Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Nella lingua ebraica, il termine compassione viene dalla stessa radice di utero e significa l’amore che, normalmente, una madre sente per il figlio o la figlia che ha generato. Se la nostra vocazione è vivere con tutte le creature questo amore compassionevole, la comunità dei discepoli e delle discepole di Gesù deve, in primo luogo, offrire questa testimonianza d’amore.
di Gianfranco Ravasi
C’e un curioso contrasto da segnalare appena ci si meta parlare del paradiso. Da un lato, la Bibbia - che è pur sempre il nostro grande codice di riferimento simbolico, teologico e iconografico - è al riguardo estremamente sobria, per non dire reticente. D'altro lato, la tradizione cristiana successiva si è abbandonata a una fantasmagoria irrefrenabile di immagini e di scene.
di Giovanni Vannucci
Sulla strada di Emmaus i due discepoli incontrano Cristo, non lo riconoscono, disputano sulle Scritture lungo tutto il tragitto, ma i loro occhi rimangono ottenebrati. Cristo parla il loro stesso linguaggio, essi fissi sull’idea messianica della loro fede ebraica, nulla intendono. Durante la cena, quando Cristo spezza il pane, lo riconoscono e gli dicono: «Signore, resta con noi perché si fa sera» (Lc 24,29). Dopo la frazione del pane Cristo scompare.
di Amedeo Cencini
Protagonisti della preghiera non siamo noi, ma Dio. È lui che desidera l'incontro con noi, e lui che, ci ha messo in cuore il desiderio di stare con lui, è' lui che ci parla e interpella come nessuno potrebbe.
Saper dire: «Ti perdono» è il traguardo finale di un percorso fatto di piccoli successi e sofferenza. La «purificazione» del passato,con la conseguente liberazione dalla rabbia e dal risentimento è il premio finale che spetta a chi, nell’oggi,sceglie questa via per gestire i suoi conflitti, verso una vera e matura riconciliazione.
di Vladimir Zelinskij
(continua)Capax Dei
Nella «gioia dell'iterazione» che stupì Mandel'štam, ossia nella gioia di aver trovato e riconosciuto i giacimenti della Sapienza o della Shekinah in una moltitudine di specie culturali, Averincev non si ripete, non si ferma nella sua ricerca, non celebra il passato per amore della sua canuta antichità. Prima sembrava che non si sarebbe mai deciso a uscire dai porti accoglienti e vastissimi della «sua» antichità, ma poi si è scoperto che si muoveva con altrettanta sicurezza anche sulla «nave della modernità». Si tratta non solo dell'attualità di nuovi temi, della pubblicistica, dove ha dato prova della sua dolce maestria, ma di qualcosa di infinitamente più essenziale, della modernità di se stesso, di ciò che nel dialogo con la Parola può essere chiamato «qui e ora». Egli pone questo tipo di dialogo alla base di ogni cultura che sia degna di questo nome.
Qui sta l’essenza della sua novità, della sua irripetibilità, del nuovo apporto di Averincev. Egli si rivolge alla Parola che «era in principio presso Dio». (Gv 1,2) non per ragionarci sopra o per descrivere l'esperienza che ne hanno fatto altri, ma per creare liberamente e stare semplicemente in essa. Non per chiarirla per sé ed erigere l'ennesimo monumento verbale alla propria interpretazione, ma per fermarsi stupito di fronte al suo mistero. Il mistero non consiste in qualcosa di inconcepibile o apofatico, ma in quella che egli stesso una volta ha chiamato «divinoumanità della parola», intendendo la semplice parola umana, piccolo mattone della cultura con cui la Sapienza si costruisce la casa. Il mistero sta nella stessa Discesa della Parola di Dio, che si incarna nel linguaggio umano, a volte spigoloso, dei testi sacri. Dietro a questo postulato classico può celarsi anche un altro significato, universale e mistico.
«Per questo esso ha il diritto dl affermare che per logica interna di questo stesso miracolo, nella parola umana può essere contenuto l'incontenibile Verbo divino; che la parola umana, come tende bene la formula latina, è capax Dei. In realtà, per far ciò la parola umana deve superare se stessa, oltrepassare i propri limiti, restando puramente umana ma trasformandosi anche in qualcosa di più che umano». (20)
Capax Dei, è il dono alla parola umana reso possibile dall'incarnazione, il cui riflesso d'ora in avanti sta in tutte le parole umane, le quali possono respingere questa capacità di «irradiare Dio», o accoglierla, cercando di essere illuminate da Lui. La Parola si è fatta carne in Gesù di Nazaret, e questo avvenimento, unico nella storia dell'uomo, non può non riflettersi (oppure velarsi) in tutte le parole umane. E non solo nelle parole, ma in tutti gli atti umani che portano il logos, si tratti di una forma d'arte o di una qualunque nostra azione. La scoperta di Averincev, una delle sue scoperte, sta nell'aver percepito e confermato, avvalendosi di una moltitudine di esempi, questa irrinunciabile responsabilità di cui è investito ogni uomo dell'era cristiana. Essere capax Dei significa essere capaci di esprimere, sia pure con i propri mezzi stentati, la presenza di Dio tra gli uomini, o Shekinah, Sapienza, Buona Novella, che hanno bisogno del nostro linguaggio, sia esso parola, immagine o gesto. Non è da molto che abbiamo cominciato a ripetere con devozione il pensiero di padre Pavel Florenskij sull'origine della cultura dal culto, intendendo il culto prevalentemente come liturgia e non lasciando alla cultura contemporanea altro diritto di sopravvivenza se non quello di riprodurre forme liturgiche di culto, innanzitutto pittoriche o plastiche. Non c'è dubbio che alla base della cultura creata da Avetincev stia proprio il culto, perché in essa la parola umana afferma la propria capacità di accogliere la presenza di Dio, che prende dimora nella nostra gloria, nella casa costruita dalle nostre mani, e la costruzione di questo tempio è la vocazione di ognuno di noi.
«Padre, il cui nome è segreto»
«Sapere molte cose come abbiamo ricordato non insegna ad avere intelligenza», tuttavia, l'intelletto può utilizzare le sue molte conoscenze per renderle un luogo di preghiera. Tutti sanno che il fumo che si spande lentamente e si dissolve, il profumo dell'incenso, la ieraticità di un gesto possono in qualche modo aiutarci a comprendere l’icona. Le permettono di manifestarsi in noi, quasi tracciassero la via al nostro sguardo che si apre al mistero, nascosto e al tempo stesso svelato in un'immagine che per i nostri occhi potrebbe sclerotizzarsi in un'iconostasi o spegnersi in un museo. Ma ecco che con questi gesti, come con la terra o con le nostre conoscenze, si può impastare quel «fango» che Gesù mise sugli occhi al cieco nato.
Un tempo le opere di Averincev mi sembravano solo una ricca collezione di icone, raccolte ovunque e appese avendo come criterio solo il capriccio del collezionista. Un po' alla volta, questo ammasso di inutili capolavori a cui stavo di fronte si è trasformato per me nella chiesa della Sofia, veramente ornata di una moltitudine di immagini meravigliose, che tutte assieme dovevano rivelare, rinnovare, insegnare a vedere l'unica vera icona: quella della Sapienza o del Nome. E questo Nome ripetono a modo loro tutte le immagini sacre, gli affreschi, le vetrate, gli stucchi. Allineandosi in un'unica schiera, in un ordine che si forma spontaneamente o consapevolmente, queste opere tracciano al Nome la via verso i nostri occhi, le nostre orecchie, il nostro intelletto, la nostra conoscenza. E in loro - o attraverso di loro - il Nome in qualche modo compie il suo annuncio. Tutta la cultura di Averincev, ponderosa ma al tempo stesso agile e dinamica, diventa un atto di culto raffinato, ricercato, ma pienamente ortodosso, una celebrazione davanti all'icona del Nome di Dio. Nome che si fa chiaro nel denso fumo delle parole umane che esce dal turibolo. Questa densità permette al Nome di manifestarsi e al tempo stesso gli consente di restare inosservato. Perché nella sua profondità il nome di Dio coincide con il silenzio, il silenzio a sua volta esige verginità e pace. Forse, per la mia durezza d'orecchio, non riuscirei a sentire bene il silenzio dei testi di Sergej Averincev se non mi venissero in aiuto le sue poesie.
«Padre, come nella debolezza infantile,
alle sorgenti del verbo,
siano le parole nostre grevi,
riempite fino all'orlo di silenzio». (21)
Le sue parole sulla debolezza non sono pronunciate a caso. Solo un uomo che ha sperimentato con tanta finezza e profondità la forza della parola in sé e negli altri, in molti dei suoi confratelli che con lui rendono culto alla Sapienza e servono la Shekinah, sa meglio di chiunque altro cosa significhi la debolezza infantile, che si impadronisce delle parole quando cerchiamo di avvicinarci per loro tramite «alle sorgenti del verbo». Il mistero dell'icona del Nome o della Parola di Dio non si pronuncia con un linguaggio qualsiasi, ma piuttosto si rivela nell'immanenza, nel silenzio, nella preghiera.
«Preghiamo Te, Parola,
che eri in principio presso Dio,
che pronunci senza linguaggio
i silenzi della Sua profondità…» (22)
Ma prima ancora di aver sentito questi splendidi versi, ho capito che i numerosi linguaggi di Averincev, pieni fino all'orlo del «sapere molte cose», portano in sé le profondità del silenzio, proprio di quel silenzio in cui ogni uomo può al meglio percepire, capire e accogliere l'altro. Infatti, tutti i nostri linguaggi possono servire come frammenti di un Nome colmo fino all'orlo di silenzio, del silenzio che custodisce questo nome segreto, nel quale ci è dato di salvarci.
«Dio, il cui nome è segreto,
dà ogni parola per vedere
nel nero della nostra morte,
nell'oro della Tua gloria,
come una pietra splendente e dura,
sfaccettata in losanghe di luce,
cinta da tutti i lati
dalla guardia del silenzio». (23)
Il segreto o il «modello» di Averincev
Quello che sto cercando di esprimere in queste righe non è affatto il panegirico di una certa persona. Francamente, non posso soffrite il culto della personalità sotto qualsiasi forma, anche se si trattasse di personalità eccezionali, e umili nella loro eccezionalità, come Sergej Averincev, poiché «non a noi, non a noi, ma al Tuo nome» (Sal 115, 1) bisogna rendere ogni culto, ogni commemorazione. L'«arcipelago Averincev», per quanto sia notevole e interessante di per Sé, lo è ancora di più come modello «operativo» che organizza o crea cultura, e in questa sua funzione può essere applicato a ciascuno. Anche se non abbiamo al nostro attivo mille isole popolate di nomi rari e lingue astruse, ma ne abbiamo solo cinque o sei; anche se non è un mare di associazioni a ribollite nella nostra memoria e le icone si contano sulla punta delle dita e sono tutte copie delle copie, non è questo ultimamente l'essenziale. Essenziale è Colui «il Cui Nome è nascosto», e tutto ciò che in noi si raccoglie, si struttura attorno a questo Nome e lo serve. Essenziale è il riflesso e il silenzio del Nome in noi. Ogni atto culturale, ogni conoscenza che assimiliamo non può essere vuota per l'anima, inutile per il Nome, vana per la Parola, impenetrabile alla Luce che ci ha toccato. Ciò che è riuscito ad Averincev può benissimo capitare a chiunque, qualunque sia il suo lavoro, per quanto modesto sia il posto che occupa nell'arcipelago della cultura, dove coscientemente o meno vive ogni uomo di questa terra. Perché cultura, in sostanza, significa anzitutto edificare la personalità attorno al Nome di Dio.
