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Sabato, 07 Agosto 2010 19:18

La partecipazione attiva alla Liturgia

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da: P. ADRIEN NOCENT O.S.B.

 

Nel 1903, di fronte ad una situazione deplorevole del culto invaso dalla musica profana, san Pio X affermava che “la prima ed indispensabile fonte” cui i fedeli attingono il vero spirito cristiano è “la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (Tra le sollecitudini; IPL n. 220).

 

 

Alla fine del secolo scorso si era giunti alla conclusione di un lungo processo di separazione del popolo cristiano dalle celebrazioni liturgiche, considerate di esclusiva spettanza del clero. Il culto rimaneva avvolto in un involucro enigmatico agli occhi dei fedeli, e non aveva alcuna incidenza sulla pietà religiosa che si alimentava ad altre sorgenti.

Dopo gli studi e le iniziative dei promotori del “movimento liturgico”, le chiare affermazioni dei sommi Pontefici, le autorevoli dichiarazioni del Concilio Vaticano 2°, è ormai acquisito il principio che i fedeli “debbano” prendere parte intelligentemente e attivamente alle celebrazioni liturgiche. Questa non è una concessione loro fatta dal clero che benevolmente li ammette in uno spazio a lui riservato; è riconoscimento di un diritto che essi hanno in virtù del Battesimo e della Cresima (C.L. art. 14). La liturgia è “azione sacra di tutta la Chiesa” ed ha come soggetto attivo la comunità stessa dei fedeli, sotto la presidenza e la guida del celebrante, ministro del Cristo e della Chiesa (C.L. art. 26). E’ lecito e doveroso che la comunità, riunita in assemblea di culto, si renda conto di ciò che in essa avviene ed esprima la sua partecipazione in forme esteriori collettive. Lo studio delle varie forme cultuali mostrerà che il popolo cristiano ha sempre avuto il suo posto nelle celebrazioni sacre, e che queste sono state strutturate in modo da offrirgli i modi concreti di partecipazione.

Vediamo a quali condizioni ed in quali modi la partecipazione alla liturgia è veramente consapevole, attiva e fruttuosa (cfr. C.L. art. 11; 14; 19).

 

1. Intelligibilità della liturgia e necessità della fede illuminata

 

La partecipazione ad una attività comune richiede nel singolo la consapevolezza di ciò che si fa, almeno del significato e del valore dell’azione alla quale si dà il proprio consenso e si offre la propria collaborazione. Anche la partecipazione alle azioni liturgiche esige consapevolezza, e perciò intelligenza di ciò che si compie nei riti. Si pone la domanda: è “intelligibile” la liturgia? Dalla definizione conciliare deriva una risposta positiva, poiché l’azione sacerdotale di Cristo e della Chiesa viene “significata”, oltre che realizzata, per mezzo di “segni sensibili”. E’ proprio del segno: avvertire, informare, manifestare... Esso si rivolge, attraverso i sensi, all’intelletto per far conoscere la “realtà significata”. Il documento conciliare afferma espressamente che i fedeli debbono “intendere il mistero di fede (che si compie nella Messa) attraverso i riti e le preghiere” (C.L. art. 48). I riti e le preghiere, segni sensibili, sono le vie per accedere al mistero invisibile.

Il pensatore cristiano che ha più profondamente illustrato il valore dei “segni sacri” nel culto della Chiesa è sant’Agostino. Egli definisce il “sacramentum” (nel senso più largo di ciò che oggi la teologia indica come sacramento) come “segno di una realtà sacra”. Strutturato di gesti e di parole, il segno non trattiene a sé l’attenzione, ma invita l’intelletto a oltrepassare l’involucro sensibile per cogliere la realtà spirituale e divina che esso ha il compito di manifestare e di attuare. Nel segno si vede una cosa, ma se ne intende un’altra (“aliud videtur et aliud intelligitur”). Il segno liturgico ha la funzione di “avvertire” della presenza di una realtà sacra e di “informare” circa questa realtà, annunciandola e, in qualche modo, descrivendola. Così il cero pasquale mentre annuncia ai fedeli che il Cristo risorto è presente alla comunità raccolta per la Veglia pasquale, fa ad essi intendere che dal glorioso Corpo del Signore irraggiano su ciascuno grazie di illuminazione e salvezza. Il segno sacramentale del Battesimo avverte che il battezzando viene fatto cristiano, incorporato alla Chiesa e quindi salvato, ma nello stesso tempo fa intravedere la realtà misteriosa che ivi si compie: purificazione dal peccato e rinascita nello Spirito Santo. Il segno liturgico non è un semplice segnale, è simbolo rappresentativo ed evocativo di realtà divine ed atteggiamenti religiosi. Simbolo che fa corpo con la realtà stessa che manifesta perché, secondo i diversi gradi di efficacia, esso attualizza questa realtà.

