La lettura del profeta costituisce una prima fase dell'interpretazione del testo sacro e del suo adeguamento alla ragione umana. Questa dinamica si è posta l'obiettivo di operare una netta distinzione tra, da una parte, il testo come era nel suo stato iniziale, prima di qualunque sforzo di interpretazione, e la sua lettura da pane dello spirito umano, dall'altra. Il profeta era dunque portato a compiere una doppia missione, prima a trasmettere la parola divina, poi a spiegarla: «E su di te noi abbiamo fatto scendere il Corano perché tu spieghi alle genti ciò che si è fatto scendere per loro» (16,44). Rifiutando che i suoi compagni trascrivessero le sue parole, il profeta mirava a due obiettivi: separare il testo rivelato dalla lettura propriamente umana, lasciare libero il campo alle letture interpretative. In realtà, pur essendo uno e unico, il testo coranico ammette più letture. Ma nessuna di queste, inclusa quella del profeta. può pretendere alcuna superiorità sulle altre.
I primi compagni del profeta, il cui numero era ristretto, non sembrano essersi accordati per un’unica lettura. E nessuno di loro sembra aver avuto la pretesa della lettura più perfetta o più durevole Almeno all'inizio, questa diversità sembra dovuta a due fattori principali: contemporanei del profeta, questi compagni potevano istruirsi quotidianamente presso di lui; inoltre, il messaggio divino era stato rivelato in una lingua familiare. «I primi fedeli, scrive Ibn Khaldùn, potevano comprendere il testo coranico in modo istintivo». Il loro metodo di lettura si fondava sull'analisi letterale (ijtihâd) e su quella analogica (qiyâs), una logica la cui caratteristica è il ritorno al testo. Parecchi esegeti, di sicura competenza, godevano di una buona reputazione. I più illustri tra loro erano Ibn 'Abbàs, cugino di Maometto (m. 687) e 'Uruwa b. al-Zubayr (m. 717).
Letture meno «neutre»
Dopo la morte del terzo califfo Uthmàn b. Affan nel 656, la «comunità musulmana» si confrontò con un'autentica guerra civile, al Fitna al-kubra («la grande discordia»). La «comunità dei credenti» conobbe così per la prima volta nella sua storia un conflitto armato tra i suoi componenti. Questi disordini contrapposero una logica di Stato (politica offensiva e
complessa) e una logica religiosa (ideologica, missionaria e morale). L'avvento al potere degli Omayyadi nel 661 rafforzò questa contrapposizione. Per gli uni, il testo coranico era ridotto a un mezzo di protesta; era soggetto, per gli altri, ad opportunità politiche. Ormai la teologia sarà «visibilmente» ancorata in strategie ideologiche e asservita ad un militantismo socio-politico. A questo punto le contrapposte accuse degli uni contro gli altri si concentrano attorno alla legittimità del potere. Il problema dell'Imamat e quello dello status del peccatore sembrano essere stati il perno attorno al quale «religioso» e «politico» si sono profondamente mescolati per dare vita a correnti di pensiero che, nel corso dei secoli, dovevano influenzare ogni produzione intellettuale.
Durante la monarchia degli Omayyadi finì per imporsi un'ideologia fondata sull'interpretazione del testo coranico. Condotta da un obiettivo egemonico, questa lettura stabiliva che ogni musulmano doveva obbedire al governo, anche se esso cadeva nel più intollerabile dispotismo. Questa tesi, ripresa più tardi dai sunniti, non deriva che da un'interpretazione del versetto coranico: «Credenti! Obbedite ad Allah, obbedite al Messaggero e a coloro tra voi che detengono il comando».
Essa è al centro del pensiero sciita che propone una lettura del testo il cui senso esplicito doveva rinviare l'obbedienza dei credenti alla sola autorità di Alì e, più tardi, ai membri della sua famiglia, quindi ai suoi discendenti.
