Dialogo interreligioso
La teologia delle religioni sta diventando uno dei capitoli più vivaci della teologia cattolica. Nella seconda metà del 20° secolo l'ateismo era diventato l'orizzonte a partire dal quale la teologia cattolica aveva rivisitato le verità centrali del cristianesimo. La stessa cosa sta avvenendo oggi con le religioni non cristiane sulla scena mondiale. Esse obbligano la teologia cattolica a rivisitare e reinterpretare alcune delle sue verità centrali. L'interesse della teologia per le religioni non cristiane risponde alla situazione del nostro mondo, in cui le religioni ormai convivono, anche se esso dallo sviluppo di alcune verità appena abbozzate dal concilio Vaticano Il. Non è un compito facile, come si vede leggendo il documento Dominus Jesus. I problemi che il pluralismo delle religioni pone alla teologia cattolica non sono piccoli né pochi, ma vanno affrontati, per fondare teologicamente, e non solo eticamente, il dialogo interreligioso che oggi è raccomandato dal Magistero della chiesa.
Il discorso di p. Geffré parte dalla novità del dialogo interreligioso necessario in quest'era planetaria dell'umanità, esamina il pluralismo religioso nel contesto della teologia, e cerca di enucleare i fondamenti teologici del dialogo interreligioso.
Novità del Dialogo Interreligioso
Il dialogo interreligioso non è solo una novità, ma anche un opportunità per promuovere una pacifica convivenza tra le religioni dopo tanti, troppi anni, di reciproca ignoranza, di contrapposizioni e perfino di conflitti "in nome di Dio". Esso si sta sviluppando in coincidenza con il sorgere dell'era planetaria, nuova inedita, in cui il mondo si sta unificando come fosse un piccolo villaggio. Ma è un villaggio in cui non c'è la serenità della convivenza. Su di esso pende intatti la minaccia che, paradossalmente, viene dagli straordinari progressi della scienza e della tecnica che mettono a rischio lo stesso genoma umano, senza dire dei guasti ecologici inflitti alla nostra terra.
Davanti all'emergenza di questo "villaggio globale", le religioni, tutte le religioni, devono sentire la loro responsabilità di promuovere dei cammini di salvezza non solo per dopo la morte, ma anche ora nel corso della storia. Le religioni, dialogando tra loro, possono servire le grandi cause dell'umanità.
C'è anche un'altra ragione per ricercare il dialogo tra le religioni. Il mondo globalizzato ha bisogno di un'etica globale che unisca le risorse morali di tutte le religioni con le esigenze etiche secolari, come quelle espresse nella Carta dei diritti dell'uomo. D'altra pane, anche l'etica secolare non ha che da guadagnare se ascolta le lezioni di saggezza delle tradizioni religiose. In questo modo il dialogo interreligioso può contribuire a umanizzare il fenomeno della globalizzazione che altrimenti, seguendo i principi del massimo profitto, del consumismo e del facile edonismo, rischia di distruggere l'umanità.
Questo dialogo e i principi che lo sostengono vengono dal concilio che nella dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra aetate), afferma: «La Chiesa non rigetta nulla di quanto è vero e santo in queste religioni ». Ispirandosi a questo principio, Giovanni Paolo II ha posto una serie di gesti di grande portata simbolica a partire dall'incontro di Casablanca del 1985 a quello di Assisi nell'ottobre 1986 e del 2002 fino al viaggio a Gerusalemme nel corso del giubileo del 2000. Se pensiamo ai secolari conflitti della chiesa con il giudaismo o con l'islam e al secolare misconoscimento per le religioni non cristiane, si comprende la portata del cambiamento promosso dal Vaticano II anche se non se ne sono tratte ancora tutte le conseguenze. Era ora che questo avvenisse e, vedendolo, non possiamo che rallegrarcene.
