Quando SeFeR è nato, più di trent'anni fa — e non posso non ricordare con grande affetto e gratitudine chi l'ha tenacemente voluto, cioè Maria Baxiu —, in Italia si parlava poco di dialogo con l'ebraismo, nonostante le aperture del concilio Vaticano II. Se ne parlava di più in Francia o in Belgio. Da noi c'erano, nella migliore delle ipotesi, indifferenza e silenzio, e persistevano tranquillamente nei confronti degli ebrei gli antichi pregiudizi e stereotipi millenari, che emergevano spesso nelle omelie domenicali, rinfocolati talora da un clima politico per lo più ostile al mondo ebraico.
SeFeR non è dunque nato come rivista di dialogo, ma piuttosto con l'intento di far conoscere l'ebraismo e di combattere l'antisemitismo. Non è nato come rivista di dialogo, ma è nato dal dialogo, dall'incontro personale con gli ebrei, in particolare con rav Elia Kopciowski, che ci è sempre stato amico e maestro. All'origine di tutto, per noi cattolici, la "scoperta" nel dopoconcilio del Primo Testamento, che ha portato un gruppetto di amici milanesi a leggere la Scrittura dapprima con alcuni evangelici (ben più esperti di noi in questo campo) e poi ad andare alle origini, all'ebraismo. Così, insieme al SEFER con la maiuscola, il Libro per eccellenza cioè la Bibbia ebraica, abbiamo conosciuto gli ebrei — a Milano è stato abbastanza facile — e abbiamo instaurato con loro un rapporto non solo di discepolato, ma anche di amicizia. Tra i fondatori di SeFeR c'era — ed è tuttora il nostro "rabbi" - Paolo De Benedetti, che legge la Bibbia ebraica nella lingua originale, e conosce anche l'aramaico.
Il titolo dato a questo intervento, Parlare con Dio, rivela uno dei frutti dell'incontro con gli ebrei e con il Primo Testamento. Chi ha un po' di familiarità con la Bibbia e l'esegesi ebraica (la Torah orale) e conosce la "passione" degli ebrei per il dibattito, la disputa anche nei confronti di Dio, si accorge ben presto che all'ebreo non interessa tanto chiedersi «chi è Dio», quanto piuttosto «che cosa Dio vuole da me», il che porta l'ebreo a parlare con Dio più che a parlare di Dio. L'ebreo parla con Dio, lo interroga, discute con lui; non di teologia, ma di cose pratiche, concrete: la sua preoccupazione non è l'ortodossia ma l'ortoprassi. Ho perciò cercato in questo «parlare con Dio» che si manifesta nella Scrittura alcune indicazioni per l'impostazione di un dialogo, senza alcuna pretesa di essere esaustiva.
Se è vero che l'ebreo parla con Dio, bisogna però riconoscere che l'iniziativa del dialogo l'ha presa Dio, e l'ha fatto creando: «Dio disse... e la luce fu». I due primi capitoli di Bereshit, la Genesi, sono il davar di Dio, il suo «fare», parola creatrice, parola-cosa. Il creato è nato dalla parola di Dio.
Perché Dio ha creato il mondo?
La tradizione ebraica, attraverso un anagramma, immagina che Dio, grazie all'opera della creazione, sia passato da 'ajn, che significa «nulla», ad 'ani, «io». E l'«io» presuppone un «tu». Il «tu» di Dio è appunto il creato. E qui faccio una parentesi: è bello pensare che il «tu» di Dio non è soltanto l'uomo ma ogni creatura vivente, e che con ogni creatura vivente Dio instaura un rapporto. A un cristiano viene subito alla mente il paolino «tutta la creazione geme e attende la redenzione», come pure il recentemente riabilitato Teilhard de Chardin, e a un lettore del libro dei Numeri (Nm 22,22 sgg) l'asina di Balaam che, a differenza del suo padrone, per ben tre volte vede sulla strada l'angelo del Signore, cioè Dio.
