Ecumene

Domenica, 14 Novembre 2004 20:45

Un patriarcato che divide

Vota questo articolo
(0 Voti)

di Giovanni Ferrò


Quaranta anni di dialogo ecumenico sono pericolosamente in bilico. E la loro sorte sta tutta in un flebile sì o no. A seconda della risposta - negativa o positiva - che Giovanni Paolo II darà alla richiesta della Chiesa greco-cattolica ucraina di essere elevata al rango di "patriarcato", si saprà se l'Europa potrà realmente respirare con i suoi due polmoni, occidentale e orientale, oppure se le due sponde del cattolicesimo e dell'ortodossia sono destinate ad allontanarsi come iceberg alla deriva nell'inverno dell'ecumenismo, in un continente in cui il cristianesimo rischia già di per sé il naufragio.

La pressante richiesta del cardinale Lubomyr Husar, arcivescovo maggiore di L’viv, e dell'intero Sinodo greco-cattolico ucraino (in rappresentanza di circa 5 milioni e mezzo di fedeli), giace sulla scrivania di Papa Wojtyla da mesi, inevasa. Per ora, insomma, il Pontefice ha deciso di attendere. E in questo caso, la prudenza è una scelta significativa: quella che pare una semplice decisione interna alla Chiesa cattolica (la trasformazione di un arcivescovato maggiore sui iuris in patriarcato) avrebbe conseguenze ecumeniche pesantissime. Taluni sostengono addirittura disastrose e forse irreparabili. Gli ortodossi infatti - non soltanto il patriarcato di Mosca, ma anche quello di Costantinopoli e gli altri dell'Est europeo, Belgrado, Sofia, Bucarest... - non esiterebbero a interrompere immediatamente ogni rapporto con la Chiesa di Roma.

Tentare di ricucire una lacerazione del genere, a quel punto, sarebbe impresa quanto mai ardua. Almeno a medio termine.

Che il tema dell'uniatismo, insieme a quello del cosiddetto "proselitismo" cattolico in Russia, sia la cartina di tornasole del dialogo con gli ortodossi è noto da tempo. La querelle ha radici storiche e teologiche complesse, con torti e ragioni equamente suddivisi da una parte e dall'altra, su cui - nelle pagine che seguono - si concentra con grande finezza e sensibilità ecumenica il teologo russo Vladimir Zelinskij.

La cosa certa, però, è che i cattolici di rito greco dell'Ucraina, per lunghi anni piccolo vaso di coccio tra potenti vasi di ferro (i cattolici latini polacchi da una parte, gli ortodossi-russi dall'altra), hanno fatto della questione del patriarcato il simbolo della loro emancipazione, l'emblema del riscatto e di una sorta di rivincita storica. Altrettanto certo è che gli ortodossi - per i quali, da sempre, la forma è anche sostanza - interpreterebbero l'elevazione della Chiesa "uniate" al rango di patriarcato (con sede a Kiev) come la conferma dei loro antichi sospetti: i greco-cattolici come "quinta colonna" di Roma; la strategia, convertire e "latinizzare" gli orientali, colpendo al cuore il mondo slavo-ortodosso; il mezzo, quello di presentarsi come i veri e unici eredi degli evangelizzatori della Santa Rus', Cirillo e Metodio.

L'intera partita è, dunque, non soltanto complicatissima, ma decisiva. Ai piani alti vaticani hanno deciso di giocarla con attenzione: in una riunione ai massimi livelli, che si svolse agli inizi di dicembre, si dichiararono nettamente contrari all'ipotesi di un patriarcato cattolico in Ucraina il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani; il nunzio in Russia, monsignor Antonio Mennini; il cardinale Ignace Moussa Daoud, presidente del Pontificio consiglio per le Chiese orientali, che pure dovrebbe rappresentare l'anima più sensibile alle richieste dei cattolici ucraini. Orientati verso una somma prudenza, il cardinale Angelo Sodano e tutta la Segreteria di Stato. L'unica voce in favore del cardinale Husar fu quella del segretario del Papa, monsignor Stanislao Dziwisz.

Questo episodio non deve far pensare che la posizione "pro-uniati sia isolata e minoritaria, dentro e fuori la Curia. Due tendenze si oppongono e si contrastano. L’esempio rivelatore è il caso dell'intervista rilasciata da un gesuita americano, padre Robert Tait, del Pontificio istituto orientale, alla vigilia del delicato viaggio del cardinale Kasper in Russia, dal 16 al 20 febbraio scorso.

