Perché parlare di "potere della nonviolenza"? Gli anarchici storcono il naso ogni volta che sentono la parola potere e vorrebbero abolirla totalmente, mentre i realisti ridacchiano perché ritengono che il potere stia sulla canna del fucile. Anche tra coloro che si sono attivati contro la guerra c'è un diffuso pessimismo perché, privi di potere, non siamo stati capaci di impedirla.
Ma le cose non stanno così. Il testo che più di altri ci aiuta a capire cos'è la nonviolenza politica è l'opera di Gene Sharp (Politica dell'azione nonviolenta, EGA, 3 vol., Torino 1985), il cui primo volume è dedicato alle teorie del potere. Dobbiamo distinguere due principali scuole: il potere esercitato dall'alto, coercitivo e monolitico allo scopo di dominare, e quello dal basso, a partire dal proprio potere personale, che può essere utilizzato per costruire una società libera, giusta e nonviolenta.
Il potere dall'alto si articola in quattro tipi principali: politico, economico, militare e culturale, che oggi sono concentrati nelle mani di ristrette elite oligarchiche, le quali possono in prima istanza non tener conto dell'orientamento della stragrande maggioranza dell'opinione pubblica mondiale, come hanno fatto con l'aggressione all'Iraq. Il movimento per la pace non può ignorare questa realtà e deve individuare obiettivi precisi e concreti per smantellare le strutture di potere esistenti a cominciare da quella del complesso militare industriale-scientifico che gioca un ruolo centrale nel produrre insicurezza, instabilità, paura, repressione. Un trilione di euro all'anno, tre al giorno, vengono spesi per generare un circolo vizioso di insicurezza e di guerre. Dobbiamo smascherare l'ipocrisia della difesa militare, le cui strutture si basano su una cultura del maschilismo e della violenza e costituiscono un pericolo estremo per le popolazioni civili. Il diritto internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per impedire la deriva verso politiche di dominio. Solo se accompagnato da un radicale cambiamento dei modelli di difesa esso potrà portare a condizioni di maggiore stabilità nelle relazioni internazionali.
Il potere dal basso, il people power, si è manifestato più volte nel corso della storia, anche nelle situazioni apparentemente prive di alternativa, come durante il nazifascismo. Le lotte nonviolente del Novecento sono una chiara testimonianza della efficacia di modelli alternativi di risoluzione dei conflitti e della possibilità di costruire una difesa popolare nonviolenta.
Oltre ai casi più noti ed esemplari (Gandhi e Badshah Khan contro il colonialismo inglese, Martin Luther King per i diritti civili degli afroamericani, Nelson Mandela e Desmond Tutu contro l'apartheid) dobbiamo ricordare sia le molte lotte nel corso delle quali sono stati abbattuti regimi considerati totalitari (la cacciata di Marcos nel 1986 dalle Filippine, la stagione del 1989 con le straordinarie lotte nonviolente nei paesi dell'Europa dell'Est), sia i numerosi episodi di resistenza civile non armata durante il nazifascismo (resistenza della popolazione danese contro la deportazione degli ebrei e degli insegnanti norvegesi contro il regime filonazista di Quisling) con lo straordinario episodio delle "donne della Rosenstrasse", avvenuto nel cuore stesso del nazismo, nel marzo 1943 a Berlino, quando migliaia di donne ariane, sposate con mariti ebrei, rimasero per più giorni sotto la sede della gestapo per protestare contro l'arresto dei loro mariti, sino a quando furono liberati (Nina Schroder, Le donne che sconfissero Hitler, Pratiche editrice, Milano 2001).
Ognuno di questi episodi fu caratterizzato dall'esistenza di una posta in gioco alta e condivisa da larga parte della popolazione che seppe unirsi e contrastare un potere apparentemente molto più forte dando fiducia agli oppressi attraverso la resistenza nonviolenta, la cui dinamica è caratterizzata dalla presenza di un gruppo di protesta e di azione capace di resistere alla repressione dell'avversario senza rispondere con altra violenza. Lo scopo è quello di sottrarre il consenso delle parti esterne indifferenti, sul quale si regge il potere dell'oppressore. Si verifica allora, lentamente, lo sgretolamento delle strutture di dominio e la violenza dell'oppressore si ritorce contro di lui in una sorta di boomerang, che Sharp chiama, ju-jitsu politico.