Secondo al-Tabrusi (m. 1143), «il Corano si compone essenzialmente di tre parti: la prima concerne gli sciiti e i loro alleati, la seconda parla degli sciiti e dei loro nemici, la terza infine tratta degli obblighi religiosi in senso generale». Non essendo questa distinzione percettibile dalla gente comune, bisognava ricorrere all'Imam, depositario delle illuminazioni segrete che gli pervengono attraverso An. Egli è l'unico, e il più adatto, per affrontare in piena giustizia il compito di interpretare il testo coranico. Questo testo, diceva Al-Hassan al-Askari (m. 875) è «composto di versetti esoterici (Zahiri) accessibili ad ogni credente, e di altri versetti esoterici (Banni) che non sono accessibili che ad un essere infallibile che è l'Imam». Quindi, l'eliminazione di Alì dalla scena politica e poi la morte tragica di suo figlio al-Husayn nel 680 non fecero che accentuare presso gli sciiti il sentimento di essere vittime di una palese ingiustizia. Cosa che non poteva che rinviarli ulteriormente verso un'esegesi fortemente connotata dalla «passione» e dal «mistero». La dicotomia bene/male, giusto/ingiusto finì per ridurre il testo coranico ad una semplice testimonianza che rifletteva l'ingiustizia degli Omayyadi e di ogni altro despota.
Un'esegesi al servizio dello spirito
Questa fioritura dell'esegesi, nel corso dei primi secoli dell'Islam, non è tuttavia dovuta soltanto a ragioni politiche. È anche legata al mutamento che la «ragione islamica» aveva conosciuto, soprattutto verso il IX secolo. In realtà, l'estensione delle conquiste e la conversione di popolazioni già iniziate alla ragione greca e alle filosofie gnostiche avevano ormai provocato l'emergere di nuovi tipi di esegesi: il solo «genio» della lingua araba non bastava più a convincere popolazioni non arabe. Bisogna sottolineare l'importanza della corrente Mu'tazilita, conosciuta per il suo razionale metodo di lettura del testo. Il suo pensiero si fonda sul principio del libero arbitrio dell'uomo e sulla responsabilità personale, una tesi già sostenuta precedentemente nell'ambiente qadarita. I Mu'taziliti, che rifiutano di rigettare l'ingiustizia sulla sola volontà divina, favoriscono così il ricorso alla ragione come mezzo più adatto a interrogare il testo coranico. L'originalità della loro lettura richiede una grande agilità di spirito e un buon fondo razionale.
E come il Corano è composto sia di versetti espliciti sia di altri più equivoci (una distinzione che proviene dallo stesso Corano: 2, 7), l'esegeta è chiamato a formulare i suoi «semantemi» in conformità ad un metodo filosofico in cui la ragione diventa centrale nella spiegazione di ogni equivocità coranica.
La lettura mistica del testo coranico trova anch'essa il suo fondamento nel principio dicotomico essoterico/esoterico. Seguendo un metodo intuitivo e simbolico, il maestro mistico rimane il solo capace di decifrare il senso nascosto della rivelazione, mentre tutti gli altri devono accontentarsi di ciò che è esplicito. In questa prospettiva, la lettura del testo sarà attinente ad una esperienza spirituale all'interno della quale ogni interpretazione si afferma come una nuova rivelazione. Questa idea è esplicita presso Ibn Arabi (m. 1245): «Per Dio! Nessuna parola di quanto ho scritto proviene dalla mia intelligenza? Ciò che ho scritto è dettato da Dio!». Tuttavia, la diversità di letture del testo che crea una dinamica nella cultura islamica classica era destinata a urtarsi con uno spirito «letteralista».
