Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Nella misura in cui le religioni riusciranno ad unire le loro lotte per le grandi cause dell’umanità (uguaglianza, giustizia, fraternità, liberazione dei poveri) si riconcilieranno tra loro, renderanno più prossima la loro fede e la loro comunione con Dio e conquisteranno il grande bene della pace.

Salvezza in Cristo e vita cristiana

di Pietro Rossano

L’EVENTO CRISTIANO


La storia dopo Gesù

24. Nella Chiesa della prima ora ogni cristiano era un araldo e un testimone di Cristo. Nel volgere di pochi anni la fede in Cristo dalla Palestina si diffuse tra le genti dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa che si affacciavano sul bacino del Mediterraneo, e incominciò a penetrare nell’interno dei continenti. L’apostolo Pietro lavorò in Siria e a Roma, dove morì martire; Paolo percorse il mondo greco-romano, Giovanni e Tommaso annunciarono il Vangelo nelle regioni occidentali dell’ Asia, mentre Giacomo organizzava la Chiesa tra gli Ebrei convertiti. Si avveravano le parole del profeta Isaia che molti secoli prima aveva predetto di Gerusalemme: «Ecco le genti che non ti conoscevano correranno a te».

25. Con l’autorità dello Spirito Santo gli Apostoli proclamarono, di fronte alle esitazioni di alcuni, che i doni della salvezza di Cristo non sono vincolati a nessun privilegio di origine o di nazione terrena; è sufficiente credere e mettere in pratica la parola di Cristo. Ogni individuo e ogni nazione è chiamata al Vangelo con il patrimonio della sua esperienza e del suo genio spirituale. Per questo l’apostolo Paolo si faceva « ebreo con gli Ebrei, greco con i Greci », e dichiarava: «Non c’è straniero né ebreo, barbaro né scita, servo né padrone» agli occhi di Dio, ma tutti sono una sola famiglia in Cristo. E ancora: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio Padre di tutti, che è sopra tutti, per tutti e in tutti ». Le differenze nazionali e culturali anziché venire soppresse trovano nella Chiesa stimolo per il loro fiorire a vantaggio di tutti.

26. Grazie a questo carattere di unità e di universalità della Chiesa, si può notare fin dalla prima generazione cristiana il profilarsi di una pluralità e varietà di espressioni nell’ambito dell’unica famiglia cristiana, a Gerusalemme e a Roma, a Efeso e a Corinto, tra gli abitanti di Antiochia e quelli di Alessandria di Egitto. Dovunque arriva, il messaggio cristiano ha la capacità di innestarsi sul patrimonio spirituale preesistente; i valori religiosi e umani sparsi in ogni popolo vengono assunti, liberati ed elevati in Cristo, conforme alla parola di san Paolo: «Tutte le cose sono vostre, e voi siete di Cristo e Cristo di Dio».

27. Volendo delineare lo sviluppo del cristianesimo nella storia successiva, si possono tracciare le seguenti linee generali: nei primi quattro secoli dopo Cristo il messaggio cristiano si estende in tutti i territori dell’impero romano adiacenti al bacino del Mediterraneo e oltre essi nell’Africa, nella Mesopotamia e nella Persia. A contatto dell’assolutismo religioso dello stato romano, l’adorazione all’unico Dio e al Signore Gesù Cristo provocò la persecuzione contro il nome cristiano, fino al conseguimento della libertà religiosa. Nel V secolo dopo Cristo, quando l’impero romano incominciava a dissolversi, la Chiesa appare ormai estesa in tre grandi aree culturali: l’occidentale latina, sotto l’influsso di Roma, dove i successori di Pietro « presiedono a tutta la famiglia cristiana » (sant’lgnazio, lettera ai Romani), dove « Pietro vive e parla nei suoi successori »; l’orientale greca, sotto l’influsso di Bisanzio; e la siriaca, sotto l’influenza di Antiochia-Edessa. In ciascuna di queste zone il cristianesimo si sviluppa accogliendo e integrando il genio delle rispettive nazioni, la tradizione prammatistica dei Romani, il patrimonio speculativo dei Greci e l’ascetismo religioso dei Siri. Da ognuna di queste aree a sua volta, la fede cristiana irradia pacificamente. Dalla Chiesa di Roma parte l’evangelizzazione dei Franchi, degli Irlandesi, degli Angli, dei Germani, degli Slavi, degli Ungari e degli Scandinavi; alla Chiesa greca di Bisanzio spetta il merito principale della diffusione della fede tra le popolazioni dell’Europa Orientale; mentre Antiochia-Edessa furono il grande centro propulsore del Vangelo verso le regioni della Mesopotamia e della Persia, donde il messaggio di Cristo raggiunse assai presto l’India e la Cina, fino alle sponde del Pacifico. Intanto da Alessandria d’Egitto e dalle zone settentrionali dell’Africa, il cristianesimo si diffuse nelle regioni dell’Etiopia e in altre parti dell’Africa. Alcune figure di santi documentano la vitalità della Chiesa in quest’epoca, la sua rispondenza alle esigenze spirituali del tempo e la varietà delle esperienze spirituali che vi si riflettono: l’africano Agostino, teologo ardente e geniale; l’asiatico Giovanni Crisostomo, asceta e oratore; il romano Benedetto, uomo di preghiera e di azione, padre del monachesimo occidentale. La loro personalità e la loro opera si identifica con la storia stessa della cultura.

