Piccoli pastori crescono.
E sono sempre più ecumenici
di Mauro Castagnaro
Sono giovani tra i 22 e i 39 anni. In comune hanno il prepararsi a svolgere un servizio a tempo pieno nella comunità cristiana. Ma appartengono a Chiese diverse. Si erano conosciuti nell'estate 2007 alla sessione annuale di formazione del Segretariato attività ecumeniche (Sae). Li abbiamo riuniti per capire in che modo l’incontro con coetanei che hanno fatto una scelta simile alla loro abbia cambiato la loro idea del ministero e la loro visione delle relazioni tra le Chiese cristiane.
Sergio Matranga, di Palermo, e Paolo Inzani, piacentino, sono seminaristi cattolici; Fabio Traversari, di Firenze, e la pinerolese Valeria Pons, frequentano la Facoltà valdese di teologia per diventare pastori; Elisabetta Tisi, milanese, sarà ordinata nei prossimi mesi presbitera della Chiesa veterocattolica. A loro si aggiunge Cecilia Clio Borgoni, postulante carmelitana scalza di Piacenza.
In che cosa consiste il ministero nelle vostre Chiese? E come vi state preparando?
Fabio: «Nella Chiesa valdese il ministero è ministero ordinato, ma non è sacerdozio; è un incarico affidato dalla Chiesa, mediante l’imposizione delle mani da parte dell’assemblea dei credenti, a una persona che si è preparata teologicamente per l’annuncio dell’Evangelo, che consiste nella predicazione, l’amministrazione dei sacramenti, la catechesi, la cura d’anime. Studiamo teologia cinque o sei anni in Italia e nei Paesi a maggioranza protestante. Nelle Chiese della Riforma non è previsto l’obbligo del celibato e il pastorato è aperto alle donne, che attualmente rappresentano un terzo dei pastori delle
Elisabetta: «Le Chiese veterocattoliche dell’Unione di Utrecht mantengono la successione apostolica storica. Nella nostra Chiesa il ministero è ordinato, ma è anche un mandato della comunità: il vescovo propone il parroco, ma è la comunità a votarne l’accettazione, La formazione teologica è analoga a quella dei preti cattolici. Dal 1996 l’accesso al presbiterato è aperto alle donne».
Sergio: «Studiamo teologia in facoltà, seguiamo corsi in seminario e nel fine settimana svolgiamo attività pastorale prevalentemente nelle parrocchie. Questo dura cinque o sei anni compreso l’anno di diaconato».
Che significato ha oggi lo scelta di dedicare la vita o tempo pieno o servizio dello Chiesa?
Valeria: «Quello di una scelta di vita che pone in primo piano la testimonianza dell’amore di Gesù Cristo, vissuta nella condivisione col prossimo. Nei giovani che ho incontrato mi ha colpita positivamente la volontà di impegnarsi, di dare una testimonianza concreta, di mettersi in discussione».
Fabio: «Penso sia una scelta di radicalità e di testimonianza della Parola di Dio che è Gesù Cristo, prima che testimonianza delle nostre Chiese. Comunque, più che una scelta, è un piccolo “sì” al grande “sì” che Dio ha detto alla nostra vita».
Cecilia: «Per me è centrale la vocazione: se non fossi stata chiamata, non sarei entrata in convento. E stato un vero e proprio innamoramento. Le motivazioni sono venute dopo. Non ho scelto tra mille cose, ma ho detto “sì” a una proposta che mi ha fatto Lui. E poi penso sia un cammino di decentramento, che è sempre guidato dall’amore. E solo un amore che può portare a offrire la vita non come sacrificio, ma perché si sente il bisogno di farlo. Nella clausura ciò avviene attraverso la preghiera. La vita di una claustrale esprime semplicemente l’essere qui a pregare e a vivere con amore per tutti, come testimonianza dell’amore di Dio, perché chiunque possa dire nel momento più disperato: c’è una carmelitana che mi vuole bene».