Una lettura sacralizzata
La collezione degli hadith e la comparsa delle scuole giuridiche hanno contribuito a rafforzare un altro tipo di lettura del testo coranico fondata soprattutto sulla tradizione profetica. L'opinione del «compagno» era, a sua volta, un riferimento per esegesi definite «tradizionali». In realtà, poco inclini ad ogni sforzo speculativo, queste ultime avevano sempre mantenuto, per quanto possibile, la lettera del testo. Pur considerando gli esegeti mutaziliti e sciiti come eterodossi, i sunniti ebbero la tendenza a rendere l'esegesi un mezzo per conservare la tradizione e l'occasione per confutare le tesi «aberranti». Così, legata agli hadith e ispirata al taglio giuridico, questa lettura sembra aver avuto la tendenza a impedire ogni giudizio razionale circa la minima interpretazione del Corano. Al-Tabari (m. 923), in primo luogo raccoglitore di hadith, ha composto un commentario coranico tipico dell'esegesi tradizionale. Egli rifiuta il metodo di lettura mu'tazilita, dimostrando che il ricorso allo «sforzo personale» non era necessario dal momento che la sunna può fornire tutta il necessario per assicurare una lettura vera. Il suo metodo «cumulativo» dimostra il suo impegno a riportare tutti i racconti possibili, hadith, opinione del «compagno» o tradizione orale corrente. Per i versetti che richiamano la storia dei profeti biblici, ad esempio, Tabari non esitava a confrontare le genti del Libro (ebrei e cristiani) o semplicemente ricorreva a quanto la memoria collettiva aveva conservato a questo proposito. Questo aspetto, conosciuto sotto il nome di isra'iliyat, traduce, sembra, la sua fedeltà al hadith che recita: «Riferitevi ai figli d'Israele e non abbiate ritegno».
Per secoli, tutta una serie di commentari coranici si sono limitati a ripetere quello che era stato detto dagli Antichi. Dando testimonianza su ciò che viene chiamato «chiusura della porta dell'ijtihâd (ragionamento individuale)», la quasi totalità degli esegeti «tradizionalisti» aveva ridotto la lettura del testo a una semplice compilazione dei lavori anteriori.
Un tale metodo ha imposto, in seguito, una lunga lista di condizioni da adempiere per fare esegesi, tra le quali la padronanza della lingua araba, la perfetta conoscenza degli hadith e dei racconti dei compagni... Queste esigenze, trascurando il ricorso al ijtihâd , rafforzarono un metodo ripetitivo ed eternarono tipologie interpretative la cui autorità rischiava di superare quella del Corano stesso. Esse erano anche la base dell'emergere di un'élite che aveva sempre più la tendenza ad autoattribuirsi un potere esclusivo di interpretare il testo. Questa élite si attribuiva anche il diritto di preservare il «sacro» e di accaparrarsene la gestione come se fosse una proprietà privata. Tranne qualche tentativo di rinnovamento, fu necessario attendere il XIX secolo perché l'esegesi conoscesse una forma di rinascita, benché provvisoria.
Il tentativo riformista
Verso la metà del XIX secolo, il problema del rinnovamento del pensiero islamico si impose con insistenza. Lo scopo essenziale è di trovare risposte alle esigenze del tempo, senza rompere con il riferimento alla sfera religiosa. L'elite araba del XIX secolo aveva preso coscienza della necessità dell'evoluzione dei sistemi e delle idee, per cui un Oriente debole, dominato e «in regresso» potesse «riafferrare» un Occidente forte, dominante e moderno. Il testo coranico sarà letto in questa luce. Tuttavia, l'esegesi non era lo scopo principale dei riformatori e taluni hanno preferito non ricorrere al testo che per trovarvi un appoggio alle loro idee spesso ispirate al modello occidentale.
Per il tunisino Ahmed B. Abi-Dhiaf (1802), i valori occidentali non sono che «modelli islamici trapiantati in una terra che non è la loro». Una tale visione rinvia ad una sorta di normalizzazione dei rapporti tra valori islamici e valori occidentali. Per alcuni riformatori tra cui il tunisino Khayr al-Dina (m. 1899), il concetto di «democrazia» trova i suoi fondamenti nei versetti coranici che parlano della chura (consulta), la nozione di libertà deve essere tratta dai versetti che evocano «l'equità e l'uguaglianza», quanto ai «delegati» o «rappresentanti» di cui parlano gli Occidentali, essi non sono altro che gli uli al-amr, «coloro che detengono il comando», termine già annunciato nel Corano.
