LA PREGHIERA PERSONALE
Non c’è una definizione astratta, una teoria intellettuale della preghiera. Dovrebbero parlarne solo quelli che se ne sono impadroniti e che sono capaci di render conto dell’esperienza che li ha trasformati. San Teofano il Recluso scrive: “Quel che conta nella preghiera, è tenersi davanti a Dio con l’intelletto, e continuare a rimanervi senza interruzione giorno e notte, fino alla fine della vita”.
Tre sono i movimenti essenziali nella preghiera:
- La lode e l’azione di grazia : “Sia santificato il tuo nome”, “Lodate il Signore dall’alto dei cieli”.
- L’offerta: come tu perdoni anche noi perdoniamo.
- La domanda. “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Non dimentichiamo che ci indirizziamo al Padre celeste. Non ad un servo: non dobbiamo inondarlo di domande per fargli correggere la sua creazione nel senso che sembra a noi favorevole. I nostri uffici liturgici ci mostrano che si comincia con la lode, prima di fare un atto di umiltà che a sua volta si collegherà a un ringraziamento per i benefici ricevuti, prima di concludersi con le domande.
La preparazione
“Credo che non c’è cosa più faticosa dell’orazione. Quando l’uomo vuole pregare, allora i suoi nemici, i demoni, cercano di impedirglielo” (Apoftegmi). La decisione di mettersi in stato di preghiera deve talvolta -non sempre! - essere conquistata con una grande lotta contro gli spiriti cattivi che si mettono di traverso per distogliercene. I maestri spirituali dicono: se non senti l’ispirazione, né alcun calore, né alcun desiderio di pregare , “fa come se”, persevera egualmente. Per nuotare bisogna gettarsi nell’acqua. Così bisogna gettarsi nella preghiera.
Sulla prima pagina di un libro di preghiere si legge: resta un momento in silenzio, poi pronuncia le parole. Bisogna mettere un po’ di ordine nel caos della nostra anima prima di rivolgerci a Dio.
Le litanie cominciano così: “In pace, preghiamo il Signore”. È un altro invito a pacificare gli slanci disordinati del cuore, il ribollimento dei pensieri, a stabilirsi nella pace di Dio, che non è la pace che il mondo ci può dare. La pace di cui parliamo non assomiglia affatto alla quiete pietista e sentimentale, al ripiegamento su di sé, alla immobilità dell’anima. Deve essere sempre aperta all’azione, specialmente al perdono che siamo invitati a chiedere prima di presentare la nostra offerta di preghiera, verso coloro che ci affliggono o che noi possiamo aver addolorato.”Acquista la pace interiore e folle di uomini attorno a te saranno salvate”: questa pace è un’azione efficace, che s’irradia molto al di là di colui che ne ha ricevuto la grazia.
I momenti della preghiera
Al mattino si è come un esploratore che sta per entrare in un paese sconosciuto e ignora quali incontri, felici o terribili, vi farà. Bisogna quindi pacificare il cuore, renderlo attento a ogni eventualità, armarlo di pazienza e di amore. Coloro che hanno appuntamenti apriranno la loro agenda e pregheranno per i prossimi incontri. Bisogna preparare la nostra fede a resistere alle prove.
I momenti di intervallo, siano pure di uno o due minuti, permettono di volgere l’anima verso l’Altissimo, di elevarla al di sopra delle occupazioni, per quanto necessarie siano. È bene pacificare così lo “stress” della giornata, prendere qualche distanza dalle “preoccupazioni di questo mondo”. Ci sono momenti in cui siamo tesi nella lotta per la vita, e altri in cui ci rilassiamo in un abbandono fiducioso sotto lo sguardo d’amore che si posa su di noi.
Alla sera si può rendere grazie per il giorno trascorso, fare un rapido bilancio con un esame di coscienza, in cui si domanda perdono per tutte le offese commesse o subite. È bene affidare alla misericordia divina i vivi e i defunti, prima di entrare nella notte che evoca una poco un’immagine della morte, quando perdiamo la nostra volontà cosciente.
Cerchiamo di penetrare nel nostro stato d’animo: non si prega allo stesso modo al mattino e alla sera, nel tempo di Natale o in quello della Passione. Il calendario dei giorni e delle feste dell’anno ci permette di associarci spiritualmente, di adattare il nostro essere interiore alla preghiera della Chiesa, alla quale contribuiamo nel segreto della nostra camera. In questo senso non si prega mai soli, ma sempre nella Chiesa.
Vi sono monaci che hanno ricevuto la vera grazia della preghiera continua. Per un cristiano immerso nella vita cittadina, il precetto evangelico di “pregare senza interruzione”, più che un’attività di orazione, sarà uno stato spirituale, una esistenza guidata dal sentimento di una presenza amante, fedele. Al tempo in cui i signori portavano il cappello, fu chiesto a un uomo perché camminasse a testa scoperta: “Perché sento in permanenza la presenza del Cristo al mio fianco”.
