Islam cristianesimo una parola comune
Un documento di una ventina di cartelle seguito da 138 firme. Un testo che - rivolgendosi al Papa e ad altri 26 leader cristiani - si rifà a un celebre versetto della terza sura del Corano: «O Genti del Libro! Venite a una parola comune tra noi e voi». Individuando questa «parola comune» nel duplice comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo.
Si può riassumere così A Common Word, la lettera aperta di un gruppo molto significativo di guide religiose musulmane, pubblicata il 13 ottobre 2007 in occasione dell’Eid al Fitr, la festività che conclude il mese sacro di Ramadan. Un documento per molti versi inedito. E, pur con sfumature diverse, accolto con grande interesse da tutto il mondo cristiano
L’origine. La lettera dei 138, fin dalla sua intestazione, si rifà indirettamente al discorso di Ratisbona. Si precisa - infatti - che viene diffusa «nel primo anniversario della lettera aperta di 38 sapienti musulmani a Papa Benedetto XVI». Per iniziativa del principe giordano Ghazi bin Muhamrnad bin Talal, in quel documento un gruppo di studiosi era entrato nel merito della tesi esposte da Ratzinger nell’ormai celebre lectio magistralis, plaudendo lo sforzo di «opporsi al dominio del positivismo» ma nello stesso tempo spiegando perché a loro giudizio non è vero che l’islam abbia sacrificato la ragione. Dodici mesi dopo è arrivata questa seconda lettera, che si spinge decisamente più in là. Non si tratta più - infatti - di semplice apologetica dell’islam. Il documento pone, invece, specificamente la questione dei rapporti tra cristiani e musulmani. E testimonia uno sforzo significativo di conoscenza delle Scritture cristiane.
Ma il dato ancora più significativo è il passaggio da 38 a 138 personalità, tutte molto rappresentative: nell’elenco compaiono gran muftì, ex ministri, intellettuali, ayatollah. Provengono da 43 nazioni, islamiche e non: si va dall’Algeria agli Stati Uniti, dall’Iran all’Indonesia. Ma rappresentano anche correnti islamiche diverse: sono sia sunniti sia sciiti, ma anche sufi, o esponenti di scuole più piccole come gli ismailiti, i giafariti, i ribaditi.
Quest’ampiezza di riferimenti è stata certamente molto ricercata dagli estensori. Perché nella tradizione islamica l’ijmaa (il consenso) è una delle tre fonti della fede, accanto al Corano e ai detti del Profeta. Dunque non si tratta di un gruppo eccentrico, ma di un’espressione interna all’islam «ufficiale», che vuole proporsi come punto di riferimento. Anche se - va tenuto presente - tra i firmatari compaiono anche figure che in passato si
I contenuti . Lalettera - consultabile anche in italiano sul sito dei promotori www.acommonword.com - parte da un dato di fatto: «Insieme - si legge nell’introduzione - musulmani e cristiani formano ben oltre metà della popolazione mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una pace significativa nel mondo». Ma secondo questo testo «la base per questa pace e comprensione esiste già. Fa parte dei principi veramente fondamentali di entrambe le fedi: l’amore per l’unico Dio e l’amore per il prossimo». Proprio la declinazione di questi due comandamenti nelle Scritture di entrambi occupa la parte preponderante del documento. Ed è significativo che - come testo di riferimento per l’affermazione dell’unicità di Dio - accanto alla Shahadah («non c’è Dio se non Iddio...») sia citato Deuteronomio 6,4, cioè lo Shema Ysrael, la preghiera più cara a ogni ebreo. Quanto poi all’amore per il prossimo, vicino a un detto del Profeta («Nessuno di voi avrà fede finché non avrete per vostro fratello ciò che amate per voi stessi») questi leader islamici citano le parole di Gesù nei Vangeli di Matteo (22,38-40) e di Marco (12,31), e il comandamento del Levitico (19,1 7-18).
