La fede non è tribalismo
di Giovanni Ferrò
Sarà vero – come sostiene lo scrittore portoghese José Saramago – che se fossimo tutti atei, nel mondo ci sarebbero meno guerre e meno violenza? L’affermazione, che di per sé potrebbe suonare suggestiva, appare più come un paradossale aforisma che come una riflessione ponderata.
Certo, il fatto che sempre più, su questo nostro piccolo pianeta, il movente religioso sia utilizzato come argomento per dare addosso al "nemico", al diverso, al credente di altra fede, fa pensare. Il prepotente ritorno degli Dei sull’agone pubblico e il loro sfruttamento a fini cultural-identitari e politico-diplomatici, è il grande tema di questo decennio. Così come anche quel terrificante binomio sempre più mediatizzato che accosta fede e guerra, religione e lotta, idolo contrapposto a idolo.
Ma l’equazione provocatoria di Saramago è un buco nell’acqua che manca completamente l’obiettivo. Per almeno due motivi: si tratta di un’ipotesi fantasiosa, tanto più oggi, in tempi di "rivincita del sacro"; e soprattutto offre implicitamente una visione delle fedi senza sfumature, senza profondità di campo, in cui "credere" significa soltanto abbrutirsi, militare irrazionalmente nel campo di un Dio violento e dogmatico il cui unico scopo è distruggere la divinità avversaria, insieme a tutti i suoi seguaci.
L’errore di Saramago è lo stesso, in fondo, che compie Samuel Huntington, il noto teorico dello "scontro di civiltà": l’errore – grave e pericoloso – della semplificazione. Fare la caricatura di un fenomeno complesso come la fede per chiudere il cerchio di una propria modesta teoria è anzi colpevole, per chi si presenta come un serio studioso del fenomeno religioso. Chiunque abbia un minimo di familiarità con questi temi sa bene, infatti, che ogni comunità religiosa mondiale – si tratti dell’ecumene cristiana, della ummah musulmana, dell’universo ebraico o del buddhismo, dell’induismo, ecc. – è profondamente diversificata al suo interno, composita, spesso divisa e lacerata tra gruppi che hanno idee e visioni talvolta contrapposte.
Con questo non vogliamo certo eliminare – altrettanto superficialmente – la questione del legame tra religione e violenza. Ma l’impressione persistente è che, se una battaglia si sta combattendo, questa scuote trasversalmente tutte le fedi e le confessioni religiose. L’integrismo è parte del cattolicesimo, il fondamentalismo è un pezzo del protestantesimo, l’estremismo violento è una fazione dell’islam. Ma queste correnti non rappresentano il tutto di quella fede. E anzi, esse sono in perenne contesa contro altre correnti interne a quella data comunità di fede, che hanno caratteristiche opposte, riformatrici, innovatrici, "progressiste" diremmo con gergo impreciso preso in prestito dalla politica. I primi nemici di Al Qaeda, insomma, non sono gli occidentali ma i musulmani riformatori, che studiano il Corano con il metodo dell’analisi storico-critica, che predicano la separazione tra Stato e moschea, che sostengono l’emancipazione della donna nelle società islamiche. Allo stesso modo, i primi "eretici" – secondo i fondamentalisti evangelicals americani – non sono i credenti di altre confessioni, ma i protestanti delle Chiese storiche, che criticano le "crociate" per la democrazia volute dai teo-con alleati di George W. Bush. E non è un caso che i grandi martiri riformatori (da Gandhi a Romero, da Martin Luther King a Yitzhak Rabin) siano stati assassinati da estremisti della loro stessa "famiglia" confessionale, accecati dall’odio politico e religioso.
È dunque così vera l’equazione "fede uguale violenza"? Se crediamo che Deus vult, cioè che le nostre pretese siano quelle di Dio, allora sì: perché – come spiega, da cristiano, il romanziere palestinese Elias Khoury – «se le guerre vengono fatte da Dio, non avranno mai fine». Ma se prendiamo sul serio l’affermazione del decreto conciliare Ad gentes (n. 9), che riconosce nelle altre religioni «elementi di verità e di grazia [...] per una nascosta presenza di Dio in mezzo» a loro, allora l’unica grande battaglia è quella che conduce il credente a una quotidiana conversione. E il dialogo interreligioso – in un tempo di meticciato etnico e culturale – cessa di essere un optional per poveri ingenui.
(da Jesus, dicembre 2006)