Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La Madre di Dio
nella celebrazione
della Grande Settimana bizantina

P. Ermanno M. Toniolo, o.s.m.

 

Premessa

1. Anche se questa sera non siamo in un contesto liturgico, il solo capace di introdurci a comprendere la presenza di Maria nella Settimana Santa bizantina, ci poniamo tuttavia spiritualmente nel cuore delle celebrazioni, come si svolgono nelle chiese: celebrazioni fatte innanzitutto di ambiente sacro, attorno all'altare e agli altri segni visibili della invisibile Presenza; fatte di icone, che trasmettono incessantemente i loro molteplici messaggi convergenti al Messaggio, che è Cristo; celebrazioni fatte di testi, di riti, di gesti, di canti, che ripresentano il Signore tanto nella sua veste visibile, che può essere percepita dai sensi sotto i veli della Parola e del Sacramento (o di altri segni, come la croce, l'epitaffio, ecc.), ma soprattutto lo ripresentano nella sua realtà divina, fonte di Luce, di Spirito Santo e di vita, raggiungibili solo attraverso le vie della conoscenza spirituale.

Attorno al suo mistero celebrato nell'oggi della comunità che lo celebra, gravitano tutti gli esseri creati, celesti e terrestri, angeli, uomini e creature, anche i demoni, conculcati e spodestati dalla sua umile e onnipotente signoria.

La liturgia bizantina, in modo privilegiato rispetto alla liturgia occidentale, si presenta come una immensa mistagogia: un entrare cioè progressivamente delle creature nel mistero conosciuto, attualizzato, sperimentato; mistagogia della quale il vero mistagogo è Cristo col suo Spirito, mentre tutti gli altri, anche Maria, vi sono da lui introdotti, ciascuno a suo modo e secondo il proprio ruolo.

2. La Pasqua o meglio il Mistero Pasquale, da tutte le chiese e da sempre è stato ritenuto e celebrato come il vertice della rivelazione, il culmine dell'esperienza conoscitiva e mistica, sia comunitaria che personale: la Pasqua del Signore è Pasqua dei fedeli, che rinascono a Pasqua dal fonte battesimale: sono cioè illuminati dal Cristo morto e risorto, immersi nel suo mistero di morte e di Vita.

Si capisce l'importanza vitale della Pasqua, e come essa venga celebrata solennissimamente nell'anno liturgico, fin dall'antichità, con una quaresima di preparazione e cinquanta giorni di festa; come venga settimanalmente celebrata nella pasqua ebdomadaria, la domenica; e come caratterizzi la santificazione delle ore del giorno, specialmente la preghiera della sera (lucernario e vespri a Cristo, luce che non tramonta) e la preghiera del mattino (Cristo, sole di risurrezione e di vita).

3. Evidenziare dunque la presenza di Maria nella Settimana Santa è coglierne il significato più pregnante: la sua maternità protesa alla Pasqua, la sua figura come modello ecclesiale nel cuore stesso del mistero di Cristo, cioè al vertice della rivelazione del mistero salvifico di Dio.

Questo lo fa molto relativamente la liturgia occidentale, anche nella sua forma restaurata dopo il Concilio Vaticano II; lo fa invece, in modo singolare, la liturgia bizantina.

 

 

La Settimana Santa bizantina: prima parte

1. Dal sabato di Lazzaro al Giovedì Santo

La Grande Settimana comincia con il Sabato che precede la domenica delle Palme, dedicato alla risurrezione di Lazzaro: è il "Sabato di Lazzaro". La Settimana Santa si trova così fra due Sabati, che celebrano rispettivamente due risurrezioni, una relativa all'altra: quella di Lazzaro, quella di Cristo (non dimentichiamo che l'annuncio della risurrezione in rito bizantino si fa ancora il Sabato Santo mattina, come fino a poco tempo fa si faceva anche nel rito latino). Fino a questo giorno la liturgia era intrisa del senso del peccato e della conversione; ora entra già nella prospettiva della morte e della risurrezione.

La Domenica delle Palme celebra Gesù che entra in Gerusalemme come Re messianico e Sposo, accompagnato da fanciulli innocenti e da folle umili di popolo, che raffigurano il resto fedele di Israele di cui parlano i profeti: questo Israele, infatti, è come la sposa casta che accoglie il suo Re e Sposo, lo riconosce nella luce dello Spirito, lo acclama e lo confessa, quale Egli è, pur nella veste povera della sua umanità: egli infatti viene come agnello per essere immolato per il riscatto di tutti.

Sul tema comune di Cristo-Sposo, delle nozze di Dio con l'umanità redenta, dell'accoglienza o del rifiuto della redenzione, si articolano i temi dei primi tre giorni della Settimana Santa: il lunedì ha come tema congiunto la figura del patriarca Giuseppe ebreo venduto dai fratelli e il fico maledetto da Gesù, simbolo dell'Israele infedele, che non ha accolto il dono di Dio; il martedì ha per tema la parabola delle dieci vergini che attendono - vigilanti o meno - lo Sposo che viene; il mercoledì commemora la donna - una donna "peccatrice", sottolinea la liturgia - che unse il Signore con il miron: ma è Gesù il Mironeffuso, lo Sposo celebrato dal Cantico dei cantici, venuto a lavare la Sposa - l'intera umanità - nel suo sangue. In questo mercoledì inizia la presenza oscura di Giuda: mentre la peccatrice è il tipo degli uomini che confessando il peccato ricevono il perdono di Dio, Giuda è il tipo di chi non capisce e non accoglie: la donna viene trasfigurata dal perdono, egli resta imprigionato nella sua passione, accecato dal denaro:

"Giuda, il falso,
preso da amore per il denaro,
medita di tradire con inganno te, o Signore,
che sei il Tesoro della vita" (I, p. 177)

Si chiude così la prima parte della Settimana Santa, e si entra nel Triduo sacro.

 

 

2. La presenza di Maria nella prima parte della Settimana Santa.

Potremmo dire che è una presenza sfumata: fa parte dei contesti oranti di tutto l'anno liturgico bizantino. Ma qui, la sua figura di Vergine-Madre mentre il Figlio, lo Sposo dell'umanità, sta per entrare nella sua passione, si carica inevitabilmente di pathos: perché in lei egli ha sposato questa umanità, nascendo; e perché per mezzo di lei noi tutti, peccatori, speriamo il perdono.

Ecco due testi, fra i non molti presenti nell'ufficiatura. Il primo è di Andrea di Creta (+740):

"Dimora santa di Dio,
ti sei rivelata, o Vergine,
in te infatti il Re dei cieli ha abitato corporalmente,
e da te è uscito, bello,
dopo aver riplasmato in sé,
divinamente, l'uomo".

Il secondo è del monaco Cosma di Maiuma (+751):

"O Tuttapura,
che con il Figlio tuo hai confidenza di Madre,
non trascurare la cura di noi della tua stirpe,
perché te sola presentiamo al Signore,
noi cristiani, come offerta gradita".

 

 

La Settimana Santa bizantina: il Triduo Sacro

Con l'immagine soavissima del Signore, Pane celeste e divino che nutre l'universo, e in controluce, con l'immagine di Giuda, il traditore, che medita di vendere l'Inapprezzabile, la liturgia bizantina introduce i fedeli nel Triduo sacro.

È il Theotokion di Compieta che, in certo modo, fa da ponte alle precedenti celebrazioni incentrate su Cristo Sposo, e alle seguenti, che commemorano la sua Passione. Così canta l'ultimo tropario del Grande Mercoledì:

"Tu sola ti sei rivelata
Talamo celeste e Sposa sempre vergine,
portando nel tuo seno Dio
e generandolo incarnato da te senza mutamento.
Perciò ti esaltano tutte le generazioni,
con fede ortodossa,
come Sposa e Madre di Dio".
 

 

1. Il Grande Giovedì

"I Padri divini, che hanno disposto bene ogni cosa, avendo ricevuto questa tradizione dai divini apostoli e dai santi evangeli, ci hanno tramandato di celebrare in questo giorno quattro misteri: il santo Lavacro, la mistica Cena (cioè la consegna dei nostri tremendi Misteri), la Preghiera di Gesù e il Tradimento". Così dice la memoria liturgica.

Il tema principale del Giovedì Santo è la Lavanda dei piedi ("il santo Lavacro") e la Cena. La Lavanda prefigura il lavacro battesimale: ne sono "illuminati" gli apostoli tutti, ad eccezione di Giuda, che invece si ottenebra sempre più, fino a non comprendere ormai nulla del suo Signore, né parole né gesti. La Cena è il Banchetto della comunione: della conoscenza innanzitutto del Mistero eucaristico, e della comunione col Signore della gloria, che trasfigura l'uomo. È qui, in apertura dell'Ufficio mattutino, che si ritrova l'unico accenno a Maria, ma immensamente significativo, nel canone di Andrea di Creta.

"La Sapienza infinita di Dio,
causa universale, elargitrice di vita,
si è fabbricata la casa
dalla Madre pura ignara d'uomo.
Rivestito infatti del tempio del suo corpo,
gloriosamente si è coperto di gloria
il Cristo, Dio nostro!".

È il Banchetto della Sapienza divina, che Gesù imbandisce donando il suo Corpo e il suo Sangue e convocando gli amici: è il Banchetto sacramentale e sapienziale: Maria è alla radice, Madre pura, ignara d'uomo, di quel purissimo Corpo e di quel Sangue divino. Chi se ne ciba con vera fede, è introdotto ai Misteri tremendi, al segreto di Dio.

