Scrivi dunque un libro per loro o un giornale per loro oppure fatti apostolo tra i tuoi compagni laureati cattolici per aprire una grande scuola popolare a Firenze. Non come dono da fare ai poveri, ma come debito da pagare e un dono da ricevere. Non per insegnare ma solo per dare i mezzi necessari (cioè la lingua) ai poveri per poter insegnare essi a voi le inesauribili ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale che Dio ha nascosto nel loro cuore quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui son vittime. La scuola sarà evidentemente intitolata a Socrate e non al Sacro Cuore in omaggio di questo arrendersi della cultura e del tipo di cattolicesimo imperante di fronte ai nuovi eletti»
La scuola di don Milani ha una valenza di liberazione ed una unicità che la rende – come la scuola di Socrate – da un parte inimitabile, dall’altrapreziosa fonte di ispirazione per chi, nell’incontro con quest’esperienza e con questo testimone, resta disponibile a lasciarsi interrogare, inquietare e appassionare… Certo, non su problemi marginali (tale il priore di Barbiana riteneva, per esempio, la contrapposizione della scuola privata a quella pubblica), quanto piuttosto su grandi questioni, come: 1) il preciso significato ed il valore che ha la scuola (e ogni luogo educativo); 2) l’altrettanto precisa figura di maestro, legata peraltro alla sua biografia; 3) la passione nella relazione; 4) la conseguente accoglienza, capace di dissotterrare tesori nascosti e di valorizzare le differenze; 5) l’importanza della parola; 6) la necessità di un fine; 7) la crescita di cittadini responsabili e sovrani, che fa avanzare l’umanità verso orizzonti di giustizia e di pace. Tensioni e impegni che valgono comunque, al di là dei “risultati” (odierno dogma onnipervasivo, corrosivo di ogni sano impegno educativo o umano).
1, L’«ottavo sacramento»
Don Milani, come emerge già dal testo citato, pensa e realizza una scuola che da la parola ai poveri perché essi possano diventare maestri di umanità. Scrivendo insieme ai suoi ragazzi la “Lettera a una professoressa” invita i genitori ad organizzarsi e i maestri a convertirsi perché la scuola assolva al suo compito costituzionale di promuovere tutti (e quindi non solo Pierino, figlio del dottore, ma anzitutto Gianni, il figlio dei contadini) e tutti educhi ad essere sovrani. Ai privilegiati, a Pierino, chiede di mettersi a servizio dell’uguaglianza sostanziale: «fai strada ai poveri senza farti strada». Restando in ascolto di questo messaggio in tempi mutati, in cui sulla selezione classista prevale la tendenza a livellare tutti in basso (potendo sempre i privilegiati percorrere strade proprie, “private”), condivido la convinzione di Paola Mastrocola (insegnante che ha scritto un libro contro l’odierno andamento mercantile della scuola) che Gianni oggi non chiederebbe più una scuola che non boccia ma una scuola che elevi, che faccia studiare con rigore. E, se lei immagina per questo la scuola quasi come un convento che offra uno spazio diverso dal chiasso e dalla strumentalità tecnologica – uno spazio di meditazione e di crescita umana com’è nel meglio della tradizione occidentale (dalle scuola di Platone e Aristotele alla bottega rinascimentale…) – anche don Milani, già a San Donato di Calenzano, pensava l’esperienza educativa con un’intensità di rapporti e di passione che aveva una valenza quasi salvifica, tanto da concepire la scuola come l’«ottavo sacramento».
«Lo sai te cos’è per me la scuola popolare vero? – scriveva in un’altra lettera a Gian Paolo Meucci – È la pupilla del mio occhio destro. È funzionata 4 anni e quest’anno seguita addirittura anche d’estate perché ci vediamo ogni venerdì. È nata come scuola e lo è stata fino a poco fa. Ora è diventata qualcosa di più. Una specie di ditta, una società di mutuo incensamento, un partito, una comunità religiosa, una loggia massonica, un casino, un cenacolo di apostoli. Insomma non mi riesce di descrivertela bene è qualcosa di tutto questo e niente di tutto questo».
