-
Il culto nell’Antico Testamento
L’iniziativa. divina di redimere l’umanità risale a molti secoli prima di Gesù Cristo; l’”avvento” del Salvatore è preceduto, preparato ed annunziato da avvenimenti, persone, comunità di cui i Libri dell’Antico Testamento sono documentazione e frutto. Dalla lettura della Bibbia si rileva una legge quasi costante: ogni intervento rivelatore e liberatore del Signore si conclude con un atto di culto.
Noè, scampato dal diluvio, “eresse un altare al Signore, prese di ogni specie di animali puri e di ogni specie di uccelli puri e li offrì in olocausto sull’altare... Dio benedì Noè e i suoi figli...” (Gen. 8,20 ss.; 9,1).
Abramo, chiamato da Dio ad essere nella sua discendenza il portatore della “promessa”, “eresse un altare al Signore che gli era apparso” (Gen. 12,7; cfr. 12, 8; 13,18; 14,18—20). Il “patto” di Dio con Abramo viene sancito in un rito sacrificale (15,7—20); un rito, la circoncisione, segnerà l’appartenenza alla comunità che beneficia del patto (17,1—14.23—27). La fede di Abramo viene provata da Dio che gli chiede il sacrificio cruento dell’unico figlio cui è legata la realizzazione della promessa; la prova si conclude con un rito sacrificale (22,1—14). Lo stesso fa Giacobbe (28,10—22; 33,20; 35,1—15).
La liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto avviene durante un pasto rituale (Es. cap. 12); la gioia per la salvezza si esprime, sulla spiaggia della libertà, con una danza rituale e un canto di cui Maria è capocoro (15,19—21) il “patto d’alleanza” viene solennemente stabilito in un rito che comporta l’erezione dell’altare con dodici stele l’immolazione di vittime in olocausto, la lettura del Libro del patto, l’aspersione del “sangue del patto”, il banchetto degli Anziani al cospetto di Dio (24,1—11).
Il popolo che Dio si è scelto sarà per il Signore “un regno di sacerdoti, una nazione sacrosanta” (19,6); esso è liberato dall’Egitto e condotto al Monte di Dio, il Sinai, per un atto di culto (cfr. Es. 3,12; 5,1; 8,4). Nel canto di Mosè, dopo il passaggio del Mar Rosso, già si intravede l’attività culturale del popolo santo nel Tempio di Gerusalemme:
“Lo condurrai e lo pianterai sul Monte della tua eredità,
luogo che per la tua sede hai preparato, o Signore;
Santuario che le tue mani, o Signore, hanno fondato” (15,17).
Nella comunità familiare il ricordo della salvezza, dell’elezione, dell’alleanza sarà perpetuato dal rito del banchetto pasquale: “Quel giorno sarà per voi un memoriale, che voi celebrerete come festa solenne al Signore... Voi osserverete tutto questo come statuto perpetuo, per voi e per i vostri figli” (12—14—24). Al figlio minore che domanda spiegazione del rito, il capofamiglia risponde: “E’ il sacrificio di Pasqua per il Signore, quando egli passò oltre le case di Israele, in Egitto, percosse gli Egiziani e risparmiò le nostre case” (12,25—27; cfr. 13,14—16). La comunità d’Israele ha anche feste, in cui il rito ricorda avvenimenti di salvezza, celebrando le opere divine nella certezza che il Signore è attualmente presente al suo popolo, con eguale volontà e potenza di salvezza. Il culto ebraico trae la sua origine dagli interventi salvifici di Dio, ne è solenne e viva commemorazione, ne prolunga la potenza tra le successive generazioni.
Perché destinato al culto, il popolo eletto deve essere santo. Il ritornello delle leggi rituali, specialmente raccolte nel Levitico, è l’ammonimento divino a chi è addetto al culto: “Siate santi perché io sono santo”. Per questo motivo il culto, che avrà il suo centro nel Tempio di Gerusalemme, è sottomesso ad una legislazione sempre più precisa ed esigente. Al pericolo del ritualismo puramente esteriore reagiscono i Profeti, a volte con violenza, affermando che Dio non sa che farsene di feste, sacrifici e riti, quando non v’è fedeltà alla legge, giustizia e carità, purezza interiore e vera pietà.
Nel culto il popolo di Dio viene educato nel ricordo degli avvenimenti del passato, nella fede che il Signore è tuttora presente e potente come nel passato e nella fedeltà all’alleanza chi viene continuamente richiamata nelle sue promesse e nelle sue esigenze, nella speranza che il Signore verrà a compiere nuove e più grandi meraviglie, unendo a Israele liberato gli altri popoli nel culto al vero Dio.