La nuova teologia delle religioni
Non sorprende che la teologia cattolica abbia fatto e faccia ancora fatica a riconoscere le implicazioni strettamente teologiche del nuovo atteggiamento della chiesa nei confronti delle religioni non cristiane. È una reale novità che non. viene solo dal fatto che viviamo in un'epoca di tolleranza e di rispetto della libertà di coscienza, e neppure perché oggi crediamo che gli uomini di buona volontà sono salvati da Dio anche fuori della Chiesa. Questo io si sapeva anche prima del Vaticano II. L'affermazione Extra ecclasiam nulla salus ormai non crea più problemi. Del resto è stata condannata da Pio XII nel 1949.
Ma finora non si era ancora elaborata una teologia delle religioni, perché il concilio (Nostra aetate) si è limitato a dare un'etica del dialogo con le altre religioni senza offrirle un chiaro fondamento teologico. In altre parole Nostra aetate non ha voluto o potuto affermare che le religioni non cristiane erano dei cammini di salvezza che conducevano all'Assoluto. Ha fatto appello alla dottrina Patristica dei «semi del- Verbo», ma senza elaborare una teologia delle religioni.
Per questa ragione in questi ultimi vent'anni, sotto la spinta dell'emergenza delle religioni, parecchi teologi hanno cercato di andare oltre al problema della «salvezza degli infedeli», ossia dei singoli individui, per valutare teologicamente la molteplicità delle tradizioni religiose considerate nella loro positività storica. Tra molte resistenze e inevitabili inesattezze, sta nascendo oggi una teologia del pluralismo religioso che si interroga sul significato delle religioni non cristiane all'interno del disegno di Dio: le grandi religioni non cristiane, nella loro concreta storicità, hanno e favoriscono un rapporto positivo con l'Assoluto? Sono dei cammini di salvezza?
La teologia del compimento della «preparazione evangelica»
La teologia del pluralismo religioso non comincia da zero e neppure solo dalla dottrina conciliare di Nostra aerate. Già prima del concilio, alcuni teologi come Henri de Lubac, Jean Daniélou, Yves Congar, avevano abbozzato una teologia del compimento che considera le religioni pagane come una "preparazione evangelica" al cristianesimo. Questa è la teologia che sta alla base della dichiarazione Nostra aetate e del decreto Ad gentes. Nella costituzione Lumen gentium, a proposito dei non cristiani, si dice che «sono ordinati al popolo di Dio (e che)... tutto ciò che di buono e di. vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo» (16 e 17). Anche Karl Rahner, con la sua teoria dei cristiani anonimi e la sua visione delle religioni intese come concretizzazione della volontà salvifica universale di Dio, rientrava, a modo suo, nella logica della teologia del compimento.
Tuttavia da parecchi anni ormai, numerosi teologi sono sempre più coscienti dei limiti di questa teologia del compimento, perché non favorisce un dialogo interreligioso su un piede di parità e non prende sul serio, in tutte le sue conseguenze, l'alterità delle altre tradizioni religiose, quella irriducibile differenza costitutiva cioè che le caratterizza nel rapporto con il cristianesimo.
La teologia tradizionale del compimento, parte dall'universalità del mistero di Cristo, e concepisce l'unicità del cristianesimo come una unità che include tutti i valori di verità e di bontà di cui le altre religioni possono essere portatrici. È questa la posizione dell'inclusivismo in opposizione all'esclusivismo dell'Extra ecclesiam nulla salus, che nega ogni valore salvifico alle religioni non cristiane.
Oggi l'attuale tendenza della teologia delle religioni cerca di superare anche la teologia inclusiva del compimento per giungere a una teologia del pluralismo religioso, che riconosce un valore salvifico alle altre religioni dentro il grande piano di salvezza pensato da Dio. «Senza mettere in questione l'unicità del mistero di Cristo, cioè un cristocentrismo costitutivo, [questa nuova posizione] non esita a parlare di un pluralismo inclusivo nel senso che riconosce i valori propri delle altre religioni». Tutto ciò esige che si risponda alla domanda, improponibile nella teologia tradizionale: Perché esiste una pluralità di cammini verso Dio? Non sarà Dio che li ha voluti?
