Ecumene

Giovedì, 19 Novembre 2015 21:09

Combattere i jihadisti dell’Isis con una nuova interpretazione dell'islam (Abdullahi Ahmed An-Na’im)

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Abdullahi Ahmed An-Na’im è docente di diritto negli Stati Uniti e studioso della religione islamica. Egli invita a riformare la sharia partendo dal Corano stesso. E invita a individuare nel libro sacro i passaggi che condannano la violenza e il fanatismo, promovendo la convivenza. Necessario demistificare lo SI, che non è altro che una organizzazione criminale.

E' possibile combattere lo Stato islamico con il Corano. Solo nel libro sacro dell’islam, e non nella politica, nella sociologia, è possibile trovare una risposta concreta all’islam radicale e ai movimenti jiihadisti come lo Stato islamico, che usano le sure come pretesto e giustificazione delle loro azioni. È quanto sottolinea lo studioso musulmano Abdullahi Ahmed An-Na’im, professore di diritto negli Stati Uniti, originario del Sudan, e profondo conoscitore della legge islamica. Egli invita dunque a scoprire all’interno del Corano stesso, nei suoi versi più antichi, che risalgono al periodo di Maometto alla Mecca, la via per riformare la religione e opporla ai movimenti estremisti e fanatici i quali trovano nello stesso libro sacro la giustificazione delle loro azioni.

La copertura mediatica delle atrocità commesse dai terroristi, che hanno insanguinato Parigi lo scorso 13 novembre, sembra aver trasmesso un'immagine quasi mitica dello Stato islamico (SI). Quello di cui ha bisogno l’umanità, invece, è proprio di demistificare l’Isis riportandola alla dimensione di una organizzazione criminale. E tutto ciò è particolarmente importante in seno alla mia comunità, la comunità musulmana. 

La grande maggioranza dei musulmani (non abbiamo a disposizione le cifre esatte) deve provare di certo un profondo disgusto, di fronte a tutta questa violenza perpetrata dallo SI. Uno fra i più importanti esponenti del clero sunnita egiziano non ha tardato nel denunciare questi attacchi, definendoli “orribili e odiosi”. 

Tuttavia, l’essenza della questione ruota attorno al fatto che i vertici dello SI e i suoi sostenitori possono appoggiarsi, e non mancano certo di farlo, su una moltitudine di fonti tratte dalle scritture e dalla storia per giustificare le proprie azioni. Le interpretazioni tradizionali della sharia, la legge islamica, appoggiano il jihad offensivo che mira a diffondere l’islam. Essi autorizzano l’esecuzione di prigionieri e la resa in schiavitù dei bambini e delle donne del campo avverso; gesti che Daesh non ha mancato di far subire agli Yazidi in Siria. 

Sono un musulmano, studioso e specialista di sharia, e affermo che la proclamazione di legittimità islamica di cui si ammanta Daesh non può essere contrastata, se non usando una interpretazione alternativa della stessa legge islamica. 

Un consenso che conduce all’impasse

Per meglio comprendere il ruolo dell’islam in politica, bisogna sapere che nessuna autorità può - qualunque sia il soggetto e il tema - stabilire o modificare la dottrina della sharia per gli altri musulmani. In questo campo non esiste nulla di vagamente simile al Vaticano, né all’infallibilità pontificia. Il modo in cui viene interpretata la sharia dalle diverse comunità musulmane (dai sunniti agli sciiti, dai sufi a salafiti) è, al fondo, il prodotto di un consenso intergenerazionale messo in atto da studiosi e leader di ciascuna comunità. 

La fede musulmana e la sua pratica sono necessariamente individuali e volontarie. Nessun musulmano può essere responsabile delle opinioni e delle azioni degli altri. Una conseguenza positiva di questa assenza di autorità religiosa consiste nel fatto di poter rimettere al centro e reinterpretare in modo diverso i principi della sharia. Al tempo stesso, vi è un rovescio della medaglia: qualunque musulmano può affermare qualcosa a proposito di sharia, nel caso in cui egli ottenga il consenso di una massa critica di fedeli. 

Si può menzionare a titolo di esempio il modo in cui l’ayatollah Khomeini usa la dottrina del “wilayat al-faqih”, la custodia della dottrina, per rivendicare il diritto a instaurare nel 1979 la Repubblica islamica dell’Iran. 

Questa iniziativa è stata al centro di una grande controversia perché, così facendo, egli è andato contro il consenso che, per questo tipo di decisioni, risiedeva nell’autorità incarnata dal 12mo e ultimo Imam sciita “vivente”, il quale è scomparso (ma non è morto) nell’874 e, questo è ciò che si crede, riapparirà alla fine dei tempi come al-Mahdi. 

