fuoco" è interpretato come lo Spirito Santo purificatore, oppure la carità, l'amore. Dovremmo tutti lasciarci incendiare da questo fuoco-amore. E non sto parlando soltanto dell'amore interpersonale, ma anche di quell'amore che si fa scienza, arte della politica, per trasformare la società. Solo assumendo la solidarietà, non come atteggiamento di circostanza, ma come principio strutturante di tutta la vita, sapremo interiorizzare i bisogni degli altri come parte essenziale di noi stessi e sperimentare in famiglia, nel mondo del lavoro, per le strade... un nuovo mondo possibile.

Solo se resi "folli" da questo fuoco, sapremo unirci e sostenerci a vicenda nel difficile compito di bruciare le nostre bramosie consumistiche e le nostre spasmodiche ambizioni. Solo se animati da questo amore, sapremo riscaldare la vita contro il freddo mortale dell'indifferenza. Uno aiuterà l'altro a incenerire le palizzate che ci siamo costruite dentro di noi e ad abbattere i muri di separazione che abbiamo edificato attorno a noi, nell'insensato tentativo di proteggerci dalle nostre stesse maschere e di rifuggire dalla responsabilità di essere liberi. Poi, attraverso il dialogo e la reciproca attenzione, potremo edificare - mattone su mattone, cementati da sangue, sudore e lacrime - l'unità interiore di ogni essere umano. Esperimenteremo le doglie di un lungo parto, ma anche la gioia della nascita di un nuovo mondo.

Il fuoco sacro della pace acceso dallo sciamano e il fuoco nuovo della Pasqua cristiana sono un invito rivolto a tutti a riorganizzare radicalmente la propria vita, fondandola sulla condivisione, non sulla competizione; sulla gioia del convivio, non sull'ansia di dominare l'altro.

Il cero pasquale acceso in ogni chiesa e le fiamme ardenti nei luoghi di culto dei vari gruppi umani ci diano davvero la luce necessaria per vedere sul volto di ogni essere umano la sua dimensione sacra. E lo Spirito di Dio, che è la sorgente di ogni amore, ci incendi della sua vampa e ci inondi della sua compassione, così da poter scorgere la sua presenza in ogni goccia di pioggia (come la scorge lo sciamano), nella delicatezza del fiore (come la vede il poeta), in un bacio e in un abbraccio (come l'avvertono due innamorati). Solo così divamperà la fiamma della pace, unica energia in grado di rinnovare l'universo.

(da Nigrizia,aprile 2005)

Parecchi moralisti provano ancor oggi delle difficoltà a vedere nel Cristo la condizione di possibilità di una morale per tutti. A fianco di autori reticenti o anche esitanti, ci sono quelli che dichiarano chiaramente che la messa in atto di una morale centrata sulla persona del Cristo sia di ostacolo alla concezione di una morale valevole per tutti.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti


 



Sono anche necessari approfondimento e riflessione su come P. Colin, contro la tendenza dell’epoca, ci presenta Maria.

Per Lui è una “figura ecclesiotipica” un’intuizione dunque precorritrice che ben si accorda con l’attuale riflessione mariologica che osiamo sintetizzare così:

“Maria e la Chiesa: un cosa sola”.

In proposito, i visitatori che vogliono approfondire questo tema, possono visiater la rubrica “spiritualità mariologica” sul portale “Noi Cattolici” (http://www.noicattolici.it) curato dallo stesso autore di queste note.

E' dunque su Maria e sulla Chiesa nascente che si innesta il Carisma marista che possiamo così esplicitare:

“Essere icona di Maria – Essere icona della Chiesa”.

Un carisma, a mio avviso affascinante, che ha bisogno di essere approfondito e calato nella realtà dell’oggi, nella vita apostolica e nel servizio ecclesiale e di tutti e tutte coloro che in qualche modo si rifanno alle intuizioni del P. Colin.

Ovviamente l’intuizione Coliniana è esistenziale ed ha bisogno di percorsi formativi che debbono tuttavia essere studiati, ovviamente proposti, offrendo poi anche degli accompagnamenti.

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

LE SFERE CELESTI (SEPHIROTH)

 

(I - 246b)

"Simile ad una cerva veloce è Naftalì, che pronuncia discorsi eloquenti" (Gen. XLIX, 21); così è scritto: "il Tuo parlare è grazioso" (Cant. IV, 3).

In effetti è la voce che guida il discorso e non c e voce senza discorso. Quella voce è emessa da un luogo profondo in alto ed è inviata dinanzi al discorso, per guidarlo, perché non c'è voce senza discorso, né discorso senza voce, come un'espressione generale ed una particolare, che servendosi reciprocamente di spiegazione, vengono a determinare la regola. Questa voce esce da sud e va a guidare l'occidente, prendendo così possesso di due settori, secondo quanto è scritto: "Per Naftalì disse: Naftalì gode il favore ed è pieno della benedizione di Dio, possiede i territori a occidente ed a mezzogiorno"(Deut. XXXIII, 23). In alto è maschile, in basso è femminile. Infatti è scritto in Gen. XLIX, 21: "Naftalì è simile a una cerva veloce" al femminile, quindi è femminile in basso. Ma più avanti nello stesso verso è scritto: "egli che pronuncia discorsi eloquenti": "egli che pronuncia" è scritto al maschile, non "essa che pronuncia", quindi è maschile in alto.

Vieni e considera. Il pensiero abissale (machshabà) è il principio di tutto. Per il fatto che è pensiero, si trova all'interno, segreto e non palese. Spingendosi oltre il pensiero giunge laddove si trova il respiro (ruach); e quando giunge in quel luogo prende il nome di parola interna (binà) e pur non essendo segreta come il pensiero precedente, è in qualche misura segreta e non udibile. Il respiro (ruach) si diffonde e produce la voce percepibile formata di fuoco, acqua e respiro e sono anche nord, sud ed oriente. La voce comprende tutte le altre facoltà. La voce guida il discorso, che esprime la parola nella sua articolazione; infatti la voce è emessa dal luogo del respiro (ruach) e viene a guidare la parola, sicché le parole siano pronunciate giustamente.

