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Sabato, 17 Aprile 2010 20:11

Un colloquio ebraico-cristiano. Giustizia e responsabilità (Alberto Sermoneta)

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Tutti siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità. soprattutto quando ci troviamo davanti ad un fatto da testimoniare, ma tutti non sappiamo invece che cosa significa con esattezza «giustizia». Questi due termini, «giustizia e responsabilità», che hanno un metro di paragone apparentemente simile, possono invece avere parametri completamente diversi se riferiti a noi uomini o se riferiti a Colui che è al di sopra di noi: all'Eterno.

Un colloquio ebraico-cristiano

Giustizia e responsabilità

di Alberto Sermoneta *

Tutti siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità. soprattutto quando ci troviamo davanti ad un fatto da testimoniare, ma tutti non sappiamo invece che cosa significa con esattezza «giustizia». Questi due termini, «giustizia e responsabilità», che hanno un metro di paragone apparentemente simile, possono invece avere parametri completamente diversi se riferiti a noi uomini o se riferiti a Colui che è al di sopra di noi: all'Eterno. Se analizziamo il testo della Torà (Pentateuco), troviamo una serie infinita di regole che riguardano il rapporto tra esseri umani il rapporto tra l'uomo e il suo amico, mentre troviamo una serie minore di regole: rispetto al rapporto tra l'uomo e Dio. Questo perché il compito che è stato affidato all'uomo sulla terra, creato a immagine e somiglianza di Dio, è quello di gestire una vita sociale: nei confronti del proprio prossimo. Tant'è vero che più volte: noi troviamo una ricompensa per il buon comportamento tra esseri umani e quasi mai una ricompensa per il rispetto che ci deve essere tra l'uomo e Dio. Questo perché la Torà: stessa vuole darci un'indicazione su quello che deve essere il comportamento della vita sociale tra uomini. A pensarci bene, quando si parla di giustizia umana e divina nei primi due: capitoli del libro della Genesi, si vede che in tutto il primo capitolo - tenendo conto della cronologia della creazione oggetto di approfondito studio da parte degli esegeti -, non troviamo mai il tetragramma, mentre lo troviamo nel secondo capitolo Nel primo capitolo troviamo sempre Elohim che non significa soltanto Dio, e di questo ne abbiamo la certezza nel libro dell'Esodo e precisamente nel cap. 21, dove esso viene anche attribuito a degli esseri umani. Al v. 6 del cap. 21, a proposito dell'amministrazione della giustizia tra il padrone ed il servo, troviamo scritto: «E il suo padrone lo avvicinerà agli Elohim». Allora non possiamo altro che tradurre Elohim con giudici e così Dio è il giudice per eccellenza!

Il termine Elohim viene usato nel primo capitolo della Genesi, perché il Signore Iddio ha provato a creare il mondo con giustizia, mentre nel secondo capitolo sembra quasi che ci abbia ripensato: se avesse dovuto crearlo solo con giustizia, probabilmente oggi il mondo non ci sarebbe più. Per questo, viene aggiunto il tetragramma che, secondo la tradizione rabbinica, è considerato middat ha rachamim ossia l'attributo della misericordia divina, dove rachamim è il plurale di rechem, cioè utero materno; e una madre nei confronti del proprio figlio, per quanto possa essere traviato e lontano, non può usare giustizia, o almeno non può avere un'atteggiamento di esclusiva giustizia, perché tutti gli esseri umani sono stati creati per poter sbagliare e poi rimediare ai loro errori. Il termine Elohim deriva da una radice araba illaha che significa la forza divina creatrice; è la giustizia per eccellenza, la giustizia pura che, nonostante fosse considerata un attributo divino, è pur sempre relativa, perché Dio crea con giustizia, ma poi aggiunge la misericordia e quindi, anche noi, esseri umani, non possiamo giudicare se non con misericordia. Ma c'è anche qualcosa che vedremo più avanti, qualcosa che accompagna la giustizia e che è definita responsabilità.