Sergio: «Anch’io penso che la mia scelta derivi da una vocazione, frutto dì un rapporto intimo di preghiera e vita spirituale con il Signore. In un mondo che, da tanti punti di vista, offre molto di più di quello che può dare una vita sacerdotale, questa scelta va controcorrente, E quando la gente vede il distacco da tutte le cose del mondo, non può che domandarsi: “Perché questa persona lo fa?”».
Elisabetta: «Per me è fondamentale la vocazione, ma anche la comunità che chiama ad annunciare la Parola al suo interno. Il ministero è un servizio alla comunità. Per riscoprire questa dimensione ho voluto fare due anni di diaconato; ed è stata la comunità ad aiutarmi nel discernimento dicendomi, quando ero assistente pastorale, “Hai doni che non stai valorizzando. Pensaci”».
Paolo: «All’origine della mia scelta ci sono l’incontro con Cristo e un cammino di fede in cui ho fatto un’esperienza di pienezza tale da arrivare a dirmi: “Vale la pena dedicare la mia vita affinché altre persone possano farla”. E’ un innamoramento, come ha detto Cecilia: nasce un desiderio molto forte e non si può che seguirlo».
Che cosa vi ha dato Io settimana trascorsa insieme?
Sergio: «Confrontarsi con altri cristiani serve ad approfondire la propria fede e l’appartenenza a una Chiesa storica, perché costringe ad andare alla radice del “perché sono cattolico, evangelico...”. Riflettere insieme obbliga a interrogarci sul nostro modo di essere Chiesa. Per esempio, ascoltare le argomentazioni di una veterocattolica sull’ordinazione delle donne mi sollecita ad approfondire le motivazioni per cui la mia Chiesa la rifiuta, non accontentandomi del semplice “è la Tradizione”».
Paolo: «Entrare in contatto con esperienze diverse di Chiesa apre a orizzonti nuovi e porta a vedere i problemi da più punti di vista. Nei rapporti fraterni che si sono creati tra noi ho vissuto anche quella comunione spirituale in cui credo molto».
Cecilia: «Mi ha mostrato che la comunione tra noi esiste, ma è pure un dono da accogliere. Quindi, vista la mia vocazione, con la preghiera posso contribuire all’unità».
Elisabetta: «Mi ha confermato che quello ecumenico è il solo cammino possibile, E’ stato un momento di speranza, perché a volte i giovani sono molto più rigidi sulle proprie identità, mentre noi eravamo tutti pronti ad accogliere l’altro con un rispetto e un amore che hanno permesso un fecondo scambio. Ciò ha fatto crescere in me la volontà di collaborare più attivamente al Consiglio delle Chiese cristiane di Milano, di cui faccio parte, non limitandomi a partecipare alle riunioni e alle veglie di preghiera, ma avviando decisamente una prassi ecumenica».
Fabio: «Ne ho tratto la scelta di un impegno maggiore nell’ecumenismo come dono di Dio, quindi l’ecumenismo come vocazione, sognando che quella Chiesa una nella molteplicità ci verrà donata dal Signore».
Valeria: «Mi ha aiutata a mettere in discussione alcune mie certezze e a capire, ad esempio, che nella mia Chiesa, dove c’è molta libertà, ci sarebbe più bisogno di disciplina, mentre in quella cattolica servirebbero ambiti di maggiore partecipazione».
Il tema del ministero oggi divide le Chiese. Che riflessioni ha suscitato su questo nodo il fatto di esservi incontrati?
Cecilia: «A me ha fatto ripensare la bellezza e il significato dei voti che emetterò nella professione religiosa come sfide nei confronti della cultura odierna, con cui mi devo confrontare prima di tutto in me stessa, perché l’amore e l’unità crescono nel mondo a partire dai singoli cuori. E dopo questo incontro mi ritrovo con fratelli in più da amare, per i quali affrontare queste sfide!».