28. Purtroppo, però, per l’emergere di rivalità umane, di nazionalismi e di incomprensioni, si vennero manifestando dissensi e divisioni nell’ambito della grande famiglia cristiana, che portarono, non senza colpa degli uomini di entrambe le parti, alla separazione dell’unità cattolica. Fu così che tra il sec. V e il sec. X dopo Cristo, avvenne la separazione delle Chiese di Oriente da quella di Roma. Nei medesimi secoli la società cristiana orientale e occidentale venne a trovarsi di fronte all’ Islam che si espandeva vittoriosamente nell’Asia, nell’ Africa e nell’Europa. La necessità in cui si trovarono i cristiani dell’Oriente e dell’Occidente di difendere la propria indipendenza, e l’identificazione pratica tra l’ordine della fede e quello politico-statale sostituirono al dialogo e al confronto pacifico delle idee il cozzo degli eserciti e la polemica ideologica, contrari alla reciproca comprensione. Il mondo cristiano fu costretto alla difensiva anche di fronte ai Mongoli che, nel sec. XIII, spingendosi fin nel cuore dell’Europa, dissiparono la presenza cristiana nell’Asia; tuttavia in quei secoli, in Occidente la Chiesa poteva dedicarsi alla trasformazione della società contemporanea, nella quale la fede conobbe magnifici sviluppi sociali e mistici, suscitò movimenti e opere d’arte; san Francesco d’Assisi rese vivo tra i contemporanei il messaggio di letizia e di povertà del Vangelo; san Tommaso d’Aquino conciliò in una sintesi serena la verità della rivelazione di Dio con le esigenze della ragione umana.

29. Nel trapasso dal Medio Evo all’età moderna, in Europa si fece sentire universalmente nella Chiesa la necessità di un rinnovamento, che fosse a un tempo purificazione di costume, rinascita spirituale e adeguamento alle esigenze di un umanesimo consapevole. Un movimento di riforma, capeggiato da Lutero e favorito dai principi germanici, sfociò in una protesta (1) che provocò il distacco dalla Chiesa cattolica di quasi tutte le regioni cristiane del Nord Europa. Frattanto in seno alla Chiesa un vasto e sincero movimento di rinnovamento e di riforma era promosso dai papi e dai vescovi; esso ebbe le sue basi nel Concilio di Trento, dove vennero chiariti e definiti i punti essenziali della dottrina cristiana, concernenti l’uomo, la realtà interiore della salvezza e gli aspetti gerarchici della Chiesa negati dai Protestanti. Una fioritura di Santi, mistici come santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce, uomini di azione spirituale come sant’Ignazio, san Carlo Borromeo e san Francesco di Sales, e numerosi iniziatori di movimenti spirituali caritativi e sociali fecero seguito al Concilio di Trento, mentre si destava nella Chiesa lo zelo per la diffusione del messaggio evangelico nelle regioni dell’Asia, dell’Africa e dell’America venute allora a conoscenza degli Europei.

30. Nell’età contemporanea davanti a una umanità assetata di libertà e di umanesimo, ma interiormente lacerata e inquieta, la Chiesa Cattolica si sforza di presentare il messaggio evangelico in tutta la sua pienezza e nella sua potenza liberatrice, unificatrice ed elevatrice. Consapevole dei limiti e delle imperfezioni che hanno offuscato nella storia l’efficacia della sua testimonianza, essa si trova attualmente impegnata, sotto la guida dei papi, successori di Pietro, in un profondo lavoro di rinnovamento interiore, per essere il più vicino possibile allo spirito di Cristo e alle esigenze dell’uomo contemporaneo. È divenuto più acuto in lei il desiderio di ritrovare la piena unità con i cristiani separati dell’ Oriente e dell’occidente, e guarda con grande amore e fiducia alla massa di non cristiani per i quali sa di dover essere come il lievito e il sale. Il Concilio Vaticano Il ha rappresentato il massimo sforzo compiuto dalla Chiesa nei tempi moderni per rendersi più adatta a svolgere la missione che Cristo le ha affidato per tutti gli uomini. Priva di grandi risorse umane, essa conta unicamente sulla presenza di Cristo, il quale prima di congedarsi visibilmente dagli Apostoli li aveva assicurati: «Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli ». Da questa fede rassicurante nasce la preghiera e l’impegno «affinché la parola del Signore corra e sia glorificata» , recando frutto presso tutti gli uomini, fino all’ avvento della gloria del Regno di Dio, quando, come si legge nella Bibbia, tutti i giusti, a partire dal primo uomo fino all’ultimo saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale. «E Dio abiterà con gli uomini ed essi saranno il suo popolo... E astergerà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né dolore perché queste cose di prima saranno passate ».


1) Da tale «protesta» deriva il termine protestantesimo, che comprende le confessioni religiose che presero origine in seguito a Lutero.

di Pietro Dacquino

Dopo il Concilio Vaticano Il dovrebbe essere evidente che a contare, non è un Cristianesimo qualunque costruito da una determinata epoca, bensì quello delle origini al quale ogni generazione cristiana ha il dovere di guardare per farne il proprio modello e trarne ispirazione e regola di vita. Ciò vale anche per la spiritualità presbiterale; decisiva, non è quella elaborata in tempi più o meno lontani, ma quella che hanno inaugurata i primi apostoli e i loro collaboratori nel presbiterio. Per questo parliamo qui di una spiritualità «biblica» del presbitero.

Visione e formazione dell'uomo
nel capitolo VII della Regola di S. Benedetto


Il sottofondo psicologico del cap. VII
della Regola di S. Benedetto


Riflessioni di P. Bernardo, monaco trappista


(terza parte)

E’ necessario sapere quale idea ha S. Benedetto dell’uomo, nel suo Cap. VII, per capire come imposta la formazione di colui che si presenta alla sua scuola.


La finalità, della formazione è un risultato che si ottiene molto tardi e gradualmente. Il lavoro di formazione è di tutti i giorni. Tuttavia nella programmazione, è fondamentale sapere cosa si vuole raggiungere.