Responsabilità e giustizia possono essere anche due termini che si accompagnano l'uno all'altro. Nel concetto di arevut (responsabilità) noi troviamo una delle istituzioni più grandi, attribuite al popolo ebraico, ed è forse la base del comportamento che il popolo ebraico deve avere nei confronti del prossimo come esempio e che gli altri devono seguire. È’ scritto: <<Israel arevim ze ba Ze», «ogni ebreo è responsabile dell'altro», è garante dell'altro. Quando si parla di ebraismo, non si parla mai di singolo, bensì di kelal Israel, ossia della collettività ebraica; ogni ebreo è quindi responsabile di: tutto il resto del popolo.

Questo è un concetto molto forte in mezzo al popolo ebraico e nella tradizione rabbinica. Se noi dobbiamo chiederci il perché di alcuni eventi sia positivi che negativi che accadono al nostro popolo, non dobbiamo soltanto roderci dentro dicendo: «Forse è a causa mia che accadono queste cose!», ma dobbiamo invece capire che se qualcosa accade, non è soltanto per merito o per colpa di un singolo, ma i motivi che vanno ricercati nella società, nel kelal. Un banale esempio che sovente capita nei confronti degli ebrei: se, Dio ne guardi, vi è una rapina e, per caso, fra i rapinatori vi è un ebreo, la presenza di quell'ebreo viene subito messa in evidenza. Ad onore del vero, la stessa cosa avviene anche in senso contrario, in positivo.

La responsabilità è, in pratica, ciò che vuole insegnare quella massima rabbinica: «Ogni ebreo è garante dell'altro». tant'è che nel libro del Levitico al v. 17 del cap. 19 è detto «Non odiare in cuor tuo, tuo fratello, riprendi riprendi il tuo amico, affinché tu non possa aver colpa». In ogni caso. quando i verbi all'imperativo vengono ripetuti, vuoI dire che la Torà sottolinea la cosa in modo particolare. «Riprendilo. affinché tu, riprendendo il tuo amico, non possa peccare!» Ognuno di noi ha il dovere di riprendere per almeno due volte un uomo: nella terminologia talmudica si chiama haltra 'ah, cioè l'avvertimento che va fatto in pubblico, davanti a testimoni, affinché chi lo fa non possa essere colpevole di tacere davanti a colui che si trova nella condizione di sbagliare. Noi troviamo spiegato questo imperativo così marcate nel fatto che, in caso di testimonianza in tribunale, la si deve sempre fare dinanzi all'interessato, cioè non si testimonia se non davanti a colui che ascolta. Come a dire: io debbo portare in tribunale questa cosa, ma davanti a colui che è imputato, a proposito di ciò che è scritto nel libro dei Salmi: «Ascolta, popolo mio, affinché io parlerò» e nel Talmud i maestri continuano a dire: «Non si rimprovera una persona se non quando sta davanti e non si rende lode ad una persona, se non quando sia assente», cioè, si cantano le lodi in sua assenza, ma lo si riprende in sua presenza.

Ora siamo in grado di fare un excursus biblico su giustizia e responsabilità nella tradizione ebraica, soffermandoci sui cenni presenti in tutta la Torà.

Il primo riferimento in assoluto è quello che può definirsi il primo omicidio della storia: l'episodio di Caino e Abele. Al cap. 4, v. 9 della Genesi troviamo scritto: «E disse il Signore a Caino: "Dov'è Abele tuo fratello?", "Non lo so; forse che io sono il custode di mio fratello?". E disse ancora: "Cosa hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra"». C'è un'accusa da parte di Dio a Caino di aver fatto qualcosa di particolarmente grave. È per questo che Caino dice al Signore: «È tanto grande la mia colpa da poterla sopportare». Dio non punisce Caino con la morte; eppure Caino ha ucciso, è un omicida all'interno della famiglia, ma Dio non lo punisce con la morte. Dio punisce Caino con una pena che può essere da esempio nei confronti di altri e pone una sentenza: «Chiunque uccide Caino verrà punito per sette volte». Come dire: Caino è un omicida, Caino si è reso conto della sua grave colpa, non va ucciso perché Dio non ripaga con la stessa misura, ma lascia un segno che deve essere di esempio per tutti gli altri uomini della storia, perché, se Dio avesse ucciso Caino, si sarebbe macchiato della stessa colpa di cui Caino stesso si è macchiato.