 

 

2. Venerdì Santo

"Oggi si celebra la memoria della santa, salvifica e tremenda passione del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo... e inoltre anche la confessione salvifica sulla croce del ladro riconoscente crocifisso con lui". Così il Sinassario. Da una parte, si staglia potente la luce della Croce; dall'altra, il ladro che si confessa peccatore e che riconosce in Cristo crocifisso il Signore del Regno:

"Ricordati di me!". In filigrana, l'immagine tortuosa di Giuda, che non volle comprendere: i testi liturgici ripetono, quasi come un ritornello: "Ma l'empio Giuda non volle comprendere!".- Perché?

"Oggi Giuda abbandona il Maestro
e assume il diavolo;
è accecato dalla passione del danaro
e cade fuori della luce, ottenebrato...".

La Croce di Cristo, che per amore si è fatto povero ("il Povero" del salmo 40), povero fino a morire nudo sulla croce, per arricchirci con la sua povertà, non è soltanto il segno di contraddizione predetto da Simeone: è luce per chi l'accoglie, tenebra per chi la rifiuta. Il ladro pentito ne è illuminato, ed entra nel Regno; Giuda all'opposto scende nella morte.

Ma è proprio in questo contesto che s'innalza al sommo la figura di Maria. Nel cuore dell'Ufficio mattutino (l'orthros) viene cantato il proemio e la prima stanza del celebre kontakion di Romano il Melode su Maria al Calvario: il proemio verrà poi ripetuto in tutte le ore diurne. Suona così:

"Venite, esaltiamo tutti
Colui che per noi è stato crocifisso!
Maria lo vide sul legno, e diceva:
Anche se patisci la Croce,
tu sei il mio Figlio e mio Dio!".

Più del ladro, del ladro teologo, che riconosce in Cristo il Re del regno, Maria è giunta al vertice della conoscenza mistica. Si è trattato anche per lei di un lungo e verginale cammino di fede: tutto il kontakion di Romano il Melode mette in luce questo suo progressivo penetrare nelle profondità, inaccessibili alla ragione, della kenosi suprema di Cristo, dell'ultimo abbassamento della sua infinita condiscendenza per salvare l'uomo:

"Vedendo il proprio Agnello condotto al macello,
Maria, l'Agnella, lo seguiva
con le altre donne, consumata dal dolore,
e diceva così: Dove vai, Figlio?
Forse ci sono altre nozze a Cana
e là ora ti affretti per fare di nuovo il vino dall'acqua?
Vengo con te, Figlio?
O meglio, rimango con te?
Dimmi una parola, o Parola,
non passare accanto a me in silenzio, tu che mi hai serbata pura,
perché tu sei il mio Figlio e mio Dio!".

La Settimana Santa contempla spesso la sofferenza di Maria ai piedi della croce. Il titolo "Agnella", che è attribuito a Maria, è un titolo antichissimo. Lo ritroviamo per la prima volta nella Omelia sulla Pasqua di Melitone di Sardi, il quale così descrive Cristo Agnello immolato:

"E' lui, che in una Vergine s'incarnò,
che sul legno fu sospeso,
che in terra fu sepolto
che dai morti fu risuscitato,
che alle altezze dei cieli fu elevato.
E' lui l'Agnello muto,
è lui l'Agnello sgozzato,
è lui che nacque da Maria, l'Agnella pura..."

Ora, secondo l'Esodo l'agnello pasquale doveva essere senza macchia. Tale è Cristo, l'Innocente, l'Immacolato. Ma anche Maria è detta Agnella, e non solo con riferimento pasquale, come se soltanto la sua maternità sia orientata all'immolazione pasquale; è detta Agnella, in simmetria con l'Agnello, anche per la sua purezza, la sua verginale immacolata bellezza. I libri liturgici sono attenti ad indicare la purezza dell'Agnella. Al momento della sua presentazione al tempio era già l'Agnella senza macchia, la pura colomba. A Natale ugualmente si canta l'Agnella senza macchia che sta per dare alla luce l'Agnello: perché l'Agnello nasce per essere immolato. Ma è soprattutto sul Golgota che l'Agnella senza macchia viene cantata con una insistenza sorprendente. Agnella immacolata, immacolatissima Agnella (Panamòmetos): son titoli che attirano l'attenzione sull'ineffabile purezza della Vergine: Agnella vittima che si unisce al suo Agnello immacolato per portare con lui il peccato del mondo. Più la Vittima è pura, più si accosta a Dio; più è accetta, più collabora alla Redenzione. Un tropario delle lodi del Venerdì Santo, mette in risalto questa sua partecipazione alla sofferenza del Figlio:

"Oggi la Vergine immacolata,
vedendoti innalzato sulla croce, o Verbo,
soffriva nelle sue viscere di madre,
aveva il cuore trafitto amaramente,
e, gemendo con dolore dalle profondità dell'anima,
si lacerava le guance, si strappava i capelli,
consunta dalla sofferenza.
Perciò, battendosi il petto, esclamava flebilmente:
Ahimè Figlio divino, ahimè Luce del mondo!
Perché sei tramontato ai miei occhi,
o Agnello di Dio?" (II, pag.90).

Accanto al Signore che volontariamente si immola, il solo Santo, l'Immacolato per natura, può stare la Madre, e; in gradini più bassi, il vergine Giovanni, le donne perdonate dai loro peccati e ora fedeli. Quando Gesù dall'alto della croce vide il supremo dolore della Madre, contemplò anche questa meravigliosa purezza che aveva ammirato prima della creazione del mondo. Mai come in questo momento la Madre sua era paragonabile ad un giglio tra le spine. Maria è la tutta pura.

Perciò è la sola che possa stare sempre accanto al Figlio; la sola che possa con libertà parlargli di noi, come afferma esplicitamente un altro tropario di questo Grande Venerdì:

"Poiché non abbiamo parrisia
per i molti nostri peccati,
o Madre di Dio Vergine,
supplica tu il Nato da te...
Non sdegnare le suppliche dei peccatori,
o Tuttasanta,
perché è misericordioso e potente nel salvare
lui che ha accettato anche di patire per noi".

Ma quando il Figlio della Tuttapura è steso sul legno, la sua contemplazione è inchiodata alla croce, senza staccarsene: vede, guarda, contempla. L'ultimo grado della conoscenza spirituale quaggiù, che necessariamente diventa comunione e fusione, è l'annientamento del Figlio-Dio, fino ad essere brutalmente legato, schiaffeggiato, flagellato, coronato, sputato in faccia, condannato e ucciso: e tutto questo, solo perché egli lo vuole! L'Agnella contempla il Figlio, l'Agnello, così umanamente sfigurato: lo contempla immolato, ingiustamente condannato, percosso, inchiodato, crocifisso, morto... I riferimenti a Cristo in croce sono innumerevoli. Il tropario delle lodi del Venerdì della Passione si rivolge alla Madre:

"Vedendoti appeso al legno, o Cristo,
te, il Creatore di tutte le cose e Dio,
Colei che senza seme ti aveva generato,
diceva amaramente: Figlio mio,
dove è scomparsa la bellezza del tuo volto?
Non posso vederti iniquamente crocifisso" (II, pag. 91).

Si potrebbe dire che tutta l'attenzione di Maria è centrata su di Lui che muore in croce. Più che la dolorosa passione, è la sua morte che Lei medita; e questa contemplazione di dolore la fa partecipare al suo sacrificio. Maria, Agnella pura, intrisa di dolorosa passione, "vede" Gesù, nella sua misteriosa indecifrabile natura divina nascosta sotto il velo di carne, ora sfigurato e confitto alla croce: vede, contempla, crede. Nonostante Cristo muoia sulla croce, Maria crede in Lui, crede che Lui è Dio. Ha percorso anche lei il suo cammino di fede, e cioè di conoscenza progressiva del Mistero che ora le si rivela in tutta la sua cruda e onnipotente realtà: le stanze del kontakion di Romano, a partire dalla prima che viene cantata il Venerdì Santo, lo mostrano in modo inequivocabile: anche lei, superando lo stupore proprio di ogni creatura davanti alle manifestazioni divine, è stata introdotta nel Mistero: ieri l'angelo l'aveva introdotta nel Mistero dell'incarnazione, oggi è il Figlio che la introduce nel mistero della sua Passione, con la quale liberamente vuol salvare l'uomo.

Proprio per questo l'Ufficio del Venerdì Santo ripete come ritornello anche nelle Grandi Ore il proemio di Romano il Melode, quasi aggrappandosi alla statura della Madre-Vergine, icona dell'itinerario di fede e del vertice umano della contemplazione:

"Maria lo vide sul legno e diceva:
anche se sopporti la croce,
tu sei il mio Figlio e mio Dio!" (II, pag. 101).

 

 

3. Il Grande Sabato

Scrive Costantino Andronikov:

"Liturgicamente, il sabato introduce alla domenica; il Grande Sabato, alla domenica di Pasqua. Metafisicamente, ma anche esistenzialmente, il mistero del Sabato si rivela nell'Ottavo Giorno del Signore. Tutto è compiuto e tutto è in germe. La condiscendenza vertiginosa del Figlio di Dio raggiunge il punto estremo della sua curva. Si sta abbozzando la risalita sfolgorante. La Kènosi è giunta al suo termine; la glorificazione è già intrapresa. La notte si chiude nel riposo; sta per spuntare il giorno senza tramonto. Il fondo dell'abisso assoluto dell'abbandono, perfino da parte del Padre, nella solitudine mortale, è stato raggiunto. Sta per cominciare l'ascensione del Re dell'universo con la sua Chiesa nascente, nella pienezza trinitaria. Tutti gli uomini, vivi o morti, possono fin d'ora stringere la mano che li aveva all'inizio formati dal nulla e che li innalza verso la vita eterna. Tutti gli uomini possono ormai rispondere alla chiamata della Parola incarnata che li ha fatti a sua immagine e che ha condiviso la loro sorte fino al sepolcro, tutti, a partire dal primo che conteneva l'umanità in germe: il Cristo è andato a cercare Adamo in capo al mondo e "lo ha trovato sotto terra" (prima stanza). Il Vivente afferra il morto. La salvezza si apre".