Se tu poi porgerai mente alle sephiroth, vedrai che il pensiero abissale, la parola interna, la voce percepibile ed il discorso sono la stessa cosa. Tutto è uno. Il pensiero è il principio di tutto e non c e separazione, ma tutto è uno ed il legame è uno. Questo è il pensiero reale legato al "nulla" (ayn), che non ha separazione in eterno, come è scritto: "Il Signore è uno, ed il Suo nome è uno" (Zacc. XIV, 9).

(I - 74 a)

Disse Rabbi Shim'on bar Yochai: Come sono care le parole della Torà! Beato chi si occupa di esse e sa procedere per la via della verità! "E la casa nel suo essere costruita..." (1Re VI, 7). Quando fu intenzione del Santo, che benedetto egli sia, di conferire gloria alla propria gloria, nel suo pensiero sorse la volontà di diffondersi. Il pensiero quindi si diffuse dal luogo dove era pensiero abissale, segreto, non rivelato, fino a stabilirsi nella sede della gola, il luogo che fluisce sempre nel segreto dello spirito vivente. Allora, quando il pensiero si diffonde e si stabilisce in questo luogo, prende il nome di Dio vivente, così come è scritto: "egli è il Dio vivente" (Gen. X, 10). Volendo ancora diffondersi e manifestarsi, da lui scaturiscono il fuoco, il respiro e l'acqua e ne esce inoltre Giacobbe, uomo integro, cioè la voce che è emessa ed è percepibile. Di qui, il pensiero, che era nascosto, segreto, si fa chiaramente percepibile. Si diffonde ulteriormente il pensiero per manifestarsi di più e così la voce percepibile batte alle labbra. Allora ne fluisce il discorso che tutto perfeziona e tutto rende manifesto. Ciò vuol dire che tutte le sephiroth sono il pensiero segreto, che ne è all'interno, e tutto è uno. Dato che quella diffusione del pensiero è giunta a realizzarsi come discorso articolato, grazie alla voce percepibile, per questo è scritto: "la casa nel suo essere costruita" (1Re VI, 7). Non è infatti scritto: "quando fu costruita", ma "nel suo essere costruita". Di volta in volta.

(Zohar chadash - 43b - Tiqquné Zohar)

L'anima (neshamà) si trova nella sephirà dell'intelligenza (binà) e su di essa aleggia il pensiero che non ha fine. La sfera dell'intelligenza non ha immagine, né figura, né somiglianza, perché costituisce il mondo futuro. E questo non ha né corpo, né immagine, come hanno insegnato i dottori della Mishnà: il mondo futuro non ha né corpo, né corporeità (Talmud: Berakhot 17a). L'anima si veste nel trono, che è l'uomo, e nei suoi quattro angoli. A proposito della sfera dell'intelligenza è detto: "Dato che non avete visto alcuna immagine" (Deut. IV, 15), ed ancora: "Mai occhio vide un Dio all'infuori di te" (Is. LXIV, 3). Grazie al pensiero divino i profeti si figuravano tutte le immagini e le raffigurazioni al di sotto di quella, mentre al di sopra di quella non raggiungevano alcuna immagine. Se già in esse non potevano afferrare alcuna raffigurazione e neppure una pallida sfumatura, tanto più al di sopra di quella.

(II - 164b - 165a)

Rabbi Chiyà iniziò a dire: "Tu ti ammanti di luce, come se fosse un drappo, stendi i cieli come una cortina" (Sal. CIV, 2). La spiegazione di questo verso è la seguente: quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, si ammantò della luce primitiva e con essa creò il cielo. Considera dunque. La luce e l'oscurità non stavano insieme, ma la luce era a destra e l'oscurità a sinistra. Cosa fece il Santo, che benedetto egli sia? Mescolò insieme questi due elementi e creò il cielo. Cos'è dunque il cielo? E il fuoco e l'acqua, mescolati insieme, sicché la pace sia stabilita tra loro. Quando furono insieme, Dio li distese come una cortina, formando con essi la lettera WAW, che è chiamata quindi "cortina". Il verso di Es. XXVI, 1 parla di "cortina", perché da quella lettera si diffuse la luce che formò le cortine, così come è scritto: "Farai il Tabernacolo composto di dieci cortine" (Es. XXVI, 1). Inoltre vennero distesi sette firmamenti, nascosti nel nascondiglio eccelso, come hanno spiegato, ed un firmamento al di sopra di essi. Questo firmamento non e raffigurabile, non è collocato in un luogo manifesto, né si può immaginare con il pensiero. E nascosto ed illumina tutti gli altri, guidando i loro tragitti; ognuno secondo quanto gli è proprio. Non c'è chi sappia o veda oltre questo firmamento e l'uomo deve chiudere la bocca alla parola ed astenersi dall'indagare con il pensiero. Chi provi ad indagare procede a ritroso, perché non c'è chi possa sapere.

Le dieci cortine sono i dieci firmamenti. Questi costituiscono le cortine del Tabernacolo che sono dieci e si lasciano conoscere dai sapienti . Chi li conosce medita sulla grande sapienza e sui misteri del mondo e risale nella meditazione oltre quello stadio raggiungibile da parte di ognuno. Non può tuttavia arrivare a quei due firmamenti che si trovano a destra ed a sinistra della presenza divina (Shekhinà) e con essa sono celati.

(I - 35a)

Rabbi Abbà disse: Perché è scritto: "l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male" (Gen. II, 9)? Sappiamo già che l'albero della vita ha cinquecento anni e che tutte le acque della creazione si dipartono da sotto di esso. L'albero della vita si trova proprio in mezzo al giardino e raccoglie tutte le acque della creazione, che poi si dividono da sotto di esso. Infatti il fiume, che di là scorre e scaturisce, benefica tutto il giardino entrandovi. Indi le acque si dividono, prendendo diverse direzioni. Il giardino raccoglie tutte le acque, che successivamente ne escono, dividendosi in basso in diversi rivoli secondo quanto è detto: "essi dissetano tutti gli animali della campagna" (Sal. CIV, 11). Le acque escono dal mondo superiore ed abbeverano le alte montagne del puro balsamo; così come, successivamente, quando giungono all'albero della vita, si dividono da sotto di esso verso ogni direzione secondo il proprio corso.