La creazione dello SI da parte di Abu Bakr al-Baghdadi - che si presenta come il Califfo o il successore del profeta Maometto, e la cui missione divina consiste nel rifondare uno Stato che è finito 1400 anni fa - ne rappresenta l’esempio più recente. 

La realtà è cambiata nel X° secolo

Nei primi 300 anni della sua esistenza, il pensiero musulmano si è caratterizzato per il suo dinamismo e la sua creatività: si discute e si dibatte sulle diverse interpretazioni dei testi sacri all’interno delle comunità, di generazione in generazione. L’ijtihâd - che indica lo sforzo di comprensione e di interpretazione del Corano e della sharia per adattare le sue fonti, in particolare campo del diritti, a ciascuna epoca - è stato chiaramente approvato dal profeta Maometto. 

Alcuni musulmani moderni, come le Sorelle nell’islam di Malaysia, usano l’ijtihâd per difendere i diritti delle donne nel contesto della religione musulmana. E per quanti accettano questa interpretazione, le donne godono secondo la sharia degli stessi diritti degli uomini. Ma le Sorelle nell’islam e altri movimenti simili sono minoritari. 

Verso il X° secolo, un corpo molto sofisticato composto da principi della sharia, di metodi e di scuole di pensiero hanno preso forma e si sono radicate all’interno delle comunità musulmane del mondo antico, dell’ovest dell’Africa e nel Sud-est asiatico. Questo processo è stato identificato con il termine “chiudere la porta dell’ijtihâd”, indicando con questa immagine che non vi era più spazio teologico disponibile per un nuovo pensiero giuridico. 

Come è ovvio che sia, non vi era alcuna “porta dell’ijtihâd” da chiudere, e nessuno godeva dell’autorità per farlo anche se fosse stato quello il caso. Nonostante ciò, la metafora illustra in modo netto il contrasto fra la promozione della diversità in seno ai primi tre secoli della sharia, con la situazione di stallo e di rigidità che si è venuta a creare da quel momento in poi. 

Da un certo punto di vista, Daesh obbliga i musulmani a confrontarsi con le conseguenze delle interpretazioni arcaiche di un jihad aggressivo. 

Dalla Mecca a Medina

Il profeta Maometto è nato e cresciuto alla Mecca, una città nell'ovest dell’odierna Arabia Saudita, dalla quale ha iniziato a proclamare l’islam nel 610 circa d.C. Nel 622, egli si è dovuto trasferire con un piccolo gruppo di fedeli a Medina, situata 450 km a nord, per sfuggire alle persecuzioni. Questo spostamento non ha influito solo sulle rivelazioni ricevute dal profeta (come ci spiega il Corano). Tutto questo ha segnato anche una svolta radicale all’interno del testo sacro. L’interpretazione retrograda e brutale che fa Daesh della sharia trova fondamento sul Corano di Medina, che insiste sul fatto che i musulmani devono sostenersi l’un l’altro e distinguersi dai non musulmani. 

Per esempio, nel versetto 3:28 (e anche 4:144, 8:72-73, 9:23, 71 e 60:1M) si dice che è proibito per i musulmani diventare amici o sostenere i non credenti (che siano essi pagani o politeisti). Tutto il capitolo 9 - che rientra fra le ultime rivelazioni - sanziona in modo categorico i non musulmani - e fra questi gli ebrei e i cristiani - e autorizza che sia lanciato il jihad offensivo nei loro confronti (versetto 9:29). 

È vero che il termine jihad è usato nel Corano per definire gli sforzi non violenti per la diffusione dell’islam (vedi i versetti 29:8, 31:15 e 47:31). Ma questo nulla cambia, perché lo stesso termine è stato usato per designare il ricorso alla guerra al fine di propagandare la stessa religione. Quest’ultima interpretazione è stata, in realtà, sanzionata dalle azioni e dalle direttive chiare emanate dal profeta in persona, così come dai fedeli più rispettabili, che sono divenuti in seguito i suoi quattro primi successori e sindaci, o califfi, di Medina. 

Legittimo o illegittimo?

Una difficoltà intrinseca in tutta questa discussione riguarda il fatto che, secondo la sharia, il jihad può essere lanciato solo da una autorità legittima dello Stato. Lo Stato islamico dichiara di vantare una tale legittimità islamica, ma su quale base si fonderebbe questa rivendicazione? Da dove deriva questa posizione, perché e come i califfi di Daesh avrebbero autorità su tutta la comunità musulmana? Dato che questo potere si fonda sul processo in tutto aperto e libero della scelta individuale, questa rivendicazione di Daesh potrebbe riuscire nella misure in cui essa beneficia del sostegno di una massa critica di musulmani. Il pericolo risiede nel fatto che l’acquiescenza passiva potrebbe essere un’arma brandita dallo SI come prova di un sostegno attivo. E dopo tutto, solo un manipolo di Stati musulmani - e questo solo perché guidate e influenzate da forze occidentali - ha fatto prova di determinazione per fermare l’espansione militare di Daesh. 