Lunedì, 01 Dicembre 2008 23:58

Giovanni della Croce (1542-1591)

Giovanni della Croce (1542-1591)


 


Il titolo di dottore mistico, comunemente attribuito a san Giovanni della Croce, ripete in forma semplificata la proclamazione ufficiale fatta da Pio XI nel 1926: dottore della chiesa in materie spirituali e mistiche. Questo riconoscimento ecclesiale lo liberò definitivamente dalle accuse di quietismo che si era trascinato per secoli.

Lunedì, 01 Dicembre 2008 23:30

Mistero e stupore (Jean Paul Sartre)

Mistero e stupore

di Jean Paul Sartre







 

“La vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo volto è uno stupore ansioso che è comparso una volta soltanto su un viso umano. Perché il Cristo è suo figlio, carne della sua carne e sangue delle sue viscere.

L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrì il seno, e il suo latte diventerà sangue di Dio.

Qualche volta la tentazione è così forte da farle dimenticare che è Dio. Lo stringe tra le braccia e dice: “bambino mio”.

Ma altri momenti rimane interdetta e pensa: “lì c’è Dio”.

E viene presa da un religioso orrore per quel Dio muto, per quel bambino che incute timore. Tutte le madri in qualche momento si sono arrestate così di fronte a quel frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino, sentendosi in esilio davanti a quella vita nuova che è stata fatta con la loro vita e che è abitata da pensieri estranei.

Ma nessun bambino è stato strappato più crudelmente e più rapidamente di questo da sua madre, perché è Dio e supera in tutti i modi ciò che essa può immaginare....

Ma penso che ci siano anche altri momenti, fuggevoli e veloci, in cui essa avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo bambino, ed è Dio. Lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è mia carne. È fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. È Dio che mi assomiglia”.

Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio per sé sola, un Dio bambino che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che ride.

È uno di questi momenti che dipingerei, se fossi pittore, Maria.
Lunedì, 01 Dicembre 2008 23:22

Gesù e sua madre

Gesù e sua madre



Regina coeli, laetare, alleluja!
Quia quem meruisti portare, alleluja!
Resurrexit sicut dixit, alleluja!
PIETRO DI CRAON - Non alla pietra tocca
fissare il suo posto,  ma al
Maestro dell’Opera che l’ha scelta.



Paul Claudel (L’annuncio a Maria)




Il Padre. Il Maestro dell’Opera è Lui, Dio Padre. Da Lui dobbiamo prendere le mosse per cercare di entrare nel mistero di Gesù e di sua madre.


Anche se il termine «padre» tende a renderci Dio più familiare, Egli rimane comunque l’Ineffabile. Ineffabile non vuol dire lontano, inaccessibile. Vuol dire indicibile con le nostre povere parole umane. E’ per questo che le immagini di Dio sono molte. Ognuno di noi tende addirittura a crearsi una propria immagine di Dio, quando non più d’una. E queste immagini corrispondono spesso, in realtà, ai nostri stati d’animo, mutevoli e contraddittori: gioia e dolore, paura e coraggio, depressione ed euforia...


Indipendentemente dall’adesione o meno ad una delle numerose religioni storiche, con questo Dio - proiezione dei nostri sentimenti più profondi (e anch’essi, talora, indicibili) - si crea una relazione intima, frutto di quel bisogno religioso che è universale, com’è universale la ricerca di un senso al nostro esistere. Un Dio «personale», dunque, è l’autentica novità della nostra fede. Di qui la domanda: quale relazione si instaura con questo Dio?


Proprio perché «le nuove forme di religiosità che si stanno sviluppando da alcuni anni insistono sulla sensibilità e sulle emozioni provate nella relazione con Dio», 1 lo psicologo Tony Anatrella avanza a questo riguardo un’ipotesi interessante. Il modello della relazione con il Trascendente sta assumendo oggi la forma (peraltro non inedita nell’esperienza dell’Occidente) del prevalere dell’irrazionale sul razionale, delle emozioni sulla ragione. Ne costituirebbero la prova un certo bisogno di fusione col divino, la sete miracolistica, una ricerca di esiti taumaturgici, il rifiorire di nuove apparizioni, di presunte quanto improbabili «lacrimazioni» di immagini mariane, in sostanza tutte quelle tendenze magiche che si manifestano con sempre maggior frequenza in questa nostra società pur così secolarizzata. Questo modello religioso, sostiene Anatrella, può essere definito «a struttura simbolica materna», in quanto frutto di una insoddisfazione affettiva, e dunque di tipo regressivo e narcisistico, collegato cioè con quel sentimento di onnipotenza che il bambino sperimenta nei primi mesi di vita nei confronti della madre, un rapporto fusionale senza differenziazione. E’ ovvio che il sentimento di questa unità indistinta verrà. presto perduta da parte del bambino proprio quando questi si accorgerà (nella fase «edipica» dello sviluppo infantile) della presenza di un «terzo», il padre, nel rapporto con la madre. Un padre che «spezza» quella relazione diadica, primaria che il bambino vive con la madre stessa, nutrice ed unico bene, e che contribuirà a riportare la relazione da un modello «fusionale» ad un modello di «alterità», perché solo con un «altro» si può intrattenere una relazione. Resta il fatto che un certo modello di esperienza «religiosa» potrebbe sostanziare la nostalgia di un’unità perduta: una religiosità appunto a «struttura simbolica materna», emozionale ed ipersensibilmente affettiva.