E’ ovvio che un segno non viene inteso nel messaggio che reca e non viene rettamente interpretato nella informazione che vuol dare se colui che lo percepisce non è già preparato ad intenderlo e a decifrarlo. Per intendere (dal latino “intelligere” = “intus legere”, leggere dentro) i segni liturgici è necessario essere nella disposizione adeguata: la fede illuminata dall’insegnamento della Chiesa.

La fede è condizione indispensabile per una consapevole partecipazione alla liturgia, perché essa sola riesce a “vedere” il mistero che il segno sacro rivela. Senza la fede una celebrazione sacra rimane del tutto indecifrabile, anche se ne può avere una conoscenza culturale, come si conoscono i costumi folcloristici di un popolo. I grandi vescovi catecheti dei secoli quarto e quinto Ambrogio, Agostino, Giovanni Crisostomo, Cirillo di Gerusalemme) insistevano sulla necessità di guardare i riti sacramentali con “gli occhi della fede”, perché solo essi sanno attraversare l’involucro opaco, e qualche volta deludente, dei segni sensibili scorgere l’azione divina che si compie. Infatti la fede cristiana è riconoscimento dell’azione di Dio nella storia ed accettazione dell’intervento divino nella propria esistenza; solo con la fede si può scorgere nei segni del culto cristiano l’attuale azione del Cristo sacerdotale ed aderirvi con consapevole impegno.

La fede cattolica però non è visione soggettiva ed interpretazione arbitraria dei “segni” in cui Dio si rivela e si comunica. La Parola di Dio ed i riti sacramentali sono affidati alla Chiesa; da lei la fede del singolo cristiano viene illuminata e guidata. Nel suo magistero dottrinale la Chiesa precisa e spiega ciò che essa intende fare nei sacramenti e negli altri riti liturgici; a questo insegnamento, contenuto nei documenti conciliari (specialmente Concilio Tridentino e Vaticano II) , in quelli pontifici (specialmente da san Pio X a Paolo VI) e nelle varie forme della catechesi, il cristiano deve nutrire la sua fede, per partecipare intelligentemente al culto. Ma la parola della Chiesa risuona nella liturgia stessa, poiché nelle formule sacramentali, nelle varie orazioni, con le letture bibliche, si esprime il “verbum fidei”, cioè la parola di fede che dà al segno sacro il suo autentico significato. Il cattolico intelligente deve istruirsi anche a saper intendere questa parola di fede che, in forma più viva ed immediata, lo pone nella azione sacra come attore consapevole ed attivo. Si può prendere parte ad un Battesimo (proprio o altrui) conoscendo ciò che la dottrina cattolica, appresa nel catechismo, dice a proposito di questo sacramento; ma si può anche essere preparati a capire le parole del rito e, da esse, ad intendere il significato dei gesti che si vedono e che si fanno. In questo secondo caso non si ha solo più cultura; vi è un inserimento più consapevole nella azione sacra e quindi una partecipazione più fruttuosa.

Questa partecipazione di fede illuminata alla liturgia richiede qualche cosa di più della spiegazione catechistica della dottrina cattolica sui sacramenti, poiché esige una vera “iniziazione” a saper riconoscere le realtà sacre che i segni liturgici velano e svelano. Questa iniziazione era chiamata dai Padri “mistagogia”, avviamento al mistero divino attraverso i simboli rituali e sacramentali del culto, e deve ormai essere parte indispensabile dell’educazione cristiana.

 

2. Partecipazione attiva: interna ed esterna

 

I segni sacri della liturgia manifestano ed attuano l’azione santificante del Cristo e della Chiesa; in essi si esprime anche l’accettazione e la risposta del singolo fedele nella comunità cultuale. Nel “culto santificante” della Chiesa vi è, oltre al movimento di discesa che dal Padre per il Cristo nello Spirito Santo comunica la grazia alla Chiesa, un movimento di ascesa che dalla Chiesa riunita nello Spirito Santo, in unione con il Cristo e per il Cristo, rende al Padre onore e gloria. Questo movimento, che si attua concretamente in gesti e parole, richiede una interiore partecipazione dei fedeli, con sentimenti religiosi di lode, ringraziamento, adorazione, impetrazione, espiazione..., accordati ai momenti della celebrazione liturgica.