La sostanza del successo culturale non sta nelle proporzioni grandiose, ma nel grado di illuminazione interiore che si possiede, che promana dal silenzio del verbo, dalla totalità con cui lo si serve. Tutti possiamo diventare «degli Averincev» in quello che facciamo, nella nostra esistenza, poiché la sostanza dell'opera di Averincev sta nell'aprire le finestre alla luce, nel riempite le parole della Parola e le conoscenze del Nome, proteggendole con la vigile «sentinella del silenzio». Proprio in questo saper raccogliere e trasmettere il silenzio con le sue numerose conoscenze, sta uno dei segreti di Averincev. Sono cose che non si imparano da nessun libro e da nessun manuale, poiché ognuno deve trovare da solo la strada verso questo silenzio, con le proprie conoscenze e le parole, senza imitare nessuno, senza idolatrare nessuno, senza seguire nessuno, ma solo volgendosi verso il modello e mettendosi in ascolto del mistero del Nome in se stesso. La cultura può diventare la lingua di questo nome, e al tempo stesso ogni tentativo di edificare la cultura, ogni forma in cui la si serve può portare a noi qualcosa di ignoto, che non si è ancora rivelato ma che può rivelarsi solo in un uomo concreto. Un uomo che è nato ed è stato mandato nel mondo proprio per accendere, con la sua piccola luce umana, la Luce che ci ha illuminato, per illuminare e benedire con segni umani il Nome che si nasconde nel silenzio. Poiché anche in questo consiste la predicazione del Vangelo che Gesù ha comandato.
Nel Vangelo di Matteo c'è una frase che può suscitare perplessità in molti. Parlando dell'avvicinarsi del giudizio finale e della Seconda Venuta, Cristo profetizza: «Non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell'uomo» (Mt 10,23). Mi è sempre parso che noi cristiani abbiamo appena cominciato a percorrere «le città di Israele», che il Vangelo non sia ancora stato predicato fino in fondo, che il nome segreto di Dio non abbia trovato neppure una minima parte dei nomi umani in cui deve incarnarsi, che la Parola non abbia ancora svelato tutta la sua stupefacente novità e immediatezza, che la sua pienezza sia ancora ben lontana dall'essersi riversata in tutti i recipienti e i contenitori umani che avrebbe dovuto riempite, che il sacro mistero della Trinità non abbia ancora raccolto, non sia ancora riuscito a chiamare tutti coloro che ad esso partecipano e del quale sono servitori, che le «città di Israele» disseminate nella nostra storia e nelle nostre culture, nel nostro futuro, non solo non siano state percorse, ma nemmeno scoperte...
Nel cammino verso queste città, iniziato ancora una volta, come ai tempi degli apostoli, in un'epoca di persecuzioni e di sordità, Sergej Averincev è diventato uno dei più energici e instancabili pellegrini.
Post scriptum.
La vocazione della persona e l'ora della morte
Avevo incominciato a scrivere di Averincev quand'era ancora vivo, anche se da alcuni mesi era alle soglie e come attirato dalla morte. Sussisteva la speranza, ancorché flebile, che sarebbe restato fra noi, che sarebbero tornati la sua voce, la sua parola, il calore speciale del suo pensiero. Ma il 21 febbraio 2004 è mancato.
È morto alle soglie della vecchiaia. La «possente vecchiaia evangelica», come diceva l'Achmatova, sembrava essergli stata promessa ma non gli è stata data. Rozanov chiamava la vecchiaia «l'età metafisica». Finito il lavoro nel mondo, si intreccia una «conversazione» silenziosa con l'altro. Quell'età per lui non è venuta, anche se sappiamo che tutta la vita di Averincev è trascorsa in pratica nell'età metafisica. Eppure, nonostante l'importanza di tutto ciò che ha fatto, sembrava che l'«acme» della sua vita non si fosse ancora manifestato appieno, ma si stesse appena approssimando negli ultimi anni. La vita se n'è andata, ed è rimasto un certo pensiero divino su una persona (ed è questo che giunge all'orecchio del nostro cuore), una persona di proporzioni tali da non trovare posto nel solo passato. Il passato dell'uomo entra in dialogo con noi, noi vi partecipiamo nel presente, e qualcun altro dopo di noi anche nel futuro. Ecco io vorrei raccontare come la figura, la vita, la personalità di Averincev si iscrivono nel futuro, come il suo riflesso tocca anche noi. I necrologi sono già stati scritti. L'offerta o il risveglio della vera memoria ancora non è iniziata.
Durante il periodo della sua lunga agonia Avetincev era diventato una persona cara, certamente non solo all'autore di queste righe. Si aveva l'insistente impressione che la morte, o meglio la vita, avesse un suo disegno segreto, e si cercava tormentosamente di svelare quale. Ma ora è morto, è entrato nell'esperienza della morte, come diceva l'indimenticabile padre Sergej Želudkov, e questo transito ci ha lasciato una sensazione di quiete e di luce. Come se fosse tornato chiaro non solo cosa è stato Sergej Averincev (cos'ha fatto, detto, rivelato, come ci ha sorpresi), ma che cosa sarà, cosa dirà, come ci sorprenderà nella sua vecchiaia promessa ma non realizzata, che ancora troverà il modo di farsi sentire nella maturità o giovinezza di altri.
Del resto, questa sensazione è nata ben prima della sua dipartita. Due anni e mezzo fa, prima di lasciare una conferenza sulla patristica a Vienna, cui ebbi l'onore di partecipare assieme a lui, mi diede da leggere durante il viaggio la sua traduzione del Vangelo di Luca. Cominciai a leggerla sul treno, la lessi dalla prima riga all'ultima senza mai interrompermi. L'autenticità linguistica di questo testo mi assorbì totalmente. Non c'era una sola parola che trafiggesse per la sua «inverosimiglianza», per l'infedeltà allo spirito e alla lettera dell'annuncio evangelico. Incominciai a paragonarlo. Non osai rivolgermi al testo greco per scarsità di conoscenze (naturalmente il livello di Averincev era tale, che a nessuno sarebbe venuto in mente di cercare gli errori). Paragonai il russo col russo. La traduzione sinodale, da qualsiasi parte la si guardasse, è e resta un grande avvenimento delle nostre belle lettere, anche se ci limitassimo alla storia della letteratura. E tuttavia questo avvenimento non può diventate la norma legislativa della nostra lingua religiosa da due secoli a questa parte fino al giorno in cui «non ci sarà più il tempo». Non si tratta del fatto che la lingua si sviluppa, poiché questo movimento può anche non essere avvertibile dalle nostre profondità liturgiche. Ma lo sviluppo della lingua recepisce anche le nuove forme o strade del pensiero, comprese quelle che portano a Dio, che gravitano attorno al mistero di Dio nell'uomo, e che è impossibile indirizzare una volta per tutte in un determinato senso verbale univoco. Ma ciò nonostante, la nuova forma linguistica deve esprimere in modo nuovo esattamente il tipo di linguaggio che parla soltanto «l'interno del cuore», che non vive nel tumulto della politica, delle ansie quotidiane, delle notizie gridate o dei romanzi letti nel metro, ma nella bellezza «di un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace» (cfr 1Pt 3,4). Ed ecco che questa bellezza si è dischiusa nel Vangelo di Averincev, che suona «alto e chiaro» (sono parole di Žukovskij), con l'autenticità con cui l'eterno si fissa nel temporale.Sicuramente l’opera di traduzione, pur nella sua ricchezza (oltre a due Vangeli, il Libro di Giobbe, i Salmi, come pure i Padri siriaci e greci, Platone, Aristotele, Hesse, Brentano...), rappresenta soltanto la periferia di ciò che è rappresentato dal nome di Averincev. Ma quando si tratta della traduzione di testi sacri, cioè della Parola che ci parla di Dio e lo manifesta dentro il nostro cuore, ci vuole ben più che una solida conoscenza distillata da antiche erbe, ben più che talento, discrezione, finezza, orecchio per le sfumature verbali, insomma tutto ciò di cui Sergej Averincev era riccamente dotato, qui ci vuole anche mitezza e bellezza d'animo. Bisogna essere mediatori e scomparire in questo servizio. Bisogna servire «non nobis, sed nomini Tuo», ma bisogna farlo in modo che questo servizio al nome diventi allo stesso tempo un nostro servizio, che si compia in noi. Soltanto con questi talenti ci si poteva misurare col problema dei problemi della Chiesa russa, quello della lingua liturgica. Non è questo il luogo per intavolare il discorso. Ma a molti - e non a me solo - era chiaro che se c'era qualcuno in grado di provarci questo era Averincev. Chi altri - e chiedo scusa a chi non conosco - poteva vantarsi di unire in sé il tesaurus della memoria storica e la semplicità di fede, il lavoro di cesello sulla parola e la percezione della sua potenza che l'uomo non può contenere, un'insolita delicatezza e una finissima abilità, una umiltà non affettata e l'audacia? Chi se non lui, che era dotato di un orecchio assoluto per la poesia, e poeta lui stesso, maestro di retorica nel senso antico e originario del termine, uomo di preghiera capace di trattare liturgicamente ogni singola parola, sarebbe potuto diventare il nuovo mentore dei russi, quello che la nostra Chiesa attende ma non vuole accettare, che rifiuta ma allo stesso tempo invoca silenziosamente? Chi altro avrebbe saputo trovare le parole con cui poter pregare e gioire, ed esprimere quella pienezza umana dell'anima per cui uno è in grado di capire l'altro senza perdere la consapevolezza della propria persona? Chi saprebbe trovare una lingua totalmente «pura davanti a Dio» come davanti a se stesso, condividendo la patria della lingua con quanti Dio ha scelto come suoi e nostri contemporanei?
L'uomo non è più tra noi, ma la sua vocazione rimane.
Un'eredità interiore
La «cultura di Averincev», se guardiamo ai suoi libri, ai suoi articoli disseminati dovunque, si è sviluppata contemporaneamente da numerose fonti. Chi avrebbe potuto riconoscere nel giovane filologo già dottissimo, che scriveva della poetica antico-russa o della vivacità storica della categoria del genere, il poeta che si teneva appartato e componeva inni appassionati all'Annunciazione? Volendo abbracciare in un solo sguardo tutto ciò che ha scritto, dai primi articoli fino agli ultimi lavori (anche se non ci sono tante persone capaci di assimilare in uno sguardo tutto questo), nasce la sensazione di uno sviluppo, di un cammino interiore che ha avuto le sue tappe, la sua specifica logica dell'anima. Molto schematicamente (dato che un breve discorso commemorativo non può essere uno studio) questa logica si potrebbe tracciare come il cammino da un problema di critica letteraria all'autore stesso, dall'uomo-scrittore all'uomo segreto del cuore, immerso in Dio, dall'uomo segreto al Nome che in lui è stato posto e che in lui canta; ma fermiamoci qua.
Nell'introduzione al libro Poeti, Averincev scrive: «Più che cercate di farli "miei", volevo piuttosto io stesso farmi "loro", perché il simile, secondo la vecchia massima, riconoscesse il proprio simile; perché essi stessi fossero non soltanto per il mio intelletto, ma anche per la mia emozione, ancora più interessanti dell'emozione in quanto tale per se stessa. Il mio scopo era di coinvolgere la mia soggettività nel processo della conoscenza però con l'intenzione che in questo processo essa avesse a "morire", Non spetta a me giudicate quando il mio proposito sia stato almeno in parte coronato da successo, o quando sia decisamente fallito. Di un fatto sono sicuro: i poeti dei quali ho scritto non sono stati per me un pretesto per dire qualcosa "al riguardo". Per me non sono mai stati altro che se stessi, vale a dire qualcosa di incomparabilmente più interessante di tutto ciò ch'io avessi da dire su di loro». (24)
Noi lettori siamo pronti a rispondere concordemente in coro: «Ci è riuscito, assolutamente». L'autore, tuttavia, vede meglio di chiunque. Evidentemente, è rimasto qualcosa oltre la parola, che lui sentiva più fortemente, che tormentava lui e non noi. Parlare di fallimento non è affatto una forma di riverenza letteraria, ma un normalissimo processo creativo, quando dietro ad ogni frase conclusiva cresce immediatamente una montagna di cose non dette fino in fondo, non partorite; una montagna di cose pensate, mature, che premono sulla porta serrata del nostro discorso, ma che questo non è ancora pronto ad accogliere. Averincev è stato capace di fare «suoi», «nostri», ma anche più propriamente «loro» una schiera delle migliori menti creative, tanto che questa stessa capacità è diventata la sua ricchezza, la sua ascesi, un’opera nel più rigoroso senso ecclesiale, e infine il suo testamento. Quello che ha fatto resterà con noi. Ma con noi resterà anche ciò che non ha detto fino in fondo, ciò che andava maturando ed era maturo in lui, ma è stato interrotto dalla morte.
