Forma e contenuto della fede
Esiste una gerarchia delle verità da credere
di Angelo Maffeis
Il secondo capitolo di Unitatis redintegratio dedicato all’esercizio dell’ecumenismo, tra i mezzi atti a promuovere l’unità della Chiesa, indica anche il dialogo teologico. A quarant’anni dalla conclusione del Vaticano II tale indicazione può apparire ovvia. Lo era di meno nel momento in cui è stata formulata, dato che la Chiesa cattolica fino ad allora aveva rifiutato di partecipare ufficialmente alle iniziative di confronto teologico promosse dal movimento ecumenico. I motivi di tale rifiuto sono numerosi, ma tra le ragioni si trova certamente anche la percezione della serietà insita nella decisione di aprire un confronto sulla fede professata e sulla dottrina ecclesiale con interlocutori che dissentono su aspetti decisivi dell’identità cristiana. Entrare in dialogo non significa infatti soltanto trovare modi meno polemici e più “educati” di presentare le rispettive convinzioni. Nel momento in cui i imbocca con serietà la strada del confronto sulle convinzioni di fede, nasce il timore che queste, inevitabilmente, siano in qualche misura relativizzate e, se si compie il tentativo di farle convergere, si accetta il rischio che le proprie convinzioni siano trasformate, con la possibile conseguenza di venir meno alla fedeltà nei confronti della fede trasmessa.
Le proprie convinzioni messe in gioco
Il dialogo tra le Chiese circa le rispettive convinzioni di fede è dunque un esercizio tutt’altro che innocuo. E proprio a motivo di questo suo carattere, il confronto tra le Chiese sugli elementi centrali della loro fede e sulle strutture della Chiesa sembra trovarsi imprigionato nell’alternativa tra due possibilità ugualmente inaccettabili. Se si mantiene fede alla propria posizione, allora il dialogo è solo apparente e si riduce a tattica astuta per tentare di portare l’interlocutore sulla propria posizione. Se invece nel dialogo si mettono in gioco le proprie convinzioni, allora si relativizza la propria fede.
Con questi problemi si sono confrontati i padri conciliari e i periti nel momento in cui hanno voluto affermare che il dialogo ecumenico aveva diritto di cittadinanza nella Chiesa cattolica. Molte indicazioni suggerite dal decreto riflettono perciò l’intento di conciliare l’esigenza di un dialogo autentico e, insieme, che non comprometta la fedeltà alle proprie convinzioni di fede.
Ai fedeli cattolici il decreto sull’ecumenismo chiede anzitutto onestà nel presentare la dottrina della propria Chiesa. «Niente è più alieno dall’ecumenismo quanto quel falso irenismo, dal quale ne viene a soffrire la purezza della dottrina cattolica e ne viene oscurato il suo senso genuino e preciso» (UR 11). Per dialogare è dunque necessario anzitutto essere sé stessi, non solo perché si esprimono con sincerità le proprie convinzioni, ma anche perché ci si sforza di rappresentare la fede della Chiesa nella sua oggettività, così come è attestata dalla tradizione nelle sue molteplici forme.
Ma la tradizione della fede è proposta in modo adeguato solo quando si distingue in essa l’assoluto dal relativo, ciò che appartiene alla fede apostolica che ci rende cristiani e ciò che invece è forma contingente e transitoria in cui la fede apostolica è stata professata, celebrata e vissuta. A questo proposito, la teologia contemporanea ha percepito in .modo più acuto rispetto ad altre epoche il carattere storico di ogni espressione della fede. La verità di Dio apparsa nella storia ha assunto forme umane e contingenti per potersi comunicare. A maggior ragione presentano aspetti umani e contingenti le forme in cui questa verità è stata trasmessa dai credenti e dalle comunità cristiane attraverso i secoli.
Dottrina: forma e contenuto
Alla necessità di compiere quest’opera di discernimento allude il decreto quando sottolinea che tra gli aspetti della riforma della Chiesa dev’essere compreso anche il «modo di esporre la dottrina - il quale deve essere diligentemente distinto dallo stesso deposito della fede» affinché, se alcune cose «sono state (...) osservate meno accuratamente, siano in tempo opportuno rimesse nel giusto e debito ordine» (UR 6).
Il passo citato riprende una delle affermazioni del discorso di apertura del Concilio, pronunciato da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962, nel quale si introduceva la distinzione tra il deposito della fede e la forma in cui la dottrina è espressa. «Altra cosa», aveva sottolineato il Papa, «è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata».
