Ecumene

Martedì, 16 Marzo 2010 20:51

Ebreo per sempre (Elena Lea Bartolini)

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L'ebraicità di Gesù è stata «accettata» solo recentemente dalla Chiesa che per secoli ha evitato di fare i conti con questa realtà evidente. Oggi il dialogo ebraico-cristiano è favorito proprio da questa presa di coscienza. Ma anche l'ebraismo deve interrogarsi su Gesù. Occorre che entrambe le parti si mettano alla ricerca del Gesù rimasto nell'ombra, che potrebbe essere piuttosto diverso da quello che fino ad oggi abbiamo pensato o creduto di conoscere

Ebreo per sempre

di Elena Lea Bartolini *

Il dialogo cristiano-ebraico - che ha positivamente caratterizzato le Chiese dopo la presa di coscienza del dramma della Shoà consumatosi nell'Europa cristiana - ha posto l'accento in maniera significativa su un dato dal quale non è più possibile prescindere: l'ebraicità di Gesù di Nazareth. Dopo secoli nei quali l'universalità del messaggio cristiano sembrava necessariamente legata alla «non appartenenza» di Gesù ad una cultura e tradizione religiosa particolare, si riscoprono invece i capitoli 9-11 della lettera di Paolo di Tarso ai Romani ed inizia un recupero positivo delle radici ebraiche del cristianesimo che deve misurarsi con l'appartenenza stessa del Maestro di Nazareth al popolo di Israele: «Dico la verità in Cristo, non mento - la mia coscienza me lo attesta nello Spirito santo - quando dichiaro che [.. .] sono israeliti, ai quali appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il culto e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali, per quanto riguarda la carne, proviene il Cristo» (Rm 9,1-5). Da qui, e dalla riflessione conseguente, l'affermazione «Gesù ebreo per sempre» - oramai abbastanza nota - ritrovabile nei documenti cristiani tra i quali i Sussidi per la corretta applicazione di Nostra aetate 4 resi noti dal magistero cattolico nel 1985 (Segretariato per l'unione dei cristiani, Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Sussidi per una corretta presentazione, 24.6.1985: FV9/1615-1658).

Forse la portata ditale affermazione non è ancora stata sufficientemente considerata: se Gesù infatti «appartiene» al popolo della promessa - che è il popolo di Dio - e, come testimoniato nei Vangeli, vive da ebreo osservante condividendo attese e speranze secondo la fede di Israele, ciò significa che la sua fede è una «fede ebraica». Di conseguenza, tutto ciò che costituisce la «novità» dell'intervento di Dio nella storia attraverso di lui, deve essere considerato a partire da tale fede e nell'orizzonte della medesima. Probabilmente ha ragione Pinchas Lapide, esegeta neotestamentario ebreo, quando afferma di essersi messo alla ricerca del «quinto Gesù», non del «Gesù dei quattro evangelisti greci, ma di quello originario, preecclesiastico, che predicò nelle sinagoghe di Galilea, che in buono stile rabbinico disputò e discusse coi colleghi, in cui Pietro e i suoi poterono credere, vedendo in lui un annunciatore, un profeta e un uomo di Dio toccato dalla sua grazia.

Questo quinto Gesù, quello terreno, tridimensionale, concreto e credibile, la cui carne era debole come la nostra, che amava la vita e aveva angoscia della morte» (P. Lapide. Predicava nelle loro sinagoghe, Paideia, Brescia 2001, pag. 26). Percorrendo questa strada, da una parte si riscoprono i Vangeli come un pezzo di storia ebraica nell'orizzonte di una testimonianza della fede di Israele, e dall'altra ci si accorge di dover prendere in considerazione non solo ciò che Gesù «ha detto» o aveva bisogno di dire ma anche il «non detto», nel senso di tutto ciò che egli non aveva bisogno di dire in quanto patrimonio ebraico che tutti i suoi ascoltatori conoscevano bene. E se per ciò che si è fissato in forma scritta, ovvero il «detto», bastano buoni occhi critici, il «non detto» richiede invece un udito fine come Gesù stesso ribadiva: chi ha orecchi per intendere, intenda! Che per un ebreo significa: per favore, non prendetemi alla lettera, ma state attenti al senso profondo che sta dietro le parole! In altri termini: considerate il mio insegnamento secondo le dinamiche tradizionali (naturalmente in riferimento alla tradizione ebraica) che implicano una continua ricerca alla luce degli innumerevoli sensi di una «parola rivelata» che, proprio perché di origine divina, deve essere continuamente indagata per riorientare le domande dell'uomo verso il completo disvelarsi della verità nella storia, una verità che nessuno può «possedere» definitivamente e che, più che un presupposto, è un punto di arrivo per tutti. Un invito quindi a cercare, e a ricercare ancora, per capire il senso di ciò che nella sua vicenda storica e in particolare nella sua persona è avvenuto, nella consapevolezza che la «parola» - in ebraico il davar di Dio - è sia «parola detta» che «evento», e va compresa nell'orizzonte di relazioni e possibili connessioni rilevabili sia nei testi scritti che in rapporto a chi li ascolta e li interroga con sincerità, pronto anche a lasciarsi «spiazzare» dalla medesima.