Non è questa l’esperienza di Dio della tradizione ebraico-cristiana. Il Dio della rivelazione biblica, il Dio di Gesù Cristo, il Dio di Miryam, figlia di Sion, madre di Gesù,2 il Dio «in tre persone», che è un modo per dire il Dio della relazione e dello scambio, è invece un Dio «a struttura simbolica paterna». Egli si rivela nella storia, educa il suo popolo, attraverso la sua parola entra in comunicazione diretta e reale - come direbbe Lévinas, attraverso il «faccia a faccia» dei volti - con uomini e donne reali, da parte dei quali questa parola richiede attenzione, ascolto, e diventa supremo compito etico.


Il Dio guaritore, sciamano, terapeuta, non è il Dio salvatore e liberatore della tradizione biblica: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido (...). Sono sceso per liberarlo dalla mano dell‘Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele... » (Es 3,7-8). «Sono sceso per liberarlo...»: è ben altra cosa questo progetto di dimensione cosmica dalle egoistiche pretese miracolistiche che spesso accampiamo nei confronti della Divinità. Solo con questo Dio, liberatore e salvatore, si può procedere alla conoscenza di Maria e di Gesù.



Eccomi! (Lc 1,38).
Stava presso la croce di Gesù sua madre (Gv 19,25).



Maria, figlia di Sion, madre di Gesù.


E’ possibile comprendere la psicologia del profondo di una persona solo situandola all’interno della comunità in cui vive. Così è per Maria. Essa infatti è figlia autentica di quel popolo d’Israele che Dio ha plasmato, con una lunga e paziente opera educativa, e con il quale ha stabilito la sua Alleanza.


In quest’opera di liberazione (ogni vera opera educativa è sempre liberante) Dio ha mostrato contemporaneamente il suo volto paterno e materno: guida, come dovrebbe essere ogni padre, punto costante di riferimento o, direbbero gli psicologi, di identificazione («Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo»: Lv 19,2) e, nel contempo, «madre» di misericordia perché «la "misericordia" di cui parlano le Scritture ha sfumature femminili, materne: è impastata di tenerezza, bontà, pazienza, comprensione... L’etimologia stessa del termine è indicativa. Infatti uno dei vocaboli ebraici dell’Antico Testamento usato per definire la misericordia di Dio è il termine rachamîn, plurale della radice réchem, che significa il "grembo materno"».3


Maria è cresciuta in questo contesto religioso. Una parola di Dio ascoltata con apprensivo stupore, ma con coraggio, le ha consentito di inserirsi responsabilmente in quel progetto di liberazione annunciato. Le madonne che piangono lacrime di sangue non rientrano nell’immagine che di Maria ci consegnano le Scritture. La sua immagine vera è quella dell’esultanza e della lode:





L’anima mia magnifica il Signore


e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,


perché ha guardato l’umiltà della sua serva.


D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente


e Santo è il suo nome:


di generazione in generazione la sua misericordia


si stende su quelli che lo temono.





Una donna coraggiosa. Educata a quella concezione paterna e ad un tempo materna di Dio, avverte ciò che solo una relazione autentica con l’Ineffabile può esprimere: se nonostante l’infinita distanza - Lui, il Potente, lei segnata, come ognuno di noi, dalla tapeìnosis, dalla piccolezza, dal senso del limite e della creaturalità - Dio l’ha avvolta con il suo sguardo di benevolenza, proprio come una madre avvolge il suo bimbo in fasce, nei pannolini, non ha davvero nulla da temere. Scrive Enzo Bianchi: «...Lo sguardo di Dio è sinonimo del suo essere compassionevole: e per Dio la compassione non è un vago sentimento di pietà, ma sempre diventa assunzione di responsabilità nei confronti di colui che è nel bisogno e si tramuta in storia, in concreta sollecitudine, in gesti, in azioni che tendono a ridare integrità, pienezza di vita, in una parola salvezza». 4 Ma questa salvezza, cioè questa liberazione, o è universale o non è: non v’è nulla di più inautentico dell’interpretazione restrittiva, esclusiva ed escludente, dell’extra ecclesia nulla salus. La salvezza - quella che Maria canta come compiuta in lei e che attraverso lei raggiunge tutta l’umanità - non è per pochi, è per tutti. La Chiesa, l’ecclesia, non è un club di puri, di separati.


Questa è anche l’educazione che Maria e suo marito Giuseppe hanno «passato» a Gesù. Se per loro, al momento del parto, non c’era posto nella casa (cf Lc 2,7), ci sarà un tempo in cui anche Gesù non avrà una pietra su cui posare il capo. In sostanza, la «piccola» Maria comunica a Gesù un’umanità concreta, soggetta all’umiliazione, al limite, alla piccolezza appunto. Ma la forza di Dio non sta proprio, come ci ricorderà Dietrich Bonhoeffer, nella sua debolezza? A Gesù la «piccola» famiglia di Nazareth insegna la dura legge del lavoro per la sopravvivenza, la commozione di fronte alla morte degli amici, la capacità di resistere alla tentazione del benessere, del potere, dell’apparire, la sollecitudine nel chinarsi sugli sfruttati e sugli oppressi, la consapevolezza che solo Dio può leggere nell’intimo della coscienza e che dunque le prostitute potranno avere la precedenza nel regno dei cieli. Senza falsi dolorismi insegna a Gesù che patire per e con qualcuno viene ancora prima dell’agire.


E Maria c’era. Era lì. Presenza discreta, mai ingombrante. Come a Cana. Non hanno vino. Per essere misericordiosi non basta sentire un moto istintivo di commozione. Occorre sentire i bisogni veri degli altri. Interiorizzarli.


Come sul Golgota. Su quella collinetta, sotto il patibolo del figlio, in quel tragico pomeriggio di primavera, Maria c’è. Solidale con l’Innocente mandato a morte dal potere. Solidale con tutti gli innocenti della storia. In attesa con loro della risurrezione.