Dio viene definito da uno dei più grandi uomini della Torà, Abramo, «il giudice di tutta la terra». È una sfida quella che Abramo lancia a Dio. Che cosa significa allora giustizia divina? Come potremmo definire Dio giudice? Abramo dice: «Forse il giudice della terra non fa giustizia?». Si sta parlando di Sodoma e Gomorra, che sono l'esempio più classico della, responsabilità collettiva degli esseri umani. Abramo, che si sente investito della responsabilità di salvaguardare l'umanità. combatte con Dio sfidandolo: «Forse il giudice di tutta la terra non sa fare giustizia?». Dio voleva distruggere Sodoma e Gomorra, ma Abramo qui appare più grande di Dio, perchè vuole risparmiare degli esseri umani e Dio lo asseconda dicendogli che, «se ci sono alcuni giusti, io non distruggerò Sodoma e Gomorra». Ma subito gli ingiunge di andare lui stesso a cercarli, perché così si renderà conto che di giusti non ce ne sono. Purtroppo, non era solo il fatto di ravvedersi dai loro atti, perché era una società che non aveva più la possibilità di tornare indietro: era talmente traviata che soltanto la distruzione di essa poteva essere un mezzo di miglioramento. Ma è proprio qui che Abramo intende la giustizia in modo diverso.

L'uomo non ha una visione della giustizia uguale a quella divina. Trovandoci davanti ad una disgrazia, alla morte di un bambino o alla sofferenza di una persona, noi diciamo: «Ma che giustizia è questa? Che cosa ha mai fatto di male un bambino per essere venuto al mondo e poi morire?». Quante volte noi uomini ci troviamo davanti a certe situazioni e diciamo: ma è forse giustizia questa? I parametri sono completamente diversi, perché tante volte noi vorremmo uccidere e invece Dio no.

Ora, possiamo vedere in che modo è possibile elencare le differenze tra il modo di interpretare la giustizia divina e quella umana. C'è un altro passo dove si parla di responsabilità, arevut un termine che può indicare responsabilità o garanzia. Si comprende il legame tra questi due termini quando ad esempio si afferma: ti do una garanzia che farò questa cosa, per cui, se non la porterò a termine, dovrò pagare con. miei mezzi. Prendiamo come esempio il brano in cui si parIa di Giuseppe che sta in Egitto e che trattiene Simeone per vedere Beniamino, fratello più piccolo. È questo un quadretto che potrebbe rappresentare un ambiente del ghetto tradizionale ebraico, con tutti i sentimenti e le sensazioni più popolari, più classiche, di un ebreo.

Mentre Giacobbe ha paura, i figli di Giacobbe cercano di incoraggiare il loro padre, ma hanno più paura di lui, quando si tratta di prelevare Beniamino e portarlo in Egitto. Giacobbe dice: «Giuseppe non c'è più e nemmeno Simeone, e Beniamino ve lo prenderete: cosa sarà della mia vita?». Ad un certo momento, davanti a questo dramma familiare c'è Ruben, primogenito, il quale esordisce con una espressione poco simpatica che Giacobbe non gradisce affatto. Al v. 37 del cap. 42 Ruben dice a suo padre: «Metterò a morte i miei figli se non riporterò a te Simeone e Beniamino». Giacobbe si adira contro Ruben, lo tratta da stupido, chiedendogli che parole siano quelle. Infatti, quale nonno può sentirsi dire: «Metterò a morte i miei figli per riportare tuo figlio?». Giacobbe dice che Beniamino non scenderà insieme a loro in Egitto. Non se ne parla fin tanto che c'è un intervento più saggio, molto più familiare, che è quello di Giuda che dice: «Manda il fanciullo con me e andremo, vivremo tutti e non moriremo». Ecco, qui c'è la parola «vivremo», una proposta molto più ebraica: io ti garantisco con la vita, non con la morte, che ti riporterò Simeone e Beniamino. C'è una garanzia di vita: questa è giustizia, non la morte. La morte non dà garanzia perché è solo morte, mentre la vita sì, come dice il famoso detto popolare: «Finché c'è vita, c'è speranza», cioè la speranza di una garanzia di miglioramento e di vita. Qui troviamo il vero concetto di responsabilità del singolo riguardo alla collettività e della famiglia nei confronti di due esseri umani, ed è per questo che Giacobbe accetta. Accetta soltanto quando si parla di garanzia di vita.