"E l'albero della conoscenza del bene e del male", perché è chiamato così? Invero questo albero non si trova in mezzo al giardino. E poi "la conoscenza del bene e del male" cosa significa? Dato che esso assorbe l'acqua da due parti e le sa distinguere, come chi sugge il dolce e l'amaro, essendo immerso in esse, viene chiamato albero della conoscenza del bene e del male. Tutte le piante del giardino si appoggiano ad esso e vi si abbarbicano anche altre piante, superiori, che vengono chiamate "cedri del Libano", secondo quanto è scritto: "Si saziano gli alberi del Signore, i cedri del Libano che egli ha piantato" (SaI. CIV, 16). Chi sono i cedri del Libano? Sono i sei giorni superiori, i sei giorni della creazione.

(I - 186a)

Rabbi Yehudà iniziò a dire: "Il Signore tuonò in cielo e l'Eccelso fece sentire la sua voce per mezzo di grandine e carboni infuocati" (Sal. XVIII, 14). Considera dunque. Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, stabili sette colonne sulle quali esso poggiasse. Queste colonne poi, a loro volta, poggiano su una sola colonna, secondo quanto hanno spiegato in base al verso: "la sapienza ha edificato la sua casa, ne ha intagliato le sette colonne" (Prov. IX, 1): e queste poggiano su un'unica base, che è chiamata: "il giusto è un pilastro eterno" (Prov. X, 25). Il mondo è stato creato da questo luogo, che ne costituisce la perfezione ed il fondamento, ed, essendo un punto del mondo, è il centro di tutto. E quale è questo luogo? È Sion, secondo quanto è scritto: "Salmo di Asaf, Dio, il Signore Iddio parla e convoca tutta la terra da dove spunta il sole fin dove tramonta" (Sal. L, 1); dunque da quale luogo? da Sion, secondo quanto è scritto: "Da Sion, il luogo della bellezza più perfetta, è apparso Dio" (Sal. L, 2); da quel luogo che costituisce la perfezione della fede perfetta. Sion è la forza ed il centro di tutto il mondo. Da questo luogo il mondo si perfeziona e si realizza, e dal suo interno trae alimento.

(III - 74a)

Rabbi Chiyà iniziò a dire: "Come il melo tra gli alberi del bosco così è il mio amico tra i giovani"(Cant. II, 3). Questo verso lo interpretino i discepoli. Come è cara la comunità di Israele al Santo, che benedetto egli sia, che la loda con tale espressione. In questo caso c'è da approfondire i motivi per cui egli la loda con l'appellativo di "melo" e non con quello indicante un'altra cosa, differente per colore, per odore o per sapore. Come il melo è di guarigione per tutto, così il Santo, che benedetto egli sia, è di guarigione per tutto. Come il melo si trova tra i colori, così il Santo, che benedetto egli sia, si trova tra i colori superiori. Come il melo ha un profumo più sottile di tutti gli altri alberi, così del Santo, che benedetto egli sia, è scritto: "Il suo profumo è come quello del Libano" (Is. XIV, 7). Come il melo è dolce di sapore, così del Santo, che benedetto egli sia, è scritto: "Il suo parlato è dolcissimo" (Cant. V, 16). Ed il Santo, che benedetto egli sia, ha inoltre paragonato la comunità di Israele ad una rosa , secondo quanto è scritto: "Come rosa tra le spine, così è la mia amica tra le fanciulle" (Cant. II, 2). Rabbi Yehudà disse: Quando i giusti del mondo sono numerosi, la comunità di Israele emana un buon profumo ed è benedetta dal Santo re, mentre la sua faccia si illumina. Quando invece sono numerosi i malvagi del mondo. è come se la comunità di Israele non emettesse buoni profumi e provasse invece l'amaro sapore del male. In quel caso è scritto: "Egli gettò giù dal cielo a terra la gloria di Israele" (Eccl. II, 1), e la sua faccia si oscurò.

(II - 146a - 146b)

È scritto: "Che egli mi baci con i baci della sua bocca" (Cant. I, 2). Perché mai re Salomone, ha voluto introdurre espressioni di amore tra il mondo superiore e quello inferiore, ed ha usato, iniziando la lode all'amore tra di loro, il termine: "Che egli mi baci"? Invero si è già spiegato, e così è in realtà, che non esiste amore tra due spiriti che aderiscono l'uno all'altro, se non nel bacio. Ed il bacio si dà con la bocca, che è la sorgente dello spirito ed il luogo da cui esso esce. Quando si baciano l'uno con l'altro, gli spiriti aderiscono questi a quelli e divengono una sola cosa. Allora l'amore è uno. Nel Siphrà de-Rab Hamnunà, un saggio vegliardo diceva a proposito di questo verso: Il bacio d'amore si diffonde ai quattro venti e i quattro venti si uniscono insieme e si trovano nel mistero della divinità. Poi si innalzano, emergendo in quattro lettere, che sono quelle da cui dipende il santo nome ed inoltre i mondi superiori e quelli inferiori, ed infine la lode che è nel Cantico dei Cantici. E quali sono queste lettere? AHBH (amore). Esse costituiscono il carro eccelso e sono l'unione, l'adesione e la perfezione di tutto. Queste lettere sono i quattro venti e costituiscono gli spiriti dell'amore e della gioia, cui aderiscono tutte le membra del corpo, senza avere affatto mestizia. I quattro spiriti sono nel bacio, ed ognuno di essi è compreso nell'altro. Quando poi uno spirito è compreso nell'altro e l'altro nel primo, divengono infine due spiriti che poi si uniscono. Allora i quattro spiriti sono uniti insieme in una perfetta adesione; scaturiscono l'uno dall'altro e sono compresi l'uno nell'altro. Quando essi si diffondono, vengono a formare di quattro spiriti un unico frutto, cioè un solo spirito che è formato dai quattro spiriti. Questo si innalza, aprendosi un varco attraverso i firmamenti, finché, risalendo, si colloca presso un palazzo che è chiamato palazzo dell'amore. Da questo luogo dipende ogni amore ed anche quello stesso spirito è chiamato così: amore. E quando lo spirito risale, sollecita quel palazzo ad aderire all'alto.

Venerdì, 01 Luglio 2005 22:49

La morte accolta (Xavier Léon-Dufour)

La morte accolta
di Xavier Léon-Dufour S.J.