Cerco una parola, ma le parole sembrano troppo logore, sfilacciate per riuscire a trasmettere l'inesprimibile. Forse la parola più precisa e meno inadeguata è la parola «sapienza», la sapienza in senso biblico, la sapienza della semplicità decantata, limpida, profonda. La «possente vecchiaia evangelica» è frutto della sapienza. Negli ultimi anni in Averincev era affiorata un’intonazione nuova, nient’affatto da maestro ma piuttosto da discepolo, era l'intonazione di una persona che ha cominciato a elargirsi, a mettersi in comune con gli altri. Parlava molto in pubblico, partecipava a molti convegni, scriveva introduzioni a libri altrui, con la sua stupefacente capacità di aprirsi agli altri era diventato un maestro anche nella pubblicistica. Quello che non gli era stato possibile da giovane - per banali motivi di censura - si era poi rivelato necessario, tempestivo ed estremamente richiesto nella maturità. In un certo senso, questo sapiente servizio al tempo e al mondo per un uomo del rango di Averincev era in parte un sacrificio, ma un sacrificio portato con letizia, che lo aveva entusiasmato (ed era diventato alla fine «la morte totale effettiva»). Molti hanno avuto e hanno qualcosa da dire, ma la parola di Averincev era intrisa di una particolare forza pacificante, rivestita della tacita potenza e fortezza di quella pace dell'anima che così tragicamente mancava e manca al mondo russo. Quando si leggono i suoi commenti degli ultimi anni a questo o quel fatto di cronaca, non si può fare a meno di notare che sono espressi con una chiarezza ideale. Non solo riusciva a cogliere il nocciolo della questione, ma trovava anche la giusta intonazione per poter discorrere del fatto. Ricordo ora l'articolo Noi e i nostri vescovi, ieri e oggi. Moltissimo era già stato scritto sull'argomento (ahimè, anche dall'autore di queste righe), ma di tutto questo forse è rimasto fissato non sulla sabbia ma sulla pietra solo quanto ha scritto lui, Averincev. In lui giustizia e misericordia non si contestano a vicenda ma si congiungono, si fondono insieme dando origine a qualcosa di organico, autentico. I suoi articoli sul matrimonio - una predicazione attuale e opportuna -, sul futuro del cristianesimo in Europa, sul contesto europeo dei dibattiti russi, sulla Parola divina e quella umana, sul cristianesimo nel XX secolo, sulla poesia di Ol'ga Sedakova; articoli frammisti a versi spirituali, rappresentano l'ultimo Averincev maturo, dal quale non si vuole, è difficile separarsi.
La sapienza di Averincev, che in qualche modo balenava in lui pur senza aver ancora raggiunto piena espressione, consisteva nella capacità, per dirla con Deržavin, di «conversar di Dio con sobrietà cordiale» e di dire la verità, anche quella più austera, con un sorriso buono, chiaro, quasi inerme.
L'attesa della morte
Chiudo con un osservazione personale. A chi scrive queste note è capitato di incontrare Averincev a Mosca, all'inizio degli anni ‘70 (il defunto Boris Šragin gli aveva fatto una visita di buon vicinato e mi aveva portato con sé), ma un vero rapporto e anche una certa amicizia - nonostante la differenza che corre fra le nostre persone e il nostro livello - sono nati fra noi soltanto vent'anni dopo. Non potrò dimenticare le nostre passeggiate per Roma nei primi anni '90. Ricordo in particolare il Lungotevere dove dei vecchi olmi toccano l'acqua con le fronde, formando una galleria verde sopra la testa. Una sera d'estate la sua fisionomia si stagliava sulle fronde verdi, e sembrava che la sua voce sommessa suonasse in armonia con il fruscio delle foglie.
Il giorno dopo la nostra passeggiata andammo in San Pietro. Non c'erano celebrazioni, in quel momento la chiesa era tutta dei turisti. Poco discosto dalla statua del primo degli apostoli, interrompendo d'un tratto il discorso su Vjačeslav Ivanov, Averincev si mise a recitare la sua Preghiera per l'ultima ora. Con una voce non sussurrata ma ferma, chiara, come di chi professa qualcosa che certamente si avvererà, e a cui il cuore è preparato da tempo:
Preghiera per l’ultima ora
Quando la Morte riderà di me
come colei che ride ultima e fiaccherà
le membra ad una ad una
Sia con me la Tua Forza
Quando il pensiero sprofonderà ottuso
quando la volontà si perderà
quand'io più non saprò il mio nome
Sia con me il Tuo Nome
Quando verrà la fine dei discorsi
e la lingua così loquace un tempo
s'impietrirà nell'afasia della tomba
Sia con me la Tua Parola
Quando passerà l'apparenza
che il veggente vedeva in piena luce
e la superbia del non essere
nuda apparirà
Colma di Te il mio vuoto.
Cercate di penetrare questa pienezza e questa economia di parole, di guardar dentro l'uomo che le ha udite. Non viene voglia di pregare non solo con lui, non solo per lui, ma lui stesso?
(fine)
Note
20) S. Averincev, Parola divina e parola umana, in «La Nuova Europa», n. 2, 196, p. 15.
21) Ibidem, Molitva o slovach, cit., p. 8.
22) Ibidem.
23) Ibidem, p. 9.
24) S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, cit., p. 9.
di Vladimir Zelinskij
A Natalija Petrovna Averinceva
Nell’introdurre questa riflessione sui Sergej Averincev, penso innanzitutto alle sue poesie. Poesie che si vorrebbe chiamare «preghiere come gigli del campo», dal titolo che il monaco Kiprian Kern diede al suo libro sulla poesia liturgica, nella quale le parole, come steli di fiori, si piegano lievemente sotto il peso leggero, incorporeo, della preghiera.
Oh Dio, le parole fuggono
dalla fragile dimora dell'uomo
al nostro sentimento carnale
misteriosamente indifferenti;
staccandosi dalla mano, cominciano a vagare.
Come cani randagi ululano:
meglio è per loro ritornare a Te,
stringersi al Tuo sacrario. (1)
«Il deserto è fiorito come un giglio del campo, o Signore», si dice nell'Irmologion. (2) Quando si pensa all'ambiente, al terreno da cui è germogliato il «fenomeno Averincev», l'immagine del deserto «fiorito» come un giglio del campo si affaccia spontaneamente alla memoria. Certo, l'ululato di cani randagi è ciò che meno si percepisce nelle sue parole. Siamo piuttosto di fronte alla figura di un pentimento non retorico, perché le sue parole, staccatesi dalla mano, invece di vagare si tuffano in profondità alla ricerca di tesori nascosti nelle navi affondate e, raggiunti lì, li ripuliscono dalle alghe e dal fango... Le parole di Averincev sembrano custodire il profumo di quelle profondità, emanano la dolce antichità e il tepore degli altari sui quali si è appena estinto il fuoco dei greci che offrivano sacrifici, hanno la fragranza dei mari e degli stretti che un tempo Odisseo attraversò tornando in patria...
«Di molti uomini le città vide e conobbe la mente». (3)
La strada di Averincev, che si può seguire passando in rassegna le città che ha percorso e i luoghi che ha «visto», è sempre via del ritorno al «sacrario» attraverso la preghiera.
La chiave di Eraclito
Qualsiasi esperienza creativa può essere esaminata in diverse «chiavi», che a buon diritto prendiamo in prestito dagli autori più impensati. Da lungo tempo cerco di sciogliere l'enigma di Averincev usando la «chiave di Eraclito». Mi si è impresso nella memoria un frammento del pensatore greco, che è rimasto, come tutto in lui, oscuro e inesplicabile: «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato a...» (fr. 40), e seguono i nomi degli oppositori di Eraclito: Esiodo, Pitagora e altri.
Negli anni in cui il nome di Averincev si sussurrava tra le élite delle biblioteche, tra un pubblico di pochi detti, sulle riviste letterarie, io, dissociandomi dall'atmosfera snob dei circoli esclusivi, usavo il verso di Etaclito proprio contro questo orgoglioso portatore o, come credevo, trasmettitore di nozioni inutili. Le conoscenze che Averincev aveva accumulato, allora come oggi, colpivano gli occhi invidiosi e stupefatti degli ascoltatori con il loro luccichio che a me, chissà perché, ricordava il luccichio delle monete di cui aveva fatto incetta il cavaliere avaro. (4) Neofita degli anni ’70, guardavo non senza ironia i giovani cercatori di Dio che come mosche sciamavano attorno al piatto colmo del miele vischioso dell'erudizione che si chiamava «lezione di Averincev», e ricordavo, forse fuori luogo, le parole evangeliche sul mercante che aveva venduto tutte le proprie ricchezze per quell'unica perla preziosa… In poche parole, «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza..», dove per me l'«intelligenza», il logos, il giglio era solo quella conoscenza interiore che sboccava nel Verbo che era in principio presso Dio e in principio presso l'uomo, e in confronto alla quale tutto il resto sembrava un ammasso di cocci.
Cos'era dunque quella conoscenza interiore che non desiderava riconoscersi in nessuna nozione esteriore? Sembrava una forza che agiva nelle cose, che si opponeva al caos delle molte istruzioni inutili sulla cultura e sul mondo, era l'essenza più intrinseca della realtà, l'«aletheia», secondo l'interpretazione di Martin Heidegger del frammento 16 di Eraclito, ossia la verità che emerge dal mistero in cui l'essere si rivela all'uomo. Questa verità non si può raggiungere con nessuna archeologia della conoscenza o dotta digressione culturale. Infatti, la cultura ci può accecare con i riflessi dell'individualità umana che si è staccata dal Verbo di Dio. Anche oggi molti la pensano così, contrapponendo la cultura non tanto alla Parola, quanto al culto, e considerandola come qualcosa di notoriamente inutile, che distoglie dall'«aletheia» della vita della Chiesa, dall'«unico necessario» della preghiera. Come se l'ampiezza e la varietà dei paesaggi culturali servissero solo ad attutire la voce dell'intelletto o del logos che parla in noi, a offuscare la luce del mistero che procede dal logos, dal Verbo, e dalla fede che di esso è partecipe.
Mi sono tanto dilungato a parlare di queste cose, proprio perché oggi non la penso più così. La mia protesta contro la freddezza delle «enciclopedie viventi» era in questo caso superficiale, e non teneva conto del «silenzio del Verbo» di Averincev, che può celarsi persino nella disciplina più prolissa e ramificata. Ma, dopo aver ascoltato una volta «la pienezza che non ha nome» (Vjačeslav Ivanov) e che sta dietro a questo silenzio, non ho più potuto separarmi dalla sua ricchezza, disseminata e nascosta nei testi di Averincev, esteriormente sovrabbondanti di reminiscenze culturali; non ho più potuto staccarmi da ciò che fin dall'inizio era colmo dell'intenso dialogo della preghiera, dialogo che cresce dallo stupore che si comunica agli ascoltatori.
Così che, se proprio dobbiamo «misurare» l'armonia con il metro dell'algebra e Averincev con il metro di Eraclito, visto che da qui siamo partiti, oggi come oggi preferirei un altro frammento, il 54, che dice: «L'armonia nascosta vale più di quella che appare».
E finalmente sono arrivato a ricostruire questa armonia nascosta mettendo insieme la moltitudine di frammenti, di isole, sulle quali è disseminata la galassia delle scienze di Averincev. Poiché «la forza materiale [anche quando si tratta della “materia" del pensiero – V. Z.] permette al significato spirituale di realizzarsiL'arcipelago Averincev
Konstantin Sigov, nella sua postfazione alla raccolta Sofia-Logos, ha definito, con un'espressione felice, questa miscellanea come un arcipelago, «un viaggio universale della conoscenza dalla A alla Z». (6) Ma la «A» in Averincev si trova dappertutto: nei greci, dai quali aveva cominciato, negli antichi bibliofili russi, ai quali era approdato, nell'acatisto alla Madre di Dio, di cui ci ha aiutato a scoprire la saggezza, nei Padri della Chiesa, dai quali non si è mai separato, in Vladimir Solov'ëv, che è diventato suo confratello, in Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, in Vjačeslav Ivanov e in altri poeti ed eterni compagni di viaggio, in Walter Benjamin, Rilke, Tralk, Jung, Maritain, in molti altri che sono stati suoi compagni dicammino o, piuttosto, amici... e in tantissime altre diverse esperienze.