Doveva venire un pedagogo migliore, e strappar di
mano al bambino il libro elementare ormai superato.
E venne Cristo.

G.E. Lessing (L’educazione del genere umano)



Gesù di Nazareth. Parola (Logos) di Dio incarnata. Dopo la lunga attesa - la pedagogia di Dio - il Verbo entra nella storia, la quale, attraverso di lui, si fa cammino di liberazione. Questo è il mistero grande della nostra fede.


Si fa presto a dire mistero. Può sembrare una scappatoia. Eppure il cristianesimo non è una dottrina, un insieme di regole morali, a rigore neppure una religione. E’ un evento. Si riassume e si concretizza in una persona: Gesù. Nato a Betlemme da Miryam, figlia di Sion; vissuto per trent’anni a Nazareth; morto appeso ad una croce, dopo tre anni di predicazione del regno di Dio e della liberazione per tutti; risorto e «asceso» al cielo. Cioè vivo. Oggi, qui.


Inizio e fine della creazione. Verso di lui, il Cristo inviato dal Padre ad annunciare questa liberazione, si muove appunto tutta la creazione che - come ci ricorda Paolo - sarà «ricapitolata» in lui. Dunque, è nella relazione con lui, facendomi persona, che scopro la liberazione, una liberazione che a mano a mano si «fa» dentro di me, e che si realizza fuori di me, nella storia.


Come? Questo è il punto chiave del cristianesimo. Entrando nel «ritmo» del Cristo, dono totale, libero, spontaneo nei confronti di tutta l’umanità, di ogni tempo e di ogni latitudine. Mi libero solo amando, e non amando in modo astratto, superficiale, occasionale, emotivo, intimista, ma entrando in modo responsabile nel ritmo stesso della storia, accettando di perdermi in essa, nella scoperta dei «segni dei tempi». Certo, se guardiamo ai dettagli, neppure troppo marginali per la verità, vediamo in questa storia tutte le «strozzature» negative, i fallimenti apparenti, gli eventi tragici che i media non perdono l’occasione per sottolineare ogni giorno, con una sorta di compiacenza. Dove stiamo andando?, viene da chiedersi con angoscia. Eppure c’è nella storia un progresso, un avvicinamento alla «ricapitolazione» definitiva in Cristo garantito dall’ombra lunga che quelle tre croci, issate sulla collinetta del Golgota, proiettano su tutto il pianeta.


E lui, Gesù di Nazareth, figlio di Miryam, non si stanca di convocarci tutti per farci partecipi di questo progetto. Lui, realmente e autenticamente uomo, che ha sofferto fame e sete, che è vissuto senza un tetto, che si è messo in cammino con gli uomini e le donne del suo tempo, poveri e ricchi, santi e peccatori, ci chiede di proseguire questo percorso di liberazione. Di accompagnarlo, perché lui c’è. C’è nelle case bruciate da serbi ed albanesi, c’è sotto i bombardamenti «intelligenti», c’è nelle file interminabili di profughi che vagano in cerca di cibo e di alloggio. C’è tra tutti gli sconfitti della storia. C’è nell’angoscia dell’impotenza di noi tutti. La nostra risposta può essere una sola: «Io posso e devo gettarmi nel pieno del lavoro umano fino a perdere tutte le mie energie» (Teilhard de Chardin).




Come una madre consola un figlio
così io vi consolerò (Is 66,13).





A un Dio Padre compassionevole e misericordioso, a una Madre che canta con l’intera sua vita l’azione di Dio nella storia, un Dio che ha deposto i potenti dal trono e ha innalzato gli umili, e dunque solidale con tutti coloro di cui la storia vuole liberarsi, a un Figlio che accompagna tutti gli oppressi in un cammino di liberazione, cioè di salvezza, non può che corrispondere un popolo misericordioso. Un popolo «grembo» di accoglienza per tutti i piccoli e i poveri dell’umanità. «Poiché voglio l’amore e non il sacrificio...» (Os 6,6).








Note


(1) Tony ANATRELLA. Psicologia delle religioni della madre, in «Parola Spirito e Vita», n. 39, Gennaio-Giugno ‘99/1, p. 273.

(2) Si veda l’interessante articolo di ARISTIDE M. SERRA. Miryarn, figlia di Sion, madre di Gesù, In «Horeb», n. 23. maggio-agosto 1999/2, pp. 3 1-40.

(3) ARISTIDE M. SERRA, cit., p. 36.

(4) ENZO BIANCHI, Il Magnficat. Monastero di Bose. Testi di meditazione n. 80.

Lunedì, 01 Dicembre 2008 22:50

Ma cos’è allora la laicità

Ma cos’è allora la "laicità?

di Giordano Frosini

Nata nel mondo cattolico, questa parola é stata declinata su versanti diversi, creando non pochi equivoci. Il suo significato analizzato a partire dalla "Gaudium et spes", dal documento della Congregazione per la dottrina della fede "Cattolici in politica" e dalla riflessione di Giuseppe Lazzati. Oggi i difensori della vera laicità sono i cattolici.

Sarebbe impensabile voler esaurire una ricerca che è appena iniziata e di cui non conosciamo ancora tutta la portata. Il nostro lavoro sarà quindi un sondaggio quasi come quello delle spie inviate ad investigare un paese nuovo. Sarà istintivo, ed anche voluto, un rapido confronto dei risultati della nostra indagine con il nostro proprio modo di vivere la fede in Cristo. Insisteremo dunque sulla novità.