PLURALISMO RELIGIOSO, PROBLEMA TEOLOGICO
La domanda è stata implicitamente posta dal concilio Vaticano quando ha osato dire che le religioni non cristiane sono portatrici di valori salvifici, anche se non le ha dichiarate «vie di salvezza». Ora la teologia cristiana deve interpretare (per questo è una teologia ermeneutica) le verità teologiche a partire dall'esperienza storica attuale della Chiesa.
Oggi la Chiesa si trova davanti una molteplicità di tradizioni religiose che, a occhio umano, sembra insormontabile proprio quando, sulla soglia del terzo millennio, essa riconosce che la cultura occidentale è una cultura particolare, limitata. una tra le culture nel mondo, anche se, per venti secoli, è stata la matrice della teologia cristiana.
È normale - alla luce delle affermazioni conciliari - che ci siano dei teologi, cattolici e non, che si chiedono se questa molteplicità (o pluralismo) religiosa di fatto non possa rimandare a un pluralismo religioso di principio o di diritto che corrisponderebbe a un misterioso volere di Dio.
Il silenzio della Bibbia e Dominus Jesus
Karl Barth (insieme a tutti gli esclusivisti) troverebbe questa domanda del tutto inutile ed immotivata, perché non formulata nella Scrittura. Tuttavia esso è oggi inevitabile e, anzi, carica di conseguenze positive, perché allarga le prospettive della storia della salvezza. Questa domanda, anche se non si trova nella Bibbia, spiega certe intuizioni del concilio in questa materia, e permette di andare al di là dell'antica problematica della salvezza dei singoli infedeli.
Claude Geffré ritiene che l'ipotesi teologica di una teologia cristiana delle religioni stia in piedi anche dopo la pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus che condanna quei teologi che distinguono un pluralismo religioso di fatto e un pluralismo di diritto. Secondo il documento, questa indebita distinzione viene da un'ideologia che dispera di raggiungere la verità e che favorisce il relativismo che alcuni teologi contemporanei professano per favorire il dialogo con le religioni non cristiane rimettendo in questione il carattere unico della mediazione di Cristo e relativizzando la rivelazione cristiana come se non fosse completa e definitiva. Ma è «facile mostrare, testi alla mano, - dice Claude Geffré - che i teologi che distinguono un pluralismo di fatto e uno di diritto, non si vendono in alcun modo all'ideologia del pluralismo [relativista] e sarebbero molto stupiti di scoprire che questa distinzione conduce fatalmente a considerare come superate le verità elencate nel seguito del numero 4 della dichiarazione, in particolare il carattere completo e definitivo della rivelazione cristiana, l'ispirazione delle Scritture, l'unità personale del Verbo con Gesù di Nazareth, l'unicità e l'universalità del mistero di Cristo ecc.. Senza pretendere di conoscere il perché della pluralità dei cammini verso Dio, cercano semplicemente di interpretare un pluralismo, che sembra insormontabile, alla luce di quello che sappiamo della volontà salvifica universale di Dio". Se il pluralismo religioso non può essere solo la conseguenza dell'accecamento colpevole degli uomini nel corso della storia, e, meno ancora, il segno di un fallimento della missione della Chiesa allora è«teologicamente permesso d'interpretarlo come un pluralismo che corrisponde a un misterioso disegno divino».
È vero che la Scrittura non risponde alla domanda sul perché del pluralismo religioso e testimonia solo della profonda ambiguità della storia religiosa dell'umanità. Lo stesso concilio riconosce che le divergenze religiose possono essere la manifestazione dell'evoluzione e delle cadute dello spirito umano tentato dallo spirito del male nella storia, ma nello stesso tempo esse possono essere anche l'espressione del genio e delle ricchezze spirituali dispensate da Dio alle nazioni.