In questa linea ideale di congiunzione, che va dalla paideia greca a quanti ancora oggi pensano la scuola in senso formativo, emerge una precisa idea di scuola (e del luogo educativo: la famiglia, la parrocchia, la città se vuole pensarsi con fini umani): uno spazio fisico, corporeo, di relazioni faccia a faccia in cui si coltiva l’alterità rispetto all’esistente, grazie al respiro di quei larghi e significativi orizzonti che si aprono quando si padroneggia la parola e si ricevono grandi consegne e tradizioni. Allora – come primo messaggio che colgo da don Milani e dalla scuola di Barbiana – dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze per una scuola che sia il luogo in cui si offrono, contro il vuoto e il virtuale, testi e messaggi che ci segnano e ci fanno crescere in umanità; contro il conformismo accomodante, il necessario urto perché possano svilupparsi singolarità e capacità critica; contro il sotterfugio e l’arrivismo, la lealtà e l’altruismo; contro il qualunquismo, la politica nel senso dato a Barbiana («Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è politica, sortirne da soli è egoismo»); contro la rassegnazione, la speranza; contro la ricreazione continua che intontisce, l’intensità e la gioia di un paziente lavorio che permette di ri-trovarsi con verità.
Come si costruisce una scuola così? Metterei come primo termine, tra quelli indicati nel tema di questo convegno, la passione. Nel duplice senso dell’appassionarsi proprio di chi fa cultura vera e del portare il carico di una crescita proprio chi vuole veramente bene. Per questo, come sanno molti saggi educatori, non si può sorvolare sul maestro. Anche Don Milani lo dice chiaramente:
«Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola»
Ci ricorda così don Milani che si è maestri ed educatori (ogni adulto lo è comunque) a partire dalla propria biografia e personalità. E, se va superato il mito dell’immediatezza e dello spontaneismo nelle relazioni educative, non è nemmeno vero che si apprende a fare i padri e le madri di famiglia, gli insegnanti, i preti, con le tecniche e gli aggiornamenti compassati di istruzioni offerte dagli specialisti e di giochetti operativi: educare è un’arte proporzionale a ciò che si è e alla capacità di ripensarsi, di continuamente auto-educarsi (e allora sì che vale la formazione!) e di tenere ferme “misure alte”, da offrire nella fatica e bellezza dell’impegno quotidiano. Come è stato per don Milani, maestro a partire da una vita in cui non sono prevalsi né grandezze né successi. Egli, peraltro, nella sua breve esistenza (muore di cancro a quarantaquattro anni il 26 giugno del 1967) fa una carriera all’incontrario: è prima cappellano a San Donato di Calenzano, dove si interroga sul catechismo e sulla pastorale (scrivendo successivamente un testo ancora oggi attualissimo) ed avvia la scuola popolare; dal 1954 viene inviato per punizione come priore di qualche decina di abitanti a Barbiana, frazione di Vicchio, dove vive ai margini del mondo ecclesiale e culturale «imperante» e, in fondo, fa solo scuola. Se scorriamo invece la sua biografia interiore ritroviamo un’umanità che cresce, non in estensione, ma in intensità; ed è questa la materia prima del suo essere maestro. Già nella sua giovinezza i suoi amici potevano notare come al fondo era uno che rispondeva solo a se stesso (mentre essi erano costretti a studiare per dovere, per non deludere i genitori…). E studiava solo ciò che gli interessava, approfondendolo però e andando alla sostanza: così aveva fatto anche al momento della conversione, leggendo senza filtri Bibbia e vangeli fino a far esclamare al suo direttore spirituale che aveva fatto una vera e propria «indigestione di Gesù Cristo». Ai compagni di seminario insegnava a dire ciò che si sente e non andava alle riunioni di ex compagni per le indebite e insane spiritualizzazioni della vita che le caratterizzavano. Conserverà sempre questa franchezza assoluta con tutti i suoi interlocutori, insieme ad una vivace forza critica e al rifiuto di ogni accondiscendenza a palazzi e sacrestie, a democristiani e comunisti, ad intellettuali e borghesi…. Ma, a fronte di questa estrema durezza (che ha sapore evangelico), c’è in lui un’altrettanto estrema tenerezza per i «suoi figlioli». Quanto alla fede, coltiva un cristianesimo essenziale e così sicuro da non necessitare di continue esplicitazioni. Pur se con estrema franchezza, resta sempre dentro la chiesa, da prete cattolico obbediente. Così è dalla parte dei poveri, ma «senza lasciare pisside e tonaca». La saggezza di non tagliare i legami con il corpo della chiesa cattolica gli permette di non chiudersi in «chiesuole» e in ristrettezze ideologiche e gli dà quella solidità che gli permette di consegnarsi, con la forte convinzione che un vero educatore deve saper attrarre ed elevare e mai mercanteggiare. «Ecco toccato il tasto più dolente: – scrive – vibrare noi per cose alte. Tutto il problema si riduce qui perché non si può dare ciò che non si ha».