L'appartenenza di Gesù all'ebraismo e l'ebraicità del suo messaggio costituiscono pertanto un «patrimonio di fede» comune a ebrei e cristiani che apre un significativo spazio di dialogo, ma nello stesso tempo pongono una questione che interpella entrambe le parti: se è vero che il cristianesimo deve rileggere la propria identità a partire dalla fede di Israele che è in qualche modo intrinseca a quella cristiana, è altrettanto vero che anche l'ebraismo deve interrogarsi su Gesù di Nazareth a partire dalla nota affermazione del fariseo Gamaliele a proposito della sua difesa nei confronti degli apostoli arrestati e condotti davanti al Sinedrio: «Non impicciatevi di questi uomini, e lasciateli fare. Perché se questo è un progetto o un'impresa messa su da gli uomini, sarà distrutta; ma se viene da Dio, non potrete annientarli: guardatevi dal farvi trovare in lotta con Dio!» (At 5,35-39). In altre parole: se la riscoperta di Gesù, «ebreo per sempre», ha cambiato la qualità dei rapporti fra ebraismo e cristianesimo - e ciò ha significato il passaggio dalla teologia cristiana della «sostituzione» (la Chiesa è il «vero Israele») - alla riscoperta dell'elezione «mai revocata» del popolo di Israele (Rm 9,14) tutto ciò deve ora tradursi in una ricerca sinergica da ambo le parti per riscoprire il «quinto Gesù» rimasto nell'ombra, quel Gesù che potrebbe essere piuttosto diverso da quello che fino ad oggi abbiamo pensato o creduto di conoscere. Non basta aver rinunciato alla conversione di Israele riconoscendolo come segno di un dono divino che sta «di fronte» al cristianesimo, non basta ascoltarsi e confrontarsi su un «terreno comune» rimettendo in discussione errori di prospettiva e stereotipi che possono alimentare indebitamente e insensatamente l'antigiudaismo e l'antisemitismo: tutto ciò è importante ma costituisce quella che Martin Cunz definiva la «fase terapeutica» del dialogo che - per una serie di ragionevoli fattori - è stato per molti aspetti fino ad ora soprattutto un dialogo intra-cristiano. Dopo questi primi decenni (dallo storico incontro a Seelisberg del 1947 ad oggi), che sul versante cristiano hanno segnato il passaggio dal proselitismo nei confronti degli ebrei alla riscoperta del popolo di Israele come «popolo di Dio» che continua a rimanere tale anche di fronte alle Chiese (per un approfondimento al riguardo rimando a: AA.VV., a cura di G. Bottoni e L. Nason, Secondo le Scritture. Chiese cristiane e popolo di Dio, EDB, Bologna 2002), è forse maturato il tempo per rimettere a tema in maniera radicale il significato dell'ebraicità di Gesù, della sua fede e del suo messaggio, non solo di fronte a Israele ma soprattutto insieme a lui, che significa nel confronto leale e dialettico sia con l'ebraismo che ha riscoperto in questi ultimi anni le Scritture cristiane che con quello che invece le guarda ancora con «sospetto». La fede ebraica di Gesù rimanda infatti al «mistero» di Israele (vedi Rm 11,25ss.), che si inserisce in una dinamica nella quale la fedeltà alla propria vocazione (sia sul versante ebraico che cristiano) costituisce secondo alcune voci autorevoli una sorta di «spina nel fianco» reciproca, segno di una «crisi» definita da altri «ontologica» in quanto fa parte dell'esistenza stessa della Chiesa (vedi AA.VV., a cura di G. Bottoni e L. Nason, op. cit., pagine 298-305).

Vale la pena però ricordare che, dal punto di vista biblico e in particolare secondo la lettura ebraica della Scrittura, la «crisi» non è necessariamente un elemento negativo, ma semmai l'opportunità per ricominciare guardando le cose da un altro punto di vista, cogliendo nelle «tensioni» un criterio di intelligibilità e un'occasione feconda di possibile crescita nell'orizzonte di una prospettiva nuova spesso secondo dinamiche precedentemente non previste. In questo senso anche ripartire dall'appartenenza di Gesù all'ebraismo - che, come ribadisce Schalom Ben Chorin riprendendo Martin Buber, unisce ebrei e cristiani in relazione alla sua fede ebraica ma li divide in rapporto alla fede cristiana in lui (vedi S. Ben-Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, pagine 25-26) - significa collocarsi nel cuore di una lacerazione che può rivelarsi come una positiva provocazione: probabilmente il coraggio di tornare al «Gesù ebreo per sempre» rimettendo in discussione riletture che ne hanno snaturato l'identità e il messaggio potrebbe essere un'inaspettata sorpresa per tutti.

* Bartolini è docente di Giudaismo presso il Centro studi del Vicino Oriente di Milano.

(in Confronti, n. 9, 2006, pp. 29-30)

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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