Nel libro del deuteronomio troviamo proprio la parola zedek (giustizia), diversa dalla parola mishpat. Si dice: «La giustizia, la giustizia inseguirai». Perché due volte la parola zedek? Perché probabilmente la Torà vuole insegnare all'essere umano come si è «veramente» giusti (zaddikim) e non soltanto buoni (chassidim). I commentatori traducono il primo zedek con«giustizia buona», l'altra giustizia è mishpat, cioè la giustizia giusta, la giustizia per eccellenza. Tu dovrai emettere una sentenza tenendo presente queste due cose e finalmente troviamo l'espressione di Giobbe che dice: «È giusto il Signore nelle sue vie ed è buono in tutte le sue opere». Quindi c'è la parola zaddik e la parola chasid, con il Salmo 85 dice: «La bontà e la verità si incontrano, la giustizia e la pace si baciano Com'è possibile che possano andare d'accordo la bontà con la verità e la giustizia con la pace? Se è verità, deve essere giusta, cioè dobbiamo vedere attraverso gli occhi del giudice colui che sa essere imparziale davanti ad un fatto, sa essere arbitro delle cose vere. Isaia (cap. 1,27) è esplicito: «Sion verrà riscattata con la giustizia/rettitudine e i suoi abitanti con zedakà», cioè Dio non vuole la morte degli uomini ma la giustizia dei fatti.

Tornando all'inizio del discorso, abbiamo cercato di analizzare quello che è il termine giustizia nella Torà, anzi vi chiedo scusa se qualcuno può pensare in modo diverso e credo sia giusto così

Se ogni ebreo è responsabile nei confronti di tutto il suo popolo, prendiamo come esempio la preghiera del viddui, La confessione delle colpe che noi recitiamo tutti i giorni, sia la mattina che il pomeriggio. Pensate un momento alla presa di coscienza delle colpe: io, sinceramente, quando leggo quell'elenco di colpe citato in esso, dico tra me e me che queste cose non le ho mai fatte: «Abbiamo rubato con forza, abbiamo rapinato, detto il falso, parlato di cose inique ... ». Io ho solo cercato di fare il meglio, anche se non sarò un santo! Se io le pronuncio e un altro pure, non siamo per questo un popolo di gente malfamata. Le diciamo perché, nel caso in cui qualcuno le avesse realmente commesse, noi chiediamo a Dio in prima persona plurale di perdonare chiunque le abbia commesse, grazie alle nostre preghiere. Il concetto di collettività nella società è un concetto di responsabilità, secondo cui ognuno è responsabile dell'operato degli altri. Prendiamo il secondo comandamento, che dice: «Mi ricorderò le colpe dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione di coloro che mi odiano». Non dice «ucciderò», ma «mi ricorderò, terrò presente». Tant'è che nel Deuteronomio al cap. 18 è detto: «Non moriranno i padri a causa dei figli o i figli a causa dei padri, ognuno morirà per la sua colpa». Ognuno è responsabile della propria colpa, se ne assume le responsabilità, ma sappia che a causa della sua colpa può essere intaccato anche il suo popolo. È un avvertimento: quando si parla di morte, si parla di morte individuale, ma, quando si parla di ricordo, si parla della collettività.

Concludo citando il testo di una bellissima preghiera che recitiamo all'inizio del Kippur. «Hai amato la giustizia», che è in funzione alla vita, «e hai odiato la malvagità», che è in funzione alla morte. Dio che sta seduto sul trono della giustizia il giorno del kippur è soltanto l'inizio del kippur, non il termine, che è quando si sposterà sul trono della misericordia. All'inizio Dio sta seduto sul trono della giustizia e passa in rassegna gli esseri umani, uno per uno, per trovare una sola cosa che possa appellarli alla vita: «Va' dietro ai molti per fare del bene, fa' del bene per cercare qualcosa a cui appellarti per il bene dell'uomo, per la sua vita per emettere una sentenza vera».

 

* Rabbino-capo di Bologna

Letto 4671 volte Ultima modifica il Mercoledì, 19 Gennaio 2011 11:32
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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