 

E' semplice, anche per chi crede nell'aldilà, accogliere la morte? Sono numerosi quelli che non esitano a proclamarlo (ancora recentemente alla televisione ho sentito dichiarare: " Quando c'è la fede, si guarda la morte in faccia, senza paura"). Permettetemi di dubitare di una tale sicurezza, non solo perché viene da persone lontane dall'avvenimento, ma anche perché contraddice i dati del vangelo e perché tende a fare della morte un problema da risolvere, quando invece essa è un mistero davanti al quale dobbiamo umilmente prostrarci.

Si tratta forse semplicemente di "accettare" la morte come ci si rassegna di fronte ad una fatalità? In tal caso dovrei collocarla tra le realtà della condizione umana nella quale mi trovo: razza, situazione sociale, sesso. Ma questa assimilazione della morte alle realtà precedenti è illusoria, perché solo la morte è universale, riguarda tutti gli uomini, anche se si cerca dl eluderla. E' una legge assoluta alla quale tuffi gli uomini sono soggetti. E' sufficiente rassegnarsi, stoicamente, senza sognare un "altrove" che potrebbe deludere?

La mia esposizione verrà sviluppata in tre punti:

I) La morte, disgregazione del mio corpo.
2) La morte, separazione da quelli che amo.
3) La morte secondo la fede cristiana.

1. La morte, disgregazione del mio corpo

La morte mi appare prima di tutto come la disgregazione del mio corpo. B' questa la nostra esperienza, evidente. Per comprendere tale constatazione non serve ricorrere alla definizione dell'uomo come un composto di anima e di corpo dalla quale dedurre che il corpo, assimilato alla materia che noi conosciamo, imputridisce nella terra. Tale definizione infatti potrebbe essere contestata e io preferisco ascoltare il bambino.

M'ispiro per questo punto da una conferenza tenuta anni fa dal dottor Donnars all'Università Popolare di Parigi davanti ad un pubblico per il quale la fede non sembrava essere la principale preoccupazione.

Il bambino fa l'esperienza di un certo numero di tabù: il tabù del sesso, il tabù del denaro ed infine il tabù della morte. Quest'ultimo si manifesta in molti modi, per esempio nell'interesse che suscitano gli escrementi umani in quanto sono la rappresentazione sensibile della presenza nel bambino del rigettato, del disintegrato, della morte. Il tabù della morte si manifesta ancora negli incubi notturni che spaventano il bambino nel sonno; egli si vede alle prese con bestie terribili che vogliono dilaniarlo. Se allora il bambino delira fino ad avere la febbre, se urla di paura è essenzialmente perché si sente incapace di difendersi da solo contro tali attacchi: ha paura di essere fatto a pezzi, dilaniato, distrutto. Perché? Perché di fatto egli non ha ancora una vera personalità, un "io" che lo faccia esistere di fronte agli altri. Così pure quando si rivolge alla mamma con un "tu" è perché si sente chiamare così, Il suo io non è per lui che un tu. L'esperienza del bambino ci mette veramente di fronte a quello che è la morte, vista come disgregazione subita del proprio corpo.

Il bambino, accedendo all'io, finisce ceno per controllare il suo corpo7 per rendersene padrone. Ed è proprio qui che inizia per l'adulto la difficoltà di fronte alla morte. Se il bambino "muore" di paura di fronte all'immaginario, l'adulto invece si crede capace di superare questi incubi grazie all'autonomia che pensa di aver acquisito diventando padrone del suo corpo. L'adulto cercherà quindi di difendere questo corpo che è lui stesso di fronte agli attacchi esterni. Qual è la conseguenza per quanto riguarda 10 sguardo sulla morte? La morte appare come l'obbligo ineluttabile di abbandonare un giorno il proprio corpo, di lasciarlo, di disfarsene, sradicamento doloroso che devo affrontare. Ma è questa l'unica comprensione che posso avere del corpo e della morte?

Con quale diritto infatti assimilo il mio corpo ad una cosa che possiedo personalmente? Il corpo non è piuttosto lo stesso universo che mi include, senza dubbio, ma che è anche messo a mia disposizione perché possa esprimermi ed entrare in relazione, in comunicazione con gli altri uomini e con tutto il creato? Allora il corpo, senza posa collegato con l'universo in divenire, mi appare essenzialmente soggetto al cambiamento: non è forse vero che si rinnova ogni giorno ( più di 50 milioni di cellule, si dice) e nella sua totalità ogni 7 anni ( da i a 7 il bambino, da 7 a 13 l'età di grazia, dai 13 ai 20 l'età così detta ingrata, l'età adulta dopo i 21 e la famosa modificazione dei 7 x 7 anni, cioè i 49 anni)? Perché allora non abituarmi a considerare il mio corpo come il luogo stesso della mia trasformazione, come se attraverso il mio corpo io tendessi ad uno sviluppo di cui ignoro il termine? La morte non potrebbe essere allora concepita come l'estrema trasformazione del corpo? Ci si trova allora di fronte ad un mondo misterioso o almeno ancora sconosciuto, ma non potrebbe essere questo il parto dell'essere definitivo?

Questo morire viene, è vero, dopo una lenta e progressiva degenerazione. E' questa la nostra esperienza. Ma tale esperienza non ne nasconde forse un'altra, quella di un Io che attraverso, tale trasformazione, mantiene la memoria e il sentimento evidente di una identità? E se così stanno le cose, se noi non siamo semplicemente degli "esseri" fatti una volta per sempre, definitivamente, ma delle promesse di essere, la morte non sarebbe più una semplice decomposizione, ma potrebbe essere una realizzazione. Imparare a guardare bene il proprio corpo, significa imparare a vivere bene, significa imparare a morire. In questo caso, non si deve forse impedire che con azioni talvolta generose, ma spesso intaccate da una sottile illusione filantropica, vale a dire l'eutanasia, mi rubino il "mio morire" che non è una fatalità, ma che deve diventare un atto personale positivo? Se entro pienamente nel mio morire, portando a termine così la mia corsa di uomo libero, allora si può dire che la morte è "accolta".

