1. Per la pace e per il creato
I riferimenti alla pace ed al creato si trovano spesso strettamente associati, sia nel linguaggio delle diverse comunità ecclesiali che nella riflessione specificamente ecumenica. L'Unità III del CEC, ad esempio, è dedicata a "Giustizia, pace e creazione", a riprendere in forma appena modificata la dizione del processo avviato nel 1984 dall'Assemblea di Vancouver e culminato nel 1990 con la Convocazione ecumenica di Seul ("Giustizia, pace e salvaguardia del creato") (1). Anche a livello europeo le Assemblee Ecumeniche di Basilea e Graz richiameranno la stessa triade, mentre in ambito specificamente cattolico sarà il Messaggio per la Pace del 1990 - forse il più importante testo del Magistero cattolico sui temi ambientali - a disegnare un analogo collegamento: "Pace con Dio Creatore, Pace con tutto il creato" (2). Se guardiamo, poi, alla tradizione francescana troviamo spesso un richiamo al santo di Assisi, come figura capace di vivere e promuovere la pace tra gli uomini e, quasi senza soluzione di discontinuità, quella col creato (3). Pace ed integrità del creato sono anche due grandi tematiche escatologiche, due segni del Regno di Dio che viene (4) e la stessa Scrittura le disegna spesso in stretta congiunzione. È un dato particolarmente evidente in Isaia, dove le immagini di riconciliazione universale della fine dei tempi (Is.2, 2-5; 25, 6-9) si alternano e si intrecciano con quelle di un rinnovamento della natura, vivificata e liberata persino dalla predazione (Is.11, 1-9; 41,17-20; 43,16-21). Nella visione profetica, infatti, la memoria dell'atto creatore di Dio fonda la speranza in una creazione nuova, nel segno della pace cosmica.
Se ci collochiamo a questo livello, scopriamo pure un legame evidente delle due espressioni con la cultura - il terzo termine cui si riferisce questa riflessione. La promozione della pace e della salvaguardia del creato, infatti - aldilà del livello immediatamente politico - esige pure un'azione formativa, rivolta alle coscienze personali, ma anche a quel campo più esteso che definiamo appunto culturale. Una "cultura per la pace e per il creato" indicherà, allora quella trasformazione del sentire collettivo che è necessario promuovere affinché le due realtà possano effettivamente prender forma nella storia e nella società. Essa necessiterà sì di un livello di analisi tecnica, capace di cogliere i singoli problemi nella loro specificità, ma anche di un orizzonte più ampio, nel quale essi possano trovare una collocazione più meditata. Spesso, in effetti, si tratterà di una vera e propria risignificazione di elementi del nostro vissuto e della nostra storia, a svelarne la dimensione di riconciliazione. Tra l'altro, proprio Bertalot è stato in questo maestro, invitando a continue riletture della storia, non per rimuovere la densità dei conflitti - come fanno gli storici negazionisti della Shoah - ma piuttosto per scoprire, anche al cuore di essi, potenzialità di riconciliazione da studiare con attenzione, per recuperarne l'attualità (5).
È soprattutto a questo livello che la riflessione più specificamente teologica può portare il proprio contributo, come indicazione di una profondità di significato che spesso è sottesa anche da problematiche apparentemente tecniche e settoriali, ma in effetti cariche di interrogativi di grande spessore. Non è certo casuale che in questo spazio anche la parola Dio venga spesso invocata, a richiamare quella riserva di senso, quella speranza oltre ogni speranza che si rivela così necessaria di fronte alla complessità di questioni apparentemente prive di soluzioni viabili. Lo stesso Isaia, del resto, evidenzia uno stretto legame tra annuncio di salvezza e pace (Is.52, 7), che sarà confermato anche dal Nuovo Testamento confermerà. Nella lettera agli Efesini, anzi, Cristo viene confessato come "la nostra pace" (Ef 2,14), come la sorgente di una riconciliazione che è in primo luogo quella tra le genti ed Israele, e che proprio a partire da qui interessa tutti i popoli.