Ma con tutto ciò Averincev non è diventato affatto un prontuario ambulante, una sorta di enciclopedia della cultura mondiale. Se esaminiamo con attenzione la traiettoria del suo pensiero, all'apparenza ridondante ma al tempo stesso vivace e lieve, sentiremo che la sua «A», la sua «archè», sta prima della nascita delle parole, si trova «alle sorgenti del verbo», come dirà in seguito.
Nata dalla contemplazione, la sua parola segue il proprio «ciclo», per rifluire poi verso la fonte da cui era partita. È proprio questa fonte, ancora tutta da scoprire, che ci attira e ci affascina. Forse perché in ognuno dei suoi compagni di viaggio Averincev cerca un complice e un confratello, depositario come lui del segreto della sapienza che si è costruita una casa, o almeno un'abitazione fragile e provvisoria, in un certo destino, in un verso particolare e nel silenzio che vi si cela. E tutta questa pienezza del silenzio-conoscenza viene affidata ad ogni lettore attento di Averincev. Qualunque testo di Averincev noi prendiamo, è sempre un capolavoro di dialogo umano ben riuscito, ben realizzato (come dice Marina Cvetaeva: «l'anima si è realizzata»). (7) Un capolavoro che, per usare una delle sue parole preferite, «evoca» persone e concetti, che a loro volta prendono vita e fioriscono nella preghiera. I «protagonisti» di queste opere ci mostrano la loro faccia illuminata, rischiarata dalla luce del cuore che cade su ognuna delle isole dell'«arcipelago Averincev». personalità) diventa fitto e ricco di contenuto, poiché la sua propria voce si fonde con la voce dell'altro senza coprirla, dandole modo di esprimersi pienamente e creando così materia sonora per la Sapienza, la cui voce è sempre polifonica.
La chiave di Mandel'štam
«Solo un russo poteva rivelare questo Occidente, più concentrato e concreto dello stesso Occidente storico», (8) scriveva Mandel'štam di Čaadaev, ma forse queste parole si possono applicare, a maggior ragione, anche ad Averincev.
Non a caso abbiamo ricordato uno dei poeti a lui più familiari, nel quale è facile trovare una moltitudine di sentieri verbali che ci possono condurre anche al fenomeno Averincev. Cercare e trovare vie come queste, spesso impensate, che portino dall'uno all'altro è uno dei suoi segreti stilistici. «Oggetti piuttosto lontani l'uno dall'altro», secondo la definizione di poesia di Lomonosov, ma collegabili tra loro, creano un effetto di compattezza, densità e concretezza storica. Proprio questa compattezza costituiva una sorta di opposizione della parola in anni in cui ci si poteva impantanare nelle parole putrefatte e mummificate come in una fetida palude. Oggi, se ci voltiamo indietro a guardate la palude di ieri (da cui tutti, chi più, chi meno, allora siamo passati), non vi troviamo le impronte di Averincev.
«Dai nemici della parola emana un impuro sentore caprino che avverto quasi fisicamente», scriveva Mandel'štam nel 1921 nel saggio La parola e la cultura. (9)Questa può essere considerata la definizione più esatta dell'epoca che di lì a poco avrebbe ucciso lo stesso poeta. Negli anni in cui il giovane Sergej Averincev aveva appena incominciato a tessere i suoi rapporti sopraffini con la parola, il sentore caprino non era più quello della morte, almeno di quella fisica, ma era così pesante, asfissiante e onnipresente da sembrare ormai a tutti da tempo la normale atmosfera umana. Quando non era rimasto più neppure un barlume di speranza che un giorno tutto questo lezzo si sarebbe dissipato, Averincev aveva trovato il modo di respirate quell'aria diversa, che, a quanto pareva, era stata spazzata via alcuni decenni prima. Aveva trovato il modo non tanto di parlare, ma semplicemente di respirare senza assorbire con i polmoni i miasmi della palude, evitando però di atteggiarsi ad acerrimo nemico del «sentire caprino» (questa resistenza eroica troppo spesso si è rivelata, ahimè, fatale proprio al profumo diverso e sublime che avremmo voluto difendere).Dapprima in modo piuttosto intuitivo, ma poi, penso, in piena coscienza, decise di avere a che fare solo con i primi cittadini della repubblica dei pensatori e dei poeti, che sapeva scoprire in modo così infallibile. Penso che la sua stessa erudizione sia nata non dall'avidità di accumulare nozioni alla rinfusa, ma dal bisogno di amicizia, proprio di quell'amicizia che nella lingua ellenica si chiama philia: da qui la sua philo-logia, philo-sophia, che in Averincev non sono materie e discipline, ma stati di un'anima amica, che ama. «E il mare e Omero, tutto è mosso dall'amore»; (10) ricordiamo ancora una volta Mandel'štam, poiché è come se il mare di Averincev con le sue isole fosse attraversato dalla tiepida Corrente del golfo... Non su tutte le isole sono vissuti eroi che gli sono ugualmente cari, congeniali, compartecipi delle sue scoperte, tuttavia non si trova mai in lui un tono tagliente, che assieme agli errori mozzi via tutta la personalità dell'altro. Il metodo di Averincev è la finezza d'orecchio, da cui nasce anche il dialogo, un dialogo così aperto all'interlocutore, così disposto a comprenderlo, che è come se questa comprensione impedisse all'autore stesso di pronunciarsi. Spesso ci tocca andare a scovare il suo pensiero in testi che parlano d'altro, e perciò non è facile tracciare un confine tra ciò in cui c'è tutto lui, e ciò dove lui non c'è più per niente, ma ha lasciato il posto a un altro misterioso, che secondo Tjutčev «hanno accolto i beati dei come un convitato alla festa». (11)
«Lo afferra la profonda gioia dell'iterazione, una gioia che dà il capogiro», (12) secondo le parole di Mandel'štam, poiché Averincev sa e ama ritrovare se stesso in qualsiasi interlocutore. Per questo è rimasto straordinariamente libero dalla logorroica frenesia dell'ego che si è impadronita di tutti, in particolare all'inizio dell'epoca della libertà; è rimasto libero dall’estasi di lavare in pubblico i panni sporchi del proprio «io». Le sue isole si richiamano l'una con l'altra, si invitano a fuochi notturni, segnali, messaggi d’amicizia, poiché alla base risuona sempre la stessa notizia, ma ogni volta in modo diverso, in cento diverse interpretazioni, saggi e versi. «I versi», dice Mandel’štam, «vivono di un'immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta», (13) e noi vediamo come questa immagine interiore, maturata in Averincev, viene da lui intuita e creata poeticamente in modo instancabile nei suoi amici e interlocutori. Questa immagine interiore che egli trova dappertutto, perché vive in primo luogo dentro di lui, si chiama «Sapienza».
Sofia, Shekinah, (14) Parola
Averincev promuove sempre il suo lettore, lo introduce da pari in una cerchia scelta, sebbene non proprio ristretta, di amici fidati, e chiunque egli inviti non può fare a meno di seguirlo, anche se può capitare che non si senta del tutto a proprio agio alle sue latitudini.
Ne è un esempio il modo in cui ci invita ad andare in pellegrinaggio alla Sofia. «Personalmente mi sembra impossibile pronunciare il nome della città di Kiev», ha affermato all'inizio della lezione all'Accademia Mogiliana, quando gli è stato conferito il titolo di professore Honoris causa, «senza pensare al suo santissimo Palladio, che porta il nome di cattedrale di Santa Sofia». (15) Il costrutto «a me personalmente» sottolinea, a quanto pare, la soggettività di chi parla, che si scusa un po' con gli ascoltatori per questo «io», sbucato fuori in modo importuno. Tuttavia, in questo preambolo si sente già la dolce autorevolezza, che non deriva dal carattere (poiché sarebbe difficile trovare una persona più delicata), ma che nasce dall'atmosfera di culto, nella quale noi, seguendo i passi dell'autore, ci prepariamo a entrare. Ed ecco che l'ascoltatore o il lettore si mette già in viaggio per l'«arcipelago Averincev» salpando da un porto chiamato «santissimo Palladio» e portandosi dietro come provvista un po' di questa santità. «L'argomento di questo saggio è ristretto e al tempo stesso ampio fino ad essere inesauribile», (16) così inizia un altro, precedente saggio sulla Sofia, ed ecco che, cominciando dall'abside della chiesa di Kiev, il filo del suo pensiero-narrazione si immerge in profondità, scende verso le proprie radici, che affondano in Proclo e Platino, in Omero e nell'Edda Antica, (17) e in molte altre opere e autori. La Sapienza chiama Averincev da ogni luogo, e così sembra che il suo viaggio non debba finire mai, ma è proprio questa la peculiarità della famosa sensibilità universale dell'anima slava, di Dostoevskij o, a maggior ragione, di Puškin, che impone delle soste per rispondere a ogni richiamo. Se vogliamo fare un paragone, il metodo e la ragione occidentali ci trascinano dal punto A al punto B come a rimorchio, senza perdersi in inutili digressioni che portano lontano, senza librarsi in alto, senza tuffarsi in profondità, e, normalmente, il punto d’arrivo ci è noto fin dall'inizio. Nella navigazione di Averincev, invece, è importante la stessa cordialità della risposta, un indugiare lungo la via che talvolta sembra del tutto ingiustificato, un particolare che improvvisamente affiora alla memoria e viene portato in offerta a un altare invisibile, e magari è proprio quello a diventare il punto d'arrivo segreto. «La sapienza si è costruita una casa» (Pr9,1), ma in Averincev questa costruzione avviene sotto i nostri occhi: solo un lettore del tutto sprovveduto può non accorgersi di essere finito senza volerlo in questa casa, e per di più non dall'esterno come «osservatore culturale», ma dall'interno, come chi partecipa a un culto nel quale si sente coinvolto.
Lasciamo stare le isole sulle quali la Sapienza ha lasciato traccia di sé, e approdiamo alla Bibbia, alla Parola, poiché in fin dei conti proprio a questo continente ci conduce il nostro autore-Odisseo, Mi perdonino i lettori per la libera interpretazione, ma la Parola in questo testo di Averincev nasce dalla Shekinah, dalla presenza sacra, dalle manifestazioni di Dio nel mondo, che secondo l'interpretazione audace dell'autore si presenta come un Suo alter ego moltiplicato. E l'alter ego di Dio è proprio la Sapienza, definita nel libro di Gesù figlio di Sira «un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente» (Sap 7,25).
La Shekinah non solo ci illumina, è presente o prende dimora in noi (come dice la preghiera allo Spirito Santo), il suo ruolo in Averincev è più attivo: la Shekinah raccoglie come un uccello sotto le ali ciò che da essa nasce, ciò che ne è illuminato. Essa «plasma» l'agire umano, nell'arte, nella costruzione della società, nella preghiera. «Raccogliendo i corpi cosmici in un universo ordinato, raccogliendo i pensieri degli uomini in un cosmos intellettuale disciplinato, la Sapienza raccoglie anche terre, città e paesi in uno Stato sacro centralizzato. Perché anche lo Stato è la sua “casa”». (18)
Mi permetto di fare un'analogia arrischiata: il «cosmos intellettuale» di Averincev nasce dall’unione dei molti corpi, frammenti e volti «culturali» in cui si è imbattuto come per caso, senza un progetto premeditato, ma che sono divenuti, solo grazie a un'intuizione nata prima dei testi, una sorta di edificio di culto, di Stato della saggezza, di reame delle scoperte, di società degli amanti della sapienza; certo, una sapienza puramente umana, che si compone in unità in un grandioso affresco. Nell'«intellettualismo sacro» della Sofia di Averincev la sacralità sembra ben nascosta dietro l'intellettualismo, ma via via che i suoi testi si moltiplicano e si arricchiscono di contenuto spirituale, possiamo constatare come essa si fa sentire sempre più apertamente. Si fa sentire direttamente come professione della vera fede sua, di Averincev.