Anche in san Paolo si trovano delle affermazioni apparentemente contraddittorie: egli condanna i pagani che non hanno riconosciuto Dio nella creazione e cadendo nell'idolatria e nella superstizione (Rm 1, 18-22), mentre altrove ammira entusiasticamente lo spirito religioso degli ateniesi e annuncia il Dio ignoto che essi adorano nella loro ignoranza (At 17, 22-34). Comunque sia, il fenomeno storico della molteplicità delle religioni va letto alla luce dell'affermazione del Nuovo Testamento sulla volontà salvifica universale di Dio, che raggiunge tutti gli uomini fin dalle origini: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Questa universalità della salvezza è ribadita negli Atti degli Apostoli da Pietro in casa di Cornelio: «In verità sto rendendomi conto ché Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10, 34-35).
Così il pluralismo religioso può essere considerato come un disegno misterioso di Dio, le cui vie sono conosciute solo da lui. Lo dice bene a testo di Gaudium et spes, 22.
Testimonianza dei Padri della Chiesa
Oltre la testimonianza ambigua delle Scritture sulla possibilità del pluralismo religioso di principio, si potrebbe invocare il giudizio severo dei Padri della Chiesa contro le grandi religioni del loro tempo, che essi considerano idolatriche, a rischio di magia e di superstizione e perfino ispirate dal diavolo. Ma questo giudizio catastrofico va collocato nel suo contesto storico. I Padri non potevano prendere posizione nei confronti di religioni come l'islam, nato all'inizio del 7° secolo, e non conoscevano che molto poco le grandi religioni dell'oriente.
Ma si noti che Giustino, Clemente d'Alessandria e Origene, mentre giudicano negativamente le religioni del loro tempo, hanno un giudizio molto positivo della «saggezza delle nazioni», ossia della filosofia greca. In essa riconoscono i semi del Verbo e i riflessi della luce del Logos, il Verbo stesso di Dio, che considerano come una preparazione, un dono anticipato e una prefigurazione della pienezza della verità che coincide con l'evento-Gesù Cristo.
Sappiamo che Nostra aetate fa riferimento diretto alla dottrina patristica dei semi del Verbo. Oggi a distanza di 40 anni possiamo dire che i Padri del Vaticano II non hanno esitato ad applicare non solo agli individui, ma anche alle attuali religioni non cristiane, un insegnamento che per se riguarda i germi di verità, bontà e anche santità che possono abitare l'anima e il cuore degli individui. Lo dice il numero 2 di Nostra aetate: «La Chiesa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere; quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono (referunt) un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini». Particolarmente nitido è Ad gentes: «Quanto di bene si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti particolari e nelle culture dei popoli, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio…» (9). Ancora più esplicito è il documento documento Dialogo e annuncio (pubblicato nel 1991) al numero 29: «È attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza, che i membri delle altre religioni rispondono positivamente all'invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come il loro Salvatore» (cf Ad gentes, 3,9,11).
FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Il fondamento teologico del pluralismo religioso e del dialogo interreligioso è la concezione secondo cui l'economia del Verbo incarnato è il sacramento di una economia più vasta che coincide con la storia religiosa dell'umanità e che persiste anche dopo l'incarnazione del Verbo.
Per giustificare teologicamente il dialogo interreligioso, bisogna rivenire al mistero dell'incarnazione. Non basta dire che la storia degli uomini è da sempre arricchita dei semi del Verbo di Dio e dell'azione e delle ispirazioni dello Spirito divino. Dal momento in cui il Verbo si è fatto carne in Gesù di Nazareth, è il mistero di Cristo, che è passato per la morte e la risurrezione, che assume una portata universale per tutta la storia dell'umanità. La storia degli uomini non è mai stata abbandonata a se stessa. Dal momento in cui nell'evoluzione dell'universo appare lo spirito umano, la storia dell'umanità è una storia di libertà di uomini che peccano e che vengono salvati, in cui è impossibile discernere ciò che viene dal genio religioso dell'uomo e ciò che viene dal dono di Dio.