Con una certa audacia si può ritenere che il creato sia non solo un atto d'amore di Dio, un contrarsi di Dio per far spazio all'altro da sé (interpretazione qabbalistica), ma quasi una necessità di Dio, perché senza un «tu» è come se Dio non fosse. Forse — e qui ci vuole un ìd-vjakol «se così si può dire» — anche di Dio si potrebbe affermare quello che Dio dice di Adamo: «Non è bene che sia solo». Mi piace pensare che dovunque c'è un «tu» c'è possibilità di dialogo. E condivido l'opinione dei moderni biblisti che la diversità delle lingue e dei popoli, in conseguenza della distruzione della torre di Babele, sia veramente una ricchezza perché è la condizione necessaria del dialogo.
Quali, nella Bibbia, le caratteristiche del dialogo uomo-Dio? Le sue modalità?
Non solo con l'opera della creazione, ma anche nel promuovere un vero e proprio dialogo — lo vediamo nel cap. 3 di Genesi —, è Dio che prende l'iniziativa, e lo fa per chiedere conto all'uomo del suo agire: «Adamo, dove sei?». È fortissima questa prima parola di dialogo, che peraltro non solo Adamo ma ogni uomo in ogni tempo si sente rivolgere. Dove sei? Che implica non tanto una risposta — Dio la conosce già — quanto piuttosto una presa di coscienza. E ancora: «Dov'è tuo fratello?».
Ecco dunque una prima connotazione: il dialogo come presa di coscienza di sé e dell'altro. Qui ci si può porre subito una domanda: come prendere coscienza dell'altro? Mi limito a riportare l'esortazione che troviamo nel documento vaticano Orientamenti e suggerimenti per l'applicatone della Dichiarazione Nostra aetate n. 4 (Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, 1 dicembre 1974), dove si dice: «E' necessario che i cristiani [...] apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa». Dunque, come gli ebrei stessi si definiscono, non come io penso che essi siano. E questo, che nel documento citato si riferisce agli ebrei, vale per ogni interlocutore, ed è il punto di partenza corretto per instaurare un dialogo.
Tornando alla Scrittura e, mettendoci dalla parte dell'uomo, dell'uomo che parla con Dio, vediamo una grande varietà di modulazioni: autodifesa, supplica, richiesta, persino accusa.
Dialogo come autodifesa. È il caso di Adamo ed Eva dopo la colpa, di Caino che rifiuta un'assunzione di responsabilità nei confronti del fratello (qui si potrebbe notare che Caino non nega il fatto ma il rapporto con l'altro, e ciò deve farci riflettere). Questo primo aspetto del rapporto uomo-Dio ci pone di fronte, per quanto riguarda il tema del dialogo, a situazioni improduttive: se dall'altro mi devo difendere, è perché lo vivo come un avversario, un concorrente pericoloso; oppure — è il caso della risposta che Caino dà a Dio — l'altro non mi interessa affatto, non voglio avere nulla a che fare con lui, «non sono il suo custode».
Abramo. Con il primo patriarca la modulazione del dialogo si fa molto più ampia. Mi sembra di poter dire che finalmente si instaura un vero dialogo, e lo si vede soprattutto nel passo in cui Abramo intercede per la salvezza di Sodoma e Gomorra: lo fa con grande rispetto, ma anche con audacia e decisione. La stessa audacia e fermezza che indurrà Mosè a rifiutare la salvezza per se stesso se Dio intende sterminare il popolo che si è macchiato della grave colpa dell'idolatria. E Dio cede e salva il popolo. Ecco dunque un'altra caratteristica del dialogo: la chiarezza della propria posizione e la decisione nel proporre il proprio punto di vista, con coerenza e nel rispetto dell'altro.