2. La complessità della cultura: interculturalità
Se teniamo presente questo primo plesso di significati, emergono indicazioni abbastanza lineari per l'articolazione di cultura, pace e creato. Non possiamo, però, dimenticare che il termine cultura ha una valenza complessa, cui anche Paul Tillich, così caro a Renzo Bertalot (6), ha più volte richiamato la riflessione teologica. Si tratta, in effetti, di un'espressione che nel mondo occidentale copre una varietà di campi semantici; se in questa sede non possiamo certo presentarne un'analisi esaustiva, vi sono, comunque, alcune considerazioni che è necessario tener presenti. Rimuoverne la complessità, infatti, significherebbe condannare alla sterilità lo sforzo per costruire una cultura per la pace ed il creato.
Notiamo, in primo luogo che la cultura può certo essere intesa come il frutto di un generale processo di umanizzazione, di cui la crescita della pace costituisce una componente fondamentale. Occorre, però, anche ricordare che essa si realizza sempre in una forma particolare, all'interno di uno specifico contesto storico, geografico e sociale: parliamo di una cultura occidentale, ma anche di una cultura araba, di una cultura cinese... Nessuna di esse può di per sé essere identificata con la verità, che si pone invece per ognuna come invito alla conversione; al superamento, alla ricerca della profondità e dei significati ultimi.
Se teniamo presente questo significato, una cultura di pace non potrà che declinarsi nella modalità del dialogo interculturale. Identificare immediatamente la via della pace con una specifica espressione dell'humanum, infatti, significherebbe condannarsi all'incomunicabilità o all'arroganza autoassertiva, rendendo ben difficile un positivo contributo alla crescita della con-vivenza al cuore dell'umanità. Anche la promozione della sostenibilità ambientale, per essere efficace non può che declinarsi attraverso la varietà delle culture che si esprimono nelle società contemporanee; non può che esprimersi come interrogazione delle diverse visioni del mondo. È illusorio pensare che l'esportazione di modelli di sviluppo che non tengano conto dei destinatari e delle loro forme culturali, possa produrre effetti benefici per le popolazioni interessate e per l'ambiente.
É, però, in particolare nell'ambito del dialogo ecumenico - ed ancor più di quello interreligioso - che si fa sentire con forza l'esigenza di pensare la pace come incontro e dialogo tra diversità, senza cercare frettolose omologazioni. Lo steso Bertalot ha ricordato più volte - anche in tempi in cui il fenomeno fondamentalista era ancora ben poco considerato - come l'integrismo sia una tra le più gravi minacce per la pace (7): l'incapacità di distinguere tra i vari livelli dell'affermazione di fede o dell'identità religiosa conduce facilmente alla violenza. Per riprendere le parole di R. Panikkar, "la verità non è un'arma, con la quale conquistare, dominare o vincere" (8). Anche chi confessa e vive con intensità una fede non può dimenticare che quelle stesse immagini, che all'interno di una tradizione religiosa vengono vissute come simboli radicali di pace, per altre possono essere privi di significato o addirittura veicolare connotazioni ostili.
Ne dà testimonianza anche la ricerca da parte delle istituzioni internazionali di un simbolo meno coinvolgente per quell'istituzione di assistenza a malati e feriti che in Europa prende il nome di Croce Rossa: già in un contesto musulmano era risultato preferibile il riferimento alla Mezzaluna, ma m altre aree - specie in presenza di forti conflittualità interculturali - occorre qualcosa di meno connotato. Certo, indubbiamente in tale dinamica viene limitato il riferimento a quella grande figura di misericordia solidale che è il Crocefisso, ma solo allo scopo di rendere meglio fruibili i significati per cui il segno intendeva riferirsi. Potremmo dire che trova qui espressione, anche sul piano simbolico, quella figura della "moratoria escatologica" che molte volte R. Bertalot ha indicato come essenziale per un serio dialogo tra identità differenti (9).