Il tema liturgico del Sabato Santo è così indicato dal Sinassario:

"Oggi si celebra la sepoltura del Corpo divino e la discesa agli inferi del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Per questi misteri il genere umano è stato richiamato dalla corruzione alla vita eterna".

L'azione liturgica più singolare, che avvolge di profondo significato mistagogico e di intima commozione i fedeli, è il rito dell'epitaphion. Così Maria Bianco descrive il termine epitaphion e il rito del Sabato Santo:

"Epitafion. In greco classico con questo termine si intende soprattutto l'elogio funebre; ma nella lingua liturgica più abitualmente significa il velo ricamato che rappresenta il corpo del Signore nell'atto della sua sepoltura. Esso è oggetto di specialissima venerazione il venerdì e il sabato santo. Tutto l'anno questo velo è onorevolmente custodito in Chiesa, in un quadro, assieme alle sante icone; ma il venerdì santo è deposto sull'altare e su di esso si appoggia il libro dei santi evangeli. Poi a Vespro, al canto dell'Apolitikion Il nobile Giuseppe, l'epitafion è solennemente riposto in un'arca, figura del santo Sepolcro, tutta ricoperta di fiori e di profumi. Là tutto il popolo accorre a rendergli omaggio. Ci si prostra due volte fino a terra, facendosi il segno di croce, si bacia il Vangelo e l'immagine di Cristo impressa sul velo, poi di nuovo ci si prostra fino a terra, segnandosi. C'è pure l'abitudine di dare ai fedeli, in segno di benedizione, qualche fiore che abbia toccato la santa immagine. Davanti a quest'arca il sabato santo si cantano gli enkomia, in persona delle sante mirofore; l'epitafion nella sua arca è portato in processione fuori del tempio al canto di un lungo tropario proprio. Questa processione notturna è uno dei momenti più forti della pietà popolare in tutto l'anno liturgico. Infine, all'inizio della veglia pasquale, la notte di Pasqua, l'epitafion è tolto dall'arca e deposto di nuovo sull'altare, dove resterà fino alla vigilia dell'Ascensione" (M. Bianco, Liturgia orientale della settimana santa, vol. II, p. 248).

 

 

Gli "Enkomia" o Elogi funebri o Lamenti o Compianto

Gli Enkomia sono una lunga serie di tropari suddivisi in tre stanze, e cantati a cori alterni assieme ai versetti del salmo 118: 156 versetti, 156 tropari. Dal punto di vista celebrativo, essi sono il cuore della commemorazione liturgica. Collocati nell'ufficio mattutinale (orthros), fungono da intimo legame tra la Passione consumata in Croce, la folgorante discesa negli inferi, il pianto delle mirofore al sepolcro, la trepida attesa della risurrezione. Come in una tragedia greca - si tratta infatti della suprema Tragedia, diventata vita per il mondo - il coro, composto da un piccolo gruppo: la Madre, Giovanni, Giuseppe, Nicodemo, le pie donne, chiama a raccolta tutto il creato e dà voce agli eventi, dalla crocifissione alla sepoltura, dalla discesa negli inferi all'annuncio già prossimo della vittoria pasquale. Trabocca, nei testi, lo sconvolgente stupore davanti ai due poli che qui si toccano e si incrociano: l'infinita grandezza, potenza, signoria del Verbo, e l'estrema umiliazione umana che ha voluto spontaneamente subire con la sepoltura di tre giorni, per scardinare le potenze dell'inferno che ci tenevano schiavi e far uscire definitivamente i morti dalla morte. Tutto il creato è spettatore attonito di questo evento divino: trema, condivide il pianto, adora e attende.

Davanti alla sepoltura di Cristo, gli Angeli, contemplando morto il loro Creatore, rimangono esterrefatti e si coprono il volto: perché egli è la Vita che non può morire. Il sole si oscura, perché è tramontato il Sole senza tramonto; la terra è sconvolta fin nelle viscere, quando il Verbo che è luce si nasconde sotto terra. Soltanto gli uomini ciechi ed empi, mentre Dio muore, insultano e bestemmiano.

Lo stesso Ade, che si apre ad accogliere come vinto il Signore che è stato crocifisso, viene sgominato e vinto dal Salvatore,

"il Vivificante, che lo spoglia delle sue prede e fa risorgere i morti da secoli".

In questo contesto immenso, che è insieme pianto e canto, primeggia la Madre: i testi le assegnano un posto di privilegio. È la Vergine-Madre, colei che lo ha generato; è l'Agnella che l'ha visto morire, ed ora lo deve consegnare al sepolcro. Il suo cuore è una diga che si apre in torrenti di lacrime:

"O Dio e Verbo! Mia gioia!
Come potrò sopportare la tua sepoltura di tre giorni?
Ora le mie viscere di madre sono dilaniate!".
"Chi mi darà pioggia e fonti di lacrime
per piangere il mio dolce Gesù?
diceva la Vergine Sposa di Dio".

E chiamando al compianto tutte le creature, sembrava dir loro così:

"Monti e vallate, e voi figli dell'uomo,
e creature del cosmo, piangete!
fate cordoglio con me, la Deipara!".

Il dolore della Vergine, però, anche se straripante, era insieme pienezza di adorazione, di cui faceva omaggio supremo al suo Figlio Dio:

"Gesù, mia gioia, tu amata mia luce,
perché t'han posto in un buio sepolcro?
oh, misterioso umiliarsi di Dio!".

Ancor più grande dell'immenso dolore di Madre e di Theotokos è la fede di Maria: una fede discepolare, protesa come tutta la sua vita verso la Pasqua del Signore. Nel contesto della Settimana Santa bizantina, fortemente orientata alla Risurrezione, gli innografi hanno voluto quasi ritrarre nei sentimenti della Madre l'attesa e la speranza dell'uomo, che Cristo ha redento e immerso nei fulgori della risurrezione: anche se tuttora siamo nel nostro Sabato Santo, segnato dalla morte, e dalla figura di un mondo che sarà trasfigurato. L'icona di Maria del Sabato Santo è l'ultima icona della speranza cristiana: un'immagine evangelica di Maria, già tratteggiata da due testi di Luca: "Maria conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore" (Lc 2, 19.51). La Vergine durante la vita del Signore aveva ascoltato e accolto con fede e custodito gelosamente nel cuore non solo la predizione dolorosa della sua morte, ma anche l'annuncio della sua gloriosa risurrezione dopo tre giorni. Qui, al sepolcro del Figlio, davanti a una tomba sigillata - sepolcro nuovo come il suo grembo di vergine da cui era nata la Vita - è Lei che ricorda al Figlio sepolto la fedeltà alla parola che ha dato:

"Fiumi di lacrime effonde la Madre
al monumento ove giaci sepolto;
ti grida: Sorgi, perché l'hai predetto!".

È su questa fede dolorosa e fiduciale della Madre, compartecipata dalla Chiesa, e sulla fedeltà del Signore, del Vivente e Vivificante, alla sua promessa, che poggia la speranza dell'uomo; se ne fa eco il coro delle mirofore:

"Ritorna presto, Signore, tra i vivi,
per dissipare l'affanno profondo,
di lei che, Vergine, t'ha generato!".

E rivolto alla Madre-Vergine, a chiusura degli Enkomia, è il coro delle mirofore, ma in loro siamo tutti noi che la supplichiamo:

"O Vergine, rendi degni i tuoi servi
di vedere la risurrezione del Figlio tuo!".

Non poteva mancare, a tanta fede, a un interrogativo che lo chiamava direttamente in causa sulla sua parola, la risposta di Cristo. Com, secondo i libri sacri, Dio entrò in scena e rispose a Giobbe e al suoi amici; qui, dal fondo dell'Ade dove ha richiamato a vita Adamo ed Eva perduti, il Signore risponde al pianto e all'attesa della Madre. È il primo tropario dell'Ode IX, opera del monaco Cosma di Maiuma:

"Madre, non piangere sopra di me,
vedendo chiuso in un buio sepolcro
l'eterno Figlio che desti alla luce:
risorgerò con potenza e splendore
e innalzerò fino a gloria immortale
chi con amore e con fede ti canta".

Siamo giunti così alle soglie della Risurrezione. Sta già tremando la terra; sta per aprirsi il sepolcro: la pietra sarà rotolata inutile fuori della tomba. Ma chi contemplerà per primo il volto del Risorto, portando a compimento definitivo il proprio itinerario di dolore, di fede e di conoscenza? Certo, la Madre. Introdotta per prima nel mistero dell'Incarnazione, entrata per prima in quella della Risurrezione, resta per tutti - prima fra le mirofore - l'Annunciatrice pasquale:

"Illùminati, illùminati, o nuova Gerusalemme,
la gloria del Signore è sorta sopra di te!
Danza ora ed esulta, o Sion,
e tu rallegrati, o pura Madre di Dio,
nella risurrezione del Figlio tuo!"
(Giovanni Damasceno, Ode IX del Canone)

 

a cura del Centro Russia Ecumenica

00193 Roma – Vicolo del Farinone, 30

tel 06-6896637

È una situazione molto delicata, quella rispecchiata dal biglietto che Paolo scrive all'amico Filemone nell'atto di rimandargli Onesimo, uno schiavo fuggito dalla sua casa e diventato cristiano come cristiano del resto era lo stesso Filemone.