Alla soglia del Nuovo Testamento, quando già il “Verbo si è fatto carne” nel silenzio di Nazaret, Zaccaria esprime le attese più profonde di coloro che si auguravano di vedere la “speranza di Israele”. La “visita del Signore al suo popolo” è redenzione affinché sia concesso a noi:
“sicuri da timore, liberati dalle mani dei nostri nemici
di poterlo servire, nella santità e nella giustizia,
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni” (Lc. 1,74—75).
Giustizia e santità sono le condizioni del vero culto, che è servito di lode a Dio, che ormai sarà compiuto dai veri adoratori del Padre “in spirito e verità” (Giov. 4,23).
2. Il culto nel Nuovo Testamento
Anche il popolo nuovo che nasce dalla nuova Pasqua del Cristo è un popolo sacerdotale, destinato al culto. “Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo acquisito, per proclamare le grandezze di colui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce ammirabile”” (1 Pt. 2,9).Questo popolo di chiamati alla salvezza, per la fede nella Parola divina e per il Battesimo, che ha fatto l’esperienza della divina misericordia, ha come primo compito quello di “proclamare” le grandezza del Dio salvatore; tale “proclamazione” deve intendersi in senso cultuale; lode alla divina Maestà nell’assemblea liturgica del popolo che compie una azione a favore del popolo. Conseguente a questo riconoscimento cultuale della bontà divina vi è l’azione apostolica per annunciare la realtà della fede agli altri uomini.
Questo culto della Chiesa è “in spirito e verità”: cioè nella verità piena dei nuovi rapporti con Dio stabiliti in Cristo Gesù, e perciò supera e abolisce il culto antico che era prefigurativo di questa nuova pienezza; il nuovo culto è quindi “spirituale”, non nel senso che non comporta riti esteriori, ma nel senso che non può essere compiuto che da coloro che sono rinati dallo Spirito Santo e che di questo Spirito, inviato dal Signore, sono vivificati. Il vero Tempio in cui si celebra il culto e nel quale Dio ricerca la sua gloria è una costruzione vivente: la Chiesa, comunità dei redenti in Cristo, comunione dei fedeli nello Spirito Santo. “Voi pure, come pietre vive, costruitevi a guisa di tempio spirituale, per formare un sacerdozio santo, onde offrire vittime spirituali, gradite a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pt., 2,5).
Come nell’Antico Testamento il culto era in dipendenza dagli avvenimenti principali della storia della salvezza, così anche nel Nuovo il culto ha origine e significato in rapporto con quanto il Cristo ha fatto per la redenzione dell’umanità. “Quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo del Vecchio Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata Passione, Risurrezione da morte e gloriosa Ascensione, mistero col quale morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” (C.L. art. 5).
Infatti il rito fondamentale della nuova religione è compiuto e istituito da Gesù alla vigilia del suo “passaggio da questo mondo al Padre” (Giov. 13,1).
Durante il banchetto pasquale ebraico, il Signore celebra un rito, con pane e vino1, che anticipa sacramentalmente l’atto redentore, dandogli il suo pieno significato sacrificale, e lo confida agli apostoli (“Fate questo in memoria di me”) perché in esso si prolunghi la sua presenza ed i suoi effetti nel tempo e nello spazio. L’Eucaristia è quindi un rito commemorativo della Pasqua di Gesù, non solo perché la sua istituzione avvenne in quella circostanza, ma perché là ove essa si celebra veramente si rinnova il “mistero pasquale” del Signore, Cristo Glorioso.
L’ingresso nella comunità religiosa fondata da Gesù avviene con un rito sacramentale, il Battesimo, mediante il quale “gli uomini vengono inseriti nel mistero pasquale di Cristo; con lui morti, sepolti e risuscitati; ricevono lo spirito dei figli adottivi, e diventano quei veri adoratori che il Padre ricerca” C. L. art. 6).
Si comprende l’importanza del culto nella diffusione della religione cristiana. Gli Apostoli sono invitati a predicare il vangelo a tutti gli uomini “non solo perché annunziassero che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte, e trasferiti nel regno del Padre, ma anche perché attuassero, per mezzo del Sacrificio e dei Sacramenti, sui quali s’impernia tutta la vita liturgica, l’opera della salvezza che annunziavano” CC. L. art. 6). Con l’azione liturgica si “attua”, nella comunità dei fedeli, ciò che la parola apostolica annuncia.