Certo, neppure sarebbe corretto orientare sempre ed ovunque a tale figura, che accentua in modo così forte la dimensione della laicità, per la gestione dei rapporti tra diverse identità religiose e culturali. È pure vero che - come rilevava anche J. Habermas (10) - la simbolica delle esperienze religiose veicola significati che solo in parte sono suscettibili di traduzione nei linguaggi laici del sapere filosofico. La stessa ricerca della pace, allora, non potrà esprimersi solo come reciproca tolleranza, come riduzione al minimo livello di ciò che potrebbe essere fattore di conflitto. La pace e l'integrità del creato esigono anche un futuro diverso, un rinnovamento su scala planetaria, un'interazione costruttiva tra le diverse forme culturali in cui abita l'humanum. Tale dinamica può però realizzarsi solo in un incontro autentico, al livello profondo delle identità, laddove i diversi soggetti si presentino in tutta la loro verità, esprimendola in forma non polemica, ma testimoniale - quasi come un dono cui altri possa attingere se lo desidera. L’uomo ecumenico non si astiene dal dire le ragioni ultime del suo esistere, ma - ricorda ancora Bertalot - sa farlo in forma umile, sapendo che "quanto offre non è determinante, perché lo Spirito soffia dove vuole e quando vuole" (11).
Il dialogo, infatti, è anche lo spazio di una reciproca testimonianza alla verità, in cui essa stessa talvolta in forme inaspettate, si svela ai partecipanti. In questo senso la varietà delle culture non può essere percepita solo come ostacolo o addirittura minaccia ad una pace che verrebbe così concepita come mera reductio ad unum. No: essa costituisce piuttosto la condizione di possibilità di una pace che si dà solo come incontro delle diversità, come apertura accogliente a quelle alterità che si manifestano nella storia.
3. La complessità della cultura: naturale vs. culturale
C'è, però, nel termine cultura anche un ulteriore orizzonte di significato, che deve essere tenuto presente se vogliamo pensarne m modo efficace la relazione alla pace ed all'ecologia. Ci riferiamo a quell'accezione che distingue ciò che è culturale da ciò che è naturale, l'evoluzione culturale da quella biologica. Se tra le due dimensioni c'è indubbiamente una stretta relazione - l'uomo è sì essere culturale, ma non per questo cessa di essere un vivente, nel senso biologico del termine - essa non può cancellare l'irriducibilità della seconda alla prima. La stessa sottolineatura della diversità culturale, su cui ci siamo soffermati nelle pagine precedenti, è l'espressione di questa non-determinatezza dell'essere umano, capace di sviluppare forme di vita profondamente differenti a partire dalla sua base biologica.
Nel momento in cui teniamo presente quest'area semantica, però, diviene impossibile pensare in modo troppo semplice il rapporto tra cultura, pace e mondo creato: tra il primo elemento e gli altri due le relazioni sono differenziate e potrebbe persino sembrare che esse orientino in direzioni diverse. Abbastanza evidente - e tutta positiva - appare la relazione tra pace e cultura: a fronte di un mondo naturale nel quale la violenza costituisce un fatto normale, in cui la morte di un vivente per mano di un altro è spesso la condizione di possibilità per la sopravvivenza del secondo, la cultura disegna un orizzonte di possibilità differente. Essa, infatti, apre uno spazio nel quale la minaccia reciproca può essere superata nel patto, in un'interazione positiva anche tra diversi. Qui l'aggressività diviene gestibile, relativizzabile, a livello personale e comunitario e proprio a questo scopo sono destinate quelle istituzioni del diritto il cui sviluppo è certo una delle caratteristiche dell'evoluzione culturale dell'umanità (12). Qui la comunicazione permette di superare quella paura del diverso che sembra caratterizzare fasi arcaiche della convivenza interumana. La pace, insomma, appare come una possibilità tipicamente umana, come l'espressione di una rottura culturale con quelle dinamiche che al livello naturale si presentano come insuperabili.