Benché lo schema che distingue ,e considera separabili forma e contenuto sia stato oggetto di critiche non del tutto prive di fondamento, bisogna riconoscere all’affermazione di Giovanni XXIII, ripresa dal decreto conciliare, un’importanza fondamentale per lo sviluppo del dialogo ecumenico. Si riconosce infatti che nel corso dei secoli i modi di dire la fede sono cambiati, senza che questo abbia comportato il cambiamento della fede apostolica trasmessa di generazione in generazione. E perciò possibile pensare a una migliore formulazione delle verità di fede che nel passato sono state espresse con gli strumenti concettuali e linguistici a disposizione, spesso nel mezzo di aspre controversie. Ed è anche possibile pensare che modi diversi di esprimere la fede non siano sempre e necessariamente incompatibili con l’unità della fede.
Il dialogo dottrinale intrapreso dalla Chiesa cattolica con le altre Chiese e comunità cristiane ha voluto verificare questa possibilità. Si è ascoltata insieme la testimonianza della Scrittura, per attingere alla sorgente della tradizione apostolica della fede. E la Scrittura ha offerto modi di esprimere la fede comune in grado di superare le formulazioni segnate nella controversia.
L’idea biblica del memoriale, per esempio, ha permesso di comprendere come l’unico sacrificio di Cristo si renda presente in modo reale nella celebrazione eucaristica. Al tempo stesso il dialogo ha seguito le diverse vie che la recezione del messaggio biblico ha conosciuto nei secoli successivi, dando forma a tradizioni peculiari di fede e di vita cristiana. Gli studi compiuti hanno voluto verificare a quali condizioni le diverse espressioni della fede possano riconoscersi come legittime, pur permanendo diverse. Nella Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione sottoscritta nel 1999 da cattolici e luterani, il modello della complementarità ha trovato una delle applicazioni più significative.
La natura della rivelazione
La coscienza della forma storica in cui la verità di Dio ci è donata ed è trasmessa lungo i secoli rimanda alla comprensione della natura della rivelazione divina in quanto tale.
Anche a questo proposito il decreto contiene un’indicazione preziosa. Dopo aver ribadito che il dialogo con le altre Chiese e comunità ecclesiali dev’essere promosso con la finalità di chiarire e superare i dissensi nella fede ed esige a tale scopo anzitutto un’esposizione adeguata della dottrina cattolica, senza riduzioni, ma anche senza crear inutili ostacoli allo sforzo di riconciliazione, il documento conciliare afferma: «La fede cattolica deve essere spiegata con più profondità ed esattezza, con quel modo di esposizione e di espressioni, che possa essere compreso bene anche dai fratelli separati. Inoltre nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell’investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana»(UR 11).
Il testo conciliare invita anzitutto a distinguere ciò che è centrale da ciò che è periferico nella fede e nei modi in cui essa si esprime. Troppo spesso infatti l’immagine delle altre Chiese si basa su elementi secondari, che non colgono gli elementi essenziali dell’identità ecclesiale. Ma più profondamente, l’allusione all’esistenza di una gerarchia delle verità contiene un invito a non pensare la rivelazione cristiana come un elenco di proposizioni vere, che in quanto garantite come rivelate hanno un uguale valore. La verità cristiana si manifesta nella parola; nella persona e nella storia di Gesù ed è in relazione a questo fondamento che tutti gli aspetti della rivelazione devono essere compresi.
Per il dialogo tra le Chiese, ciò comporta lo sforzo di precisare il nesso tra le dottrine sulle quali si cerca di raggiungere il consenso e il fondamento della rivelazione cristiana. Significa anche distinguere tra il centro del messaggio cristiano, su cui il consenso dev’essere pieno ed esplicito, e altri aspetti della coscienza cristiana maturata nel corso dei secoli attraverso la meditazione della Scrittura; la liturgia e la vita cristiana, che possono rimanere legittimamente differenti, anche se si deve mostrare almeno che le convinzioni delle diverse comunità ecclesiali non sono in contraddizione tra di loro e con il fondamento comune.
* docente di teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e l’Università cattolica del Sacro Cuore
(da Vita Pastorale, dicembre 2005)
Bibliografia
Maffeis A., Il dialogo ecumenico, Queriniana 2000, Brescia; Velati M., Una difficile transizione. Il cattolicesimo tra unionismo ed ecumenismo (1952-1964), Il Mulino 1996, Bologna, pp. 50