In un colloquio con John Allen del National Catholic Reporter, Taft spiegava con linguaggio duro e anche un po' rozzo perché - a suo giudizio - il Vaticano dovesse smettere di essere "gentile" con gli ortodossi e dovesse invece dare "via libera" alla richiesta di erezione del patriarcato greco-cattolico. "Il mio consiglio agli Ucraini", disse in quell'occasione, "è di dichiarare pubblicamente la costituzione del patriarcato. E, se pure l'approvazione della Santa Sede non dovesse arrivare, dovrebbero respingere tutta la posta che non arrivava indirizzata al patriarcato. Non solo pretendere, ma farlo realmente. La Segreteria di Stato manda una lettera indirizzata all’arcivescovo? Non abbiamo un arcivescovo, abbiamo un patriarca. Rimandatela indietro con scritto "indirizzo sconosciuto"". E se gli ortodossi la prendessero male? "Al diavolo Mosca", è la risposta di Taft.

Gli animi, dunque, sono accesi. Al punto da valutare ipotesi di "disobbedienza civile" alla Santa Sede. Quanto a padre Taft, ufficialmente il Vaticano non ha mai replicato. In una intervista rilasciata a Il Regno, il cardinale Kasper però afferma: "Io credo che l'ecumenismo sia per la Chiesa cattolica una priorità, una scelta irrinunciabile. È ciò che ha costantemente sostenuto Giovanni Paolo II lungo tutto il pontificato. Questa priorità è parte del Magistero della Chiesa, ha un carattere teologicamente vincolante".

Il punto è questo, in effetti: se il dialogo ecumenico non è solo questione di diplomazia e politica, ma se invece appartiene al nucleo del Vangelo, e quindi al core business della Chiesa oggi, allora mandare "al diavolo" Mosca non è una semplice mancanza di buona educazione, ma un peccato contro il comandamento dell'unità dei cristiani.

 

di Vladimir Zelinskij

Le ferite storiche, le ragioni dell'altro

La recente decisione (dicembre 2003) del primate della Chiesa greco-cattolica Ucraina, il cardinale Lubomyr Husar, di trasferirsi da Leopoli alla capitale Kiev, è stato percepito nel mondo ortodosso come l'ultimo atto di un conflitto che divide in modo trasversale il popolo ucraino, che ha la stessa radice etnica e culturale, la stessa mentalità, lo stesso rito. "Anche la stessa fede", afferma il cardinale. Ma gli ortodossi ribattono: "La nostra fede è diversa: la vostra è di matrice latina sotto una copertura orientale, mentre la nostra è vera ed autentica". L'ostilità che da più di 400 anni divide il popolo ucraino, pur avendo vissuto momenti di interruzione, non ha mai visto l'ombra di un armistizio.

Le ferite generate da questa ostilità sono troppo numerose e ancora troppo aperte per essere esaminate in modo puramente accademico. Ciò nondimeno proveremo a presentare - per quanto è possibile in modo imparziale - le due verità in antitesi, sotto i profili storico, religioso e umano.

Il seme del plurisecolare conflitto fu deposto già con la divisione dell'antica Rus' nei due Stati di Lituania e di Moscovia. In seguito all'invasione dei mongoli nel XIII secolo la Rus' di Kiev, battezzata dal gran principe Vladimir nel 988, era diventata parte del principato lituano. Successivamente all'unione di Lublino del 1569 la Rus' lituana con la sua popolazione di "fede della legge greca", come si diceva all'epoca, fu annessa al regno polacco, di popolazione cattolica. Sul rispetto della libertà di coscienza, per dirla in termini moderni, la Polonia era infinitamente più tollerante della Rus' di Mosca (siamo all'epoca di Ivan il Terribile), ma nel XVI secolo ogni tolleranza religiosa aveva i suoi limiti.

In questo contesto gli ortodossi - perlopiù gente semplice, artigiani e contadini che vivevano sotto una forte pressione economica e sociale - furono sottoposti anche a una discriminazione nella pratica religiosa. La Chiesa ortodossa, pur non apertamente perseguitata, si sentiva umiliata e stretta in un giro di vite in parte anche provocato dall'autorità polacca, che voleva separare da Mosca la metropolìa di Kiev per spingerla all'unione con Roma. Questa la versione ortodossa dei fatti.

Secondo i cattolici, l'unione della Chiesa ucraina con Roma non era altro che il ritorno legittimo alle intenzioni originarie del Concilio unionista di Firenze-Ferrara del 1439-1440, rigettato senza valido motivo da Mosca e successivamente dal resto del mondo ortodosso. Nel 1595 alcuni vescovi ortodossi, fra cui Ipatij Potsei, Kirill Terletskij e altri, si recarono a Roma e sottoscrissero l'atto di unione con il papa Clemente VIII. Ciò che colpisce gli ortodossi non è tanto la loro sottomissione a Roma, ma l'imposizione della teologia romana e di dogmi inaccettabili per gli orientali (il "Filioque", il concetto del purgatorio, ecc.).