Ben diverso appare, invece - almeno ad un primo sguardo - il rapporto tra cultura e questione ambientale; qui, infatti, l'azione specificamente umana appare piuttosto collegata agli squilibri che pesano sull'ecosistema planetario. Forse il mutamento climatico è l'espressione paradigmatica di tale dinamica, che vede l'alterazione della composizione atmosferica - almeno in parte certamente determinata dallo sviluppo umano (13) - determinare una modifica delle condizioni climatiche del pianeta. La società industriale, quasi espressione storica del pathos moderno della libertà, nasce, del resto, come rottura con una forma d'uso dell'energia che si limitava ad attingere ai flussi immediatamente disponibili, per volgersi invece agli stocks immagazzinati nei combustibili fossili - un'azione certamente possibile solo all'interno di una dinamica culturale avanzata. Non stupisce, allora, che diversi autori vedano la radice dello scompenso ecologico proprio in un'eccessiva enfatizzazione dell'essere culturale dell'uomo, che avrebbe condotto ad una sottovalutazione del suo radicamento naturale e biologico, per porsi come dominatore della natura.
La terna «pace, creazione, cultura» sembra, dunque, scindersi: se il cammino di pace figura come il frutto di una enfatizzazione della crescita culturale dell'essere umano, a superare una conflittualità che egli erediterebbe soprattutto dal suo essere biologico, un rapporto sostenibile con l'ambiente sembra esigere invece una prospettiva abbastanza diversa.
4. La complessità della cultura: responsabilità
In realtà, la contrapposizione che abbiamo delineato appare a numerosi autori troppo schematica. Panikkar sottolinea, ad esempio, che la guerra non può essere considerata un fatto naturale, né normale, ma va vista invece come fenomeno fortemente connotato in senso culturale (14). La guerra, in effetti, non è semplicemente la violenza in quanto tale, ma la violenza divenuta istituzione: la cultura non è sempre fattore dì pace ed, anzi, talvolta sembra in grado di innescare dinamiche orientate in senso ben diverso. D'altra parte, la stessa naturalità biologica non può essere univocamente identificata come fattore di aggressività; se tale istinto è indubbiamente presente, quale elemento necessario alla sopravvivenza, il corredo istintuale dei viventi vede pure la presenza di tendenze che puntano alla cooperazione (15). Negli esseri umani, in particolare, l'agire - violento o pacificante - nasce sempre come cernita tra una varietà di inclinazioni innate, come espressione di una scelta (16).
D'altra parte, altrettanto scorretto sarebbe identificare immediatamente con la cultura in quanto tale la radice del degrado ambientale. Certo, senza la scienza e la tecnica, ben difficilmente l'impatto dell'azione umana sulla biosfera avrebbe potuto essere così ampio ed è certamente opportuno ritrovare intuizioni presenti in alcune culture non-tecnologiche - come quella biblica! - per ripensarne i valori nel contesto presente. Se la cultura è sempre - quasi per definizione - manipolazione e quindi alterazione della naturalità, ciò non significa affatto che essa debba necessariamente tradursi in una rottura delle dinamiche della biosfera. Occorrerà, però, tener presente che oggi sono proprio la scienza e la tecnica che permettono all'essere umano di orientare il proprio rapporto con l'ambiente in direzioni diverse - più o meno ecologicamente sostenibili. Che significa oggi ricercare un'armonia con la natura per un'umanità di alcuni miliardi di esseri umani, senza condannare semplicemente alla morte per fame i poveri del Sud del mondo? Sarebbe possibile farlo senza una ricerca di tecniche avanzate che garantiscano un impatto ambientale leggero? Il problema è allora piuttosto quello - tutto politico - del senso e dell'orientamento di un sistema economico che solo di rado sembra disponibile a sostenere una ricerca scientifica e tecnologica che vada effettivamente in questa direzione.
Si ha, insomma l'impressione che né l'istanza della pace né quella di salvaguardia del creato possano essere correttamente interpretate semplicemente come richiesta di un di più o un di meno di cultura, di una maggiore o minore distanza dalla naturalità. In entrambi in casi, la questione appare piuttosto legata a scelte, che interpellano l'essere umano nella sua libertà, ponendogli l'interrogativo circa l'orientamento da dare alle forme materiali della convivenza. Sono scelte che interessano l'essere umano nella sua totalità - nella sua dimensione biologica, come in quella sociale: a questa complessa articolazione egli è chiamato a dare forma, assumendo responsabilmente il suo stesso essere culturale.
