Riflessioni sull'Islam
"Oh, Ahmed, quanto siamo prigionieri nei nostri corpi e nelle nostre menti! Diamo sempre agli altri i nostri attributi, li guardiamo dallo stretto delle nostre opinioni e idee. Pretendiamo per quanto ci è possibile che siano noi, li vogliamo ficcare nella nostra pelle, pretendiamo di dargli i nostri occhi per vedere attraverso di essi; vogliamo vestirli con il nostro passato e il nostro modo di affrontare la vita, vogliamo costringerli in schemi delimitati dalla nostra presente concezione del tempo e dello spazio".
Ghassan Kanafani (Palestina)
Quale islam?
Oggi è particolarmente faticoso riflettere su temi riguardanti l'islam. Il linguaggio che si usa, le categorie di riferimento sono di fatto il prodotto di asimmetrie nel potere di definizione delle priorità e quindi anche dell'oggetto di analisi. Chi ha questo potere di definizione? Non sono certo i musulmani. Inoltre, si dimentica il processo storico in cui vivono i musulmani occultando la complessità, la varietà, le contraddizioni che attraversano le società dei musulmani.
La parola islam viene usata senza distinguere i piani necessari per l'analisi: intendiamo la religione musulmana come dogmi, esperienza religiosa, quindi l'islam sul piano spirituale? Oppure ci riferiamo all'islam come prassi storica che ha avuto la sua massima realizzazione nel periodo del Medioevo nel quale i musulmani svolsero un ruolo centrale nella formulazione di una cultura umanistica e universalistica? Oppure parliamo delle varie società musulmane con tutte le loro specificità del vivere in Senegal o alle Maldive, in Indonesia o in Uzbekistan, in Albania o in Cecenia, in USA o nel Suriname? Oppure intendiamo gli stati o le forme di governo, dalle monarchie assolutiste a quelle costituzionali, dalle repubbliche semidittatoriali alle democrazie sorvegliate...
Vi è una notevole variabilità e contraddittorietà tra le diverse forme di governo attuate in alcuni paesi musulmani: pensiamo al parlamentarismo che caratterizza il sistema di governo in Indonesia, Albania, Senegal e Turchia che hanno costituzioni laiche, o ai governi iraniano e pakistano con un parlamentarismo a forti riferimenti religiosi, oppure al sistema saudita di tipo clanistico e familistico che basa la sua legittimità su una ristretta interpretazione della religione musulmana, per non parlare poi della dittatura laica tunisina o delle dittature laiche post-comuniste delle ex-repubbliche sovietiche asiatiche.
Dobbiamo chiarire quale livello di analisi scegliamo di adottare perché dietro questa categoria unificante e nebulosa "islam" si nasconde tutta una serie di tentativi che per motivazioni diverse non ha intenzione effettivamente di adoperare un approccio critico ed approfondito. Tra tutti predomina un approccio culturalista che tutto spiega tramite la cultura o la religione, come se senza la lingua araba o senza la religione musulmana queste società diventerebbero libere, democratiche e ricche. Eppure basterebbe confrontare la situazione dei popoli musulmani con quelle analoghe di paesi non musulmani che però vivono le stesse condizioni di instabilità politica, di violenza. di crisi economica, di sistemi repressivi (dalla Colombia all'Argentina, dal Burundi al Congo, dal Myanmar allo Sri Lanka). Invece di lavorare sulle cause reali all'interno di processi storici e di individuare delle responsabilità si fa questa astratta lettura dottrinale e orientalista, che non interloquisce con l'altro, non lo ascolta, ma costruisce un'immagine ideologica funzionale al dominio.
Lo stato nella storia islamica
Nell'area islamica il concetto di stato-nazione mostra fin dalle sue origini un'ambiguità di fondo, attribuibile al suo essere una diretta derivazione di un'altra esperienza storica, quella europea. In Europa lo stato-nazione si delinea come istituzione temporale teoricamente estranea all'esperienza religiosa, come gruppo umano, legato da vincoli di lealtà e di reciproca solidarietà che condivide una comune appartenenza linguistica, territoriale, storica, civica, nella contrapposizione fra potere temporale e potere della chiesa. Nel periodo a cavallo fra Ottocento e Novecento, il concetto di nazione compare nell'impero ottomano che attua un superamento della sua natura plurinazionale e linguistica attraverso l'istituzione della nazione turca. Ciò solleva l'opposizione di alcuni gruppi dell'impero tra i quali gli arabi che si riconoscevano nell'autorità ottomana basata sul vincolo della fede islamica. Essi non si riconoscono nella nazione turca.
I nazionalismi nell'area islamica nascono e si sviluppano non tanto come dinamica interna, quanto piuttosto come reazione a trasformazioni innescate da potenze esterne (europee). La connotazione laicista del concetto di nazione, la sua insita contrapposizione alla sfera religiosa, stride in una realtà storicamente e culturalmente estranea a dispute di tale genere, una realtà dove governanti e oppositori fino a quel momento si erano sempre appellati ai principi islamici. Non si riconosce - come invece nell’Europa prestatale - la coesistenza di due poteri fondanti su principi e programmi fra loro ben diversi.
Infatti. si può dire che soltanto nel corso delle brevi fasi rappresentate dal periodo di Medina (622-632) e da quello dei "Califfi ben guidati" (632-661) guida religiosa e guida politica corrispondono.