La vita delle comunità cristiane, come ci sono presentate negli scritti del Nuovo Testamento, è caratterizzata soprattutto dal nuovo culto (C.L. art. 6): la proclamazione della Parola divina e la risposta nella professione della fede si fanno in assemblee cultuali; si diviene membri della Chiesa per il rito battesimale; la comunità si raccoglie per la preghiera e per prendere parte alla “Cena del Signore”; in queste riunioni ci si esorta a vivere nella fedeltà al Signore e si raccolgono elemosine per l’aiuto alle comunità cristiane bisognose. Gli impegni morali di vita santa scaturiscono dalla partecipazione al culto: la lotta al peccato e alla vita “secondo lo Spirito” sono richieste dal Battesimo; la carità nasce dalla comunione al Corpo e al Sangue di Cristo... Il culto non è quindi qualcosa di accessorio per la Chiesa primitiva; esso costituisce il quadro della sua attività e la fonte della sua vita.
3. La storia della salvezza nel culto
Il culto ebraico ed il culto cristiano hanno la loro origine negli avvenimenti suscitati da Dio per stabilire rapporti con il suo popolo nell’antica e nella nuova Alleanza. Da quegli avvenimenti il culto trae anche il suo significato originale e da essi deriva la sua forza interiore. Nella nuova economia di salvezza, che ha come centro la Pasqua del Cristo, il culto nuovo ha la funzione, insostituibile, di “attuare nella Chiesa l’opera della nostra Redenzione” (Orazione sulle offerte, dom. IX dopo Pent.; cfr. C.L. art. 2). Quindi la storia della salvezza oggi continua nella Chiesa per gli atti sacramentali del culto liturgico.
La storia della salvezza non si chiude con l’Ascensione di Gesù al cielo o con la morte dell’ultimo Apostolo. Il Cristo che, entrando nella gloria, si sottrae all’orizzonte visibile, continua dal cielo la sua opera di Salvatore (Ebr.. 7,24— 25; 9,11—12; 9,24), e misteriosamente2 si rende presente fra i suoi fedeli che ancora vivono nel tempo nei “segni sacramentali” lasciati alla Chiesa (C.L. art. 7). Infatti gli apostoli non hanno ritenuto solo per sé i poteri conferiti loro dal Signore, ma li hanno trasmessi ad altri che continuano la missione di predicare e santificare (cfr. IPL n. 519—520).
La storia della salvezza continua, nella Chiesa, sino all’ultima venuta del Signore nella gloria. A questo incontro la Chiesa anela, ripetendo le parole che chiudono il Libro sacro: “Vieni, Signore Gesù!” (Ap. 22,20). Nella visione di Giovanni la vita dei beati in cielo è descritta in termini liturgici, con le immagini di un culto celebrato con l’Agnello al cospetto del Dio della gloria. Nell’attesa piena di speranza, la Chiesa svolge il suo culto in comunione con questo culto celeste, nella certezza che il Signore è tuttora presente ed operante nelle celebrazioni sacre (C.L. art. 8).
Nella Chiesa e per il singolo cristiano il culto non è attività secondaria ed accessoria, dalla quale si può facilmente prescindere. Per la Chiesa vivente nel tempo il culto sacramentale è garanzia della presenza santificante del suo Capo, è espressione della sua fede e del suo amore, è esercizio della sua interiore religione, è manifestazione a tutto il mondo della sua vera essenza (C.L. art. 2).
Così il cristiano nel culto ha la più concreta forma di appartenenza alla Chiesa e di partecipazione alla sua vita, quindi di rapporto vitale con il suo Redentore. Nel culto del singolo fedele alimenta la sua fede e la professa, viene educato alla preghiera e alla speranza, si purifica dal peccato e si santifica. Veramente il culto è per la Chiesa “”culmine verso cui tende tutta la sua azione e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù” (C.L. art. 10).
Note
-
Il pane sostituisce le 3 Mazzoth, focacce azime, che rappresentano Kohen, Levi, Israel (cioè tutto Israele) nella Cena Pasquale ebraica dell’età sinagogale. Il vino dell’amore e della misericordia sostituisce il III calice, dell’ira di Dio, puree della Cena Pasquale ebraica dell’età sinagogale
-
Mistero = Cosa sensibile che, contiene nascosta in se, ma che è manifesta a chi vi è disponibile, e comunica a chi vi è disposto, una realtà Divina.
Clicca qui per tornare all'INDICE di questo Tema: "Cammino verso l'Eucarestia"