Nell'uno come nell'altro caso troviamo, insomma, al centro una questione etica, nella quale il soggetto si vede rinviato alla responsabilità per un'alterità che gli sta di fronte - una responsabilità che chiede di tradursi in rispetto, in primo luogo, ma anche in un'attiva azione di cura. Certo, i termini responsabilità ed alterità assumono significati diversi se sono riferiti ad un altro soggetto umano o ad enti del mondo naturale, ma certamente essi orientano a pratiche convergenti nella costruzione di una cultura per la pace e per il creato. Identico, del resto, è pure l'atteggiamento cui si oppone: quello del dominio - la volontà di affermare se stessi nella propria supremazia - sull'altro umano come sul mondo naturale. Il dominio, infatti, vede nell'alterità solo un oggetto, un mezzo per il perseguimento dei propri scopi, senza riconoscergli alcun valore proprio. Il dominio rifiuta di riconoscere il limite al proprio agire, tutto strumentalizzando al perseguimento del proprio fine; il dominio è incapace di colere alcunché, di farsi effettivamente matrice di una cultura vivibile. La volontà di dominio irresponsabile - della natura come degli uomini e delle donne - appare, insomma, il vero polo negativo che si contrappone ad una cultura della pace e del creato.
Nello spazio della responsabilità, invece, possono trovare un significato pacificante i riferimenti alle opere della cultura - il diritto, la scienza e la tecnica - come quelli al nostro radicamento biologico e naturale. In essa, infatti, gli uni e gli altri vengono a convergere in una positiva attenzione per l'alterità, che sa riconoscere la pluralità come condizione costitutiva di un'umanità che fin dall'inizio è creata nella condizione della dipendenza da altri. La stessa dinamica della cultura non appare più tanto come rottura rispetto alla naturalità, ma piuttosto come apertura di un nuovo livello di libertà che permette alla creatura di rispondere in modo nuovo ed autenticamente personale alla Parola che la fonda ed assieme la interpella.
Proprio qui, d'altra parte, si radica la dinamica di libertà che caratterizza una ricerca etica caratterizzata dalla responsabilità: al cuore di essa non sta l'indicazione di uno schema di comportamento fissato una volta per tutte, quasi si trattasse di riportare la libertà dell'essere culturale ad una rigidità simile a quella sperimentata da altre forme viventi. No: il suo scopo è piuttosto quello di offrire riferimenti significativi per una sempre nuova pratica etica, capace di far fronte alle sfide del tempo.
Bertalot è stato maestro nel ricordare ai suoi interlocutori la dimensione interinale di ogni etica, sempre provvisoria, sempre posta tra il già di una parola fondante e il non ancora di un eschaton non ancora compiuto: "nel ricordo dell'etica trinitaria e nell'attesa dell'avvento di Dio possiamo pronunciare quella parola di preliminare di avvertimento che costituisce l'etica cristiana e che ci impegna nel provvisorio davanti a Dio e davanti agli uomini" (17).
5. Per concludere
Nella capacità di essere responsabile, insomma, di rispondere liberamente agli appelli che provengono da un'alterità sembra trovare compimento l'essere culturale dell'uomo, ma anche la possibilità offertagli di un vissuto di armonia - con gli altri esseri umani, come col mondo naturale. Una cultura per la pace e per il creato sarà, dunque, una cultura che promuove il massimo di soggettività etica in coloro che vi fanno riferimento, facendoli attenti agli appelli loro indirizzati. Sarà pure una cultura capace di scoprire talvolta, entro ed attraverso le voci che li esprimono, l'appello di un'Alterità più grande - di colui che si è fatto finito, limitato, di Colui che ha rifiutato un'Onnipotenza intesa come dominio per farsi debole, solidale, prossimo di un mondo e di un'umanità impregnati di sofferenza. In lui la fede cristiana può confessare la propria speranza, sapendo che il Dio vicino, il Dio crocifisso, si fa carico del mondo e della storia, per condurre l'umanità e la creazione tutta alla pace del sabato senza fine.