La storia universale è la storia dell'uomo che ricerca quell'Assoluto, che noi chiamiamo Dio, e, contestualmente, la storta di un Dio che cerca l'uomo. Secondo l'intuizione di Karl Rahner, le religioni si possono considerare delle oggettivazioni della ricerca dell'uomo da parte di Dio secondo la sua volontà salvifica universale. Ciò significa che, malgrado i limiti nell'ordine conoscitivo è le imperfezioni nell'ordine morale, che caratterizzano le religioni, queste possono essere considerate come dei tentativi di ricerca del vero Dio da parte degli esseri umani ben intenzionati, anche se spesso maldestri, imperfetti e poco riusciti. Lo spirito creato si definisce come una partecipazione all'essere tutto relativo a Dio, non solamente al Dio creatore, ma al Dio che fa grazia e cerca di comunicare, quanto possibile, se stesso. Così la rivelazione storica, che coincide con la storia del popolo di Israele e che trova la sua perfezione nella storia del popolo della Nuova Alleanza, è il sacramento, il segno e strumento e concentrazione di una rivelazione che è immanente e coestensiva alla storia umana.
Fin dall'origine il disegno creatore di Dio è disegno di salvezza in Gesù Cristo (Ef 1,4; 1Pt 1,20), che si esprime nella molteplicità dei popoli, delle culture delle religioni. È forse impossibile pensare che egli non abbia permesso e benedetto la molteplicità delle forme religiose conseguenti alla diversità delle culture? Malgrado gli errori e le imperfezioni, le molteplici religioni concorrono, a modo loro, a una migliore manifestazione della pienezza inesauribile del mistero di Dio. Secondo una formula cara al padre Schillebeeckx, «Dio non cessa di raccontarsi nella storia». Per questo Giovanni Paolo II, in un discorso ai cardinali dopo l'incontro di Assisi, dichiarava che l'impegno per il dialogo interreligioso, raccomandato dal concilio, si giustifica solo se le differenze religiose non si oppongono al disegno di Dio
Il cristianesimo come religione di dialogo
«Il difficile compito di una teologia delle religioni è di cercare di pensare la molteplicità dei cammini verso Dio senza compromettete l'unicità della mediazione di Cristo e senza svendere il privilegio unico del cristianesimo il quale non ha senso che in riferimento a Gesù Cristo, che è molto più d'un fondatore di religione, dato che è il Dio che viene a prendere dimora in meno agli uomini» (Geffré).
La posta in gioco della teologia delle religioni è di grande importanza: si tratta di riaffermare la singolarità del cristianesimo come testimone dell'universalità e unicità del mistero di Cristo, esorcizzando nel contempo ogni pericolo di dominazione o, come lo chiama provocatoriamente Geffré, di «imperialismo» cristiano. Per questo si deve ricuperare il carattere dialogico del cristianesimo.
La singolarità cristiana
Non c'è dubbio: la dichiarazione Dominus Jesus è un avvertimento molto serio, per quei teologi che, per amore di dialogo, sono tentati di rimettere in questione l'universalità salvifica del mistero di Cristo. Per dialogare su un piano di parità, essi adottano un pluralismo che sacrifica il cristocentrismo inclusivo per un teocentrismo pluralistico. In altre parole essi dicono che tutte le religioni, ivi compreso il cristianesimo, vanno verso a Dio, ruotano attorno alla Realtà ultima dell'universo. (4) Con il pretesto che «solo Dio salva», essi relativizzano la salvezza in Gesù Cristo nel senso che Cristo sarebbe sì una via normativa per i cristiani, ma non sarebbe la via costitutiva della salvezza per tutti gli uomini.
Questo è contrario all'esplicita dottrina del Nuovo Testamento, secondo cui fin dalla creazione, Dio ha voluto legare il suo eterno progetto di salvezza al Cristo.