2. La morte, separazione da quelli che amo.

Ma si può dire la stessa cosa se si considera l'altro aspetto, talvolta sconosciuto e tuttavia caratteristico, vale a dire la morte come separazione da quelli che amo? La morte infatti non riguarda solo il corpo, ma colpisce il cuore. Anche in questo caso il comportamento dell'uomo durante la sua vita determinerà il suo atteggiamento al momento del "morire". Guardiamo di nuovo il bambino. Inizia col considerare gli altri e prima di tutto la sua mamma come sua proprietà, come cosa sua. Facendo così non la considera veramente come un "tu", ma come un "me", come un prolungamento, un complemento il cui scopo è di migliorare la sua esistenza. Questa fase è normale: il bambino infatti acquisisce un po' alla volta la sua personalità appoggiandosi sugli adulti, il suo "io" non può strutturarsi senza questa unione con gli altri. Ma l'atteggiamento deve evolvere per non fissarsi in un egotismo senza sbocchi.

Sono purtroppo numerosi quelli che perpetuano questa dinamica infantile e portano sugli altri uno sguardo captativo e interessato partendo da un io che si è fatto il centro del mondo. E' normale, in tali condizioni, di vedere nella morte la perdita irreparabile di quanti sono stati considerati come dei supponi per la propria realizzazione.

Per fortuna tale atteggiamento si può trasformare e di fatto si trasforma con l'acquisizione della maturità. Non è vero che l'amore consiste nel far esistere l'altro e non nell'accaparrarselo? Un po' alla volta l'adulto deve abituarsi a uscire da sé perché l'altro esista di più, deve vivere in "estasi". L'egotismo che mi caratterizza deve in un certo senso morire e sbocciare in un amore autentico. Se cosi stanno le cose, il "morire" potrebbe diventare un'ultima tappa nella trasformazione del mio rapporto con gli altri.

Tuttavia sussiste una grossa difficoltà che mi impedisce di aderire pienamente a questa proposta. Abbiamo detto prima che l'uomo può adattarsi alla morte concepita come piena realizzazione del corpo. Ma è la stessa cosa per quanto riguarda la morte separazione da quanti amo? E' ceno che, aprendosi sempre di più al mistero dell'amore autentico l'uomo impara poco a poco a dimenticarsi fino all'estasi verso l'altro e progredisce cosi verso la chiamata ad una comunione universale. Io mi chiedo se la pressante domanda di presenza al momento del morire non sia l'espressione di un'esperienza straordinaria di Assoluto che getta in una solitudine paurosa perché l'incontro con l'Assoluto presuppone in un primo tempo la radicale separazione da tutti gli esseri. Da qui il gesto unico da parte di chi accompagna il morente: tenergli la mano

Ma rimane un constatazione terribile e dolorosa: la mia scomparsa non aiuterà l'altro a realizzarsi e meno ancora se il mio amore rispettava il suo essere. Devo confessare che sul piano della psicologia, la morte separazione dagli altri rimane un enigma, Tale enigma, la fede può situarlo a condizione che si esprima in un linguaggio valido.

3. La morte, secondo la fede cristiana.

La fede infatti può essere capita male, o almeno espressa male. Così, per esempio, quando si parla di un aldilà consolante o della richiesta di un sacerdote e di "qualche confessione" liberatrice.

Penso tuttavia che la fede cristiana permetta di capire che cos'è l'incontro dell'uomo con Dio, in che consista per lui la morte. Per far questo bisogna inquadrare il mistero di Dio e il mistero dell'uomo. Dio non è "accanto" a me, e più intimo di me che me stesso, è Colui che è nel cuore del tempo, il solo che fonda la fedeltà dell'amore. Quando amo, è Dio che ama in me; e siccome Dio è padrone della morte, egli mi invita immediatamente a credere che l'amore autentico è più forte della morte.

E l'uomo, è una promessa di realizzazione nel "corpo di Cristo". E qui si trova la risposta all'enigma davanti al quale è posto il moribondo. L'ultima trasformazione, l'ultima nascita nella quale consiste il morire conduce a vivere nel "corpo di Cristo". Cosa vuol dire? Siamo in tal modo ricondotti al mistero, quello del corpo. Se è vero che il corpo non si riduce a un po' di materia, ma se esso è il mezzo materiale e non materiale con il quale ci esprimiamo, ne consegue che l'universo di cui l'attuale corpo fisico non è che una piccola pane, è il corpo per eccellenza, e precisamente è questo corpo che Gesù ha acquisito mediante la risurrezione per la pienezza d'amore manifestata durante la sua vita terrena. Egli ha inaugurato una umanità nuova nella quali gli individui non si distinguono più per la particolarità del loro corpo di quaggiù (quale?), ma ormai a partire da ciò che li caratterizza, cioè dalla loro personalità e questa viene costruita dall'amore ricevuto e dall'amore donato durante l'esistenza sulla terra.

Quanto ho detto non deve dare l'impressione che per me la morte è un problema risolto. Certamente no, perché essa rimane un mistero che prende senso solamente grazie a Gesù il cui atteggiamento di fronte alla morte ci è stato descritto dai vangeli.

Su questo punto, mi permetto di rinviarvi a una mia conferenza pubblicata nel Bollettino della Società di Thanatologia, n. 44, 979, particolarmente alle pp. 47-48, oppure al mio libro "Di fronte alla morte, Gesù e Paolo, ElleDiCi.

Come un prisma diffrange i colori, così i racconti evangelici decompongono l'atteggiamento di Gesù di fronte alla morte che ha per lui due volti. Il "Dio mio, Dio, mio, perché mi hai abbandonato?" di Marco esprime una accoglienza dolorosa: perché essere in balia della morte quando la vita dovrebbe continuare senza questa dolorosa rottura? Perché Dio non Io mantiene in vita, magari a prezzo di qualche violenza? Ma Gesù, pur dicendo la sua situazione, proclama fino alla fine la volontà di essere unito al "suo Dio", e questo è l'essenziale.

L'altro viso della morte è presentato da Luca: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito". Nel suo profondo Gesù accoglie la morte con fiducia perché essa è l'incontro con il Padre. E questo atteggiamento presuppone il rifiuto istintivo della decomposizione brutale.