Infatti, si può professare la propria fede anche così: raccontando delle ricchezze che la ragione, illuminata dalla fede stessa, ha accumulato. «Credere in un unico Dio», dice Averincev del metropolita Ilarion, autore del Sermone sulla legge e la grazia, - ma forse avrebbe potuto a buon diritto applicare anche a sé queste parole -, «non solo è più santo, ma anche più intelligente, ed è più intelligente proprio perché è più santo». (19) Del resto, Averincev non avrebbe mai detto di sé nulla di simile, e, vista la sua umiltà, non lo avrebbe nemmeno pensato. Eppure ha individuato sperimentalmente questa legge, e se non è stato lui a scoprirla, comunque l'ha dimostrata secondo nuove modalità, riconducendo all'intelletto tutto ciò che la santità e la contemplazione della Shekinah o della Sapienza gli avevano rivelato, e raccogliendo i tesori dell'intelletto, tutta la memoria degli incontri, delle conversazioni, dei dialoghi e dei richiami nella santità della conoscenza che aveva scoperto per la nostra epoca.Note
1) S. Averincev, Molitva o slovach (Preghiera per le parole), in: Idem, Stinchi duchovnye (Versi spirituali), Kiev 2002, pp. 8-9.
2) Cit. da: Archimandrita Kiprian (Kern), Kriny molitvennye (Poesie come gigli del campo, Mosca 2002, p. 13. L’Irmologion è un libro liturgico della tradizione bizantina, che contiene i testi delle parti cantate di tutti gli uffici.
3) Omero, Odissea, Torino 1981, p. 3.
4) Allusione a protagonista dell’omonima tragedia di Puškin (1830).
5) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 234.
6) Ibidem, p. 423.
7) M. Cvetaeva, Zoloto moich volos (L’oro dei miei capelli), in: Idem, Sobranie sočinenij v semi tomach (Opere in sette volumi), Mosca 1994, vol. 2, p. 149.
8) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura. K stat’e e «Čaadaev» (La parola e la cultura. Per l’articolo «Čaadaev»), Mosca 1987, p. 267. Tr. it. In: S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, La Casa di Matriona, Milano 2001, pp. 187-188 e in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, Bari 1967, p. 109.
9) Ibidem, p. 40; tr. it. in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, p. 40.
10) O. Mandel’štam, Betonica. Gomer. Tugie parusa (Insonnia. Omero. Vele spiegate), in: Idem, Sobranie sočinenij (Opere), New York 1955, pp. 76-77.
11) F. Tjutčev, Ciceron (Cicerone), testo russo e trad. it. in: Idem, Poesie, Milano 1993, pp. 130-131.
12) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura, p. 41. tr. it. in: Idem, La quarta prosa, p. 42.
13) Ibidem, p. 42; tr. it. in: La quarta prosa, p. 44.
14) Il termine Shekinah indica la divinità immanente, la presenza di Dio nel mondo.
15) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 6.
16) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj (Per comprendere il senso dell’iscrizione sulla conca dell’abside centrale della Sofia di Kiev), in: Drevnerusskoe iskusstvo i chudožestvennaja kul’tura domongol’skoj Rossii (Arte antico-russa e cultura figurativa della Russia premongolica), Mosca 1972, p. 25.
17) L’Edda Antica, o Edda Poetica, considerata la prima opera della letteratura germanica, è attribuita al monaco cristiano Saemund che operò in terra vichinga. La sua stesura risale all’800 d. C.
18) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj, p. 42.
19) Ibidem, pp. 42-43.
Gli scambi sono sempre più possibili fra cristiani e buddisti. La conseguenza non è necessariamente una conversione, ma più spesso l'opportunità di vivificare la fede nella propria tradizione di origine.
di Karin Heller
Per un lettore del Nuovo Testamento la persona di Gamaliele è indissociabile da due fatti: Gamaliele è stato il maestro ebreo di San Paolo. Scrive l'apostolo: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, […] formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna» (At 22,3); poi Gamaliele è intervenuto nel momento della comparsa degli apostoli davanti al Sommo Sacerdote e al sinedrio, evento che ci è tramandato nel brano che commentiamo. Prima di chinarci su questo evento, cerchiamo di conoscere meglio la persona di Gamaliele.
Chi è Gamaliele?
II nostro testo presenta Gamaliele come «dottore della legge, stimato presso tutto il popolo» (At 5,34). La stima che circonda questo personaggio è confermata dalle fonti rabbiniche per le quali Gamaliele I, detto «l'Anziano», è un nassi, vale a dire, un patriarca, un membro eminente del sinedrio. (1) Gli è anche attribuito il titolo onorifico di Rabban, cioè «nostro maestro», invece del titolo di rabbi che significa «mio maestro» e designa in modo abituale i saggi del Talmud. (2) Il nonno di Gamaliele era il grande maestro Hillel, principale capo di una scuola farisaica, conosciuta per la sua interpretazione generalmente liberale della Legge, opposta alla tendenza rigorista della scuola di Shammai. (3)
Gamaliele si colloca nella linea dell'eccellente nonno: introduce disposizioni importanti quanto alla rimessa dell'atto di ripudio per assicurare una migliore protezione alla donna e rende per la donna abbandonata o separata, chiamata agounah, più elastiche le condizioni necessarie per provare la morte del marito. (4) Inoltre afferma che occorre trattare i pagani allo stesso modo degli ebrei per quanto riguarda la carità (aiuto materiale, visite ai malati, funerali, conforto nel momento del lutto). Gamaliele è riconosciuto come autorità rispetto alla Halakha, cioè i problemi relativi alla pratica rituale e alla legislazione civile e penale. Il re Agrippa I e la sua sposa, Berenice (gli stessi davanti ai quali comparirà anche Paolo), (5) lo consultano al riguardo. (6)
Non possediamo di Gamaliele commenti di testi biblici. Il Talmud gli attribuisce qualche saggio consiglio all'indirizzo dei suoi discepoli come: «Procuratevi un buon maestro per essere liberati dal dubbio; quando pagherete le imposte, fatelo con precisione». (7)
Pietro e gli apostoli a Gerusalemme
Nel libro degli Atti, l'entrata in scena di Gamaliele è preceduta da una situazione precisa, alla quale il grande maestro della Legge non è totalmente estraneo. Lui, che ha formato Paolo, conosce tutto il peso della storia del passato d'Israele; lo studio, la meditazione, il commento delle Scritture e la predicazione, attingono in continuazione a questo passato. Gamaliele, come San Paolo, è un fariseo. La loro caratteristica è la scrupolosa osservanza della Legge, la fede incrollabile in Dio che guida la storia in chiave escatologica e una viva attesa del Messia. (8) La tradizione dei Padri costituisce quindi un riferimento permanente nel loro parlare e agire. È ciò che praticano non soltanto Paolo, (9) ma anche Stefano, (10) poi Pietro stesso assieme con gli apostoli. Difatti, dal giorno della Pentecoste fino alloro arresto menzionato nel cap. 5, gli apostoli non cessano di predicare, appoggiando la loro predicazione sulle meraviglie compiute da Dio nel passato. Anzi Pietro ha già pronunciato quattro dei suoi otto discorsi contenuti nel libro degli Atti (11) e Gamaliele stesso assiste al suo quinto discorso (At 5,29-32).
In quel momento preciso della storia della giovane Chiesa, quest'ultima è già diventata una comunità numerosa, cioè si è compiuta per lei la promessa fatta da Dio ad Abramo: «nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra», (12) o, per dirlo, con le parole di San Paolo: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1 Cor 1,21). Quando ci si china sui diversi testi che presentano tale predicazione, si constata che non si tratta di una lezione scolastica sulla storia, né di un discorso di morale. Ma la predicazione o kerygma significa «predicare Gesù Cristo» o predicare «il regno di Dio». Il termine non mira a designare l'atto della predicazione, ma il suo contenuto. Lo studio dei diversi testi manifesta che questo contenuto comporta in generale sei punti: 1. l'annuncio che i tempi sono compiuti; 2. l'affermazione che il compimento si è realizzato con la morte-risurrezione di Gesù; 3. la proclamazione di Gesù glorificato, ormai alla destra di Dio, capo messianico di un popolo nuovo; 4. l'affermazione che lo Spirito Santo è il segno del compimento della promessa divina; 5. la chiamata alla conversione; 6. la dichiarazione che gli apostoli sono i testimoni di tutto ciò.
Il discorso che tiene Pietro insieme agli apostoli davanti al sommo sacerdote, al sinedrio, e a Gamaliele, non fa eccezione. Le parole di Pietro secondo cui «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29) sono la risposta al sommo sacerdote che aveva proibito agli apostoli, inutilmente, di «non insegnare più nel nome (di Gesù)». Pietro non esita a proclamare la sua dottrina addirittura di fronte a coloro che cercano di farla sparire da Gerusalemme. Ricorda ai suoi uditori, tra i quali Gamaliele e probabilmente altri eminenti dottori della Legge, che l'iniziativa degli eventi accaduti appartiene al «Dio dei nostri padri». Questa osservazione sottintende le altre meraviglie delle quali Israele fa memoria, e colloca la risurrezione di Gesù nella stessa linea. Anzi, la risurrezione di Gesù manifesta il totale indurimento del sinedrio che ha ucciso Gesù «appendendolo alla croce» (5,30); la stessa risurrezione manifesta altresì l'azione salvifica che Dio accorda sempre al popolo «dalla dura cervice» (Es 32,9). (13) Pietro, poi, proclama il Cristo, innalzato alla destra di Dio, capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati (5,31). Infine conclude che di tutto ciò sono testimoni loro, gli apostoli, insieme allo Spirito Santo, dato a coloro che si sottomettono a Dio, cioè che hanno fede in ciò che Dio annuncia e realizza.
La formula «noi e lo Spirito Santo» può sorprendere. Non potrebbe sembrare un'espressione di presunzione? di temerarietà spirituale? di mancanza di umiltà? Si potrebbe argomentare in questo senso, se fossimo nel quadro di una conferenza "spirituale" qualsiasi. Ma siamo precisamente nel momento della proclamazione solenne del kerygma, cioè dell'evento pasquale che concerne la persona di Gesù. In quel momento, Pietro e gli altri apostoli non tengono una lezione di teologia pasquale più o meno appassionante, ma con la loro proclamazione rischiano la propria vita a causa di Gesù. La loro testimonianza non è semplicemente un atto a favore di una persona che ha subito un danno, atto che implica sempre qualche contrarietà; non è neppure il racconto più o meno lungo di «ciò che Dio ha fatto per me». Ma la testimonianza si rivela inseparabile dal testimone, perché essa gli fa condividere la passione di Gesù.
Tutto ciò che capita nel brano che commentiamo ci ricorda infatti che non basta proclamare «Cristo è risorto» per convertire la gente; occorre vivere, condividere il mistero pasquale nella propria carne. (14) E' proprio la condizione dell’apostolo: la proclamazione del kerygma si conclude con l'imprigionamento, seguito da una liberazione operata da Dio stesso. Si riprende la proclamazione del kerygma e, di nuovo, gli apostoli sono imprigionati, chiamati a comparire davanti ai tribunali, giustiziati, minacciati di morte e liberati per la mano potente di Dio che invia il suo angelo (5,18-33). Gli eventi sono tipicamente pasquali. Rinviano a Gesù stesso, arrestato dopo un periodo di predicazione, accompagnata da guarigioni ed espulsioni degli spiriti cattivi, giudicato, messo a morte e, infine, liberato dalle catene della morte per mezzo dell'azione divina.