Nel mondo arabo-islamico non è mai esploso un contrasto fra potere religioso e potere temporale paragonabile a quello che è avvenuto in Europa, perché né la moschea svolgeva un ruolo simile a quello della chiesa né la presenza del municipio era paragonabile alla funzione del potere borghese europeo. L'idea di nazione di matrice europea, trapiantata nel mondo musulmano, si trova così di fronte ad un non-senso in rapporto alla concezione di comunità, sorta proprio dall’esperienza di Medina, secondo la quale il superamento delle divisioni tribali - se vogliamo delle "piccole patrie" - si basa sulla creazione di una coscienza comune, fondata sull'appartenenza alla fede islamica (non del tutto liberata, tuttavia, dalle consuetudini tribali).
Stato-nazione e modernità
La creazione degli stati attuali nel mondo musulmano viene effettuata prevalentemente da élites con una rilevante componente militare, dopo la fine o dopo le trasformazioni radicali subite dagli imperi (quello mogul, l'ottomano, il persiano...).
Quasi tutti i cinquantasei stati che compongono l'area musulmana sono espressione del disegno e della politica coloniale e rappresentano una rottura sia con la tradizione religiosa che con quella culturale delle diverse aree e sono per concezione dello stato e per gestione fortemente ancorate alle pratiche coloniali. Oggi assistiamo ad un dilemma ancora aperto perché le masse non si riconoscono ancora in questi stati e le élites non fanno molto perché le masse partecipino in queste costruzioni statuali.
Esiste dunque un divario tra la massa oppressa e le élites che fungono da vassalli per le potenze straniere. Di fatto, questi stati sono "deboli" con dei governi "forti". La loro "debolezza" deriva dalla non legittimità e per supplire a questo i governi diventano ferocemente forti per mantenere l'obbedienza dei sudditi. Tutto questo avviene secondo parametri molto moderni: prevalentemente viene usata la persuasione con la forza. In ogni caso, queste formazioni statuali finiscono per essere governate da despoti, che attingono legittimazione e consenso non già dalle istituzioni riconosciute, bensì prevalentemente dagli apparati repressivi o magari dalla coesione del proprio clan.
Ne consegue che la massa esclusa non si riconosca in alcuna identità collettiva: non nello stato che di fatto non esiste: né tantomeno nel regime effettivo. Quindi non dobbiamo stupirci che l'individuo musulmano preferisca riconoscersi in una comunità ristretta che in uno stato che non ha giustificazione morale.
L'élite modernista non è riuscita né a creare le condizioni per la partecipazione della società civile, né premesse per lo sviluppo, né la tutela degli interessi della propria gente. Il problema di fondo è la mancanza di una vera teoria dello stato ancorata nella realtà sociale (vi è solo una mera imitazione subalterna di quanto avviene altrove). Manca in definitiva "un'idea morale" dello stato. Questa debolezza di fondo rende inoltre lo stato inerme nei confronti dei compiti urgenti che lo attendono sotto il profilo sociale e politico: modernizzazione, globalizzazione, trasformazioni sociali e pluralismo politico, ma anche su tematiche propriamente musulmane come le questioni palestinese, irachena, cecena, quella di Mindanao nelle Filippine, del Kashmir in India, del Turkistan orientale in Cina e sulle strategie di rivendicazione dei movimenti di ispirazione islamica.
Per concludere, trattare i temi dei musulmani significa avere a che fare con una storia di cui l'Europa - e l'Occidente in genere - fanno parte, in particolare le potenze coloniali e neocoloniali che negli ultimi due secoli hanno disfatto e rifatto più di una volta l’area islamica. Lo vediamo sul piano delle costruzioni degli stati, sul piano dei sistemi educativi, dell'uso della lingua (spesso molti popoli musulmani imparano a scuola le lingue dei colonizzatori) e dei modelli economici: sull'appoggio ai despoti attraverso la vendita di armi e il sostegno degli apparati repressivi di quei paesi.
L'area islamica non è esotica, né mitica: è invece un'area della vasta periferia dell'impero abitata da miseria, desolazione, marginalità, repressione e conflitti violenti che hanno poco a che fare con la metafisica ma hanno radici storiche ben precise. Oggi è necessario partire dagli intrecci esistenti e dagli interessi in comune per sviluppare un linguaggio trasversale che abbia categorie di riferimento condivise.
L'occidente non è un'area geografica alla quale contrapporsi, bensì un modello di civiltà nel la quale, volenti o nolenti, tutti sono inglobati. Occorre stabilire relazioni più simmetriche e definire insieme priorità e possibili soluzioni. Disse il Presidente dell'Iran, Khatami: "Se dobbiamo fare nostri i tratti della civiltà occidentale, e nel medesimo tempo rigettare le sue mancanze (...), dobbiamo capire l’occidente in modo corretto e onnicomprensivo; (...) a questo punto avranno efficacia la riflessione approfondita, la razionalità e l’obiettività, non la brutalità verbale o la violenza" (Religione, libertà e democrazia, Laterza, Bari, 1999, p. 30).
NOTA
* Adel Jabbar, iraqeno, da molti anni in Italia, è sociologo ricercatore nell'ambito dei processi migratori ed interculturali. Insegna presso il corso di laurea in Servizi Sociali all'Università Ca' Foscari di Venezia e al Master sull'immigrazione della medesima università.
(da Cem/mondialità, giugno-luglio 2003)