Conta allora anzitutto il maestro, chiamato ad essere tutt’uno con la sua vita. Ma anche – secondo elemento che ci impegna in una verifica – conta la sua autorevolezza (a scuola «l’assolutismo fa crescere democrazia») anche se questa poi, diventando il primo contagio, crea capacità di mutua educazione – un magistero circolare, che accosta Milani a grandi maestri come Mario Lodi o Paulo Freire o alle tradizioni rivoluzionarie ed antiborghesi del muto aiuto educativo. Resta importante pure in questo caso – conviene ribadirlo contro ogni mitologia dello spontaneismo – la presenza del maestro, che aiuta gli allievi a non lasciarsi risucchiare nei comprensibili egoismi o nell’inerzia storica del clima dominante e del mondo di provenienza e che continuamente li impegna in uno studio serio e disciplinato, senza il quale non si diventa nemmeno buoni rivoluzionari.
2. La relazione
Non è facile fare l’insegnante come don Milani: ma sta qui il vero e primo modello educativo e il cuore invisibile (cioè: la relazione) della realtà visibile che è la scuola come «ottavo sacramento». I ragazzi di Barbiana danno una bella definizione dell’educatore: «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo». E criticano il professore universitario che parla senza guardare negli occhi dei ragazzi, nei quali invece un vero maestro sa intravedere il futuro. Ritenendo peraltro che possa fare il maestro solo chi è celibe o allarga la propria famiglia; solo chi «si ricorda», mentre gli insegnanti che dimenticano «sono come preti e puttane che amano ad ore»!
Tutti modi per sottolineare quanto conti la relazione. Che, in primo luogo, è tale se vissuta nella massima trasparenza (…criticando anche la «propria ditta») e nell’interezza della propria persona. Con l’intensità dei rapporti personali (Milani è contro la falsità di un amore universale), che nelle nostre scuole richiederebbero meno allievi ma che può essere presente almeno come tensione.
«Non mi dici nulla di te. – scrive ad Edoardo – Ti ho detto venti volte che voglio una vera profonda lettera privata. Come vivi? Tentazioni? Occasioni? Tristezza? Nostalgia? Voglia di tornare? Voglia di stare? Abitudine? Amicizia? Noia? Voglia di cambiare lavoro? Confessione? Comunione? Messa? Affetto per me? Rabbia con me che ti ci ho mandato? Fedeltà ai principi barbianesi? Fumo? Vino? Donnine? Strettezza di quattrini? Fame? Voglia di pastasciutta? Difficoltà linguistiche? Trionfi linguistici? Malattie? Sonno? Pericoli? Disperazione? Speranza? Fede? Ateismo? Insomma voglio una grande lettera di molte pagine, scritta bene, pensata a lungo. Come se tu fossi qui da me». L’intensità diventa a sua volta fedeltà alla relazione con cui si rinnova di continuo la fiducia, anche e soprattutto nei momenti di crisi e di fallimento, che un vero maestro non trasforma mai in senso di colpa o non trasferisce sugli allievi come giudizio e disistima, ma sa cogliere come occasione preziosa per lasciarsi interrogare. Sempre ritrovando al fondo speranza e sani equilibri.
«Ho passato un momento di depressione – scrive in una lettera circolare alla “repubblica” di Barbiana – perché mi pareva che tutti i ragazzi mi crollassero da tutte le parti e non ci fosse più da fidarsi di nessuno. Poi mi è passato subito. Non si può fare l’educatore e non fidarsi. Prima di tutto perché è un obbligo morale, un impegno verso i ragazzi e un’onestà davanti a Dio, perché anche l’educatore ha da farsi perdonare cioè pretendere un’infinita fiducia che si rinnova a bischero sciolto anche quando tutte le prove sarebbero contro. E poi perché un educatore ha sempre delle soddisfazioni piccole o grandi e sa vedere i segni di speranza e di onestà dove gli altri non vedono»
In terzo luogo, la relazione non è mai possessiva. Fine ultimo della scuola è la consegna alla vita di uomini e cittadini sovrani. Senza timidezza – come si insiste fin dall’inizio della “Lettera a una professoressa”. Sollecitando per questo (e non sublimando o incanalando) una sana aggressività. Viene ancora una volta da pensare a Socrate, ma anche alla capacità di don Milani di dirci dove conduce una vera relazione, quale valore ha il conflitto, quanto sia importante la franchezza. E quindi come si educa veramente alla pace, che è tale solo se si realizza nella verità e nella giustizia.