L’incarnazione, al cuore della rivelazione cristiana, afferma che Dio incontra l’uomo nel corpo e che il corpo è la vita dell’uomo per incontrare Dio. «Entrando nel mondo Cristo dice: “Tu non hai voluto nè sacrificio nè offerta per i peccati, un corpo invece mi hai preparato”» (Eb 10,5). Il cammino di Dio verso l’uomo, dall’atto creazionale e attraverso l’intera storia di salvezza, è il continuo tendere di Dio alla corporeità: «Il fine di tutto l’agire di Dio è la corporeità» (Friererich Oetinger).

Possiamo ancora sperare? Il Vangelo predica senza alcun imbarazzo la speranza e la fiducia. C’è un Dio buono che ci ha fatto delle promesse. E Dio le mantiene. Forse il nostra parlare da cristiani è talvolta troppo ingenuo, troppo pacifista e troppo d’un altro mondo.

La costituzione Sacrosanctum concilium è il primo frutto del concilio Vaticano II, l’unico documento nella storia dei concili che tratta della liturgia nella sua globalità in prospettiva teologica e pastorale, la magna charta del rinnovamento liturgico della chiesa cattolica.

Lo Spirito Santo.
Il "rifinitore"
di Giordano Frosini





Quando si ignora o si dimentica la presenza dello Spirito nella chiesa si paga un prezzo alto. Se il Vaticano II è stato una grande grazia dello Spirito, bisogna recuperarne la dottrina sulla comunione, la partecipazione, la corresponsabilità. Tra i punti da rivedere: l’ascolto del popolo di Dio, la nomina dei vescovi, la profezia, la creatività, il ruolo della donna.

Parlare dello Spirito Santo è navigare contro corrente. Egli è per noi l’inafferrabile, l’invisibile. il senza volto. Il Padre ha un nome e, se, vogliamo, anche un volto, quello dei nostri genitori: il Figlio è vissuto per alcuni decenni in mezzo a noi e ha parlato la nostra lingua; lo Spirito Santo è come il vento: «non sai di dove viene e dove va», anche se ne sentiamo la voce. Una navigazione difficile che la parola di Dio, i richiami della Tradizione, le aperture dei mistici, nonché le autentiche ispirazioni interiori devono sempre guidare e sorreggere per non attribuire allo Spirito pensieri che appartengono solo al mondo delle nostre incerte e tremolanti riflessioni.

Il dono dello Spirito è il fine dell’incarnazione del Verbo, l’ultimo atto della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione. Senza di lui non c'è il cristiano, senza di lui non c'è la chiesa. Essa è il luogo di una pentecoste permanente. «Ubi ecclesia ibi Spiritus», dicevano gli antichi, in particolare sant’Ireneo, per il quale «dove è la chiesa lì è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio lì è la chiesa e ogni grazia».

Una comune nascita

Ne abbiamo una riprova nella nascita del simbolo niceno-costantinopolitano, che fu composto in due tempi. Nel primo tempo, a Nicea, esso constava di due articoli, quello riguardante il Padre e quello riguardante il Figlio: lo Spirito Santo era appena nominato. Nel concilio di Costantinopoli del 381, si aggiungono le parole «Dominum et vivificantem, qui ex Patre procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per prophetas». E subito dopo: «Et unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam». E ancora: «Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum.Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi».

Nel simbolo più popolare della chiesa, lo Spirito Santo e la chiesa nascono insieme. Il che appare anche più evidente se prendiamo in mano il simbolo apostolico che, secondo alcuni, nella sua parte finale, andrebbe letto così: «Credo nello Spirito Santo, nella santa chiesa cattolica, comunione dei santi, per la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna». Tre articoli, fra i quali il terzo sullo Spirito Santo assume una dimensione di grande portata, insieme ecclesiale ed escatologica. Lo Spirito Santo che si presenta in tutto il suo dinamismo e la sua ricchezza.

Già in queste prime riflessioni ci fanno capire quanto ingiusto sia stato il comportamento dei cristiani, specialmente occidentali, che praticamente hanno ignorato e messo in disparte lo Spirito Santo come se fosse un elemento inutile e superfluo. Si è parlato giustamente di una kenosi dello Spirito Santo. E noi cattolici siamo stati accusati di cristomonismo certamente con qualche ragione. Le conseguenze si sono viste e si vedono ancora.

Le due mani del Padre

Per capire la portata dell'accusa e rendersi conto della nostra situazione, abbiamo bisogno di rivedere i rapporti che intercorrono fra le tre Persone della santissima Trinità. Ancora con sant'Ireneo consideriamo il Figlio e lo Spirito come le due mani del Padre, con l’aggiunta che lo Spirito può essere a giusto titolo considerato come il complemento del figlio: l'altro Paraclito (etimologicamente "assistente") dice Giovanni; il completatore, il rifinitore, il telepois, dicono i padri greci; il consumatore, il dono della consumazione, dice Congar. Il Figlio comincia, lo Spirito completa. Senza lo Spirito Santo, il cristianesimo è monco, mancante di una dimensione che gli è essenziale.

Si ricordi il bellissimo testo del metropolita ortodosso Ignazio Hazim in cui si afferma che senza lo Spirito Santo «Dio, è lontano, Cristo rimane nel passato, il Vangelo è una lettera morta, la chiesa una semplice organizzazione, l'autorità è un dominio, la missione è propaganda, il culto un'evocazione e l'agire cristiano una morale di schiavi». Un autentico furto perpetrato contro il cristianesimo, un infedeltà e un tradimento. I pericoli minacciati non sono affatto ipotetici, le conseguenze previste sono realtà che ben conosciamo, la perdita dello Spirito si paga a un prezzo veramente alto. Tuttavia la riflessione teologica, senza sminuire la suggestività del testo ora citato, può specificare anche più chiaramente il pensiero ivi contenuto. Lo Spirito Santo, da Agostino in poi, è stato indicato come l'anima della chiesa, cioè il principio della vita, delle azioni e del movimento. O. Clément ci avverte che questa metafora non appartiene ai Padri greci, i quali preferiscono affermare che egli svolge nei confronti della chiesa, nuova creazione, lo stesso ruolo da lui svolto all'inizio del mondo: egli è il Soffio creatore, lo Spirito vivificante, il garante della vita. Il risultato è lo stesso.

Per lui, anche per lui, esiste la chiesa: egli di essa è un vero co-istituente. Per lui la chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, sempre più una, santa, cattolica e apostolica. Per lui la Parola della verità risuona costantemente nel tempo con la stessa forza iniziale e la sua sempre rinnovata freschezza e attualità. Per lui i sacramenti donano la grazia che salva, redime, perdona, santifica, divinizza: non c'è sacramento senza l’invocazione dello Spirito Santo. È lui che distribuisce doni e carismi, che richiama la comunità cristiana ai compiti che lui stesso, regista della storia, fa balenare dinanzi ai suoi occhi. L'altro Paraclito che sostituisce e completa l'opera di Cristo.

Un compito permanente. Lo Spirito Santo non conosce soste e pause di attesa: la fede lo avverte sempre presente anche quando il suo vento soffia leggero fino a diventare quasi impercettibile. L'era dello Spirito Santo è cominciata il giorno della pentecoste e si svolgerà fino alla parusia. Sul tempo dello Spirito Santo si è tante volte discusso. Possiamo rifarci a un noto testo di san Gregorio Nazianzeno: «l’Antico Testamento ha chiaramente rivelato il Padre e oscuramente il Figlio. Il Nuovo ha rivelato con chiarezza il Figlio e ci ha fatto intravedere la divinità dello Spirito. Ora lo Spirito si trova tra di noi e si manifesta più chiaramente». La Trinità che entra progressivamente nella storia dell’uomo.

Il tempo dello Spirito può essere considerato come non tutto omogeneo. ma con possibilità di emergenze, sottolineature, evidenziazioni, accentuazioni particolari.

Nel corso dei millenni è possibile un tempo privilegiato dello Spirito Santo, che bussa più fortemente alle porte della chiesa e dell’umanità. Non sono pochi a pensare che il tempo che noi viviamo, il passaggio dei millenni, sia uno di questi momenti. Forse come non mai, lo Spirito Santo ora si manifesta più chiaramente. Non va forse letto in questo spirito il messaggio del concilio Vaticano II?

Potremmo dire, parafrasando ancora un testo dell’Apocalisse, che «questo oggi lo Spirito domanda alla chiesa». Il più grande concilio della chiesa, convocato dal papa più carismatico del nostro tempo, accompagnato da segni inconfondibili del progresso dell’umanità verso il compimento del Regno, come la globalizzazione, l’anelito della giustizia, la ricerca spasmodica della pace.

Torniamo al concilio

Quali allora i compiti della chiesa in questo tempo di emergenza e di straordinarietà?
Anzitutto un severo richiamo al concilio. «Dobbiamo tornare al concilio», ha detto Giovanni Paolo II. Tornare anzitutto al suo punto fondamentale che è quello della comunione, della partecipazione, della corresponsabilità. «Poiché la chiesa è comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità in tutti i suoi gradi», ha affermato il sinodo straordinario dei vescovi a vent’anni dal concilio. Tutti, «in capite et in membris», hanno il dovere di riflettere attentamente su queste espressioni. Ricordando che, per questo, il concilio aveva anche dato vita agli organismi di partecipazione accanto al papa, ai vescovi, ai parroci.