Intanto la massa dei musulmani e i leader delle loro comunità non hanno guardato - in modo efficace - alla sharia per giustificare la loro opposizione alle rivendicazioni dello SI. Molti musulmani hanno condannato l’Isis per questioni morali o politiche, ma questo atteggiamento, con tutta probabilità, viene discreditato dai sostenitori dell’Isis, come un ragionamento “occidentale”. 

Una visione alternativa

Quello che serve, ora, è una concezione alternativa della sharia, che dimostri che le fonti delle scritture sulle quali Daesh si appoggia vanno viste in un contesto storico ben più ampio. In altri termini, questi principi invocati dallo SI hanno potuto essere pertinenti e applicabili 1400 anni fa, quando la guerra - ovunque essa scoppiasse - era ben più dura di quanto non sia oggi. La solidarietà fra musulmani (wala’) si rivelava allora cruciale per la sopravvivenza della comunità musulmana e la sua affermazione. 

Ma oggi, è ben vero il contrario. 

Il diritto internazionale contemporaneo, così come è presentato nell’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite del 1945 (un trattato universale), afferma l’uguale sovranità di tutti gli Stati, a prescindere dalla fede religiosa, e proibisce l’acquisizione di nuovi territori per mezzo della guerra. Mentre le potenze di primo piano hanno già violato questi principi - si possono citare gli esempi recenti dell’invasione dell’Iraq da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti e quella dell’armata russa in Ucraina nel 2014 - è impossibile per uno Stato, ivi compresi quelli in cui vivono una maggioranza di musulmani, di accettare il vincolo di un auto-proclamato Stato islamico. 

Ma per far emergere una visione alternativa della sharia e fondare un consenso che sia adatto all’epoca, i musulmani devono prima di tutti riconoscere e affrontare il fatto che hanno accettato una interpretazione tradizionale della sharia e ignorato le alternative che potrebbero permettere di condannare lo SI come non islamico. 

E, tanto per cominciare, potremmo fare riferimento alla lettura degli scritti dello studioso di religione sudanese Ustad Mahmoud Mohamed Taha, che ha proposto di ripudiare i principi di una sharia che autorizza il jihad aggressivo, la schiavitù e la subordinazione delle donne e dei non musulmani, fondandosi sulle rivelazioni precedenti, quelle della Mecca. Citiamo qui i versetti 16:125: “Propaga il cammino del tuo Signore attraverso la saggezza, la raccomandazione del bene, e discuti con loro in modo garbato” (vedi anche i versetti 17:70, 49:13 e 88:21-22).

Come spiega Taha nel suo libro “Il Secondo messaggio dell’islam”, i principi della sharia basati sulle rivelazioni di Medina corrispondono a condizioni storiche del VII° secolo in Arabia Saudita. Taha ha mostrato come oggi sono da applicare i messaggi più antichi dell’islam, quelli fondati sulle rivelazioni della Mecca, perché l’umanità è pronta ad accoglierli. 

Malgrado - o forse proprio a causa di - la necessità impellente di alternative alle interpretazioni tradizionali della sharia, Taha è stato giustiziato nel 1985 in Sudan per apostasia, e i suoi libri continuano a essere proibiti nella maggior parte dei Paesi arabi. 

Intanto lo SI vede le proprie fila crescere sempre più. 

L’autoproclamato SI non può sopravvivere se non attraverso una guerra permanente. A mio avviso, non potrà che implodere o consumarsi nel contesto di una guerra civile totale, perché non ha un sistema politico valido per un passaggio verso un’amministrazione pacifica del potere e del comando. Quando collasserà, qualunque essa sia la causa, il mondo non potrà aspettarsi altro che la nascita di una nuova formazione dello stesso tipo; almeno fino a quando noi, musulmani, non avremo discusso in modo aperto e profondo dell’impasse nella quale si trova oggi la riforma della sharia.

Abdullahi Ahmed An-Na’im *

* musulmano originario del Sudan, è professore di diritto alla Emory University School of Law, di Atlanta, ed è esperto di diritti umani, legge islamica e diritto internazionale. 

La versione originale di questo articolo è stato pubblicata sul sito web di informazione indipendente The Conversation.
(la traduzione in italiano a cura di AsiaNews)

 

Letto 4137 volte Ultima modifica il Giovedì, 19 Novembre 2015 21:24
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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