L'opera del testimone sta fondamentalmente nel condividere il destino di Gesù stesso. Anzi, diventa chiaro che solo lo Spirito può permettere al testimone di andare fino in fondo, sigillando la sua testimonianza con il dono della propria vita. In questo caso, la formula «noi e lo Spirito Santo» non costituisce l'espressione di un orgoglio smisurato, ma è la parola autentica della stoltezza della croce (1 Cor 1,18ss). E in questa testimonianza degli apostoli che tutta la Chiesa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità attraverso i secoli. Ormai ogni membro della Chiesa può affrontare la prova del perdurare nel tempo, fino alla parusia, nella forza di questa testimonianza fondatrice: ogni giorno è chiamata a proclamare la morte del Signore, a celebrare la sua risurrezione, fino alla sua venuta.
Verità dell'uomo-verità di Dio
L'acclamazione pronunciata dall'assemblea cristiana dopo la consacrazione della celebrazione eucaristica rimane spesso una formula semplicemente prescritta dalle autorità ecclesiastiche. Ora, questa formula non è da recitare in modo più o meno distratto, o con la massima devozione, ogni volta che si va a messa; piuttosto, è da mettere in pratica nella vita quotidiana. Esprime in maniera concentrata il mistero cristiano che vale per ogni fedele, laico, diacono, prete, e vescovo. Chiama tutti a un servizio autenticamente sacerdotale. E l'espressione del sacerdozio comune a tutti i battezzati, uomini e donne, e a coloro che sono ordinati in vista della celebrazione liturgica del mistero pasquale di Gesù. Consiste nel proclamare di fronte ai membri della propria famiglia, agli amici, a coloro che incontriamo spesso o che passano soltanto, ciò che è accaduto a Gesù, cioè: è stato messo in croce dagli uomini, e, per usare le parole di Paolo, «costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4).
Di questo Vangelo potente, la parte che probabilmente pone più difficoltà è quella del confessare Gesù messo in croce dagli uomini. Difatti, già il sinedrio ha qualche problema ad ascoltare un tale messaggio, perché implica il riconoscimento della propria responsabilità nella morte di Gesù; questa responsabilità è espressa nella formula giudaica «del sangue che cade su un tale». (15) Dice infatti il sommo sacerdote a nome di tutta l'assemblea: «ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo» (5,28). Detto in altro modo, la predicazione degli apostoli manifesta l'implicazione del sinedrio nella morte di Gesù; sono colpevoli del sangue sparso da Gesù sulla croce. La proclamazione del mistero pasquale comporta quindi sempre la rivelazione di ciò che l'uomo è in verità: un essere che vive in una situazione umanamente inestricabile con i suoi e con Dio, un essere che non può mai dichiarare di fronte a Dio: «sono innocente, sono giusto, non ho fatto nulla di male». Per dirlo in termini di teologia classica: la passione e la risurrezione di Gesù rivelano che l'uomo è peccatore, incapace di salvare se stesso, ma è tuttavia sempre chiamato ad accogliere la salvezza offerta da parte di Dio.
Questa verità dell'uomo non piace a prima vista, e non piace affatto a uomini, come i Farisei, particolarmente convinti della loro giustizia davanti a Dio e davanti agli altri. Non sorprende quindi la loro reazione, fatta di sdegno, collera, passione omicida: «all'udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte» (5,33). La situazione è quella di Gesù che rivela con la sua presenza l'uomo peccatore o lo mette di fronte a una scelta fondamentale: accogliere questa verità su se stesso per essere salvato, oppure rifiutare questa verità e rendere sempre più dura la propria posizione fino all'eliminazione fisica di colui che manifesta l'autentica verità dell'uomo.
L'argomento di Gamaliele
L'intervento di Gamaliele salva in quel momento gli apostoli da morte certa e violenta. Il capitolo seguente, infatti, si concluderà con il martirio di Stefano e non lascia nessun dubbio al riguardo. Gamaliele misura la fragilità umana di fronte a Dio che parla e agisce. L'uomo è come l'erba del campo che fiorisce, poi passa il vento, non esiste più e il suo posto non lo riconosce (cf Sal 103,15-16). I suoi progetti gli sono simili. Durano un tempo, poi crollano; Teuda fu ucciso e i suoi seguaci finirono nel nulla. Quanto a Giuda, anche lui perì e i suoi fedeli furono dispersi (5,36-37). Quanto alla parola di Dio, essa dura sempre (/s 40,8). Anzi è consigliabile all'essere umano di «non trovarsi a combattere contro Dio» (5,39).
L'opinione di Gamaliele è adottata dal sinedrio e dal sommo sacerdote. Perché? L'argomento di Gamaliele può essere inteso in due modi:
- Come nel caso di Teuda e di Giuda il Galileo, si saprà presto se Dio fa perdurare questa via. L'esempio del fallimento di questi due protagonisti presenta la durata dell'incertezza come breve.
- Un movimento come quello lanciato dalla predicazione di Pietro e degli apostoli è solido soltanto perché è opera divina. E lui che ne ha l'iniziativa, lui che lo mantiene, lui che lo fa crescere e che ne determina la durata. In quel caso è tolta la certezza che concerne «l'ora e il giorno», il rapporto tra la pazienza di Dio e la messa alla prova dell'attesa dei giusti.
L'opinione di Gamaliele è probabilmente adottata dal sommo sacerdote e dal sinedrio secondo la prima interpretazione. Soddisfa la loro impazienza, permette di chiudere rapidamente l'incidente. Evita la procedura della messa a morte e permette nondimeno di fustigare gli apostoli. L'eccesso di furore sollevato dalla rivelazione della loro ingiustizia è placato dall'applicazione della sanzione. Ma infine il problema è soltanto rinviato nel tempo. Essendo la prova della pazienza nell'aspettare il giudizio divino diventata insopportabile, si ricorre alla «giustizia», come è considerata da eminenti dottori della Legge divina, e si applica la condanna a morte.
Gamaliele è visibilmente un uomo moderato. Di più: è un uomo modera t in materia religiosa. Questa capacità di tolleranza religiosa ha la sua radice nell' esercizio quotidiano, praticato di generazione in generazione, da parte di coloro che aspettano in Israele il Dio che rivela allo stesso tempo se stesso. il fondo dei cuori umani, le loro opere personali e comunitarie. La difficoltà nell'acquisire questo tipo di tolleranza è messa in evidenza da tutti i conflitti contemporanei che hanno alla loro radice un problema religioso. Riguarda tutti: ebrei, musulmani, cristiani, fanatici religiosi di ogni sorta. Quanto alla convinzione di Gamaliele, essa esce dal cuore stesso della tradizione ebraica formata alla scuola dell' attesa apocalittica; essa insegna che occorre aspettare una rivelazione nuova, un fatto nuovo, per scoprire ciò è già stato annunciato e compiuto da Dio. Egli sa che Dio parla e agisce, ma è anche cosciente dell' incapacità umana di prendere le misure della parola e dell' opera divine.
La capacità umana risiede nell'aspettare e nello sperare che Dio riveli il significato profondo di un evento, che per il credente si chiama: Gesù Cristo.
Note
1) Dal 1948, il titolo di nassi designa il presidente dello Stato d'Israele. Il suo significato è «principe», «governatore».
2) Cf STRACK-BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, II, p. 626.
3) Al tempo di Gesù la scuola di Hillel e quella di Shammai discutevano in modo aspro sui motivi che possono condurre al ripudio della propria moglie. Vale a Gesù d'essere interrogato su questo tema (cf Mt 19,3).
4) Si tratta di una donna legata a suo marito che desidera risposarsi e non lo può sia perché il marito non le concede l'atto di ripudio, sia perché si trova nell'impossibilità di farlo a motivo di una malattia mentale o perché non esiste una prova formale del suo decesso.
5) Cf At 25,13ss.
6) Cf Dictionnaire encyclopédique du Judaisme. Éd. du Cerf, Paris 1993, p. 428.
7) Cf Aboth 1, 16. Citato in: STRACK-BILLERBECK, cit., p. 638.
8) Cf Parole di Vita n. 6/1994 interamente consacrato ai Farisei.10) Cf At 7,1-53.
11) Cf At 1,16- 22; 2,14-36; 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43; 1l,5-17; 15,7-11.
12) Cf Gn 12,3; 22,18; At 3,25.
13) È ciò che appare in modo eminente nel discorso più lungo degli Atti, cioè quello di Stefano. Da notare in particolare l'insistenza sull'indurimento dei diversi protagonisti, lungo la storia, di fronte a Dio che salva.
14) Cf al riguardo 2 Cor 4,1-15, in particolare vv. 12-15: «Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. [ ... ] Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera in un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio».
15) Cf STRACK-BILLERBECK, cit., I, p. 1033.(da Parole di vita, 2,1998)
di Augusto Barbi
Questo primo momento di persecuzione, registrato nel Libro degli Atti degli Apostoli, va collocato nell'ampio affresco della vita della chiesa a Gerusalemme (cf 2,42-8,4). In tale affresco si alternano ricorrenti sommari (2,42-47; 4,32-35; 5,12-16; 5,42; 6,7-8; 8,1b-4), che presentano in forma statica la vita della chiesa, e complessi narrativi (3,1-4,31; 4,36-5,11; 5,17-41; 6,1-6; 6,9-8,la) in cui la vita della chiesa è resa in modo dinamico per episodi drammatici. Nei complessi narrativi c'è pure una significativa alternanza tra quadri che riguardano la vita interna della chiesa (4,36-5,11; 6,1-6), dove vengono risolti conflitti della nascente comunità, e quadri di azione missionaria della chiesa, dove essa entra in conflitto con l'autorità e l'ambiente giudaico e subisce persecuzione nei suoi membri più rappresentativi (3,1-4,31; 5,17-41; 6,9-8,1a). Il nostro testo fa parte del primo di questi quadri (3,1-4,31), nei quali l'attività missionaria della chiesa diventa motivo di ostilità e di persecuzione, e va perciò visto in stretta connessione con gli altri due (5,17-41; 6,9-8,la).
I tre quadri sono segnati da una comune sequenza di eventi che è significativa e che, dal punto di vista narrativo, crea nell'insieme del racconto un effetto di «ripetitività-ridondanza». Tale ridondanza è voluta per dare unità al tessuto narrativo, ma soprattutto per imprimere nella mente del lettore ciò che è centrale ed essenziale in queste storie di persecuzione. La comune sequenza di eventi, presenta:
- un annuncio in parole ed opere (3,1-26; 5,12-13; 6,8-10);
- una opposizione ed una traduzione di fronte al sinedrio (4,1.3-5; 5,17-18.27a; 6,11-15);
- un interrogatorio ed una difesa degli accusati nella forma di un discorso kerygmatico (4,7-12; 5,27b-32; 7,1-53);
- una reazione ed una sanzione da parte dell'autorità (4,13-22; 5,33-40; 7,5460);
- una continuazione ed un ampliamento dell' attività di annuncio (4,31 b; 5,42; 8,4).
La ripetitività di quella sequenza aiuta il lettore a vedere e a fissare il molteplice rapporto che si stabilisce tra annuncio missionario e persecuzione. Essa mostra infatti che l'attività missionaria, oltre che accoglienza, verifica sempre una opposizione violenta e che, di conseguenza, una chiesa missionaria deve attendersi anche di essere una chiesa perseguitata. Inoltre la sequenza evidenzia che, portati davanti ai tribunali, i discepoli, secondo la parola di Gesù (cf Lc 21,13), sono chiamati a continuare a dare la loro testimonianza. Infine, la sequenza sottolinea come nessuna opposizione umana, neppure quella più violenta che porta i testimoni all'incarcerazione e al martirio, può fermare la corsa della Parola, anzi, la persecuzione diventa sempre occasione per l'espansione della Parola. Il nostro testo va dunque visto nel contesto di queste storie di persecuzione e del ripetersi di un modello che lancia significativi messaggi al lettore.