Per una ecclesiologia macroecumenica

della liberazione

di Francisco de Aquino Júnior





(...). Sia per la sua esistenza di fatto, sia soprattutto per le sue conseguenze, il pluralismo religioso è oggi una delle maggiori sfide per i diversi gruppi e tradizioni religiose. Questa sfida si fa ancora più grande e più urgente per la situazione reale di miseria, esclusione, oppressione e violenza a cui è sottomessa la maggior parte dell'umanità. (...) Se le tradizioni o gruppi religiosi sono portatori di valori, costumi e pratiche umanizzanti, non possono assistere passivamente, tanto meno collaborare, alla morte di tanti figli e figlie di Dio. È l'identità stessa di ogni tradizione o gruppo religioso, la sua ragione d'essere ultima, quella che è in gioco nel destino dell'umanità, che si concretizza nel destino dei poveri di questo mondo.

(...) Solo recentemente la Teologia della Liberazione ha mostrato un interesse più esplicito e diretto per la questione. La sfida di una teologia - della Liberazione - delle religioni è sempre più evidente e urgente. E' in questo contesto che si situa la nostra riflessione. Un modesto contributo a "una teologia cristiana e latinoamericana del pluralismo religioso". (...).

I. La Chiesa: comunità dei seguaci di Gesù Cristo e dei continuatori della sua missione

La prima e più fondamentale caratteristica della Chiesa cristiana è il suo riferimento e la sua relazione storico-teologica con Gesù Cristo. (...)

Questo vincolo radicale della Chiesa con Gesù Cristo è stato, per molto tempo, messo a tacere e occultato dalla concezione della Chiesa come società perfetta, predominante fino ai primi decenni del XX secolo. Un passo importante nel superamento di questa ecclesiologia (giurisdizionale, societaria, organizzativa e gerarchica) è stata, senza dubbio, la riscoperta e il ritorno alla teologia biblica e patristica della (Chiesa come "Corpo di Cristo" (...).

Essere Corpo di (Cristo implica, secondo Ellacuria, "che in essa - la Chiesa -, la realtà e l'azione di Gesù Cristo prende corpo affinché essa - la Chiesa - realizzi l'incorporazione di Gesù Cristo alla realtà della storia" (La Iglesia de los pobres, sacramento histórico de liberación, in Escritos Teologicos II, Uca, San Salvador 2000). Il "prendere corpo" ha a che vedere con il "farsi carne" del Verbo di Dio nella storia umana, condizione fondamentale perché egli "possa intervenire in una maniera pienamente storica nell'azione degli uomini". L'incorporazione ha a che vedere con l'azione di "prendere corpo" nella storia materiale degli uomini, come l'essere fermento e sale del mondo (...). La Chiesa è la presenza visibile e operante di Gesù Cristo nella storia. Nelle parole di mons. Oscar Romero, essa è "la carne in cui Cristo si fa presente attraverso i secoli, la sua vita e la sua missione personale [...]. La Chiesa può essere Chiesa solo nella misura in cui continua ad essere il Corpo di Cristo. La sua missione sarà autentica solo nella misura in cui sia la missione di Gesù in situazioni nuove, in circostanze nuove della storia" (A Igreja, corpo de Cristo na historia: Segunda Carta Pastoral in J. Sobrino e altri, Voz dos sem voz. A palava profética de D. Oscar Romero, Paulinas, São Paulo, 1987).

Intesa così, la Chiesa come Corpo di Cristo è, nella formulazione comune della Teologia della Liberazione, la comunità dei seguaci di Gesù - dove egli prende corpo - e continuatori della sua vita e missione, attraverso cui egli continua a incorporarsi alla storia umana.

4. La centralità del regno di Dio

Se c'è qualcosa che trova sempre più consenso tra gli esegeti e i teologi cristiani è la centralità del regno di Dio nella vita e nella missione di Gesù. (...) "Regno di Dio" è il concetto e la realtà centrale e fondamentale della vita e della missione di Gesù. A tal punto che "chi si offre a Gesù, si offre al regno di Dio. È inevitabile, poiché la causa di Gesù è stata ed è il regno di Dio" (J. Moltman, Quem Jesùs Cristo para nós hoje,Vozes, Petrópolis, 1997).

Ora, se Gesù non ha fatto di se stesso il centro della sua vita e della sua missione, se egli non predicò mai se stesso, se al centro della sua vita e della sua missione stava il regno di Dio, se egli visse radicalmente e pienamente in funzione di questo regno di Dio, fino al punto che la sua esistenza e vissuta come una pro-esistenza, cioè come un'esistenza in funzione del regno di Dio, la Chiesa, in quanto suo "corpo", in quanto sua "presenza visibile ed operante" nella storia, dovrà anch'essa essere centrata e vivere in funzione del regno di Dio, se vuole essere Chiesa di Gesù Cristo, "Corpo di Cristo" nella storia.

Questa è la prima e più fondamentale caratteristica della Chiesa cristiana: il suo radicale decentramento. Non può vivere in funzione di se stessa. Non può agire a partire da sé. Deve stare, completamente, in funzione e al servizio del regno di Dio: la sua ragione ultima di essere, il suo criterio ultimo di discernimento e di legittimità. Per questo si insiste tanto sul fatto che la (Chiesa cristiana non può essere "ecclesiocentrica", cioè centrata su se stessa. Neppure "cristocentrica", cioè centrata su Cristo, perlomeno se l'enfasi si pone su Gesù Cristo prescindendo o occultando quello in funzione di cui egli visse e operò: il regno di Dio. Neppure teocentrica, cioè centrata su un dio astratto che nulla avrebbe a che vedere con la storia umana, o centrata su una realtà assoluta sprovvista di storicità. Se vuole essere cristiana - (Corpo di Cristo nella storia - dovrà essere centrata sul regno di Dio nella storia, come Gesù Cristo. Dovrà essere regnocentrica. (...)