Fabio: «Ho riscoperto come gli altri vivono il loro ministero o la vita monastica, ma ho anche potuto riflettere sulla specificità de! ministero nella mia Chiesa, La Riforma “ha portato il monastero nel mondo”, cioè ha ricordato che chiamati a vivere la radicalità del Vangelo non sono solo alcuni credenti che emettono i voti, ma l’intera comunità; e quindi l’obbedienza diviene responsabilità politica, la povertà diventa sobrietà nella vita quotidiana e la castità diviene una vita d’amore tra due persone. E il ministro, pur nella sua specificità di incaricato dalla comunità di predicare la Parola dì Dio, vive nel mondo e come gli altri credenti cerca di incarnare questa radicalità tutti i giorni».
Quali ricchezze vedete proprie delle oltre confessioni?
Fabio: «Essere monaci e monache non è una vocazione dei protestanti, il fatto però che anglicani, cattolici e ortodossi vivano la radicalità del monachesimo - ma penso anche al dono del celibato, ben rimarcato nella Chiesa cattolica, anche se forse un po’ troppo legato al ministero - aiuta a ricordare il rischio che il mondo prenda il sopravvento. Pure la liturgia delle ore di un convento richiama a una vita di preghiera, importante anche per un pastore protestante che vive nel mondo».
Elisabetta: «Io ho riscoperto i doni che la mia Chiesa ha già dato alla Chiesa cattolica romana e continuerà a dare fino a quando non ci sarà più bisogno che esista la Chiesa veterocattolica: grazie ai veterocattolici il Concilio Vaticano Il ha potuto vedere che per ottant’anni anni una comunità cattolica aveva celebrato in lingua nazionale senza conseguenze negative. Penso che pian piano anche il ministero femminile, la non obbligatorietà del celibato e la sinodalità che noi viviamo potranno essere accolte dalla Chiesa cattolica romana, perché noi vi siamo arrivati come conseguenza di un’ecclesiologia cattolica».
Paolo: «E’ stato interessante conoscere modi e approcci al ministero sensibilmente diversi dal mio, ma essenzialmente molto simili: è sempre l’esperienza di seguire il Signore in modo radicale, ma si esprime in modi diversi perché la struttura della Chiesa è differente».
Avete qualche pro posta concreta?
Elisabetta: «Bisognerebbe organizzare campi ecumenici per le persone che si preparano a diventare ministri».
Sergio: «Penso sarebbe bene moltiplicare nelle nostre Facoltà e nei seminari gli incontri ecumenici. E mi pare ottima l’idea di un campo estivo interconfessionale».
Paolo: «A me sembra interessante trovare un luogo, un’esperienza in cui tutte le persone che sono in formazione per un ministero ecclesiale si possano ritrovare, conoscersi, confrontarsi. Potrebbe essere un convegno, un campo-scuola o un momento di preghiera comune».
Cecilia: «Mi piace la proposta di campi ecumenici in cui incontrarsi, convivere, pregare insieme».
Paolo: «Si potrebbe pensare pure a esperienze di servizio insieme all’interno di un cammino in cui ci sono anche momenti di conoscenza e preghiera».
Valeria: «Credo che nella formazione servirebbe più spazio per l’approfondimento della conoscenza delle altre confessioni anche attraverso esperienze dirette di vita».
Elisabetta: «Per ogni Chiesa il culto è centrale. Noi conosciamo la storia e l’organizzazione delle altre Chiese, ma il respiro che c’è in una Chiesa e il modo in cui celebra si percepisce solo se c’è una frequentazione reciproca. Per questo parlavo di campi piuttosto che di convegni. Più che una conoscenza, noi abbiamo sperimentato un riconoscerci fratelli. E adesso sento ancora dì più la voglia di celebrare insieme. lo non ne posso più di questa separazione».
Fabio: «Sono d’accordo. Incontrandoci e conoscendoci, diventa più stridente il fatto che alla Cena del Signore poi non siamo tutti e tutte insieme, anche se le differenze ci sono».
Valeria: «Comunque noi ci terremo in contatto sicuramente».
(da Jesus, gennaio 2008)