Infine, secondo Giovanni, Gesù proclama che "Tutto è compiuto". Arrivato al termine della sua esistenza, ha compiuto ciò che il Padre attendeva da lui. La morte è il compimento dell'esistenza nella misura in cui è situata in Dio.

Conclusione

Per terminare, vorrei ritornare sul titolo della conferenza. Accogliere la morte, non vuol dire soltanto accettare con rassegnazione l'avvenimento mediante il quale cesso di vivere sulla terra. La morte non è solo la fine della vita terrestre, essa è la nascita alla vita piena in un corpo nel quale mi esprimerò perfettamente.

Tale conclusione è accettabile al di fiori della fede cristiana? Vorrei invitarvi a distinguere due livelli di comprensione.

Per chi ammette che Dio è amore e che l'amore è più forte della morte, la morte può essere accolta come la nascita a Dio, cioè all'eterno o ancora alla vita piena e definitiva.

Per chi ammette la solidarietà degli uomini tra di loro, la vita "dopo" la morte può sembrare come l'incontro perfetto tra gli uomini e specialmente tra coloro che si sono amati sulla terra. I cristiani precisano questa intelligenza della situazione "dopo" la morte evocando quello che essi chiamano il "corpo di Cristo". Un corpo unico ci deve riunire nel quale ciascuno potrà esprimersi perfettamente ed essere trasparente agli altri. Allora la morte può essere definita come l'accesso alla comunione degli esseri. E queste due dimensioni della morte ricoprono infatti la medesima realtà cioè che in Dio tutti gli uomini sono in comunione perfetta.

Un'ultima osservazione. Se la morte non può essere ridotta all'avvenimento che segna la fine dell'esistenza sulla terra, vuol dire che essa svolge un ruolo nella vita. Precisando che l'uomo dovrebbe un po' alla volta iniziarsi alla trasformazione costante del suo corpo e alla comunione sempre più profonda con gli uomini, abbiamo messo in luce che la "morte" è nel cuore della vita. Dal momento della nascita fino alla fine l'uomo è in movimento in rapporto al suo corpo e in rapporto alle sue relazioni con gli altri. L'amore e la morte sono all'opera sempre, sono le manifestazioni che gli psicologi chiamano "pulsioni di morte", "pulsioni di vita". Spetta a noi fare in modo che sia la pulsione di vita ad avere la meglio. Allora, attraverso la sofferenza e la morte, è la vita che, misteriosamente, si traccia il suo cammino.

(Conferenza tenuta presso la Facoltà Teologica Valdese - Roma, 7 maggio 2005)

Un saggio teologico sulla penitenza nelle Chiese Ortodosse

La prassi orientale della confessione
di Mauro Pizzighini


 



Una celebrazione liturgica e comunitaria, il significato "terapeutico" e pedagogico e un forte cristocentrismo ne sono gli elementi tipici. Il confessore come "padre spirituale".


«L'attuale prassi delle chiese ortodosse si è andata progressivamente formando nel primo millennio del cristianesimo orientale di lingua greca per l'evoluzione della primitiva forma della penitenza, quella pubblica, e per lo sviluppo della vita monastica. La forma pubblica della penitenza prevedeva che coloro che avevano commesso peccati sottoposti a penitenza venissero associati all'ordine dei penitenti e sottoposti a un cammino di anni che conduceva gradualmente alla piena riammissione all'eucaristia: il penitente era inizialmente tenuto fuori dell'assemblea eucaristica, poi ammesso alla sola liturgia dei catecumeni, quindi gli era consentita la partecipazione stando prostrato e senza avvicinarsi alla comunione, infine era ammesso di nuovo  come gli altri fedeli - alla comunione». Con questa affermazione si apre il volume del teologo B. Petrà dal titolo La penitenza nelle chiese ortodosse. Aspetti storici e sacramentali, pubblicato recentemente dalle EDB.

Tre sono gli aspetti che caratterizzano il sacramento della penitenza nella chiesa ortodossa rispetto a quella latina. Anzitutto il carattere celebrativo e comunitario del sacramento: si tratta, in primo luogo, di un vero momento liturgico che raggiunge il singolo all'interno della comunità; predomina il significato "terapeutico" della prassi penitenziale; la struttura celebrativa è attenta a far emergere il forte cristocentrismo del sacramento. Considerando la prassi penitenziale delle chiese ortodosse e i rituali attuali, l'autore, profondo conoscitore del mondo orientale, sottolinea la struttura celebrativa che connota il sacramento della penitenza; anche se le letture bibliche sono oggi assenti, non mancano le preghiere, i tropari, i salmi e le invocazioni: tutto si svolge ordinariamente all'interno della chiesa. Le preghiere iniziali, il cui contenuto rispecchia la loro ecclesialità, presuppongono il carattere comunitario del sacramento, dal momento che si prevedono celebrate con l'assemblea.

La dimensione "terapeutica"

«In ogni caso la confessione e l'assoluzione sono ordinariamente individuali e nominative, giacché il ministro si rivolge al penitente col suo nome personale proprio», che corrisponde in modo peculiare alla logica sacramentale orientale. Pertanto ciò che maggiormente differenzia lo stile ortodosso da quello latino è l'insieme del dialogo tra sacerdote e penitente: nella struttura latina il rapporto è tra il sacerdote, che rappresenta il Signore, e il penitente "l'uno di fronte all'altro"; nella struttura ortodossa, invece, da una parte c'è il Signore e dall'altra c'è il sacerdote insieme al penitente, ambedue di fronte all'icona della croce di Cristo: «Sacerdote e penitente sono davanti a lui, ambedue peccatori, ambedue segnati dalla condizione umana». Il sacerdote appare nella struttura rituale nella posizione di "testimone e compagno di penitenza", come anche di «intercessore umile e potente a nome/a favore dei peccatore e insieme come colui che può con l'autorità del Signore attestare al peccatore stesso che i peccatori sono perdonati». In questo ruolo di mediazione, egli è tenuto al segreto confessionale.

In questa prospettiva si comprende come la caratteristica tipica del sacramento della penitenza nelle chiese ortodosse sia la dimensione "terapeutica". Già il fatto che in alcuni commentari liturgici bizantini la confessione e l'unzione degli infermi siano considerati aspetti complementari dell'"unico" mistero di guarigione, la dice lunga sul perché il sacramento della penitenza sia definito come il "ministero medicinale" per eccellenza, in quanto contiene sia il momento terapeutico che quello della prevenzione.