Nel 1596 fu convocato un concilio nella città di Brest (nella Bielorussia di oggi) che proclamò l"'unione" con la Chiesa di Roma della Chiesa ortodossa che si trovava nel Regno polacco. Contemporaneamente e nella stessa città fu tenuto un altro concilio semi-clandestino in cui gli ortodossi scomunicarono gli "uniti.". Questo scontro si estese anche alla terminologia impiegata per denominare le Chiese sottomesse a Roma, definitesi "greco-cattoliche", ma chiamate spregiativamente "uniate" dagli ortodossi. Se dai greco-cattolici l'unione con Roma fu intesa come "ritorno dallo scisma", dagli ortodossi fu definita "complotto di vescovi, ordito dietro la schiena del proprio gregge".

Certamente questo gregge non ebbe vita facile. Dopo l'unione, la pressione sugli ortodossi fu appesantita. Il Seim (il parlamento) polacco promulgò contro il culto ortodosso un gran numero dileggi speciali, sorprendentemente simili alle ben note "istruzioni segrete" di stampo sovietico. Lamentava un deputato ortodosso al Seim di Varsavia nel 1620: "Nelle grandi città le chiese sono state sigillate, le proprietà ecclesiastiche sono state rubate, nei monasteri non ci sono più monaci, i bambini muoiono senza battesimo, i corpi dei defunti sono trasportati alla fossa come carogne e senza il rito funebre, i mariti vivono con le mogli senza benedizione ecclesiale...".

La situazione diventò insopportabile per gli ortodossi sotto l'arcivescovo di Polotsk, Giosaphat Kunzewicz, ucciso dalla folla dopo aver chiuso tutti i luoghi di culto non-unito esistenti nel territorio della sua metropolìa. "La coscienza mi vieta di concedere queste chiese perché in esse si bestemmia Iddio", scriveva Kunzewicz, il "santo martire, apostolo dell'unità", la cui icona si trova in quasi tutte le chiese greco-cattoliche. L’"implacabile persecutore", per gli ortodossi.

Tutto il XVII secolo fu attraversato da conflitti dei cosacchi ortodossi con i polacchi e i greco-cattolici. Questa guerra senza fine spinse l'atamano dei cosacchi Bogdan Khmelnitskij a chiedere nel 1654 allo zar Alessio - forse, a malincuore - l'adesione della parte dell'Ucraina da lui controllata alla Rus' di Mosca. Così, alla fine del XVIII secolo, la Polonia perse la propria indipendenza e fu ripartita fra tre Stati, Prussia, Austria e Russia. Nel 1831, un tentativo di insurrezione lituano-polacca contro l'impero russo fu schiacciato dallo zar Nicola I, la cui collera cadde anche sui greco-cattolici, coinvolti nella rivolta.

Molte chiese da loro edificate vennero sequestrate e riportate con la forza all'Ortodossia. La rivoluzione bolscevica del 1917, che dichiarò guerra senza quartiere a tutte le religioni, quasi non toccò la popolazione greco-cattolica rimasta fuori dell'Urss, in gran parte in Polonia. Ma tra il 1920 e il 1939 non poche chiese ortodosse presenti in questo territorio (in alcuni casi si trattava di chiese originariamente greco-cattoliche successivamente integrate nell'Ortodossia) furono sequestrate e a volte distrutte in seguito a processi intentati dalle autorità polacche.

Al termine della Seconda guerra mondiale e successivamente alla suddivisione dell’Europa, Stalin decise di dare alla questione "uniate" la sua "soluzione finale". Nel 1946 a Lvov (in ucraino Lviv) fu tenuto l'omonimo concilio, nel quale ex-sacerdoti greco-cattolici proclamarono il loro desiderio di ritornare alla Chiesa ortodossa russa. Forse per alcuni di loro quel desiderio era sincero, ma per la maggioranza fu il prezzo pagato per sfuggire alla morte in Siberia, dove furono deportati tutti i vescovi e numerosi preti greco-cattolici. Proprio uno dei protagonisti principali di quel concilio, padre Gavriil Costelnik, fu ucciso all'uscita della chiesa. Anche in questo caso le definizioni sono antitetiche: "traditore" per gli uni, "martire" per gli altri.

In tutta questa storia c’è un problema molto più spinoso, e riguarda le colpe della Chiesa ortodossa. Può essere sintetizzata in una domanda: essa volle veramente partecipare al gioco sporco di Stalin, o fu vittima dello stesso gioco? Nessuna di queste ipotesi può essere liquidata come non vera.