Il luogo della preghiera
“Entra nella tua camera, chiudi la porta, e prega il Padre tuo che è nel segreto, e il Padre che vede nel segreto te lo renderà (Mt 6,6). Questa camera è insieme un luogo particolare, lontano dalla folla, dal chiasso, dall’agitazione e, simbolicamente, il luogo del cuore nel quale ci si può sempre ritirare anche in mezzo alle trepidazioni della vita moderna. Le condizioni di vita nei piccoli appartamenti possono rendere difficile di stabilirsi in un luogo di pace, lontano dalla televisione e dalle chiacchiere. Se il Padre vuole incontrarci, saprà farci trovare le “camere segrete” adatte.
“Verso il mattino, mentre era ancora buio, Gesù si alzò e uscì per recarsi in un luogo deserto, ove pregava” (Mc 1,35). Gesù ci ha dato mirabili esempi di preghiera: la “preghiera sacerdotale” (Gv 17), la preghiera nella notte di angoscia nelle Getsemani. Come uomo, Gesù ha il desiderio di pregare, di entrare ogni volta in quella comunità di amore che è la Trinità. Come la camera in Matteo, il deserto è un luogo interiorizzato di silenzio, di concentrazione, di comunione della terra con il cielo. Bisogna imparare a fare silenzio; se “chiacchieriamo” continuamente nella preghiera, come potremmo “udire” quello che Dio ci vuol dire? Le chiacchiere dissipano, il silenzio raccoglie l’anima: “Preferisco dire cinque parole con intelligenza, che diecimila parole in lingue”, dice san Paolo (I Cor 14,19). Si può conservare questo silenzio in mezzo alla folla, nella sala di attesa di un medico, in un autobus o in una vettura della metropolitana: chi dice che le parole di intercessione per un tale ambiente non andranno a consolare qualcuno che è malato, che è stato abbandonato da una persona amata, o che è stretto nella disperazione?
L’importanza del corpo
L’ortodossia ha molta cura nell’evitare ogni dissociazione fra la carne e lo spirito, fra il carnale e lo spirituale. Il disprezzo del corporale a vantaggio del solo spirito risale a Platone, passa per Cartesio, il giansenismo, il puritanesimo. Assumendo un corpo di uomo Dio stesso ci dimostra che la carne non ha in sé nulla di disprezzabile, senza di essa lo spirito non potrebbe esprimersi, essa è un aiuto e una collaboratrice della preghiera.
Nel mettersi in preghiera occorre vegliare a distendere il corpo, a che nessun muscolo sia contratto. La minima contrazione muscolare può avere ripercussioni nella concentrazione dello spirito. Gli ortodossi amano pregare in piedi, in un atteggiamento di venerazione di fronte al trascendente (Parusia). Naturalmente si può benissimo pregare seduti: sarà forse un atteggiamento di ascolto; in ginocchio, in un momento di supplica; o anche distesi, per esempio per quelli che sono stanchi o ammalati. San Paolo in prigione pregava disteso con le catene ai piedi; il ladrone nella posizione di crocifisso. Non si prega con lo stesso stato d’animo quando si ha un dolore di denti o quando è appena arrivata una bella notizia! Nella preghiera dobbiamo rimanere svegli, in una disponibilità di spirito, e fare attenzione che la distensione e l’immobilità non ci portino verso il torpore e il sonno.
A intervalli ripetuti ci piace fare un segno di croce e così invocare la santissima Trinità. Il gesto non deve mai essere macchinale, ma ampio e tranquillo. E’ un segno di benedizione. Una madre lo farà volentieri sul suo bambino che dorme, invocando la presenza del suo Angelo custode. Noi ci benediciamo a vicenda quando, dopo essere stati un momento in silenzio, ci disponiamo a partire per un viaggio.
Sant’Ignazio (Briantchaninoff) scrive: “Lo stesso corpo si volge verso la preghiera. I sensi corporei rimangono inattivi: gli occhi guardano, ma non vedono, le orecchie sentono, ma nello stesso tempo non sentono. Allora tutto l’uomo è preso dalla preghiera, ma le sue mani, i suoi piedi e le sue dita partecipano in un modo reale e percepibile alla preghiera e sono ricolme di una forza che la parola umana non potrebbe spiegare”. Allora si produce l’unione dell’intelletto, dell’anima e del corpo.
La preghiera come la lotta
Una lotta contro i pensieri, i sentimenti, i desideri, le preoccupazioni, le attese, i rapporti con il prossimo, insomma il film interiore, segno di un inconscio sempre attivo, persino durante il sonno durante il quale esso si proietta nei sogni. I complessi psichici possono sommergerci in occasione di una forte tensione, collera, prova, perdita di una persona amata, o al contrario in periodi di esaltazione, di gioia traboccante. La lotta della preghiera non consiste nel sopprimere questo lavorio dell’inconscio, sarebbe impossibile, ma nel calmarlo, nel canalizzarlo, orientandolo su un piano superiore, quello della relazione con Dio. E’ un’arte difficile ed esige talora, come dice San Giovanni Climaco, di “frantumare i pensieri”. Noi viviamo sotto l’influenza dei nostri pensieri: se essi stessi sono tristi, o addirittura morbosi, segnati dal peccato, il nostro essere interiore si oscurerà, si deprimerà. Nel caso contrario, quando i pensieri si impregnano della dolcezza di Dio, della forza dell’umiltà, saranno fonte di luce per l’anima. Per mettere pace in questo ribollire, alcuni non esitano a fare un ritiro in un monastero e ricevervi forse una parola pacificante da uno starets.