Il volume, dopo avere passato in rassegna i presupposti teologici legati in particolare alla concezione "orientale" del peccato, che ha come punto di riferimento la Scrittura e soprattutto il linguaggio dei Padri, entra in merito al sacramento della penitenza inteso come "cammino di guarigione". Se è importante chiarire che «l'inizio della salvezza sta nel pentimento» e che «Dio dona al peccatore la luce per vedere il proprio peccato», ugualmente fondamentale è ribadire che «l'ascolto della coscienza dev'essere fedele e attento, senza giochi interiori». Vi è un rapporto essenziale tra purezza di cuore e una visione più accurata del proprio peccato: rimane costante nella tradizione orientale la consapevolezza che «la conoscenza del proprio peccato è un particolare dono di Dio». Quando il cuore percepisce nella luce della grazia la realtà del proprio peccato, nascono la "contrizione" e il "dolore". Un segno particolare del dolore suscitato dalla nuova consapevolezza è dato dalle "lacrime", secondo Simeone il Nuovo Teologo.
Dalla serietà della contrizione nasce il cambiamento della vita, il volgere le spalle al male e l'orientarsi decisamente al bene. In questo sta essenzialmente la "conversione" che segna l'inizio di una vita nuova e che trova la sua forza nell'amore di Dio. Giovanni Crisostomo nel suo De paenitentia fa riferimento, quando si parla di conversione, all'immersione nelle "acque" dell'amore di Dio: il riferimento alla" piscina" (Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi) ha un preciso senso battesimale e vuole indicare che la penitenza richiesta si configura come un "secondo battesimo".

Inoltre, «tutta l'economia della salvezza è per l'Oriente un grande processo terapeutico mediante il quale viene risanata la ferita introdotta dal peccato e l'uomo può finalmente attuare il senso della sua esistenza, diventare partecipe della vita divina in Cristo». Al centro di questo cammino di guarigione sta il "chinarsi" di Dio sull'uomo ferito: la parabola del buon samaritano è la rappresentazione stessa dell'economia della salvezza, in cui «il Signore è il vero buon samaritano dell'umanità ferita dal peccato» e anche «medico e soccorritore dell'uomo attaccato dai pensieri ladri e briganti e lasciato al suolo dolorante».

L'azione di Cristo, "buon samaritano" e unico "medico" dell'uomo, continua nel tempo attraverso la "locanda" che è la chiesa. con la sua azione sacramentale e con quella dei suoi ministri. Se i sacramenti sono i segni potenti attraverso i quali il Risorto opera con il suo Spirito la "guarigione" dell'uomo, il sacramento della penitenza in particolare costituisce «la via attraverso la quale il Signore rimette i peccati, sana le ferite dell'uomo colpito sulla strada di Gerico». La fede ortodossa ha la consapevolezza che la chiesa ha ricevuto e riceve continuamente dal Signore la potestà di guarire l'uomo dai suoi peccati; tale potestà è esercitata innanzitutto dai vescovi.

Il confessore: "padre spirituale"


In ogni caso il confessore, nella visione ortodossa, è visto prima di tutto come "padre spirituale": questa paternità spirituale deve recare i segni della paternità divina, fatta di amore e di tenerezza. Inoltre, questa paternità ha anche una forma che i teologi ortodossi definiscono "paternità di discernimento", che può essere ottenuta  «attraverso molta ascesi e preghiera, una coscienza senza macchia e una percezione interiore pura». Altre proprietà del confessore sono quelle di "giudice" e "maestro : a questo proposito è celebre il richiamo al confessore di S. Giovanni Crisostomo: «Correggi, ma non come un avversario e nemmeno come un nemico che chiede giustizia, ma come un medico che appresta farmaci».

A proposito del carattere terapeutico e pedagogico delle penitenze canoniche, nella tradizione orientale esse non costituiscono elementi costitutivi indispensabili della penitenza. in quanto esse sono totalmente incluse nella dimensione terapeutica del sacramento e subordinate ad esso. Il confessore pertanto impone le penitenze in ordine alla "guarigione spirituale" del penitente e «darà l'assoluzione prima o dopo l'assolvimento di esse secondo la valutazione che darà della condizione del peccatore». In ogni caso esse vanno amministrate con sapienza: questa amministrazione "sapiente" e "terapeutica" delle penitenze costituisce un caso particolare di applicazione dell'"economia ecclesiastica" orientale. Secondo la teologia orientale «l'"economia" è un'attitudine di "flessibilità pastorale", che si estende ai vari ambiti della vita ecclesiale ortodossa e che si configura come assunzione da parte della chiesa della pazienza di Dio"; essa è esercitata dai pastori e tende a coniugare costantemente l'elevatezza dell'ideale e l'attenzione alle concrete possibilità dell'uomo, perché l'ideale non diventi semplice e impietosa condanna dell'uomo e del suo limite».

Questioni particolari

La parte terza del testo è dedicata ad alcune questioni particolari, circa, ad esempio, la diversa gravità dei peccati. «La distinzione peccati gravi-peccati veniali è conosciuta nell'ortodossia e spesso accettata; i peccati gravi sono per lo più ricondotti ai cosiddetti vizi capitali».
Per quanto riguarda l'integrità della confessione, nell'ortodossia non si è sviluppata un'articolata dottrina in tal senso, tuttavia la si suppone e la prassi sacramentale ne è decisamente condizionata.

Seguendo poi il rituale penitenziale di tradizione bizantina. emerge che la celebrazione ha una connotazione fortemente comunitaria: «la parte iniziale del rituale, infatti, è costituita da preghiere della comunità e nella comunità, mentre la confessione e l'assoluzione sono ordinariamente individuali». Il rapporto personale  confessore-penitente.  ben espresso dall'uso del nome personale, si colloca nella struttura celebrativa, senza contraddire la dimensione comunitaria della celebrazione stessa.

È chiaro il fondamentale significato terapeutico della prassi penitenziale, che segna in modo decisivo il rapporto tra confessione e penitente. La malattia è costituita dal peccato e la vita "secondo la salute" è costituita dalla vita "virtuosa", animata dallo Spirito e dalla luce della risurrezione; la terapia coincide anche con il discernimento spirituale da parte del confessore, che deve dunque essere un uomo formato dallo Spirito.