Dio ascolta e riconosce le ragioni del suo interlocutore. Ascoltare l'altro: è il presupposto indispensabile perché si instauri una relazione, altrimenti si ha un parlare tra sordi. E nella Bibbia vediamo innumerevoli volte che Dio ascolta e chiede l'ascolto: She-mà, "ascolta", è una delle parole più autorevoli e imperative della Bibbia ebraica. Poi, a volte, succede che Dio non risponda, faccia silenzio, o risponda solo alla fine come nel caso di Giobbe, ma questo è un altro discorso.
Consapevolezza di sé e chiarezza della propria posizione — come ho detto sopra — sono gli elementi che possono garantire un dialogo costruttivo. Un noto midrash narra la disputa di alcuni rabbini su un punto della legge (qui si tratta di halakhà, ossia di normativa). Protagonista è Rabbi Eliezer che, per dimostrare la validità del suo punto di vista, invoca come prova dapprima un carrubo (che dovrebbe spostarsi), e il carrubo si sposta e quindi gli dà ragione, poi un canale d'acqua, e l'acqua comincia a scorrere all'indietro, poi i muri della scuola, che iniziano a crollare e restano vacillanti. Ma i rabbini che discutono con lui non accettano queste prove. Allora Rabbi Eliezer, prossimo alla disperazione, grida: «Se la decisione deve essere come sostengo io, lo proverà Dio stesso». E una voce dal cielo gli dà ragione. Ma nemmeno questa viene accettata dai rabbini, che per sostenere la loro tesi citano Dt 30,12: «Non è in cielo», e spiegano: «La Torah fu rivelata sul monte Sinai. Perciò non occorre che noi continuiamo ad occuparci di voci celesti». E passa il principio che è decisivo il voto della maggioranza. Il midrash continua: «In quel giorno rabbi Nathan incontrò il profeta Elia. E gli domandò: "Che cosa ha fatto Dio in quel momento?". Il profeta rispose: "Dio ha sorriso e ha detto: I miei figli mi hanno vinto! I miei figli mi hanno vinto"». (Mishnà Apotè 2,8)
Questo midrash ci offre diversi spunti a proposito di dialogo. Anzitutto coerenza e decisione nel sostenere il proprio punto di vista, che è cosa ben diversa dalla ostinazione. I rabbini rivendicano il loro diritto a discutere di Torah: è stata data sul Sinai, è stata data all'uomo (a Mosè), quindi non accettano prove miracolistiche e nemmeno la voce dal cielo.
Coerenza e decisione, ma anche il coraggio di sostenere la propria posizione di fronte a «una voce dal cielo», che è poi la voce di Dio, prendendo a fondamento la Torah stessa. L'atteggiamento è audace, tant'è vero che i rabbini sentono il bisogno di interpellare Elia su come Dio l'ha presa. E che fa Dio? Sorride e ammette — ìé-vjakol— la propria sconfitta. È l'insegnamento più bello di questo midrash: saper ascoltare le ragioni dell'altro, ammettere la loro validità, accettare di modificare la propria posizione. Questo tema dell'audacia dell'uomo che contende con Dio e dell'atteggiamento di Dio stesso, che alla fine si ritira (non senza però aver lasciato un segno), ci viene prospettato già in Genesi 32 nell'episodio di Giacobbe al fiume Jabbok. Ma su questo episodio non possiamo soffermarci.
Nell'atteggiamento delle Scritture ebraiche ma anche del pensiero ebraico, in particolare del secolo scorso, nei confronti di Dio, ho rilevato una grande libertà, che non è licenza, non è sfrontatezza né arroganza, ma è indice di grande confidenza, familiarità, pur nella piena consapevolezza della distanza che separa — Dio è il "santo", il separato — la creatura dal creatore. Se penso al Processo di Shamgorod di Elie Wiesel (1) o a Yossl Rakover si rivolge a Dio di Zvi Kolitz (2), per citare solo due testi noti, mi pare di respirare un'aria che a me, cristiana cattolica, non è del tutto familiare. È una libertà che un po' mi sgomenta, ma che mi avvicina al Santo, mi stimola verso quella "somiglianza" che, come dice Enzo Bianchi è una prospettiva di vita. La lite con Dio, scriveva Paolo De Benedetti quasi 40 anni fa, è «una forma di intimità e di confidenza che quasi consuma la fede stessa in esperienza del "Tu" divino» (3).