«Gosto – confessa a Michele – senza di me era un pastorello scontroso e umiliato che avrebbe imitato schiavo le usanze del mondo. Ora è vivace, battagliero, sicuro di sé»
Ricorda Giovanni Salonia, cappuccino e psicoteraputa: «la relazione sarà la chiave del terzo millennio; […] essa si invera e rigenera quando ogni partner lascia progressivamente i calzari del potere e della seduzione, della dipendenza e dell’accusa, per entrare in una terra a lui sconosciuta: la ‘terra di nessuno’ dove ci si riscopre – finalmente e unicamente – compagni di viaggio. Il cuore misterioso ed inesauribile del vivere insieme si colloca là, dove si geme per generare l’unicità che alla relazione si consegna per dare vita ad una relazione che l’unicità accoglie e custodisce..
3. «Ogni vita merita un romanzo»
Se il maestro istituisce uno spazio di relazioni e di consegne vere, la scuola diventa luogo di accoglienza, non attraverso estrinseche attività, ma nel vivo di rapporti autentici, generando un’effettiva centralità dell’allievo, o meglio della traità tra maestro e allievo. Luogo di liberazione di tesori nascosti in tutti. Con la fiducia di una verità che possa effettivamente venire “dal basso” (fiducia evangelica, sconosciuta – notava padre Balducci – anche alle formulazioni marxiste, che devono ipotizzare un apporto esterno). A Barbiana nessuno era «negato per gli studi» o «nato cretino o svogliato». Come riconosce oggi anche quella parte della psicologia che lavora sulla vita e non solo sulle patologie, «ogni vita merita un romanzo». Così si accolgono tutti i «popoli» (cioè, tutte le porzioni di umanità), tutte le culture e subculture. Conservando e valorizzando le differenze: messaggio veramente profetico rispetto al futuro che ci attende e che sarà plurale.
«Abbiamo visto scaturire dai più sonnolenti quercioli una vitalità inaspettata. Uno zampillare di idee nuove, di argomenti, di pensiero lungamente meditato. Ti basti sapere (e te lo posso dimostrare coi lavori alla mano) che ognuno pensa a modo suo e che non c’è due lavori uguali! Ti pare poco? Fin’ora non mi c’ero mai ritrovato. Che vuol dire toccare la corda che vibra! E come sia stupido e come siamo stupidi quando pensiamo che ci sia gente che non ha neanche una corda capace di vibrare. Vedrai che tra poco ne vibrano a decine […] mi pare di seminare il grano trovato nella tomba dei faraoni e di calcolare matematicamente quanto grano avrebbero potuto produrre in questi 4 mila anni sprecati. Ma non basta neanche questa immagine perché non è solo questione di quantità. Non pensi che il mondo avrebbe tutt’altra faccia se i montanari avessero saputo leggere e scrivere e non farsi fregare? [… ] Lo diceva anche Gesù: “L’uomo non vive solo di pane e casa, ma di parola e pensiero e libertà interiore… perché da queste si passa direttamente alla fede e alla vita eterna mentre dal pane e dalla casa si può passare alla televisione e al cine” (Luca 4,4 traduzione dal testo originale integrale)»
Anche i rapporti vengono liberati, resi aperti dal coltivare fini più alti, che permettono una vera accoglienza reciproca senza la trappola della reciprocità e il tarlo dell’invidia; che permettono di stare insieme anche senza “capirsi”, evitando quelle false simbiosi spesso imposte ai nostri alunni.