Resta da notare infine, per una completa contestualizzazione, il legame del tutto particolare che intercorre tra i primi due quadri di persecuzione (3,14,31 e 5,17-41). Tale legame è costituito innanzi tutto dall'identità dei personaggi in conflitto: da una parte Pietro e Giovanni (4,1) o gli Apostoli (5,18) e dall'altra il sommo sacerdote e i Sadducei (4,1; 5,17) con il contorno della presenza discreta e favorevole del «popolo» (3,9.11.l2; 4,2.21; 5.20.25.26). Inoltre, a segnalare il legame è la continuità tematica determinata dalla presenza del termine «nome» (3,6.16; 4,7.10.12.17.18.30; 5,28.40.41), il cui annuncio sta al centro del conflitto, e della prevalente e significativa localizzazione nel «tempio» dell'azione evangelizzatrice degli apostoli (3,8; 5,20.21.25). (1) Questo legame, che nasconde anche una necessaria progressione tra i due quadri, ci solleciterà a non isolare il nostro testo dal suo naturale prosieguo.
Annuncio e persecuzione (vv. 1-22)
Come già abbiamo fatto notare, l'inizio della persecuzione non può essere considerato disgiuntamente dalla precedente azione di annuncio da parte di Pietro e Giovanni: è infatti la loro opera missionaria a scatenare la reazione violenta dell'autorità. L'annuncio si era realizzato in opera e parola, quasi come prosecuzione del ministero salvifico di Gesù «profeta potente in opera e parola» (Lc 24,19). L'opera potente era stata la guarigione dello storpio alla Porta Bella del tempio (3,1-11) compiuta da Pietro «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno» (3,6). Essa era divenuta una indiretta proclamazione di Gesù come «Signore», il «nome» salvifico che Gesù aveva acquisito con la sua risurrezione ed esaltazione (cf 2,36). Tale proclamazione indiretta aveva trovato esplicitazione nel successivo discorso di Pietro (3,12-26), dove, a fondamento della guarigione dello storpio, erano annunciate l'esaltazione di Gesù ad opera di Dio (3,13) e la potenza del suo «nome» (3,16).
Proprio a questo annuncio in segno e parola, che si era concluso con un insistito appello a conversione rivolto al «popolo» d'Israele (3,17-26), fa seguito, in stretta connessione, (2) la reazione degli uditori. Mentre però dopo il discorso di Pentecoste era stata segnalata soltanto la positiva accoglienza dell'annuncio (cf 2,41), qui la reazione favorevole è posta in secondo piano (cf 4,4) ed è fatta subito risaltare con insistenza la reazione violenta: ciò lascia già presagire una svolta negativa negli eventi. L'azione missionaria comincia a provocare persecuzione.
A prendere l'iniziativa repressiva nei confronti di Pietro e Giovanni, che avevano preso la parola nel tempio, sono innanzi tutto i «sacerdoti», ai quali soltanto competeva di istruire il popolo nel tempio. Ad essi si unisce il «capitano del tempio» al quale spettava il compito di controllare l'ordine nell'area del tempio. Infine si associano anche i «sadducei», i quali non credono alla risurrezione dei morti (cf Lc 20,27-40; At 23,6-8), dal momento che il cuore della predicazione degli apostoli era la risurrezione di Gesù (cf 4,1b). Il motivo del loro intervento (cf 4,2) è per il momento pienamente comprensibile: Pietro e Giovanni, insegnando al popolo nel tempio, turbano l'ordine pubblico e la dottrina della risurrezione, che essi annunciano, appare eterodossa. L'arresto e la detenzione degli apostoli sono la spinta perché essi giustifichino pubblicamente la modalità e il contenuto del loro insegnamento.
Il loro interrogativo avviene davanti al Sinedrio, suprema autorità religiosa giudaica, solennemente radunato il giorno dopo (4,5-6). (3) L'attenzione si fissa sul miracolo del paralitico che l'autorità è reticente a riconoscere come tale, e menziona con un generico «questo». Ciò che si vuole sapere dagli apostoli è «in quale potenza» o «in quale nome» l'hanno compiuto (4,17). Al lettore la domanda risulta retorica e suscita ironia nei confronti dell'autorità, perché egli conosce già dal discorso di Pietro (cf 3,12.16) la risposta a questi quesiti. L'interrogatorio davanti al tribunale diventa però per Pietro l'occasione per dare «testimonianza» (cf Lc 21,13) al nome di Gesù. La sua difesa-testimonianza, fatta con spirito profetico, (4) comincia con il mettere in risalto l'assurdità della situazione: gli apostoli sono sotto interrogatorio per aver compiuto un «beneficio» a favore di un infermo. Pietro poi riformula la domanda del sinedrio in modo significativo: «in chi questi è (stato) salvato». In tale espressione giunge al suo culmine un processo interpretativo del miracolo del paralitico che già era iniziato in precedenza: il fatto di «camminare» (cf 3,7-8) era stato riletto come restituzione della «integrità fisica» (cf 3,16) e successivamente come «azione benefica» (cf 4,9), che rimandava indirettamente a Gesù benefattore (cf 10,38 contrapposto a Lc 12,25), ed ora è interpretato come segno della salvezza escatologica. (5) La guarigione ha assunto dunque un valore simbolico particolarmente pregnante, e Pietro può ora proclamare solennemente a tutto Israele che tale guarigione è avvenuta per la potenza del «nome» di Gesù Cristo il nazareno (cf 3,6), che Dio ha risuscitato, in contrapposizione all' azione del sinedrio che ne aveva decretato la crocifissione. E tutto ciò come adempimento del piano divino preannunciato dalla parola profetica del Sal 118,22 (LXX). In forza della risurrezione ad opera di Dio, Gesù ha acquisito il «nome» di «Signore», ed ora Pietro può concludere che proprio in Gesù Signore è offerta a tutti quella salvezza escatologica, di cui il miracolo del paralitico è segno evidente (4,10-12). Il discorso di Pietro ha capovolto la situazione: gli accusatori sono stati posti in stato di accusa, e l'oggetto del processo è diventato motivo credibile della proclamazione della salvezza di Gesù.
La reazione dei sinedriti al discorso di Pietro è duplice. Da un parte, c'è la loro «meraviglia» determinata dall'incapacità di conciliare e spiegare la libertà e saggezza (in greco parresia) degli apostoli a fronte della loro mancanza di formazione scritturistica e di preparazione retorica. Il lettore sa già che questa sorprendente parresia è frutto dell'azione dello Spirito, ma i sinedriti possono solo limitarsi al riconoscimento del loro passato legame con Gesù (4,13). D'altra parte, c'è l'impossibilità da parte dei sinedriti di «controbattere» la parola degli apostoli, data la presenza accanto a questi del paralitico guarito, la cui sanazione essi né possono negare né riescono a spiegare, mentre Pietro l'ha ricondotta apertamente all'azione potente del nome di Gesù (4,14). In questa capacità del sinedrio a controbattere, si realizza la promessa di Gesù ai discepoli per il tempo della persecuzione: «io vi darò lingua e sapienza a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (Lc 21,15).
L'imbarazzo, in cui i sinedriti sono venuti a trovarsi, si riflette nella consultazione che essi tengono a porte chiuse, dopo aver estromesso gli apostoli (4,15). La domanda, che essi si pongono, «che cosa facciamo a questi uomini?» dà espressione a questo imbarazzo. Essi devono, infatti, constatare che la guarigione del paralitico, da loro ora significativamente indicata come «segno noto», è divenuta, per la predicazione degli apostoli, di pubblico dominio a Gerusalemme, ed essi sono nell'impossibilità di negare questo segno (4,16). Ma la constatazione del «segno» non li rende disponibili all'azione divina che in esso si manifesta. La loro unica preoccupazione, che rivela ora la rigidità e la malafede, diventa quella di impedire assolutamente la diffusione ulteriore della predicazione nel nome di Gesù, che dal segno prende avvio e nel segno trova potente conferma. L'unico strumento che essi adottano è quello della minaccia (cf 4,17) senza alcuna argomentazione, uno strumento che è sintomo della loro reale impotenza. L'autorità stessa che essi investono nel comunicare agli apostoli il divieto di annunciare nel nome di Gesù (4,18), rivelandosi in contrasto con il disegno di Dio, viene a privarsi di quel fondamento divino da cui ogni potere religioso pretende legittimazione. Di fronte alla potenza della Parola e alla sua capacità di diffusione, non rimane altro dunque che l'inconsistente violenza della minaccia e la pressione di una autorità che va esautorandosi. L'impotenza di queste misure per fermare la Parola sarà constatata con rabbia dal sinedrio stesso nel secondo momento della persecuzione: «Vi avevamo ordinato con forza di non insegnare in questo nome ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina» (5,28). Il motivo profondo di tale impotenza sarà reso chiaro in seguito da Gamaliele: se quest’opera «è da Dio non potrete distruggerli» (cf 5,39).
Reazione di Pietro e Giovanni all'imposizione del sinedrio (4,19) è nella forma di una domanda che sottende già una loro presa di posizione chiara. In essa gli apostoli sollecitano da parte del sinedrio stesso un giudizio che sia basato non sul criterio dei bassi calcoli umani, che hanno portato al divieto dell’annuncio, ma sul criterio della fedeltà a Dio: «se è giusto di fronte a Dio». L'alternativa su cui giudicare è l'obbedienza all'ordine del sinedrio piuttosto che a Dio. Tale alternativa evidenzia già che il divieto del sinedrio è in contrasto con la volontà divina, e che l'autorità che lo sostiene non ha più potere su chi intende essere fedele a Dio. I sinedriti sono dunque invitati a farsi giudici di se stessi e a riconoscere il carattere iniquo della loro imposizione, mentre gli apostoli lasciano intendere di schierarsi dalla parte di Dio, opponendosi al divieto del sinedrio. Tale opposizione, che appare come una obiezione all' autorità in nome della fedeltà a Dio, risalterà ancora più chiara quando nel secondo momento di persecuzione, rimproverati per aver disatteso l'ordine del sinedrio, gli apostoli dichiareranno solennemente: «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29).
Pietro e Giovanni motivano per il momento il loro implicito rifiuto all'imposizione dell'autorità con l'espressione «noi non possiamo infatti non annunciare quello che abbiamo visto e udito» (4,20). La formulazione sembra innanzi tutto evidenziare la fedeltà degli apostoli ad un dato constatato che non può perciò essere taciuto e negato, in contrapposizione ad una infedeltà e disonestà del sinedrio che, pur non potendo «negare» (cf 4,16) il dato-segno del paralitico guarito, decidono di impedirne la divulgazione (cf 4,17). Ma questa motivazione fornita dagli apostoli rivela soprattutto la loro fedeltà al compito affidato ad essi da Dio. «Ciò che hanno visto e udito» costituisce infatti il requisito per il loro ministero di testimoni (cf Lc 1,2; At 1,21-22) e, illuminato nella sua valenza storico-salvifica attraverso le Scritture, forma anche il contenuto della loro testimonianza (cf Lc 24,44-48). Per questo compito di testimonianza essi sono stati mandati dal Risorto (cf Lc 24,48; At 1,8), abilitati dallo Spirito (cf Lc 24,49; At 1,8), prescelti da Dio stesso (cf 10,41). In ultima istanza, dunque, la loro impossibilità ad ottemperare il divieto di predicare si radica nell'esigenza di fedeltà al Dio della storia della salvezza. Questa motivazione si illuminerà ulteriormente nel secondo momento di persecuzione, quando Pietro e gli apostoli giustificheranno la necessità di obbedire a Dio con un breve discorso (cf 5,29-32), teso a mostrare l'operare storico-salvifico di questo Dio, del quale essi, unitamente allo Spirito, sono chiamati a dare testimonianza.