Il riformatore egiziano Muhammad Abduh (m. 1905) fonda la sua riforma religiosa sulla esegesi. Il suo obiettivo è di «liberare il pensiero dalle catene dell'imitazione» e di «comprendere la religione come essa era compresa dalla comunità prima che nascessero i dissensi». Nel suo commentario Al Manar («il faro»), egli insiste sull'importanza della rilettura degli antichi lavori nel campo dell'esegesi, per sostenere parallelamente che questo patrimonio non rappresenta che un saggio provvisorio; egli espone in seguito le condizioni necessarie per un esegeta moderno. Quest'ultimo è invitato, secondo Abduh, a leggere il Corano con la consapevolezza delle riforme sociali da apportare al mondo musulmano. Questo obiettivo non può essere raggiunto che liberandosi dell'influenza delle scuole giuridiche. Anche se questo gesto spronava lo sforzo «sociale» e l'armonia tra religione e ragione ha molto influenzato il pensiero islamico moderno, alcuni esegeti posteriori ad Abduh, trovandosi in difficoltà ad attualizzare i loro metodi di analisi di fronte alle scoperte scientifiche moderne, hanno invitato ogni musulmano a scoprire i «tesori nascosti» nel Corano. Il commentario AI-jawahir («i gioielli») di Tantawi Jawhari (m. 1940) è esemplare di un ciarlatanesimo che conduce ad una lettura arbitraria del testo coranico: secondo lui, siccome il Corano evoca, in modo chiaro o allusivo, ogni scoperta in ogni campo, non resta al musulmano che sottolineare e far valere questa ricchezza. Di fronte al disagio politico e di civiltà che colpisce le diverse società musulmane, questo richiamo sembra trovare un'accoglienza favorevole presso altri «esegeti», i cui lavori sono segno di tutta una serie di letture apologetiche il testo coranico è destinato a subire altre proiezioni ideologiche. E il caso del movimento dei Fratelli Musulmani, fondato nel 1928 dall'egiziano Ilasan al-Banna (m. 1949): le riforme sociali fondate su una lettura «attualizzata» del Corano sembrano non soddisfare dei lettori la cui maggior preoccupazione è l'opposizione all'«immortalità che grava sulla società musulmana». Una delle figure del movimento, Sayyid Qutb (1966), compose un commentario del Corano secondo un metodo legato alla sua personale percezione: «il Corano non svela il suo mistero che per coloro che molto si impegnano per combattere senza tregua contro la tirannia. Lo scopo essenziale sarebbe la formazione di una società giusta conforme a quella della prima generazione della storia dell'islam». Questa lettura, che servirà di prototipo a correnti analoghe in altri paesi, non è che il riflesso di un militantismo spesso «conformista» secondo il quale ogni problema attuale trova la sua soluzione nei «documenti di un passato glorioso»!
L'esegesi coranica oggi
Questo tipo di lettura ha mobilitato la corrente tradizionalista che comincia a sentire il danno provocato dai «nuovi religiosi». Invasi in un terreno che essi consideravano riservato, i tradizionalisti si considerano come i legittimi rappresentanti del pensiero autentico, quello degli antichi esegeti che hanno definito una volta per tutte quello che è bene credere.
L'esegesi attuale sembra strattonata tra un atteggiamento ideologico, militante e politicizzato, e un altro che resta legato alla preoccupazione di una vita sociale stabile in un quietismo senza cedimenti. In entrambi i casi, il testo coranico sembra ridotto a «un manifesto politico» e come assoggettato ad una lettura obnubilata dalle fattispecie della giurisprudenza, e pertanto lontana dalla realtà. Tuttavia, lo scopo essenziale di ogni interpretazione del testo coranico consiste, prima di tutto, nel risvegliare nell'uomo una più nobile coscienza delle sue relazioni con Dio e con il mondo.
Per tendere a questo, si può raccomandare una lettura critica degli antichi lavori esegetici, uno sviluppo delle ricerche scientifiche che mirano alla ricostruzione del pensiero musulmano nella sua totalità traendo profitto dai metodi presi dalle scienze umane, infine l'attenzione alla dimensione spirituale del testo, che risponde anche all'appello coranico: «Non è evocando Allah che i cuori ritrovano la serenità» (13,28).
Ismail Mohsen *
* Centro di Studi sull'Oriente contemporaneo (CEOC), Parigi III
(tratto da Il mondo della Bibbia, n. 5, novembre/dicembre 1999, p. 30-33)