Questo decentramento della Chiesa porta con sé - in negativo - il fatto che la Chiesa non è uguale al Regno di Dio. Chiunque sa, nella propria coscienza, che ci sono di fatto molte cose, situazioni, relazioni e strutture nella Chiesa che sono contrarie al regno di Dio. Sa che essa non è, di fatto, il Regno di Dio. Ma porta con se anche - in positivo - la necessita di "un centro fuori di se stessa, un orizzonte al di là delle sue frontiere istituzionali, per orientare la sua missione e per dirigere k sua formazione strutturale" (Ellcuria, op. cit.). In altre parole, è necessario "separare Chiesa e regno di Dio affinché essa possa essere configurata da questo, in maniera che possa vedersi sempre più libera dalla sua versione del mondo attraverso una autentica con-versione al regno" (ibidem). (...)

Jacques Dupuis, da parte sua, afferma che neppure il Concilio Vaticano II è riuscito a liberarsi da questa identificazione tra Chiesa e regno di Dio: "nella costituzione dogmatica Lumen gentium la Chiesa e il regno di Dio continuano ad essere identificati, tanto nella realizzazione storica quanto nel loro compimento escatologico" (Rumo a uma teologia cristã do pluralismo religioso, Paulinas, São Paulo 1999). Nonostante ciò, la costituzione pastorale Gaudium et Spes dà l'impressione di aver superato tale identificazione. Al n. 39, di fatto, parla della crescita del Regno di Cristo e di Dio nella storia e del suo compimento escatologico senza riferirsi alla Chiesa, ma includendo tutta l'umanità. La stessa Gaudium et Spes afferma che 'la Chiesa marcia verso un unico fine: la venuta del Regno di Dio e la salvezza di tutto il genere umano' (Gs 45)". (...)

Potremmo spingerci oltre in questa discussione. Ma, per ora, ci basta h constatazione di questo radicale decentramento della Chiesa. Ci basta la constatazione che la Chiesa non esiste per se stessa, non può configurarsi in funzione di se stessa. Essa esiste in funzione di qualcosa che la estrapola e che è, anche, criterio della sua legittimità o falsità. Essa esiste in funzione di qualcosa che è presente anche in altre religioni, e nelle persone e nei gruppi che non si considerano religiosi ma che difendono e pro-muovono la vita. Si tratta della presenza, azione, intervento, maestà, governo dì Dio nella storia a partire e a favore dei poveri, degli esclusi, degli oppressi e degli emarginati della nostra società, oltre i limiti e le frontiere delle Chiese cristiane, delle altre tradizioni e gruppi religiosi. Essa si fa Chiesa in quanto e nella misura in cui è al servizio di questa azione di Dio e cerca di storicizzarla-incarnarla. Questo compito lo ha in comunione con tutte le religioni, con tutte le persone e tutti i gruppi che in un modo o in un altro, sono al servizio di questo regno, lottano per la sua realizzazione storica, si spendono per esso.

2. La formazione del popolo di Dio

Vicino e relazionato al concetto e alla realtà del regno di Dio è il concetto e la realtà del popolo di Dio (...). Secondo Ellacuria, "Regno (di Dio) e Popolo (di Dio) fanno riferimento immediato alla storicità totale della relazione di Dio con l'essere umano e dell'essere umano con Dio" (Iglesia como pueblo de Dios, in Escritos Teológicos). (...)

La storicità della relazione tra Dio e il popolo implica "un progetto storico di vita per il popolo che deve essere popolo di Dio. [...] Dio ha progetti e disegni nella storia degli uomini, la cui realizzazione piena non sarebbe altra cosa che il regno di Dio in terra" (ibidem). È qui che si dà e si esplicita la relazione stretta tra popolo di Dio e regno di Dio. Il popolo di Dio è il popolo sul quale Dio regna, il popolo che è al servizio del regno di Dio e lotta per la sua realizzazione storica. (...)

È necessario dire e insistere che così come il regno di Dio non è uguale alla Chiesa cristiana di tradizione romana, neppure lo è l'insieme delle Chiese cristiane. Per una doppia ragione. In negativo, perché le Chiese cristiane non vivono secondo i disegni di Dio, né fanno sempre la sua volontà, né vivono sempre in funzione del suo regno. Non di rado - la storia lo può dire - rifiutano e negano questo regno, sia per omissione - per ingenuità o mala fede - sia per complicità: con le strutture, con i valori, con i gruppi di potere... In positivo, perché nella misura in cui il regno di Dio si va facendo presente, in molti modi e per molti cammini, con diversa intensità, in molti popoli, in molte religioni... il popolo di Dio anche si va costituendo in molti popoli, in molte religioni... come un popolo di molti popoli.(...)

Come afferma profeticamente mons. Pedro Casaldàliga, "il Vaticano II fu un salto iniziale". Tuttavia, continua, "anche la Chiesa va al di là di se stessa, e il Vaticano II non è l'ultima parola" (Na procura do Reino, Ftd, São Paulo 1988). In maniera che, più che attenersi alla lettera (testo) del Concilio, senza prescindere da essa, evidentemente, è necessario lasciarsi condurre dal suo spirito che, attraverso la lettera, ci conduce al mistero del regno di Dio in questo mondo e della costituzione storica del suo popolo, ciò che trapassa i limiti e le frontiere della Chiesa cristiana di tradizione romana e anche dell'insieme delle Chiese cristiane.

Tutto questo ci porta ad affermare con Comblin che "il popolo di Dio sussiste ('subsistit') nella Chiesa, ma non è identico alla Chiesa (...). È un popolo tra i popoli" (O povo de Deus, Paulus, São Paulo 2002), di molte religioni...