Paradossalmente, oggi ci troviamo di fronte a una situazione nella quale è ben più difficile cambiare le strutture delle nostre società formalmente democratiche che non quelle di paesi retti da un potere dittatoriale. Nei nostri paesi il potere non ha un volto preciso, soprattutto quello economico, anche se talvolta possiamo identificarlo in alcuni leader politici (il trio dei "bulli internazionali" i cui nomi cominciano tutti con la lettera B: Bush, Blair, Berlusconi). Inoltre, gli obiettivi sono difficili da individuare poco condivisi.
Oltre che un radicale mutamento del modello di difesa, il movimento per la pace deve proporsi anche di modificare l'attuale modello di sviluppo non sostenibile ed iniquo. Siamo ben consapevoli della portata di tali cambiamenti, che non avverranno con una bacchetta magica. Ma individuare gli obiettivi generali e anche quelli intermedi è il primo passo per costruire campagne e iniziative che man mano permettano il decentramento e lo smantellamento delle attuali strutture di potere e la creazione di quel "potere di tutti" e di quel "benessere di tutti" (nessuno escluso) auspicati da Capitini e Gandhi.
Un programma politico minimo potrebbe dunque essere centrato su due punti: riduzione della spesa militare annua del 5% per riconvertirla nella creazione di corpi civili di pace, riduzione programmata dei consumi petroliferi del 5% e sviluppo di fonti energetiche rinnovabili, decentrate, basate sul solare. In una sola legislatura, otterremmo un risultato straordinario. Ma per poter incidere, il movimento per la pace deve organizzarsi politicamente, dotandosi di strutture logistiche stabili e permanenti che lo facciano uscire dallo spontaneismo e dall'azione reattiva per diventare capace di agire preventivamente, con una propria agenda politica, non subalterna a quella delle elite politiche.
E contemporaneamente occorre l'addestramento, il training all'azione diretta nonviolenta, per evitare di cadere ogni volta nella vecchia e funzionale, per il potere dominante, "trappola della violenza". Disobbedire? Sì, ma civilmente. Resistere? Sì, ma con la fìrmieza permanente della nonviolenza.
Per essere capaci di resistere bisogna prepararsi, rafforzarsi interiormente, superare la paura, accettare di pagare un prezzo, anche il carcere, le botte, e persino quello estremo della morte (come ci insegnano, tra i tanti, Rachel Corrie, Thomas Hurndall e Brian Avery, vittime della violenza dei soldati israeliani in Palestina). Questo è il compito, tutt'altro che facile, della nonviolenza del forte, dei satyagrahi, dei bodhisattva, dei "giusti", la faccia speculare della violenza dei forti, l'unica capace di spezzare il circolo vizioso della guerra. Sarebbe bello che non ci fosse bisogno di santi e di eroi, che si potesse semplicemente vivere senza essere disposti a sacrificarsi, ma il mondo odierno versa in condizioni tali che per vincere l'odio accumulatosi nel corso di tragedie che durano da troppo tempo, per suscitare empatia, per sconfiggere l'indifferenza, è necessario un vero e proprio esercito di resistenti nonviolenti, simile a quello che tra il 1930 e il 1947 fu creato da Badshah Khan nella "regione della frontiera", attorno al mitico Kyber Pass, capace di fronteggiare, a mani nude, l'esercito inglese senza piegarsi alla violenza. (Badshah Khan. Il Gandhi musulmano, Sonda, Torino 1990.)
Lillipuziani e disobbedienti di tutto il mondo uniamoci nella lotta nonviolenta, se vogliamo che altri mondi siano effettivamente possibili.
Nanni Salio