Si deve però comprendere bene l'unicità della mediazione del Cristo. L'unica mediazione di Cristo non esclude altre vie di salvezza, purché queste siano considerate delle mediazioni derivate o partecipate, che non hanno efficacia salvifica che se riferite al loro collegamento: nascosto, ma reale, con il mistero di Cristo.
Giovanni Paolo lo dice con chiarezza: «Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (Redemptoris missio, 5). È perciò possibile conciliare un cristocentrismo costitutivo e quello che possiamo chiamare un pluralismo inclusivo che, secondo il concilio, considera derivati dall'evento-Cristo i valori positivi o gli elementi di «grazia e verità» (cf. Ad gentes, 9) che si trovano nelle altre religioni.
Per permettere il dialogo con le religioni non cristiane non è necessario sacrificare il cristocentrismo a un indeterminato teocentrismo. Certo, si potrà sempre obiettare che la pretesa di universalità del cristianesimo tradisce un certa voglia di dominio, una forma di imperialismo religioso, nei confronti delle altre religioni. Ma per il futuro, dice Geffré «siamo invitati a non confondere l'universalità del cristianesimo, come religione storica, con l'universalità del mistero di Cristo» La dichiarazione Dominus Jesus ha voluto, e giustamente insistere su certe derive attuali della teologia che comprometterebbero il carattere completo e definitivo della rivelazione cristiana. Ma contro ogni falsa assolutizzazione, bisogna ricordare il carattere storico e relativo della rivelazione cristiana, almeno nel senso che essa è destinata ad essere accolta dall'intelligenza umana con i suoi limiti creaturali. Non ci ha forse avvertiti Gesù della natura escatologica della rivelazione quando ci ha promesso il suo Spirito santo per condurci alla conoscenza della verità "tutta intera" (Gv 16,14)?
La rivelazione testimoniata dal Nuovo Testamento non esaurisce la pienezza delle ricchezze del mistero di Cristo. Abbiamo il diritto di dire che la verità cristiana non è esclusiva e neppure inclusiva di nessun'altra verità religiosa. Essa è certamente singolare, ma anche relativa a quella parte di verità che è portata dalle altre religioni. In altre parole i germi di verità e di bontà, disseminati nelle altre tradizioni religiose, sono dono dello Spirito santo che è sempre all'opera nella storia e nel cuore degli uomini, prima come dopo la venuta di Gesù Cristo. Perciò non è corretto parlare di valori implicitamente cristiani, come fa la teologia del compimento. È preferibile parlare di valori cristici seminati nelle religioni non cristiane. Essi non si lasceranno ricondurre alla religione cristiana, anzi manterranno la loro differenza, ma è proprio in quanto differenti che troveranno il loro autentico e definitivo compimento nel Cristo, anche se non si lasceranno integrare nel cristianesimo. Dio è più grande del cristianesimo! Certo ai teologi toccherà di sopportare l'esistenza enigmatica di una pluralità di tradizioni religiose con le loro irriducibili differenze. Queste non si lasceranno facilmente armonizzare con il cristianesimo. Cercare di «completare» il cristianesimo con le verità parziali che si trovano nella altre religioni sarebbe pretenzioso e disconoscerebbe il valore unico e singolare della rivelazione cristiana. Accettando invece queste diversità e cercando di conoscere la ricchezza delle dottrine e della prassi delle altre religioni, potremo procedere a una arricchente rilettura delle verità cristiane che ci farà apprezzare sempre più la singolarità del cristianesimo. Secondo la pedagogia divina nella storia della salvezza, è lo straniero colui che permette una migliore intelligenza dell'identità del popolo di Dio. Questo vale per la conoscenza di Dio, che è sempre più grande dei nomi che gli diamo, come per la relazione con Dio, la religione, che deve superarsi sempre nella ricerca della perfezione del culto "in spirito e verità" (Gv 4,2-3).