II. La Chiesa di Gesù Cristo come Chiesa dei poveri

Giovanni XXIII, nel suo messaggio al mondo l’11 settembre 1962, alla vigilia del Concilio Vaticano II, fa un'affermazione che non ha avuto molta risonanza nel Concilio. Indicava una verità fondamentale della Chiesa e anticipava profeticamente quello che sarebbe avvenuto, sotto l'azione dello Spirito di Gesù Cristo, soprattutto in America Latina. “Davanti ai Paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta come è e come vuole essere: la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri". (...) Durante il Concilio ebbero luogo varie riunioni di un gruppo di vescovi che desideravano che la Chiesa diventasse la Chiesa dei poveri. Questo purtroppo non accadde e di sicuro questa e la maggiore lacuna del Concilio. In fondo, dice Ellacuria, “il Vaticano II fu un concilio universale, ma dalla prospettiva dei Paesi ricchi e della cosiddetta cultura occidentale" (Pobres in Escritos Teológicos II).

Non possiamo approfondire qui quello che e la Chiesa dei poveri, le sue caratteristiche, la sua realizzazione storica... Semplicemente vogliamo affermare che l'essere “dei poveri" è una delle caratteristiche mentali della Chiesa di Gesù Cristo. Non si tratta di un problema pastorale tra altri, che in fondo non tocca il nucleo della fede. L'essere “dei poveri" è la base della fede. (...)

Oltre ad essere una delle caratteristiche fondamentali della Chiesa di Gesù Cristo, l'essere “dei poveri" si costituisce in luogo privilegiato per l’incontro e il dialogo tra religioni. Per una doppia ragione: in negativo, i poveri sono l'espressione più radicale del peccato di questo mondo e del suo rifiuto di Dio. Sono le maggiori vittime delle forze dell'antiregno o del regno del male e sono, con la loro mera esistenza, la denuncia più reale e profetica. In positivo, essi sono il richiamo più radicale alla conversione al regno di Dio e sono il luogo e il germe primari dell'instaurazione del regno di Dio e della restaurazione del popolo di Dio in questo inondo. Se il regno di Dio è diretto fondamentalmente e in primo luogo ai poveri -vittime dell'antiregno - la costituzione del popolo di Dio comincia dai e passa per i poveri, sempre e necessariamente Se e nei poveri che il disegno di Dio e rifiutato, negato... e nei poveri che il suo disegno potrà essere accolto e realizzato storicamente.

Di modo che la Chiesa di Gesù Cristo C la Chiesa dei poveri. Come tale e aperta e convocata, evangelicamente, al dialogo e alla comunione con tutte le tradizioni e i gruppi religiosi, sempre a partire e in funzione dei poveri.

1. La Chiesa dei poveri è luogo e fermento del regno di Dio.

Nella misura in cui al centro delle sue preoccupazioni, della sua organizzazione, della sua vita e della sua missione c'è la vita dei poveri - vittime degli interessi e delle forze dell'anti-regno -; nella misura in cui denuncia la malvagità e il peccato della situazione di miseria e di esclusione in cui vivono tanti fratelli - e nel denunciate affronta le forze dell'antiregno -; nella misura in cui si colloca completamente dalla parte e al servizio dei poveri, assumendo le loro cause e le loro lotte storiche - nonostante le ambiguità e le contraddizioni che comportano -, la Chiesa dei poveri diventa un luogo privilegiato per l'instaurazione del regno di Dio e conseguentemente il suo “fermento" storico nel mondo. E, in quanto tale, si costituisce come “luogo" e “fermento" storici privilegiati dell'incontro, del dialogo e della comunione con le altre tradizioni e gruppi religiosi.

Un dialogo interreligioso che si faccia al margine dei disegni di Dio per questo mondo - la realizzazione storica del suo regno - non e altro che una strategia delle forze dell'antiregno per mantenete e perpetuare la dominazione in questo mondo. Ora, se la negazione delle condizioni materiali di base della sopravvivenza, in quanto negazione della vita nel suo livello primario e fondamentale, e l'espressione più radicale della negazione dell'opera e dei disegni di Dio in questo mondo (peccato), conseguentemente, la soddisfazione di queste condizioni materiali di base, in quanto affermazione della vita nel Suo livello primario e fondamentale, e l'espressione più radicale della conservazione dell'opera di Dio e della fedeltà al suo disegno in questo mondo (grazia). È intorno e in funzione della vita dei poveri - cominciando dal livello più elementare e fondamentale: la materialità della vita - che il dialogo interreligioso si deve portare avanti. In questo senso la Chiesa dei poveri si costituisce come luogo e fermento reali - non solo ideali - del dialogo interreligioso.

2. La Chiesa dei poveri è sacramento del popolo universale di Dio.

Nella stessa misura e proporzione in cui il regno di Dio in questo mondo e legato (rifiuto/negazione vs accoglienza/affermazione) alla vita dei poveri, anche la formazione del suo popolo e legata alla vita e al destino dei poveri. Se il regno di Dio e dei poveri (Lc 6,20; Mt 5,3), anche il popolo di Dio e dei poveri. (...). In quanto sacramento - segnale visibile, anticipazione escatologica - del popolo universale di Dio, la Chiesa dei poveri si presenta come luogo privilegiato di incontro e di dialogo tra le religioni. È la vita dei poveri, la loro liberazione, in ultima istanza, quello che in questo nostro mondo diviso tra ricchi e poveri, oppressori e oppressi. riunisce o separa le religioni e, più ancora, quello che definisce la condizione di popolo di Dio di ogni gruppo o tradizione religiosa.(...).

(da Adista, n. 46, 18.06.2005, pp. 10-12)

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