“Tutto il complesso del culto che la Chiesa rende a Dio deve essere interno ed esterno... Ma l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno: è necessario, difatti, vivere sempre nel Cristo, tutto a lui dedicarsi, affinché in lui, con lui e per lui si dia gloria al Padre. La sacra Liturgia richiede che questi due elementi siano intimamente congiunti... Diversamente la religione diventa un formalismo senza fondamento e senza contenuto” (Pio XII, “Mediator Dei”; IPL n. 524)

Per prendere parte attivamente alla liturgia non basta la fede che riconosce il Mistero e vi aderisce; è necessario tutto un complesso di atteggiamenti interiori che dalla fede ricevono orientamento e tono veramente cristiani. L’atto di fede già impegna e muove l’organismo soprannaturale delle virtù teologali, quindi porta ad atti di speranza e di carità. La salvezza che ci viene annunciata e data nei segni liturgico—sacramentali non è ancora definitiva; ma nella liturgia la Chiesa domanda con ferma speranza la gloria eterna e ad essa tende con tutte le sue forze. La liturgia fa risaltare l’amore di Dio nelle opere della salvezza e suscita una risposta di amore, che sommamente si esprime nella partecipazione al sacrificio della Chiesa (C.L. art. 48).

L’atteggiamento religioso fondamentale che la liturgia richiede dal popolo cristiano è indicato, da numerose orazioni, con il termine latino “devotio”. La traduzione italiana “devozione” non ne esprime adeguatamente il senso, perché ha assunto il significato di sentimento di speciale venerazione verso un mistero religioso o una data persona (devozione alla Passione, alla Madonna di Pompei, a sant’Antonio, ecc....). Anche alcune particolari pratiche di pietà hanno preso il nome di “devozioni”. “Devotio” viene dal verbo “devovere” = consacrare, donare se stesso. Indica quindi l’atto religioso fondamentale: della creatura che riconosce la dipendenza radicale da Dio e a lui si sottomette liberamente; del fedele che crede nella volontà di salvezza di Dio e a lui totalmente si affida; del figlio che conosce l’amore del Padre e a lui si dona generosamente. Anche in latino “in senso più stretto devozione è il rivolgersi affettuoso e riverente dell’anima a Dio, con l’amore e il rispetto che riconosce essergli dovuti, e la riverenza stessa, il raccoglimento della mente e dello spirito, la compostezza degli atti che il colloquio con Dio impone” (Dizionario enciclopedico italiano, vol. IV, p. 7).

Come la virtù della religione, la devozione è atto di volontà, impegno e sforzo di compiere ciò che riguarda il culto di Dio, che è vero servizio. La pietà religiosa non si esaurisce nel sentimento e non si ferma alla considerazione intellettuale e compiaciuta della verità. Essa tende all’azione, anche se questo agire rimane a volte solo interiore.

Nelle celebrazioni liturgiche la “devotio” del popolo cristiano si manifesta esternamente in forme concrete: “Per promuovere la partecipazione attiva si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte la salmodia, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo” (C.L. art. 29). I nuovi libri liturgici indicano le parti che sono proprie ai fedeli (art. 31). Ma non si devono misurare l’intensità della partecipazione dalla quantità dell’agire esteriore. Molte volte il popolo cristiano ha solo un Amen per manifestare esternamente la sua partecipazione, che risulta però adesione ad una orazione o ad una azione sacramentale che impegna profondamente la fede e la pietà.

 

3. Culto della comunità ed esigenza della carità fraterna

 

Il culto è gradito a Dio quando è sincero, per cui i gesti corrispondono ai sentimenti interiori, le parole traducono il vero pensiero, la devozione diventa impegno di vita giusta e santa. In continuità con la predicazione profetica nell’Antico Testamento (es. Is. 58,1—9), nel Nuovo Testamento si pone l’accento sulla necessità della carità fraterna come condizione per partecipare al culto cristiano.

Il testo evangelico più significativo è quello di Matteo (5,23 s.): “Se dunque tu stai presentando la tua offerta all’altare, ed ivi ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta lì davanti all’altare, e va prima a riconciliarti col tuo fratello; poi torna e ripresenta la tua offerta”. San Paolo fa notare ai cristiani di Corinto lo stridente contrasto fra la partecipazione alla “mensa del Signore” e la situazione di dissensi e divisioni esistente nella loro comunità (1 Cor. 11,17 ss.). L’unione di carità fra i cristiani deriva dal partecire al medesimo pane (ivi 10,17). Le esortazioni di san Paolo e di san Pietro alla carità fraterna si inscrivono molto spesso in un con testo liturgico.

Questa esigenza di carità si è espressa nel rito dell’abbraccio di pace, che nel secondo secolo si faceva, fra tutti i fedeli, a conclusione della Liturgia della Parola di Dio, prima della celebrazione della Eucaristia. In seguito verrà portato alla “fractio”, prima della Comunione. Un gesto significativo di questa carità ed un inno molto suggestivo (“Ubi charitas”) si trovano nella celebrazione del Giovedì santo.

Una comunità cristiana che partecipa consapevolmente al culto liturgico non può rimanere egoisticamente chiusa in se stessa, ma deve espandersi nella carità verso il prossimo, che è servizio umile e sollecitudine apostolica (C.L. art. 48; C.C. art. 7,10).

 

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