La democrazia sta avanzando nelle nostre società: la chiesa ha già perso troppo terreno in questo campo. Come tutti i concetti desunti dal linguaggio umano, anche quello di democrazia non può essere applicato alla chiesa in senso univoco, ma analogo. Il che vuole anche dire che la chiesa non è una democrazia, soprattutto nel senso che le sue decisioni dipendono normalmente da coloro che la presiedono (un'affermazione, peraltro, più di carattere giuridico che teologico, su cui bisognerà ancora riflettere), ma insieme che è più di una democrazia, perché i fondamenti di questo sistema politico sano più chiari dentro di lei; perché tutti i suoi abitanti no pervasi dallo Spirito Santo; perché la stessa democrazia è nata sui fondamenti del cristianesimo, come hanno riconosciuto uomini come Maritain, Bergson e lo stesso Hegel.

Bisogna allora riscoprire il valore della prima categoria usata dal concilio per esprimere la natura della chiesa, cioè la categoria di popolo di Dio, perché lo stesso concetto fondamentale di comunione non venga frainteso o disatteso in tutta la sua portata. Che ne è del popolo di Dio? Che ne è del «senso della fede», del infallibilità nel credere, di cui parla la Lumen gentium? Che ne è della sua opinione specialmente nei momenti straordinari della vita della chiesa? Un solo esempio: la nomina dei vescovi. Si può ancora continuare così, praticamente ignorando del tutto o quasi del tutto l'opinione della chiesa a cui il vescovo viene mandato dall'alto? L’antica tradizione non è affatto in questa linea. Nel primo millennio le nomine avvenivano diversamente; diversamente avvengono anche nelle chiese ortodosse e protestanti. Si ricordano a questo proposito alcuni detti che provengono dal nostro passato: «Venga ordinato vescovo colui che è stato eletto da tutto il popolo. Con il consenso della comunità i vescovi impongano su di lui le mani» (Tradizione apostolica); «Non si imponga al popolo un vescovo che il popolo non gradisce»; «Nullus invitis detur episcopus» (papa Celestino, sec. V); «Colui che deve presiedere a tutti, da tutti dev'essere eletto» (san Leone). Dobbiamo riconoscere che la questione appare oggi molto complessa, ma dobbiamo anche riconoscere che il cammino delta chiesa non è stato sempre omogeneo e lineare.

A chi si meraviglia troppo di queste richieste, possiamo ricordare alcune espressioni di Giovanni Paolo I, che affermava: «Io sono il fratello maggiore dei vescovi, debbo a loro grande rispetto, devo e voglio essere in comunione di amore con loro... La collegialità tra il papa e i vescovi, resa viva e operante, diventa la prova, il sigillo della cattolicità... Nessun vescovo potrà essere scelto senza che vengano tempestivamente consultate le conferenze episcopali locali e i consigli presbiteriali. Il loro parere sarà tenuto in seria considerazione. Io mi sono trovato come presidente della Conferenza episcopale delle Venezie a leggere sull'Osservatore Romano i nomi dei vescovi assegnati alle diocesi venete» (C. Bassotto, Il mio cuore è ancora a Venezia. Albino Luciani, Venezia 1990, passim). Di pari passo andava anche il riconoscimento dell'opera dei teologi.

Un popolo di uguali

Un popolo di uguali e non una società di disuguali, come diceva ancora Pio X, dove tutti hanno la stessa dignità e dove tutti partecipano all’edificazione del corpo di Cristo che è la chiesa (cf. LG 32). Una uguaglianza che si riflette anche nei tratti esterni. È da tempo che si sta rilevando come l'unico titolo a corso legale nella chiesa sia quello di fratello e servo. Tutto il resto (padre, signore, maestro, eccellenza, eminenza) è polvere del secolo di cui bisogna sbarazzarci alla svelta. E polvere del secolo sono anche certo sfarzo e certe vesti.

Un popolo, ancora, quello cristiano, tutto intero sacerdotale, profetico e regale che ha per questo bisogno di essere riqualificato e rivalorizzato religiosamente nel contesto di una inter-relazione espressa chiaramente dal concilio (v LG 32). La grazia del vescovo e del presbiterio non è la sintesi del ministero ma il ministero della sintesi cioè della comunione, dell’amalgama di tutti i carismi di cui il popolo cristiano è portatore.

Fra questi va sottolineato il carisma della profezia. Ricordando che la chiesa è edificata «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Ef 2,20). Dov'è oggi il luogo riconosciuto della profezia? Qual è lo statuto a cui il profeta si può appellare in caso di contrasto col ministero degli apostoli? Una chiesa senza profezia è triste, monotona, senza slancio, pigra e sedentaria, anemica, dimentica della presenza vivificante e fiammeggiante dello Spirito Santo. Ricordando la lezione del concilio il quale, dopo aver detto che il giudizio dei carismi appartiene a coloro che detengono l’autorità della chiesa, si rivolge a questi e non ai primi ricordando che è loro dovere «non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono». (LG 12).

Il discorso dello Spirito va verso l'infinito. Un meraviglioso testo riassuntivo della sua missione nella chiesa possiamo ritrovarlo in Von Balthasar, secondo il quale egli è «lo Sconosciuto al di là del Verbo»: appunto il completatore, l’in avanti, il trascinatore che attualizza e porta a perfezione l’opera abbozzata del Verbo. Niente al di fuori di Cristo, nulla senza di lui e, men che mai, contro di lui: lo Spirito è il testimone, il rifinitore, colui che da Cristo parte e a Cristo ritorna e riporta. Non si può mettere lo Spirito in contrasto col Figlio. Non c’è Spirito senza il Figlio, come non c'è Figlio senza lo Spirito. Una legge da non dimenticare mai, in nessuna circostanza e in nessun contesto. Nella duplice missione del Figlio e dello Spirito, quest'ultimo è «l'energia che esorcizza il fascino del passato o dell’origine per proiettare in avanti, verso un avvenire di cui è caratteristica principale la novità» (C. Duquoc, Un Dio diverso, Brescia l978 p. 116s).

Alla luce di queste espressioni possiamo collegare insieme le caratteristiche fondamentali dello Spirito Santo nella nostra vita e nella nostra storia.

La litania dello Spirito Santo

Egli è la novità. Non la novità della moda, ma la novità evangelica. Il Vangelo è il libro nuovo, il cristiano è l'uomo nuovo, la cristianità è il mondo nuovo, il mondo riconciliato che canta il canto nuovo. Nel ritorno al Padre, il figlio rappresenta in qualche modo il passato, lo Spirito il presente e il futuro: la chiesa vive dell'uno e dell'altro. Ma l'ultima parola spetta al futuro.

Noi siamo per definizione gli uomini della speranza; la nostra patria è nei cieli: la nostra navigazione tende alla Gerusalemme celeste, che è la città della pienezza,della vita e della gioia. Ma se è così, perché siamo così legati al passato, perché nella storia non c'è mai qualcosa di nuovo che trovi l'adesione entusiastica del popolo cristiano? Perché somigliamo troppo alla retroguardia stanca e sfiduciata e non all'avanguardia ardimentosa ed entusiasta? La marcia escatologica deve trovare costantemente i cristiani alla sua testa. L'affermazione che un mondo migliore è possibile, è sempre possibile, appartiene di diritto a noi. Ciò appare più chiaramente nei periodi di transizione, come il nostro. La ripetizione, l’abitudine, la monotonia sono i nemici mortali dello Spirito.

Egli è la creatività: «Spiritus creator». Come un giorno lontano, egli cova l'attuale creazione per portarla alla sua pienezza finale, in cui il male non avrà più luogo e il bene brillerà in tutto il suo splendore. Costruttori del futuro, costruttori del Regno, i cristiani sono al servizio dello Spirito, il regista della storia, il direttore della sinfonia cosmica che tende infallibilmente alla sua cadenza finale.

Egli e motore invisibile della storia. I «segni dei tempi» sono i suoi richiami e le sue indicazioni di lavoro. Chi disattende i segni dei tempi, oltre che perdere il treno della storia, sta contro lo Spirito Santo. I sentieri aperti dinnanzi a noi sono oggi la solidarietà, la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato, l'ecumenismo, il dialogo interreligioso. «Omne verum a quocunque dicitur a Spiritu Santo est» dicevano gli antichi, fra cui anche S. Tommaso. Oltre che completatore, lo spirito è anche preparatore e antesignano del Verbo.

Egli è la bellezza. «La bellezza salverà il mondo», ha affermato Dostoevskij. Se il Padre nella creazione ha impresso il sigillo della potenza e il Verbo quello della sapienza, lo Spirito ha disseminato dovunque le suggestioni e gli incanti della sua infinita bellezza. Una chiesa dello Spirito è una chiesa bella, perché nella sua vita e perfino nelle sue apparenze esterne riflette le linee di un ordine trascendente. Siamo noi a deturparla, a renderla repellente con le nostre parole e i nostri comportamenti. «Cristo sì, la chiesa no» perché questa divaricazione? Perché la luce che splende sul volto di Cristo non si riflette anche nel volto della sua chiesa da lui stesso illuminato?

Sant’Ambrogio contemplava la chiesa nel lucore suggestivo delle notti lunari: «Veramente beata sei tu, o luna, che hai avuto il merito di tanto significato. Io ti credo beata non per il tuo novilunio ma perché sei tipo e immagine della chiesa». E San Giovanni Crisostomo ne ammirava in distanza le sue divine sembianze: «No, non separarti dalla chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza è la chiesa. La tua salvezza è la chiesa. Il tuo rifugio è la chiesa. Essi è più alta del cielo e più grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna». Lo Spirito è il dinamismo della chiesa, la quale “cresce” nel tempo fino al compimento finale (cf. DV 8). Cresce anche nella comprensione della divina rivelazione che le è stata consegnata. Seguire i suoi passi, assecondarli, promuoverli è ancora una forma di ubbidienza alle mozioni  dello Spirito.