Note
1) Alla ricerca ecumenica sul tema ambientale Bertalot ha dedicato, R. Bertalot, Il problema ecologico, in Id., Per dialogare con la Riforma, Biblioteca di Studi Ecumenici n. 2, LIEF, Vicenza 1989, pp.167-173.
2) Giovanni Paolo II, Pace con Dio Creatore, pace con tutto il creato, in Il Regno Documenti 35 (1990), pp. 1-4.
3) Pensiamo ad esempio a L. Boff, Francesco d'Assisi una alternativa umana e cristiana, Cittadella, Assisi 1980.
4) Richiamo qui i preziosi interventi di Bertalot nelle Sessioni SAF del periodo 1976-1982 - il cosiddetto "ciclo del Regno", l'ultima delle quali aveva per titolo "La pace, sfida del Regno".
5) Penso, in particolare, a R. Bertalot, Fasi della cultura europea d'oltralpe, Quaderni di «Studi Ecumenici» n.7, Venezia 2003.
6) Mi limito a richiamare R. Bertalot, Paul Tillich. Una teologia per il XX secolo, AVE, Roma, 1971; Id., Per una teologia della cultura in prospettiva ecumenica: Paul Tillich, in SAE (a cura), Laici, laicità, popolo di Dio. L'ecumenismo in questione. Atti della XXV Sessione di formazione ecumenica, La Mendola (Trento), 25 luglio - 2 agosto 1987, Dehoniane, Napoli 1988, pp. 453-459; Id., Paul Tillich: esistenza e cultura, Claudiana, Torino 1991.
7) R. Bertalot, Linguaggio e prassi di integrismo, in SAE (a cura), La pace, sfida del Regno Atti della XX Sessione di formazione ecumenica, la Mendola (Trento), 30 luglio - 7 agosto 1982, LDC, Leuman (Torino), 1983, pp. 224-229.
8) R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003, p. 60.
9) Ad esempio in R. Bertalot, Dio nascosto e Dio rivelato. Ricerca biblica neotestamentaria, in SAE (a cura), Parola e silenzio di Dio. Atti della XXVIII Sessione di formazione ecumenica, La Mendola (Trento), 28 luglio - 5 agosto 1990, Dehoniane, Roma 1991, pp. 63-69, come pure nel già citato Id., Il problema ecologico.
10) Mi riferisco all'intervento alla fiera del libro di Francoforte, in J. Habermas, Fede e sapere, in Micromega (2001), n.5, pp.7-16.
11) R. Bertalot, L'uomo dialogico ed ecumenico, in SAE (a cura), Laici, laicità, popolo di Dio, pp.286-291.
12) L'attenzione costante di Bertalot per l'interazione di diritto, cultura e teologia è testimoniata, ad esempio, da R. Bertalot, Dalla teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto, Università di Sassari, Sassari 1993.
13) Sul tema rimando a M. Mascia, S. Morandini, A. Navarra, G. Proietti, Se la terra si scalda... Scienza, etica e politica di fronte al mutamento climatico, EMI, Bologna 2004.
14) R. Panikkar, Pace e disarmo culturale.
15) I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, Bollati Boringhieri, Torino 1999 .
16) P. Ricoeur, P. Changeux, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Cortina, Milano 1999, pp. 179-314.
17) R. Bertalot, Fondazione biblico-teologica dell'etica, in SAE (a cura), Questione etica e impegno ecumenico delle chiese. Atti della XXIII Sessione di formazione ecumenica, La Mendola (Trento), 27 luglio - 4 agosto 1985, Dehoniane, Napoli 1986, pp. 57-70, qui p. 70. Proprio all'etica della responsabilità, pensata come "etica interinale", era pure dedicata una delle prime opere di Bertalot pubblicate in italiano: R. Bertalot, Verso una morale della responsabilità. Ricerche d'etica protestante, EDB, Bologna 1972.
(pubblicato in AA.VV., Fede e cultura. Omaggio al Prof. Pastore Renzo Bertalot, I.S.E., Venezia 2004, pp.75-88)