In conclusione, «tutti questi elementi caratteristici della celebrazione ortodossa nella concreta realtà sono attuati imperfettamente come è di tutte le cose umane: essi sono però quel che il sacramento dovrebbe essere nell'autocoscienza della chiesa ortodossa e quel che nell'insieme della storia ortodossa, il sacramento è stato, generando un modo popolare di percezione, che non coincide del tutto con quello latino».


Petrà B., La penitenza nelle chiese ortodosse. Aspetti storici e sacramentali, EDB, Bologna 2005, pp. 143.(da Settimana, n. 14, 2005)

26 dicembre 2004, ore 00.58: uno tsunami, un'onda anomala prodotta da un fortissimo terremoto sottomarino verificatosi a largo delle coste indonesiane provoca morte e distruzione su una vasta area del sud-est asiatico. Si stimano oltre 300.000 morti ed 10.000 dispersi, numeri purtroppo destinati ad aumentare col passare del tempo.

1054-2004. Dove siamo oggi?
di Vladimir Zelinskij


Raramente si possono incontrare persone che pensano ancora che la rottura fra Roma e Costantinopoli fu un atto davvero giusto e salvifico per l'ortodossia; tranne qualche strambo, credo che non ci siano nel mondo cattolico ammiratori della scomunica dei greci. Se per il mondo protestante, la Riforma è una felice data di nascita, dunque una festa, per l'ortodossia e il cattolicesimo il loro scisma rimane un trauma - per alcuni, forse, un'operazione chirurgica inevitabile, ma dolorosa in ogni caso. Insomma non è un anniversario da festeggiare. Ma da ricordare di sicuro.

Se i cattolici credono che si può respirare con due polmoni, anche se uno è separato da secoli, tanti ortodossi non sospettano nemmeno che l’altro polmone esista. A volte, però, anche il dente tolto ci fa male e il polmone che non respira più fa soffrire. Non parlo dell'acuta nostalgia ecumenica - di cui davvero pochi sono trafitti nell'emisfero ortodosso - intendo piuttosto le nostre infermità interiori, di cui soffriamo senza accorgersi. Nel 1054 qualche legato che rappresentava la Sede di Roma (modesta e vacante in quel momento) ha rotto col patriarca della Grande Chiesa di Costantinopoli; nel mondo attuale esistono decine e decine di giurisdizioni ortodosse canoniche e non canoniche (negli Stati Uniti, in Europa, in Italia...) che sono, infatti, chiuse nei loro ghetti nazionali, nel loro star bene da sole, nella solennità della loro solitudine. I loro teologi, se svegliati la notte, vi spiegheranno in un batter di ciglia tutte le eresie del papismo, senza pensare per un attimo che possa esistere anche un'eresia dell'autosufficienza. Le forze che ci uniscono, aldilà dell’enorme e ricchissimo tesoro della fede comune, sono più che deboli. Sì, al Patriarca di Costantinopoli spetta ancora il primato d'onore, ma quell'onore ha significato piuttosto liturgico e simbolico.

Le Chiese ortodosse, però, possono facilmente accontentarsi di questo innocuo simbolismo. Il vero primato appartiene, infatti, alla Tradizione e una "T" maiuscola, forse, non basta per esprimere la pienezza del concetto. Tradizione è prima di tutto il cammino dello Spirito Santo fra gli uomini e tutte le impronte lasciate da Lui nella storia: i dogmi, i sacramenti, i riti, i canoni, le vite dei santi, ecc. Anche la Parola di Dio fa parte della Tradizione o almeno non può essere tagliata da essa, perché la Parola è inseparabile dalla sua percezione, dal nostro essere davanti a Dio che è anche il frutto dello Spirito. Tanti problemi delle altre Chiese che devono fare i conti con la modernità, in pratica, non esistono per gli ortodossi. A volte non sono neanche formulati. Per condannare l'aborto, l'eutanasia o il matrimonio omosessuale, la Chiesa d'Oriente non ha bisogno dell'intervento del Sommo Pontefice. Basta respirare da ortodosso.

Se la Tradizione nell'ortodossia fa sentire il peso del passato che è quasi sempre sacro e intoccabile, nel cattolicesimo la Tradizione si esprime in prevalenza tramite la bocca del papa. Il papa deve fare tutto ed essere dappertutto, su tutti gli schermi e in tutti i paesi, su tutte labbra, in tutti cuori… Giovanni Paolo II, un uomo dal carisma eccezionale, ha portato la sua grandezza come un destino, l’obbligo di superare ogni giorno le forze umane, perché la sua vocazione è stata quella di essere un'icona sempre vivente e rinnovata di tutto ciò che é la fede. Il papa, da Pietro, deve guidare la sua barca attraverso il mare in burrasca, senza di lui essa potrebbe perdere il corso giusto.

La nave ortodossa, invece, sembra stare all’ancora nel mare profondo e tranquillo; tutto può succedere nella storia, ma con la fede, niente; il suo deposito rimane trasparente, riempito di luce che proviene dal suo fondo apostolico, dal mondo che verrà. Sembra che l’ortodossia non si accorga della storia: essa si lascia facilmente possedere dall’esterno, ma il mondo che passa non entra mai nel Regno che è dentro di noi.

Dunque, dove siamo 950 anni dopo la rottura? Non siamo più felici di essere "la Chiesa", l'una contro l'altra; è già una grande vittoria dell’ecumenismo. Ma il vero problema fra noi è che ci muoviamo in tempi diversi. L'ortodossia vive nel suo passato, ma anche di più nel futuro escatologico (il suo presente storico lascia sempre a desiderare), il cattolicesimo lavora proprio con la storia attuale. Se per la prima i Padri della Chiesa sono molto più importanti di tutti i patriarchi viventi, per il secondo il papa in carica manda inevitabilmente in ombra tutti i suoi predecessori. Forse, la strada verso l’unità passa anche attraverso lo scambio dei tempi, dei modi di servizio?

Una volta trovata la strada verso quello scambio, troveremo - chi sa? - anche le soluzioni per gli altri punti nevralgici della discordia.

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