Egli è l'universalità. Pentecoste è la risposta alla divisione dì Babele. Nello Spirito, che attualizza il comandamento di cristo, tutti gli uomini possono sentirsi fratelli. Per questo la globalizzazione è una vittoria dello Spirito sulla materia e sulla dispersione. L’impegno della comunità è semplicemente quello di assecondare questo movimento indirizzandolo verso le regioni della solidarietà e della condivisione. Lo Spirito sposta continuamente i confini della chiesa: la terra va percorsa tutta.

Egli è la libertà, perché «dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2Cor 3,17). Ma è così la chiesa? C'è al suo interno la possibilità di dire il proprio pensiero senza il pericolo di venire messi in disparte? Esiste nella chiesa un’opinione pubblica capace di creare cultura e formare forti personalità? Non dice niente a questo proposito la crisi degli organismi di partecipazione? E il silenzio lungo e preoccupante della teologia? Anche l'eccessiva legislazione ha bisogno di essere confrontata e commisurata con lo Spirito di libertà. Su questo punto dobbiamo rileggere attentamente gli scritti dell'apostolo Paolo.

In qualche modo lo Spirito è anche la femminilità, colui che più delle altre Persone porta evidenti in sé i segni e il genio della  femminilità. Per questo quando Paolo enumera i suoi frutti, parla di timore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza. Una dimensione dello Spirito capace di assicurare nella chiesa un posto d'onore e di responsabilità all’universo femminile, che non ha ancora trovato la collocazione che si merita e che gli compete.

Si può finire affermando che lo Spirito è la follia della chiesa. La festa dello Spirito è la festa dei folli. Così egli debuttò nella pentecoste di Gerusalemme sotto il cielo terso della Palestina. La follia con cui fu designato Gesù, la follia del "discorso della montagna". La follia dell'amore folle di Dio: Verrebbe da dire: se siete semplicemente “normali”, che cosa fate di straordinario? La via che vi è riservata è quella dell'anormalità. Perché quello che è stolto agli occhi degli uomini è sapienza agli occhi di Dio.

Il sogno del terzo millennio

Come M.L. King, in questo inizio del terzo millennio, non possiamo coltivare un sogno. Se si abbandonerà allo Spirito, la chiesa del futuro sarà tutta chiesa libera, fraterna. Partecipata, amante del vero “nuovo”, proiettata verso il compimento della storia, lieve e leggera nel suo passaggio sulla terra, povera e serva, amica dell'umanità, una chiesa bella esposti all’ammirazione di tutti gli uomini. Una comunità alternativa rispetto alle altre organizzazioni umane, una comunità “scandalizzante” nel senso kierkegaardiano della parola, una comunità narrante. Che racconta con le parole la più bella fiaba che l'uomo abbia mai ascoltato; soprattutto che narra con la vita la meravigliosa avventura di cui è stata fatta partecipe e sacramento. Che riscrive a ogni generazione il «quinto Evangelo», il quale non esiste sulla carta e negli archivi. ma riluce attraverso la vita dei suoi figli come un annuncio di speranza e di pace. «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei vostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini... una lettera scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,2-3).

Questa lettera è nelle mani dello Spirito, ma anche nelle nostre mani.

(da Settimana n.15, 2004)
Mercoledì, 20 Aprile 2005 00:43

Il sangue (Ndjock Ngana)

Disumano è chi lo versa / non chi lo porta.

Domenica, 17 Aprile 2005 20:37

Convertirsi alla pace (Marcelo Barros)

Convertirsi alla pace
di Marcelo Barros


«Dobbiamo noi essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo» (Gandhi). Classico momento forte di metanoia, o cambiamento interiore, il quaresimale cammino verso la pasqua è per molti cristiani un'occasione di riflessione e di nuovi proponimenti.
Deve, però, anche essere l'occasione per verificare fino a che punto i vari messaggi di solidarietà e di pace che essi oseranno lanciare in pubblico sapranno influenzare il loro processo di conversione, sia personale che sociale.



Le succitate parole di Gandhi mi sono tornate alla mente, quando i vescovi brasiliani hanno lanciato la Campagna di fraternità 2005 che inizierà il prossimo mercoledì delle Ceneri. Quest'anno, la tradizionale iniziativa quaresimale cattolica sarà, per la seconda volta, "ecumenica", perché promossa anche da altre 7 denominazioni cristiane che fanno parte del Consiglio nazionale delle chiese cristiane del Brasile. Il tema sarà "Solidarietà e Pace". Mi domando: trascorreremo 40 giorni gridando "Viva la pace e la solidarietà", oppure trasformandoci in facitori di pace e creatori di solidarietà? La differenza è abissale.

Una campagna in favore della pace è oggi più che urgente in Brasile. L’Onu ha posto la nostra nazione al quarto posto per numero di omicidi per arma da fuoco. Nel dicembre del 2005, il parlamento ha approvato lo Statuto del disarmo, firmato dal presidente Lula: una legge che rende più difficile comperare e possedere un’arma. Dal luglio scorso, inoltre, il Governo ha lanciato una campagna nazionale di disarmo, con l'intento di togliere le armi dalle mani dei cittadini, i quali ricevono un compenso in denaro per ogni arma consegnata. L'iniziativa ha avuto un sorprendente successo: si parla di una riduzione di omicidi (30%) e di incidenti per arma da fuoco (50%) in tutto il paese. Tra qualche mese, i brasiliani dovranno pronunciarsi, attraverso un referendum, sul divieto di commercio delle armi e munizioni. Potenti lobby - sostenute dai fabbricanti e commercianti di armi - si sono mobilitare contro l'approvazione definitiva della legge. Il loro argomento è il seguente: «Il governo dovrebbe disarmare i banditi, non i cittadini che hanno armi solo per difendersi». Una sorta di ideologia della "violenza preventiva ": mi armo, sì, ma soltanto per prevenire la violenza. Intanto, però, i sondaggi rivelano che moltissime delle armi acquistate o possedute legalmente finiscono nelle mani di gang di spacciatori di droga.

Questo bisogno di armarsi per prevenire la violenza è allarmante... e avvilente. Davanti al rischio di essere una vittima, la persona si arroga il diritto di fare vittime. È la versione – un po’ ridotta, quasi a dimensione familiare – della "guerra preventiva" del presidente americano George W. Bush, dove la giustizia veniva risolta a suon di sparatorie.


 



Nella divisione del mondo in gente per bene e di buona famiglia, da una parte, e banditi reali o potenziali, dall'altra, è ovvio che gli unici ad avere il diritto (e il merito) di vivere sono i primi. Questa logica mortale viene seguita in varie parti del mondo. In Honduras, ad esempio. in un rapporto su questa nazione, il quotidiano francese Le Monde del 14 dicembre scorso riportava che, negli ultimi cinque anni, con il beneplacito di molti benpensanti, sono stati «eliminati come banditi ben 2.725 minori, alcuni tra i 3 e i 5 anni». Ma come si può guardare a un bimbo come a un "potenziale bandito"?

Nel messaggio del Papa per la celebrazione della Giornata mondiale della pace (10 gennaio 2005) è affermato:

«Per conseguire il bene della pace bisogna, con lucida consapevolezza, affermare che la violenza è un male inaccettabile e che mai risolve i problemi. La violenza è una menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra fede, alla verità della nostra umanità. La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani. È pertanto indispensabile promuovere una grande opera educativa delle coscienze, che formi tutti, soprattutto le nuove generazioni, al bene».

Mi auguro che il cammino quaresimale verso la celebrazione pasquale della vittoria della vita sulla morte ci immerga tutti in una "campagna mondiale di disarmo", per fare emergere dalla tomba una cultura di pace e di non violenza attiva. Solo così ognuno di noi potrà pronunciare per il suo vicino questa antica benedizione irlandese:

Che il cammino sia lieve ai tuoi piedi
E la brezza soave alle tue spalle.
Che il sole illumini il tuo volto
E le piogge cadano serene sui tuoi campi.
Fino a quando ti rivedrò di nuovo,
Dio ti protegga
nel palmo della sua mano.



(da Nigrizia, febbraio 2005)

Domenica, 17 Aprile 2005 20:11

La Chiesa Ortodossa Etiopica (Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano
IV. Chiesa Ortodossa Etiopica
di Mervyn Duffy




Secondo una antica tradizione il primo evangelizzatore dell’Etiopia è stato San Frumenzio, un cittadino romano, proveniente da Tiro che era naufragato lungo il litorale africano del Mar Rosso. Conquistò la fiducia dell’Imperatore ad Aksum e portò alla conversione suo figlio Ezana che in seguito divenne imperatore, questi successivamente, intorno all’anno 330, introdusse il Cristianesimo in Etiopia come religione di stato. San Frumenzio fu ordinato vescovo da San Atanasio di Alessandria e tornò in Etiopia per continuare l’evangelizzazione del paese.

Intorno all'anno 480 i "Nove Santi" giunsero in Etiopia ed iniziarono la loro attività missionaria. Secondo la tradizione venivano da Roma, da Costantinopoli e dalla Siria. Avevano lasciato i loro paesi a causa della loro opposizione alla Cristologia di Calcedonia e probabilmente avevano risieduto per un certo tempo nel Monastero di San Pacomio in Egitto. La loro influenza, i relativi collegamenti tradizionali con i Copti, spiega probabilmente l'origine del rifiuto da parte della chiesa etiopica di Calcedonia. Ai "Nove Santi" vengono attribuiti, per gran parte, l’eliminazione del residuo paganesimo in Etiopia, l’introduzione della vita monastica, un sostanziale contributo alla sviluppo della letteratura religiosa in Ge’ez con la traduzione della Bibbia e con altri lavori religiosi nella lingua classica etiopica.