CARATTERE DIALOGICO DEL CRISTIANESIMO
Si può essere dispiaciuti che la dichiarazione Dominus Jeus, per combattere il relativismo, finisca per mettete sullo stesso piano, assolutizzandola, l'universalità del Cristo e quella della Chiesa o del cristianesimo. Se il cristianesimo può dialogare con le altre religioni, è perché porta in se stesso i principi dei suoi limiti. Lo si vede esaminando tre aspetti: 1) la dialettica Israele-Chiesa primitiva. 2) il paradosso dell'incarnazione, cioè l'unione dell'assolutamente universale e dell'assolutamente particolare, e 3) la kenosi del Dio cristiano.
La dialettica Israele-Chiesa
La questione d'Israele è d'importanza decisiva per una teologia cristiana delle religioni. Lo «scisma originario», la separazione cioè di Israele e della chiesa primitiva, è indice di un dialogo originario iscritto nell'atto di nascita del cristianesimo. La maggioranza dei teologi è oggi d'accordo nell'affermare che, malgrado la disapprovazione divina, Israele è ancora oggi depositaria dell'elezione delle promesse di Dio (Rm 11,1.29). In altre parole, Israele rappresenta qualcosa di irriducibile al cristianesimo, che non si lascia facilmente integrare nella chiesa storica e rimane in un confronto con essa fino alla fine dei tempi. Per questo, contro un certo assolutismo cattolico proprio della teologia della Controriforma, bisogna riconoscere con Hans Urs von Balthasar la «non-cattolicità» della Chiesa nella sua dimensione storica.
A partire dall'irriducibilità d'Israele si può capire l'irriducibilità delle grandi religioni del mondo al cristianesimo. C'è una certa analogia tra il rapporto del cristianesimo primitivo con il giudaismo e quello del cristianesimo con le altre religioni. Si deve accettare, senza vedervi una contrapposizione, che le promesse fatte a Israele trovino il loro compimento nel popolo della nuova alleanza. La Chiesa, a rigor di termini, non prende il posto di Israele, si tratta piuttosto di una dilatazione dell'unico popolo di Dio.
Questo può aiutarci a reinterpretare in senso non "totalitario" l'incontestabile nozione del compimento. Essa non è una sostituzione. Gesù non ha voluto sostituire all'antica una nuova religione, ma ha allargato alle nazioni pagane un'eredità che era monopolio esclusivo del popolo eletto.
Se le cose stanno così, è temerario considerare la relazione della Chiesa primitiva con il giudaismo come un esempio del rapporto attuale del Vangelo con le altre religioni e culture? Non è forse lecito allora parlare d'un pluralismo religioso di principio è non solamente di fatto?
Il paradosso dell'incarnazione
Per manifestare il carattere dialogale e non «imperialista» del cristianesimo, bisogna ritornare ancora una volta al cuore stesso della fede cristiana, al paradosso cioè dell'incarnazione, e utilizzare la categoria dell'universale concreto, elaborata da Nicola Cusano. Da venti secoli i cristiani confessano Gesù di Nazareth come il Cristo, colui che ha rivelato l'amore di Dio per tutti gli esseri umani non solo con la sua parola, ma attraverso la sua umanità concreta. Identificare Dio come realtà trascendente a partire dall'umanità concreta di Gesù è il tratto distintivo del cristianesimo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9), è lui la manifestazione dell'amore assoluto di Dio, che tuttavia si manifesta in termini non divini, "corporalmente" cioè, nell'umanità limitata e contingente di Gesù di Nazareth che è perciò l'universale concreto. Gesù è veramente l'icona del Dio vivo a titolo unico pieno e definitivo, non ci può essere un altro mediatore. Ciononostante dobbiamo guardarci bene dall'identificare l'elemento storico e contingente di Gesù con quello cristico e divino. È proprio la legge dell'incarnazione di Dio attraverso la storia che ci porta a pensare che Gesù non esaurisce la manifestazione di Dio, perché l'umanità particolare di Gesù non può tradurre in modo adeguato le ricchezze contenute nella pienezza del Cristo glorificato. E Dio, realtà trascendente, rivelata nell'umanità di Gesù, rinvia a un Dio invisibile che sfugge a ogni identificazione e rivelazione (Gv 1,18). Il cristianesimo pertanto non esclude le altre religioni che testimoniano esperienze religiose di Dio diverse, che identificano in altro modo la realtà trascendente dell'universo. È proprio il carattere originario del cristianesimo, religione marcata dall'incarnazione, che diventa il fondamento della sua natura essenzialmente dialogica che consente e suppone altro da sé. Come religione dell'incarnazione il cristianesimo è la religione del paradosso assoluto.