Dal punto di vista della sua ecclesiologia, la Chiesa ortodossa non concepisce l'esistenza della Chiesa "unita". E, infatti, nei suoi più recenti documenti di dottrina sociale, la Chiesa di Mosca non ha riconosciuto la piena libertà di coscienza come legittimo pretesto per giustificare l’apostasia. Non si può comunque negare che la Chiesa ortodossa russa accettò quel regalo avvelenato - l'annessione delle Chiese greco-cattoliche - dalle mani di colui che distrusse più chiese cristiane di quanto non abbiano fatto tutti gli imperatori romani della storia.

I decenni 1946-1986 costituiscono il periodo del vero martirio per la Chiesa greco-cattolica. Questo quarantennio viene però ritenuto dalla Chiesa di Mosca come tempo della "sua libera adesione alla Chiesa russa". I greco-cattolici ufficialmente non esistevano più: coloro che erano sopravvissuti alle persecuzioni staliniane furono costretti a celebrare le funzioni religiose nella clandestinità. Il successivo coinvolgimento storico, con la caduta dell'impero sovietico, favorì la nascita dell’Ucraina, che nel 1990 raggiunse l'indipendenza.

Nel 1986 la Chiesa greco-cattolica esce finalmente dalla clandestinità dopo 40 anni di persecuzione. La Chiesa ortodossa ucraina all'inizio non si rende conto di ciò che sta accadendo. Invoca l'aiuto delle autorità, ma la polizia è già nelle mani del nuovo potere locale, nazionalista, accanitamente antirusso. "Via il pope di Mosca!", grida la folla quando il patriarca Alessio visita Kiev all’inizio degli anni '90. Centinaia di chiese vengono prese con la forza. Ora sono gli ortodossi a sentirsi vittime dei greco-cattolici. Per questi ultimi si tratta della "legittima restituzione delle nostre proprietà storiche", mentre per gli ortodossi è "una crociata antiortodossa teleguidata da Roma".

L'insediamento del cardinale Flusar a Kiev potrebbe ulteriormente inasprire l'antico conflitto. "Noi da Kiev fummo cacciati, Kiev è il nostro centro religioso e spirituale", afferma il cardinale. "I greco-cattolici vivono perlopiù all'Ovest", replica il metropolita ortodosso Kirill. "E non si capisce perché la dirigenza della Chiesa greco-cattolica si trasferisca a Kiev. L'unico erede della sede storica di Kiev è il Patriarcato di Mosca".

Peraltro, sul territorio ucraino si trovano anche altre due Chiese ortodosse non riconosciute nè da Mosca, nè dal resto del mondo ortodosso: il Patriarcato di Kiev, con a capo l'ex membro del santo Sinodo del Patriarcato di Mosca, l'ex metropolita Filaret, scomunicato dallo stesso Sinodo; e la Chiesa autocefala ucraina, tornata dall’estero e considerata non canonica. Tutte le tre Chiese, incapaci di compiere qualsiasi passo verso la loro riconciliazione, vedono l'uniatismo come aggressione di Roma contro l'ortodossia.

Dopo il trasferimento di Rusar, il patriarca di Mosca Alessio II ha manifestato la sua preoccupazione. Ma la protesta più forte è arrivata dal patriarca ecumenico Bartolomeo I, che nella sua lettera al Papa (29 novembre 2003) ha scritto che l'eventuale istituzione di un patriarcato greco-cattolico a Kiev "farà saltare i tentativi per la continuazione del dialogo" e "farà tornare al clima di ostilità che vigeva fino a pochi decenni fa".

Abbiamo qui mostrato due storie, due visioni, due ragioni e due logiche diverse, ma le sofferenze umane, i martiri, la fedeltà alla propria fede sono le stesse. Il problema è che ogni parte in causa ricorda unicamente il proprio martirio, anche se subìto secoli fa, senza guardare o "sentire" il martirio dell'altra parte.

Una soluzione sarà possibile solo quando ognuno potrà riconoscere il proprio dolore sul volto dell'altro, e cominciando da quel dolore riconoscere anche il Cristo dell'altro e nell'altro. Dal martirio condivisosi può arrivare alla comprensione reciproca. Un miracolo che frantumi i pesanti muri della storia è sempre possibile, proprio come fu possibile la riconciliazione di Paolo VI con il patriarca Atenagora, quando nel 1965 annullarono le scomuniche reciproche del 1054, e davanti a Dio - con le lacrime della riconciliazione chiesero insieme perdono.

(da Jesus, giugno 2004)

Letto 1969 volte Ultima modifica il Sabato, 11 Febbraio 2012 17:13
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search