La chiesa etiopica raggiunse il suo massimo livello nel quindicesimo secolo quando si vide una copiosa e creativa produzione teologica e di spiritualità ed una Chiesa impegnata in una vasta attività missionaria.

L'esperienza molto negativa del contatto con i missionari cattolici portoghesi nel sedicesimo secolo è stata seguita da secoli di isolamento da cui la chiesa etiopica è emersa soltanto recentemente.

Questa chiesa è unica nel mantenere molte pratiche ebree quali la circoncisione ed il rispetto delle leggi riguardanti gli alimenti ed il sabato, per cui per loro i giorni liturgici sono il sabato e la domenica. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che la prima presenza del Cristianesimo in Etiopia sembra essere originaria dalla Palestina attraverso l’Arabia del Sud. Ma vi è anche una tradizione secondo la quale il Giudaismo è stato conosciuto e parzialmente accettato dagli Etiopi prima ancora dell’arrivo del Cristianesimo.



La Chiesa Etiopica ha avuto anche alcuni sviluppi cristologici insoliti. Una scuola di pensiero ha asserito ed insegnato che l’unione della natura umana e di quella divina in Cristo ha avuto luogo soltanto dopo il suo Battesimo. Ma questo insegnamento non è mai stato ufficiale e non ha avuto lunga durata.

La liturgia etiopica trae le sue origini da quella copta di Alessandria ed è stata influenzata da quella siriana. Essa è sempre stata celebrata nell’antica lingua Ge’ez fino a tempi molto recenti. Oggi una traduzione della liturgia in amarico è sempre più usata nelle parrocchie. Questa liturgia, perfettamente adattata all’ambiente, si caratterizza per l’uso di strumenti musicali, tipo i sistri ed i tamburi ed anche per un altro elemento, che crediamo renda la Chiesa Etiopica unica tra le antiche chiese cristiane: le danze liturgiche. Altro elemento caratteristico è il fatto, di sapore ebraico, che nello loro chiese in un luogo chiamato il Santo dei Santi viene custodito il Tabot, una specie di Arca dell’Alleanza , che viene particolarmente venerato nella Festa di Timkat (Epifania). L’interno delle chiese che è tipico, è delimitato in vari spazi: delle donne, degli uomini, di coloro che comunicheranno, del clero. Altra importante festa per il rito etiopico è quella del Maskal o Ritrovamento della S. Croce. E’ sempre viva la forte tradizione monastica.





Fin dai tempi più antichi tutti i vescovi in Etiopia furono egiziani copti nominati dal Patriarcato Copto e per molti secoli l’unico vescovo in Etiopia fu un Metropolita copto. All’inizio del ventesimo secolo la chiesa etiopica iniziò a fare pressione sul Patriarcato copto per una autonomia più ampia e per la possibilità di avere finalmente dei vescovi etiopici di nascita. Nel 1929 furono finalmente ordinati quattro vescovi etiopici che fossero di aiuto al Metropolita copto. Con l’aiuto dell’Imperatore Hailè Selassiè (che regnò dal 1930 al 1974), fu raggiunto nel 1948 un accordo con il Patriarcato Copto per cui alla morte del Metropolita Cirillo si sarebbe fatta l’elezione di un Metropolita etiopico. Così quando nel 1951 Cirillo morì un’assemblea di preti e di laici scelse come Metropolita un etiope Basilios, e votò per l’autonomia della Chiesa d’Etiopia.

Finalmente nel 1959 il Patriarcato copto riconobbe il metropolita Basilios primo patriarca della Chiesa Ortodossa Etiopica.

Una facoltà ortodossa etiopica di teologia, il Trinity College, ha funzionato come componente dell'Università di Addis Abeba fino a quando nel 1974 il governo ne ordinò la chiusura. Nello stesso anno la Chiesa Etiopica fondò ad Addis Abeba l’Università teologica San Paolo per la formazione dei candidati al sacerdozio. Per lungo tempo questa è stata il luogo della formazione per gli uomini ortodossi etiopici che aspiravano al sacerdozio. Un problema importante perché è stato valutato nel 1988 che nel paese vi erano 250.000 sacerdoti . Per fornire loro un livello di formazione sufficiente, sei centri di formazione del clero sono stati recentemente istituiti in varie zone dell'Etiopia. Ora si prevede che si arrivi anche ad avere per ogni parrocchia una Scuola Domenicale di formazione.

Specialmente negli ultimi anni, la chiesa etiopica ha assunto un ruolo attivo nel servizio di coloro che si trovano in condizioni disagiate e di povertà. Ha patrocinato sforzi , impegni e programmi a loro favore e sono stati anche realizzati a cura della Chiesa vari orfanotrofi.

La chiesa ortodossa etiopica è stata la religione di stato per il paese fino alla rivoluzione marxista del 1974; questa depose l’Imperatore e mise il colonnello Mengistu Haile Mariam a capo di governo. Molto presto la rivoluzione separò ufficialmente la Chiesa e lo Stato e nazionalizzò la maggior parte delle terre della Chiesa. Questo fu il segnale di inizio di una campagna contro i gruppi religiosi del paese.

A seguito del crollo del governo comunista nel mese di maggio 1991, il patriarca Merkorios (eletto nel 1988) fu accusato di collaborazionismo con il regime di Mengistu ed egli nel settembre in seguito a pressioni si dimise dalle sue funzioni di Patriarca. Il 5 luglio 1992, il Santo Sinodo Etiopico scelse l’Abuna Paulos come quinto patriarca della Chiesa Ortodossa Etiopica.

Egli era stato imprigionato per sette anni dalle autorità marxiste dopo che il patriarca Theophilos (deposto nel 1976 ed assassinato in prigione nel 1979) lo aveva ordinato vescovo nel 1975 senza l’approvazione del governo. Paulos fu liberato nel 1983 ed andò in esilio per alcuni anni negli Stati Uniti. Il Patriarca deposto, Merkorios, rifugiatosi in Kenia, ha rifiutato di riconoscere l’elezione di Paulos.

Nell’ottobre del 1994 il patriarca Paulos ha proceduto alla riapertura del College Teologico della Trinità nella capitale etiopica. Il College ha cominciato a funzionare con 50 allievi nei corsi di laurea e 100 che studiano per i diplomi in teologia.




I dati statistici segnalati sono stati forniti dal Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ma alcune fonti credibili etiopiche asseriscono che i cristiani ortodossi etiopi dovrebbero essere circa 30 milioni, questo basandosi sul fatto che gli ortodossi etiopici sono circa il 60% su una popolazione totale di 55 milioni.

In Australia vi sono comunità ortodosse etiopiche in ciascuna delle capitali dei vari stati. Le tre parrocchie esistenti in Gran Bretagna sono state guidate dal Vescovo Yohannes fino alla sua morte nel mese di dicembre del 1997. Dopo di lui il Rev. Berhanu Beserat è stato chiamato a capo della Chiesa Ortodossa Etiopica in Europa.

Negli Stati Uniti, l’arcivescovo etiopico Yesehaq non ha riconosciuto l'elezione del patriarca Paulos e d ha rotto la comunione con il Patriarcato nel 1992. In risposta, il Santo Sinodo Etiopico lo ha sospeso dalle sue funzioni ed ha deciso di dividere la l’arcidiocesi esistente dell’emisfero occidentale in tre giurisdizioni (USA e Canada, l'America Latina ed i Caraibi, Europa occidentale). Ha nominato Abuna Matthias come nuovo arcivescovo degli Stati Uniti e del Canada. Successivamente il Canada è stato costituito come diocesi separata sotto la guida del vescovo Matthias che risiede a Londra, nell’Ontario. Tuttavia l’arcivescovo Yesehaq continua ad avere ancora un certo seguito da parte di molti etiopi ortodossi risiedenti in America. Complessivamente ci è sono oltre 100.000 ortodossi etiopici nell'emisfero occidentale, compreso un numero significativo di convertiti nell’India dell’ovest.






TERRITORIO: L'Etiopia, piccola diaspora.

GUIDA: S. S. Abuna Paulos Gebre Yhoannis (nato nel 1935, eletto nel 1992)

TITOLO: Echege della S. Sede di S. Tekle Haimanot di Debre Libanos, Arcivescovo di Axum

RESIDENZA: Addis Abeba, Etiopia

INSIEME DEI MEMBRI: circa 30.000.000

I due decaloghi nella Bibbia
di Olivier Artus *




Il termine decalogo (dieci parole) designa, nel Pentateuco, due testi legislativi pressoché identici nel contenuto, ma divergenti nel significato e nell’interpretazione teologica delle leggi che vi sono esposte: i versetti da 2 a 17 del capitolo 20 dell’Esodo e i versetti da 6 a 21 del capitolo 5 del Deuteronomio. Questi due testi possono essere letti indipendentemente dal loro contesto, perché costituiscono codici legislativi autonomi. Questa denominazione decalogo può apparire sorprendente perché il numero delle prescrizioni che vi si trovano riunite supera il numero dieci; il termine rimanda ad altre sezioni del Pentateuco che designano come «le 10 parole» il discorso che Dio rivolge a Mosè sulla montagna.  



In un primo tempo restituiremo i due decaloghi al loro contesto letterario, poi analizzeremo il loro contenuto sottolineando le differenze che li separano e alla fine preciseremo la funzione di questi due testi legislativi.