La lotta contro i pensieri consiste nel concentrare tranquillamente l’attenzione sulle parole, senza aspettarsi nulla in cambio, senza provocare in sè un qualsiasi stato psichico. Se l’attenzione se ne va, bisogna ricondurla al suo punto di partenza e non esitare a ripetere una preghiera due, tre volte, dieci volte se occorre, fino a che lo spirito di colui che prega resti padrone del campo.
In una forte corrente della spiritualità occidentale, specialmente in quella derivata da Sant’Ignazio di Loyola, si invita a visualizzare mentalmente delle scene, dei personaggi del Vangelo, di metterli in movimento. In Oriente, seguendo specialmente Evagrio il Pontico, si invita a fare il vuoto interiore, a non raffigurarsi nulla: “Poiché aspiri a vedere il volto del Padre che è nei cieli, non cercare per nulla al mondo di percepire una forma o un volto durante l’orazione”. Questa divergenza potrebbe spiegarsi con la differenza di temperamenti. L’occidentale che ha lo spirito più razionale e rivolto verso le realtà concrete di questo mondo avrebbe bisogno di essere stimolato per entrare nel campo delle realtà spirituali; al contrario l’orientale avrebbe una tendenza troppo grande a muoversi nelle sue visioni interiori di cui dovrebbe piuttosto frenare l’esuberanza.
Come che sia occorre prima di tutto evitare gli automatismi nella preghiera, le parole dette automaticamente, talora pensando ad altra cosa. Non dobbiamo aspettarci nulla dalla preghiera, nessun calore particolare, perché tutto viene dalla grazia di Dio, e nello stesso tempo non dovremmo uscire dallo stato di preghiera senza avere la sensazione che qualche cosa è successa, che un incontro c’è stato, che una vibrazione si è prodotta. Per san Giovanni Climaco si esce dalla preghiera come da una “fornace ardente”.
Sia fatta la tua volontà
È una parola della preghiera tra le più difficili da discernere e da applicare. Il pronome “nostro” davanti a “Padre” mostra che ci rivolgiamo a lui insieme agli altri, in seno a una comunità. Volgendoci verso di lui possiamo sentire in lui la fonte di ogni amore, compassione, benevolenza, e comprendiamo che non possiamo pronunciare la parola “Padre” se non è stato cancellato in noi ogni odio, ogni violenza, ogni gelosia. Non si prega il Padre se non è in Cristo, poiché è lui che ci ha mostrato il Padre e ci conduce verso di lui. E dallo Spirito santo ci è data la forza di pronunciare il nome che è al di sopra di ogni altro nome, quello del Signore. Tutti e due, il Cristo e lo Spirito santo, ci conducono verso il Padre.
Quando sentiamo che la volontà di Dio si compie effettivamente in noi, un sentimento di armonia e di equilibrio si impadronisce di noi. Tutti abbiamo bisogno infatti di essere riconosciuti e in qualche modo giustificati. Ma un problema si pone: se ci giustifichiamo da soli non agiamo come il fariseo, così fiero del suo buon diritto? Ma se non ci sentiamo in nessun modo giustificati non rischiamo di cadere nella tristezza, o anche nella depressione o nell’accidia? E’ bene talvolta chiedere consiglio al confessore per conservare un buon equilibrio.
Solo con se stesse certe persone si annoiano, e non c’è da meravigliarsi se anche gli altri si annoiano in loro compagnia. Quando ci si trova accanto a uno spirituale pacificato, che vive continuamente alla presenza di Dio, non ci si annoia mai. Talvolta basta stare accanto a lui senza dire una parola in un silenzio pieno di una presenza.
Il Cristo è passato attraverso le difficoltà del compimento della volontà del Padre: “Allontana da me questo calice”, ma si riprende subito: “Non la mia volontà, ma la tua volontà si faccia!”: Anche qui il Cristo è il maestro della nostra preghiera, capace di superare la più profonda derelizione con un atto di fede.
“Non basta possedere la preghiera dobbiamo diventare preghiera incarnata. Non basta avere dei tempi di preghiera: ogni atto, ogni gesto, persino un sorriso, deve diventare un inno di adorazione, un’offerta, una preghiera. Dobbiamo offrire non ciò che abbiamo, ma ciò che siamo(Paul Evdokimov, Sacrement de l’hamour)
Père Michel Evdokimo
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