«Sono tutti operati e contadini, son iscritti a partiti e sindacati vari. Alcuni vengono dall’altra sponda, altri dall’altra ancora. Alcuni vivono in grazia di Dio, altri vivono in grazia di Satana, altri servono due padroni. Di comune hanno poco (neanche l’amicizia tra tutti) fuorché un bel progresso che hanno fatto nel cercare di rispettar la persona dell’avversario, di capire che il male e il bene non sono tutti da una parte, che non bisogna mai credere né ai comunisti né ai preti, che bisogna sempre andare controcorrente e leticare con tutti e poi il gusto dell’onestà, della lealtà, della serenità, della generosità politica e del disinteresse politico»
4. La «chiave fatata»
La leva di questa liberazione e di questa crescita è la ‘parola’ (la cui forza va compresa, ricordando lo sfondo biblico della Parola, che è comunicazione ed evento, incarnazione del Verbo di Dio). La parola, consegnata nella relazione e nella franchezza e sviscerata nei suoi contesti di provenienza, diventa la «chiave fatata» che apre ad una lucida comprensione della realtà e genera coscienza ed uguaglianza. «Ecco l’obiettivo base di una scuola per la sovranità: dare la parola. Tutto il resto è sovrappiù. Ecco il significato di cultura: “Stare con la massa e possedere la parola”».
«Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi. Nei primi anni i giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano l’utilità pratica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. L’uno se ne accorge nell’affrontare il libro del motore per la patente. L’altro fra le righe del giornale del suo partito. Un terzo s’è buttato sui romanzieri russi e li intende. Ognuno di loro se n’è accorto poi sulla piazza del paese e nel bar dove il dottore discute col farmacista a voce alta, pieni di boria. Delle loro parole afferra oggi il valore e ogni sfumatura. S’accorge solo che esprimono un pensiero che non vale poi tanto quanto pareva ieri, anzi pochino. Cominciano a inchiodar il chiacchierone sulle parole che ha detto. […] Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata […] Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua)»
La parola lungamente lavorata e confrontata (con la realtà e con i diversi punti di vista) genera l’arte dello scrivere, spiegata al fondo come un «voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi». La fedeltà a questo messaggio non mi sembra possa ridursi alla “scrittura collettiva” intesa come una tecnica, quanto alla densità di approfondimenti quotidiani (come avvenivano a Barbiana grazie al tempo pieno; come possono avvenire nella bellezza e fatica quotidiana di un sapere disciplinare, ben diverso dalla frammentazione di saperi modulari e di progetti artificiali) che generano – in occasioni non programmate o anche oltre la scuola – capacità di parole vere, di parole che non siano semplici strumenti ma che, come le parole-corpo, permettano rapporti nuovi con la realtà e la verità.
5. «…tirar su dei figlioli più grandi di lei»
Così va delineandosi lo scopo della scuola: non inserire nel sistema e nella cultura dominante, ma consegnare parole capaci di far trovare un ‘fine’. Tale da non corrispondere ad utilità mercantili, ma alla propria umanità. La scuola, cioè, con valore formativo: tutto il contrario della scuola azienda!
«Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Che vada bene per credenti e atei. Io lo conosco. Il priore me l’ha imposto fin da quando avevo 11 anni e ringrazio Dio. Ho risparmiato tanto tempo. Ho saputo minuto per minuto perché studiavo. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, contro l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali. Ma questo è il fine ultimo da ricordare ogni tanto. Quello immediato da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e farsi intendere»
E poi – direbbe oggi qualcuno – c’è l’orientamento! Se restiamo in dialogo con don Milani e la scuola Barbiana – siamo aiutati a capire come il vero orientamento diventa la scoperta, a cui prepara il clima e l’intensità quotidiana di una scuola vera, di cos’è una professione e di come questa oggi può dare alla globalizzazione il volto umano dell’incontro tra mondi diversi nella fraternitas.
«Ma ci restava da fare un’altra scoperta: anche amare il sapere può essere egoismo. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo, per es. dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili. Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali, italiani, operai, contadini, montanari. […] Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre»
E poi c’è il fine ultimo di ogni vera relazione educativa: tirar su figlioli più grandi di noi. E questo lo percepiamo nelle notti insonni in cui ci ripensiamo insegnanti, genitori, preti, adulti. E nelle gioie intime quando incontriamo i nostri alunni, figli, parrocchiani che crescono con verità (penso ai miei alunni che hanno fondato il “circolo degli ignoranti”, penso a S. tetraplegico e al suo coraggio…).