Il contesto letterario

Il decalogo del libro dell'Esodo (20,2-17) è collocato nel contesto del racconto della conclusione dell'Alleanza tra Dio ed Israele: il popolo uscito dall'Egitto (Es 14) giunge alla montagna del Sinai (Es 19,1) dopo un cammino attraverso il deserto(Es l5,22-l8,27). Questo testo precede un codice legislativo più esteso, il codice dell'Alleanza (Es 20,22-23,19), che è il più antico codice legislativo del Pentateuco (VIII sec. a.C.), e il racconto della conclusione dell'Alleanza (Es 24,1-11). Mentre il codice dell'Alleanza si presenta sotto la forma di un discorso rivolto da Jahvè agli israeliti at-  traverso l'intermediazione di Mosè, il decalogo si presenta come un discorso di Dio, senza destinatario immediato, valido in  ogni luogo e in ogni tempo, cosa che gli attribuisce maggiore autorità. 

Una lettura corrente del Pentateuco mostra che questo decalogo è il primo testo esclusivamente  legislativo che il lettore incontra: questa situazione di anteriorità rispetto agli altri codici legislativi del Pentateuco contribuisce ad accentuare ulteriormente la sua autorità. Sottolineiamo infine la nettissima cesura che lo separa da ciò che precede e che segue: il decalogo dell'Esodo viene in realtà ad interrompere, senza transizione, il racconto della teofania di Jahvè al Sinai: sembra dunque probabile che la sua redazione sia stata interpolata tardivamente in questo racconto.  Analogamente, il decalogo del Deuteronomio (5,6-21) è un discorso rivolto da Dio ad Israele.  Esso precede gli altri testi legislativi del libro del Deuteronomio, raggruppati nel codice deuteronomico (Dt 12-26): queste due caratteristiche gli conferiscono la medesima autorità del decalogo del capitolo 20 del libro dell'Esodo.
I due decaloghi sono dunque collocati in sezioni molto diverse del Pentateuco: il decalogo del libro dell'Esodo si colloca nel tetrateuco, un insieme letterario la cui composizione è di fonte sacerdotale. cioè appartiene al gruppo dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, durante il loro esilio in Babilonia (587-538 a.C.), e poi al ritorno dall'esilio.

Il Deuteronomio invece è stato scritto da autori non sacerdotali. Il testo, nella sua forma attuale, data anch'essa al periodo postesilico.

Analisi dei due decaloghi

L'alternanza di comandamenti esposti sotto forma negativa (Tu non...), o sotto una forma positiva, permette di distinguere tre sezioni in ciascuno dei decaloghi. Queste sezioni sono precedute da un'identica introduzione: Jahvè si presenta che ha liberato il popolo d’Israele facendolo uscire dall'Egitto. L'identità di Dio si afferma dunque in storico a favore di Israele.

I sezione: Es 20,3-7 = Dt 5,7-11

L'analisi del testo ebraico fa emergere un gioco di parole che la traduzione italiana può mascherare: il sostantivo «schiavi» (Es 20,2 = Dt 5,6) deriva dalla stessa radice del verbo «servire» (Es 20,5 = Dt 5,9). Così il culto reso agli idoli è presentato come contraddittorio col culto di Jahvè che ha posto fine alla schiavitù di Israele in Egitto: l'idolatria farebbe cadere Israele in una schiavitù. In realtà il culto reso agli idoli è interessato, poiché essi rappresentano degli dèi che appartengono al pantheon dei popoli stranieri, forze della natura divinizzate percepite come minaccia e che bisogna conciliarsi attraverso sacrifici. A questa relazione «commerciale» che imprigiona chi la intraprende, deve sostituirsi il culto di Jahvè che si colloca nell'ambito della gratuità. Ecco perché i decaloghi proibiscono l'uso del nome di Jahvè nei giuramenti: Israele non può servire gli idoli, e non può servirsi del nome di Jahvè. I comandamenti la cui formulazione è negativa contribuiscono in realtà a definire uno spazio di libertà, di gratuità, in cui si allaccia la relazione tra Israele e il suo unico Dio: Jahvè.

II sezione: Es 20,8-12 e Dt 5,12-16

Questa sezione raggruppa i due soli comandamenti «positivi» del Decalogo, che concernono il sabato e il rispetto dei genitori. Queste due prescrizioni hanno in comune di mettere in relazione, nella loro formulazione, l'obbedienza dovuta a Dio e la cura del prossimo. Così, il rispetto del sabato ha motivazioni teologiche, ma anche conseguenze umanitarie: tutta la gente di casa può riposarsi, le stratificazioni sociali che prevalgono tutta la settimana (distinzioni tra padrone e servitore, tra nativi del paese e stranieri) scompaiono: tutti diventano uguali di Fronte a Dio in un medesimo riposo. Il confronto fra i due testi mette alla luce le divergenze e, in particolare, la motivazione teologica del comandamento del sabato: mentre il riposo sabbatico si riferisce, in Es 20,11 , all'attività creatrice di Dio, la sua motivazione si fonda, in Dt 5,15, sull'evocazione della storia della salvezza. La specificità teologica dei due decaloghi è così posta in rilievo: la teologia della creazione (cui fa allusione Es 20,11) è di fonte sacerdotale, mentre il riferimento alla storia della salvezza (Dt 5, 15) può essere attribuito a fonte deuteronomista.

III sezione: Es 20,13-17 e Dt 5,17-21

Le prescrizioni riunite in quest'ultima sezione hanno in comune di riguardare relazioni col prossimo: la loro formulazione negativa non deve nascondere ciò che qui è in gioco. La proibizione di questo o quel comportamento permette di ricavare uno spazio di libertà per il prossimo. L'omicidio, il furto, le false testimonianze sono l'espressione del desiderio, della cupidigia, della violenza che possono fare del prossimo uno schiavo. Così la libertà appare una delle poste maggiori dei due decaloghi, libertà e gratuità nelle relazioni tra Dio e Israele, libertà e gratuità fondate sulla memoria storica della liberazione dalla schiavitù d'Egitto. Libertà e gratuità non soltanto nelle relazioni tra l'uomo e Dio, ma anche nelle relazioni sociali: nei decaloghi, la relazione con Dio non procede senza la relazione col prossimo. I decaloghi raggruppano dunque prescrizioni che toccano sia il campo del culto sia quello dell'etica sociale in funzione di una medesima prospettiva: la liberazione offerta da Dio al suo popolo.

Perché due decaloghi?

I due decaloghi sono testi la cui composizione, nella loro forma attuale, può essere riferita il Periodo postesilico. Essi attengono a due teologie diverse, sacerdotale in Es 20 e deuteronomista in Dt 5. L'esistenza di questi due decaloghi riflette la diversità delle opzioni teologiche, al momento del ritorno dall'esilio, in Giudea. Solo una minoranza ha conosciuto l'esilio a Babilonia. La politica di libertà religiosa condotta dal sovrano persiano Ciro a partire dal 538, e poi dai suoi successori, permette il ritorno degli esiliati e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (cf Esd 1,2-4; 5,11 -17; 6,3-5). La lettura dei libri di Esdra e Neemia mostra anche come l'autorità persiana conceda un diritto particolare alle sue minoranze religiose (cf Esd 7,14.26). La composizione di questa legislazione propria dei Giudei porta alla formazione del Pentateuco, della Torà. È in questo testo che si esprimono l'identità e la specificità - giuridica e teologica - del popolo d'Israele, ravvisata in modo diverso dai circoli sacerdotali e dai gruppi «laici» deuteronomisti: mentre la fonte sacerdotale fonda l'identità di Israele sul culto celebrato al Tempio di Gerusalemme dai sacerdoti, è nella storia comune del popolo che gli autori deuteronomisti radicano la stia identità. La riflessione degli autori sacerdotali sfocia nella composizione del tetrateuco, mentre gli autori deuteronomisti pervengono alla redazione del Deuteronomio. Questi due insiemi letterari si fusero poi per formare la Torà.

La presenza, nel tetrateuco come nel Deuteronomio, di un medesimo testo legislativo - escluse le poche divergenze che abbiamo sottolineato - contribuisce a rendere manifesta l’unità della Torà, al di là dei diversi approcci teologici che vi si esprimono. Il Decalogo, preambolo legislativo che precede, nel tetrateuco, il codice dell'Alleanza e le leggi sacerdotali e che precede, nel  Deuteronomio, il codice deuteronomista, serve a  dare lo spirito delle leggi, e a proporne delle  chiavi di interpretazione. A questo proposito, si  possono avanzare due osservazioni principali: 

• In entrambi i testi, Dio è rappresentato come quello che prende l'iniziativa della relazione che lo lega ad Israele, liberando il popolo dalla schiavitù: l'obbedienza alle leggi appare come la risposta che Dio si attende da parte di Israele. Israele è invitato a esprimere la sua fede rispettando le leggi. 

• La relazione con Dio e la relazione col prossimo sono inseparabili l'una dall'altra: la dimensione cultuale della relazione con Dio non può essere separata dalla sua dimensione etica. Così, nel momento in cui Israele completa la redazione della Torà, il Decalogo è inserito nel cuore del racconto dell'Alleanza nel libro dell'Esodo, e come preambolo al codice legislativo del Deuteronomio: esso fornisce una chiave comune per interpretare i codici e le leggi così diverse, risalenti ad epoche differenti, che gli fanno seguito. Esso manifesta l'unità del popolo d'Israele, riunito dalla stessa fede nell'unico Jahvè. Esso dice, al ritorno dall'esilio, l'identità del popoìo ebraico costretto a coabitare in Giudea con altre nazioni, a stare accanto ad altre religioni.   


* Docente di Pentateuco  all’Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia n. 51)

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