La fine dell'azione giudiziaria (4,21), con il rilascio di Pietro e Giovanni, sottolinea ancora una volta l'impotenza del sinedrio che, incapace di sostenere il confronto sul terreno della verità storico-salvifica, non può far altro che ricorrere nuovamente alla minaccia verbale. Il rilascio degli apostoli avviene sulla base di un duplice motivo. Il primo, di carattere oggettivo, è l'impossibilità da parte del sinedrio di trovare qualcosa che giustifichi un intervento punitivo. L'altro, di natura soggettiva, è la paura del «popolo» che riconosce nella guarigione del paralitico l'azione divina. Il sinedrio appare così non solo impossibilitato a porre in atto il proprio potere coercitivo, ma anche distaccato rispetto a quel popolo su cui dovrebbe esercitare la propria autorità. (6)
Preghiera della comunità e coraggio dell'annuncio (vv. 23-31)
Il rilascio di Pietro e Giovanni rende possibile il loro ritorno alla comunità cristiana da cui si erano distaccati in 3,1. Alla comunità radunata «riferiscono quanto i sommi sacerdoti e gli anziani hanno detto» (4,23), e cioè riportano il comando del sinedrio «di non parlare e di non insegnare assolutamente nel nome di Gesù» (4,18). La comunità dunque è messa al corrente del clima di persecuzione che tende a impedire la diffusione dell'annuncio.
La risposta della comunità è la preghiera, elevata a Dio con quella «unanimità» (4,24a) che la caratterizza anche altrove nella frequentazione del tempio (cf 2,46; 5,12) e nell'atto di pregare (cf 1,14), e che rivela la fraternità come condizione necessaria per rivolgersi a Dio Padre. La preghiera, (7) poi, è chiaramente scandita in due momenti, i cui inizi sono segnalati da due invocazioni: «Sovrano» (4,24b) e «Signore» (v. 29).
Il primo momento (vv. 24b-28), pur esprimendosi nella forma dialogica del «tu», invoca Dio come «Sovrano», un appellativo utilizzato nell' AT (LXX) per indicare la piena signoria di Dio sulla creazione (cf ad es. Gdt 9,12; Gb 5,8; Sap 6,7). (8) Questa predicazione della signoria divina viene poi specificata da due proposizioni participiali: la prima (v. 24b) sottolinea l'azione dinamica creatrice di Dio (cf 14,15 ed anche 17,24) e quindi la sua guida della storia universale; la seconda (v. 25a), problematica dal punto di vista testuale e con torta dal punto di vista sintattico, presenta, nella sostanza, l'azione di Dio che, per mezzo dello Spirito, ha suscitato la parola profetica di Davide attuatasi in Cristo, e quindi mostra Dio come colui che guida al compimento la storia della salvezza. Nella sua preghiera, dunque, la comunità evoca innanzi tutto e invoca Dio, signore della storia dei popoli e guida sicura della storia particolare di salvezza.
La predicazione del Dio «che ha parlato» per mezzo del suo servo Davide serve ad introdurre la citazione del Sa/ 2,1-2 (vv. 25b-26). Nel loro significato storico questi versetti del «salmo regale» evocano una situazione di interregno, precedente all' intronizzazione del re, come possibile tempo di rivolte e di sommosse che, in modo enfatico e generico, vengono presentate come di dimensioni universali. Queste manovre hanno come obiettivo JHWH e il suo re «Unto». Con un procedimento di attualizzazione, che ci è noto già dai pesher di Qumran, questi versetti vengono poi riletti in chiave cristologica (v. 27). Il punto di contatto che fa scattare l'attualizzazione cristologica è senza dubbio il termine «Unto» che viene agganciato all'unzione di Gesù da parte di Dio. Certamente a guidare il processo di attualizzazione è l'evento della passione di Gesù, così che «le nazioni e i popoli» del salmo diventano «i gentili e i popoli d'Israele» e «i re e i capi» sono intravisti in «Erode e Pilato», mentre la loro cospirazione si realizza contro «Gesù» che Dio ha unto. Attraverso questo procedimento si attua un interessante circolo ermeneutico: l'evento della passione di Gesù permette di rileggere il salmo come una prefigurazione profetica, e la profezia dà all'evento della passione la sua dimensione profonda di compimento storico-salvifico. Questo singolare circolo ermeneutico ha la funzione, all'interno della preghiera, di mostrare come quel Dio che guida la storia della salvezza ha portato a compimento il suo disegno salvifico proprio attraverso quelle azioni umane violente, realizzate si nella passione di Gesù, che tendevano a vanificarlo e che, apparentemente nella persecuzione contro l'Unto di Dio, sembravano vittoriose (v. 28). (9) Una sottile ironia, dettata dalla visione di un compimento salvifico che si è realizzato proprio là dove esso sembrava essere vittoriosamente contrastato dalla violenza umana, pervade questo tratto di preghiera.
Da questa rilettura la comunità trae ora, nel secondo momento della preghiera (vv. 29-30), le sue conclusioni per la propria situazione, e formula conseguentemente le proprie richieste. Se Dio ha realizzato il suo piano di salvezza in Cristo nonostante e attraverso l'opposizione violenta dei potenti, Egli continuerà ad agire così anche nel tempo della chiesa e dentro gli eventi di persecuzione che la stanno minacciando. Il modo di agire di Dio nell'evento salvifico di Cristo, divenuto paradigma per la situazione difficile della chiesa perseguitata, dà fiducia e serenità. Essa si limita a chiedere che Dio «guardi alle loro minacce» (v. 29a), letteralmente a quelle mosse da Pilato ed Erode contro Cristo, ma contenutisticamente a quelle rivolte a lei dall'autorità del sinedrio. In tal modo la chiesa perseguitata assume la coscienza di essere la comunità del messia sofferente che condivide con lui quel destino di contrasto e di rifiuto nel quale Dio compie il suo disegno di salvezza. Di conseguenza, la successiva richiesta non è quella di essere liberata dalla persecuzione e neppure quella di ottenere la vendetta di Dio sui suoi oppositori. Essa si limita a supplicare che Dio le doni di poter continuare il suo compito nella storia della salvezza, che è quello di «annunciare» la Parola con coraggio in mezzo alle difficoltà: un annuncio accompagnato e confermato dalla potenza dei «segni e prodigi» che Dio compie per mezzo del nome di Gesù (vv. 29b-30), come è già avvenuto nella guarigione del paralitico (cf 3,1-11).
Mentre la comunità sta pregando, avviene lo «scuotimento» del luogo dove essa si trova (v. 31a). È un segno di carattere teofanico che verosimilmente, come in 16,25, segnala l'esaudimento della preghiera da parte di Dio. Successivamente i credenti «sono ripieni di Spirito Santo» (v. 31b). L'espressione è uguale a quella dell'evento di Pentecoste (cf 2,4), ma qui il dono dello Spirito è in vista dell'esaudimento della richiesta fatta dalla comunità di poter annunciare con coraggio la Parola. Di fatto la conclusione (v. 31b) presenta la comunità in una azione protratta e continuativa di annuncio, caratterizzata dal coraggio e dalla franchezza necessarie nella situazione di persecuzione e rese possibili dalla potenza dello Spirito. (10)
Osservazioni conclusive
Questo primo racconto di persecuzione si chiude su una tensione che rimanda ad un ulteriore sviluppo narrativo. La tensione è creata dal fatto che le minacce verbali e l'ordine del sinedrio di non annunciare, non solo hanno incontrato l'obiezione degli apostoli, ma sono state disattese dalla comunità cristiana, rafforzata dalla preghiera e dal conseguente dono dello Spirito. Lo scontro tra l'autorità e la nascente comunità cristiana è destinato quindi a continuare e a intensificarsi (cf 5,17-41), ma già in questo primo momento si sono profilate tematiche di notevole interesse per la comprensione della teologia lucana.
Innanzi tutto è risultato evidente come l'annuncio cristiano e l'azione missionaria della chiesa sono destinati a creare divisione nel popolo d'Israele: alcuni accolgono la Parola, altri la osteggiano e perseguitano gli annunciatori. La spaccatura d'Israele e la persecuzione da parte di chi rifiuta l'annuncio diventeranno motivi ricorrenti nell'azione missionaria di Paolo durante i suoi viaggi.
La traduzione davanti ai tribunali diventa per gli annunciatori occasione per dare testimonianza a Cristo. Accadrà anche a Paolo durante la sua fase processuale: le sue apologie (cf 24,10-21 e specialmente 26,2-23), più che difese personali sono occasioni di annuncio.
Le resistenza e l'obiezione all'autorità in nome della fedeltà a Dio sarà un motivo che troverà ulteriore sviluppo nel secondo momento della persecuzione gerosolimitana (cf 5,17-41) e manifesta come nessuna opposizione umana, anche violenta, è capace di arrestare la corsa del vangelo.
La preghiera della comunità ha rivelato come essa possa rileggere la continuità del disegno divino tra tempo della profezia, testimoniato dalle Scritture, e tempo del compimento negli eventi di Cristo e nella vita della chiesa. Questo tema della continuità storico-salvifica è il motivo conduttore di tutta l'opera lucana.
Il legame tra preghiera e dono dello Spirito, già annunciato nel vangelo (cf Lc 11,13), trova realizzazione nel tempo della chiesa: l'evento della Pentecoste (cf 1,14 e 2,1-4), come pure il dono dello Spirito alla comunità in preghiera (4,23-31), ne sono la conferma.
Infine lo stretto rapporto tra persecuzione e diffusione della Parola, che ha segnato la chiusura del nostro testo (cf 4,31), troverà continua eco nel Libro degli Atti. Sarà così alla conclusione del secondo momento di persecuzione (cf 5,42). Sarà ancor più evidente a conclusione del martirio di Stefano, dove i dispersi in seguito a questa persecuzione diffonderanno in Giudea, Samaria e fino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia l'annuncio cristiano (cf 8,1.4; 11,1920). Infine la persecuzione come motivo per portare la predicazione del vangelo in altre città sarà tema ricorrente nei viaggi di Paolo. La corsa del vangelo si rivelerà così inarrestabile, nonostante e attraverso le persecuzioni.
(da Parole di vita, 2,1998)
Note
1) E' da notare che tutti questi elementi non sono più presenti nel terzo quadro di persecuzione (6,9-8,la).
2) Cf «mentre essi annunciavano al popolo» in 4,1.
3) Sulla composizione e le prerogative del Sinedrio, cf A. ADINOLFI, «Obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. La comunità cristiana e il sinedrio in Atti 4,1-31; 5,17-32», RivBibIt 27 (1979) part. pp. 72-79. Nel testo vengono esplicitamente menzionati i sommi sacerdoti: Anna, che rimase in carica dal 6 al 15 d.C., ma che esercitò grande influsso perché 5 suoi figli ed un nipote furono sommi sacerdoti; Caifa, genero di Anna, che fu sommo sacerdote dal 18 al 36 d.C.; Giovanni ed Alessandro di cui non abbiamo notizie storiche.
4) L'espressione «pieno di Spirito Santo» (4,8) è frequente nell'opera lucana per segnalare il parlare profetico (cf ad es. Lc 1,41.67; At 2,4; 4,31; 13,9).
5) Cf al riguardo l'interessante studio di G. MARCONI, «La storia come ermeneutica: interpretazione del confronto tra At 3,1-11 e 4,8.12», in: G. MARCONI e G. O'COLLINS (a cura di), Luca-Atti. L'interpretazione a servizio della Scrittura, Assisi 1991, pp. 243-263.
6) Per queste note sulla persecuzione abbiamo fatto riferimento ad un nostro precedente articolo: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) nel contesto della persecuzione gerosolimitana», in: G. MARROCU (a cura di), L'obbedienza e la disubbidienza nella Bibbia, L'Aquila 1996, part. pp. 97-103.
7) Questa preghiera sembra avere somiglianze strutturali e formali con la preghiera di Ezechia in Is 37,16-20 (cf 2 Re 19,16-19) che, secondo alcuni studiosi, le avrebbe fatto da modello. La differenza di contenuto però è notevole.
8) Esso è utilizzato anche nella preghiera di Simeone (cf Lc 2,29).
9) Sull'interpretazione cristologica del salmo, cf J. DUPONT, «L'interpretazione dei salmi negli Atti degli Apostoli», in: ID., Studi sugli Atti degli Apostoli, Roma 1975, part. pp. 506-509.
10) Cf per queste note sulla preghiera della comunità 1. DUPONT, «La preghiera degli apostoli perseguitati (Atti 4,23-31»), in: ID., Studi, cit., pp. 891-894; A. BARBI, «La preghiera della comunità perseguitata (At 4,23-31)» Parola Spirito e Vita 25 (1992) pp. 101-115.