Ecco, vorrei dire che questa libertà, frutto di sincerità e di stima per l'altro, è fondamentale per un dialogo costruttivo. Ne sentiamo particolarmente il bisogno in questi tempi in cui, a volte, sembrano prevalere, per citare due estremi, senso di onnipotenza o servilismo.
Ci sarebbe un altro aspetto del «parlare con Dio», ed è il silenzio di Dio. Lo ritroviamo sia nella Bibbia - ho fatto cenno prima a Giobbe — sia in molta letteratura dopo la Shoah, silenzio dolorosamente sperimentato da milioni di ebrei nei lager nazisti. Un silenzio che pone un problema di fede e incide fortemente sulla relazione uomo-Dio. Si tratta certo di un dialogo anomalo, ma, qualunque ne sia l'esito, l'interlocutore uomo ne esce a testa alta. Ho presente, in particolare, l'esperienza di Liana Millu.
Nel libro di Giobbe c'è un assordante parlare: Satana, la moglie, gli amici di Giobbe, Giobbe, e Dio. Ma qui i veri interlocutori sono Dio e Giobbe. E solo alla fine Dio risponde, Dio che non ha bisogno di difensori d'ufficio: «Allora il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all'uragano...» (Gb 40,6). E qui inizia il vero dialogo, perché anche Giobbe risponde a Dio: «Allora Giobbe rispose al Signore: "[...] Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere"» (Gb 42,5-6). È questa la vera grandezza di Giobbe ed è anche questa, non il ristabilimento dell'antico benessere, la vera risposta di Dio, come ha scritto Piero Stefani in una sua recente riflessione.
Anche nel Nuovo Testamento si racconta il silenzio di Dio. L'esperienza più drammatica è quella vissuta da Gesù nell'orto del Getsemani e poi fino alla morte. Da questa esperienza la fede di Gesù ne esce più forte, anche se più sofferta. Che cosa ci suggerisce il silenzio di Dio ai fini del dialogo? Forse, che solo Dio può permettersi un silenzio così lungo. Forse, più modestamente, che nel dialogo anche i silenzi, l'attesa di una risposta che tarda a venire, hanno una valenza positiva, che un dialogo apparentemente o temporaneamente interrotto può riprendere. Un lungo silenzio induce pazienza, riflessione; sprigiona energie nuove e talora insospettate, dimostra quanto meno che la via del dialogo non è semplice e spesso è sofferta.
A conclusione di queste rapide indicazioni che ho cercato dì individuare nella Scrittura, vorrei riportarmi agli inizi della mia riflessione, cioè al primo capitolo di Genesi. Lì ci si presenta un Dio che per ben quattro volte, contemplando il prodotto della sua parola creatrice, constata che «era cosa buona»; e il sesto giorno, vedendo quanto aveva fatto, riconosce che «era cosa molto buona». Un Dio dunque che via via conosce il creato che gli sta di fronte — conosce in senso forte, ossia entra in relazione —, un Dio, si potrebbe dire, che cresce con l'opera divenuta ora suo interlocutore. Ecco, questo è il frutto della relazione: instaurare un rapporto vitale con chi sta di fronte, crescere con l'altro e grazie all'altro.
Marisa Chiocchetti *
* Membro della Redazione «SeFeR», vive a Milano.
1) E. WlESEL, Processo di Shamgorod, Giuntina, Firenze 19821.
2) Z. KOLITZ, Yossl' Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 19971.
3) P. De BENEDETTI, La morte di Mosè e altri esempi, Morcelliana, Brescia 2005,
p. 70 (Bompiani, Milano 19711).
(da Vita Monastica - rivista trimestrale di liturgia, spiritualità, ecumenismo - LXIV - n. 246, luglio - dicembre 2010)
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