Secondo Paul Tillich, la persona di Gesù, come manifestazione concreta del Logos universale, realizza l'identità tra l'assolutamente universale e l'assolutamente particolare. Il Cristo è l'"universale concreto", la realtà concreta attraverso cui i credenti hanno accesso all'Assoluto. Tuttavia è egli stesso sottomesso al giudizio del Dio incondizionato, che solo è l'Assoluto. Analogicamente, il cristianesimo come religione della rivelazione finale su Dio, esclude ogni pretesa di essere assoluta, cioè non condizionata. In altre parole, nessuna realizzazione storica del cristianesimo, avvenuta in questi venti secoli, può presumere di essere la religione della completa e definitiva rivelazione su Dio
La kenosi del Dio cristiano
Finalmente, per eliminare dal cristianesimo ogni veleno di «totalitarismo» e favorire il dialogo interreligioso, la singolarità del cristianesimo va letta alla luce del mistero della croce. Geffré afferma che «la teologia delle religioni è invitata a meditare maggiormente sulla dimensione kenotica del Dio che si rivela in Gesù Cristo. La croce è la condizione della gloria ed è la rinuncia a una particolarità che è la condizione per una concreta universalità. La croce è il simbolo di un'universalità sempre legata al sacrificio di una particolarità. Gesù muore alla sua particolarità per rinascere nella figura di una universalità concreta nella figura del Cristo». È la kenosi di Cristo, la rinuncia cioè alla sua uguaglianza con Dio, che permette la risurrezione nel senso più largo della parola. In questa stessa linea possiamo affermare che la condizione per il rapporto con l'altro, con lo straniero, con il differente è la consapevolezza di una mancanza. (5) Come non è possibile avere un'esperienza cristiana nell'ordine della preghiera senza la coscienza di un'Origine assente, così non c'è pratica cristiana senza la consapevolezza di una mancanza in riferimento alle altre credenze e alle altre pratiche umane. Il dialogo con le altre esperienze religiose è iscritto nella vocazione originaria del cristianesimo.
Una tale dialettica della particolarità e del suo superamento nell'apertura all'altro ci aiuta ad articolare l'universalità del messaggio cristiano con la pluralità delle tradizioni religiose e culturali. La pratica dell'alterità e l'ospitalità per lo straniero non sono delle scelte facoltative. Esse derivano da un'esigenza della natura e attestano l'alterità di un Dio sempre più grande.
Da tutto questo possiamo concludere che non c'è definizione della singolarità cristiana fuori della croce del Cristo come figura dell'amore assoluto. L'identità cristiana richiama e richiede il suo stesso superamento. Questo è l'ultimo fondamento del dialogo interreligioso. Lungi dall'esercitare una violenza dispotica nei confronti delle altre religioni, l'essere-se-stesso cristiano non ha consistenza che nel suo essere-per-gli-altri. Diversamente da una perfezione dell'essere d'ordine statico, l'esistenza cristiana si definisce per un certo non-essere e un'apertura a tutto ciò che essa non è. Riconoscere l'altro nella sua differenza e il limite che esso ci impone è la logica stessa di un'esistenza pasquale. Si potrà allora parlare non di una unicità d'eccellenza e d'integrazione, ma dell'unicità di un divenire che è fatto di consenso e di servizio.