«Stanotte non potendo dormire per la tosse, ho pensato tutt’ad un tratto che era meraviglioso veder sgorgare dalla mia scuola un virgulto vigoroso e diverso, con tutti i suoi segreti gelosi, con un’infinità di ideali in comune con me e con un infinità di segreti suoi che non spartisce con nessuno, nemmeno col fratello prete babbo che io sono per lui. Che era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già uomo e non ha bisogno di balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. […] La scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: “Povera vecchia, non ti intendi più di nulla!” e la scuola risponde colla rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle»
6. «… su un filo di rasoio»
Nella consegna alla vita da parte di don Milani c’è l’arte delicata di trasmettere agli allievi la passione per cambiare questo nostro mondo, con la consapevolezza che non si può essere falsamente neutrali da parte degli insegnantie indifferenti o chiusi in sterili complicazioni da parte dei giovani. Solo una scuola che fa emergere la vocazione al bene ed educa al coraggio della scelte, anche di disobbedienza, mette le basi perché si costruisca un mondo più giusto e fraterno, in un tempo come il nostro in cui è radicalmente messa in gioco la sopravvivenza dell’umanità.
«La scuola [rispetto ai tribunali] siede tra il passato il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da una lato formare in loro il senso della legalità (e in questo assomiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione) […] In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è obbedirla. Devo solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzioneranno il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate».
«…siamo giunti a quest’assurdo che l’uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L’aviere dell’era atomica riempie il serbatoio dell’apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente. A dar retta a certi teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C’è un solo modo di uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo punto l’umanità potrà dire di avere avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico»
Questo lo si insegna solo restando fedeli al proprio compito ad di là di ogni risultato e consenso.
«Spero di cuore che mi assolverete […] ma non posso fare a meno di dichiararvelo esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato finora […] Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d’ogni religione e d’ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità, almeno ci salveremo l’anima»
Don Milani restò maestro fino alla fine insegnando i nessi profondi della storia e della vita (la cui grandezza – aveva scritto alla madre – «non si misura dalla grandezza del luogo dove si è svolta, ma da tutt’altre cose»). Anche nella malattia e nella prova continuerà a fare scuola (di vita): come Gesù (e a differenza di Socrate) attraverserà il Getsemani, consolato dalla presenza dei suoi allievi:
«Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato dire a Rino: “Il priore non riceve perché sta ascoltando un disco”. Vedo invece che non me ne importa nulla. Volevo anche scrivere sulla porta: “I don’t care più”, ma invece a me care ancora molto, tanto più che la domenica mattina quando avevo deciso di chiudere ogni bottega (scolastica e parrocchiale) Dio m’ha mandato Ferruccio e Enzo e una fila d’altri ragazzi di San Donato come per dire che devo seguitare a amare le creature giorno per giorno come fanno le maestre e le puttane» .
Sabato 24 giugno (due giorni prima della morte) mormorò: «Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza. Un cammello che passa nella cruna di un ago». Lezione magistrale e consegna del senso di una vita totalmente conformata a Colui che «essendo ricco, si è fatto povero perché noi potessimo arricchirci, attraverso questa sua povertà, di tutti i doni della vita divina» (2 Cor 8,9).
Ma nella scrittura del suo testamento aveva incastonato una perla ancora più preziosa:« 1.3.1966, Firenze / Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non ho punti debiti verso di voi, ma solo crediti. Verso l’Eda invece ho solo debiti e nessun credito. Traetene le conseguenze sia sul piano affettivo sia su quello economico. Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo. / Cari gli altri, non vi offendete se non vi ho rammentato. Questo non è un documento importante, è solo un regolamento di conti (le cose che avevo da dire le ho dette da vivo fino a annoiarvi). Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo. / Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi, ma solo crediti. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo.»
Sono parole con cui si compiva un miracolo ancora più grande del ricco Lorenzo che muore poverissimo: con queste ultime parole del testamento aveva tolto a Dio il velo delle nostre invidie. Da Maestro di Vangelo, offerto con la credibilità di chi aveva fatto scuola con l’universalità della laicità, e quindi da vero e proprio Padre della chiesa (e della scuola, aggiungerei) di questo nostro tempo, come lui scherzosamente voleva essere riconosciuto e come merita di essere ripensato.
Lettopalena (Ch), 19 agosto 2006
Maurilio Assenza
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