E’ però nella terza parte della lettera che si trovano le affermazioni più impegnative. I 138 scrivono che «musulmani, cristiani ed ebrei dovrebbero essere liberi di seguire ognuno quello che Dio comandò loro (...) perché Dio dice altrove nel sacro Corano: non c’è coercizione nella religione. Questo - proseguono - chiaramente si riferisce al secondo comandamento, perché giustizia e libertà di religione sono aspetti centrali dell’amore per il prossimo». Aggiungono che l’islam «non è contro i cristiani - a meno che loro non intraprendano la guerra contro i musulmani a causa della loro religione, li opprimano e li privino delle loro case» (un passaggio questo che ha fatto discutere, viste le letture differenti della situazione in Iraq). Infine rilanciando il dialogo tra musulmani e cristiani come via per salvare il mondo da un conflitto devastante - aggiungono: «E a quelli che ciononostante provano piacere nel conflitto e nella distruzione, o stimano che alla fine riusciranno a vincere, noi diciamo che anche le nostre anime eterne sono in pericolo se non riusciremo a fare sinceramente ogni sforzo per la pace e giungere ad un’armonia condivisa».
La risposta vaticana. Come prevedibile, A Common Word ha innescato un dibattito tra i cristiani. Le prime reazioni positive sono giunte dal mondo anglicano e protestante (cfr box a p. 53). Ma c’è stato anche chi, come l’intellettuale cattolico statunitense (George Weigel, ha parlato di «un deludente invito al dialogo», perché il documento non affronta il nodo della divisione tra religione e politica. Dal Vaticano la reazione ufficiale del Papa è arrivata il 29 novembre. In una forma significativa: una lettera che il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inviato a nome del Papa al principe Ghazi bin Muhammad bin Talal. In un primo momento si era parlato di una risposta da parte del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Invece alla fine è arrivato un passo che impegna direttamente Benedetto XVI. E il tenore della lettera è inequivocabile: il Papa «esprime il suo profondo apprezzamento per questo gesto, per lo spirito positivo che ha ispirato il testo e per l’invito a un impegno comune per la pace nel mondo». Certo, il Pontefice nella sua risposta rilancia, indicando come terreno concreto di dialogo «il rispetto per la dignità di ogni essere umano; la conoscenza oggettiva della religione dell’altro, la condivisione dell’esperienza religiosa e l’impegno comune a promuovere mutuo rispetto e accettazione». Sono evidentemente punti che mirano a fare chiarezza sulle possibili ambiguità. Ma è una lettura distorta quella di chi li prende a pretesto per dire che Benedetto XVI vuole smascherare il bluff islamico.
Il Papa è stato estremamente chiaro: ha rivolto un invito. Vuole incontrare in Vaticano una delegazione dei 138. Viene da chiedersi: perché solo un gruppo? In Vaticano non mancano certo sale in grado di accogliere 138 persone. E’ allora un modo per tagliare fuori qualche firmatario sgradito? Difficile, essendo la scelta espressamente demandata al principe Ghazi. Dietro al gruppo ristretto c’è piuttosto la voglia di un confronto vero. Non a caso all’udienza in Vaticano viene abbinata l’ipotesi di un gruppo di lavoro con il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. E in questo contesto il Papa non manca di citare la Pontificia Università gregoriana e il Pontificio Istituto di studi arabi e islamici (Pisai), quest’ultimo autore di una risposta molto positiva al documento dei 138. Sarà il salto di qualità tanto atteso nel dialogo islamo-cristiano? Impossibile oggi dirlo. Un fatto però è certo: senza Ratisbona e questa lettera dei 138 una prospettiva del genere non sarebbe stata nemmeno immaginabile. Vale dunque la pena di seguire questo percorso con grande attenzione.
Giorgio Berardinelli
(da Mondo e Missione, gennaio 2008)
Ghazi di Giordania – Il Principe-Teologo
E’ stato il principale promotore del documento. E proprio a lui Benedetto XVI ha rivolto l’invito per incontrare in Vaticano un gruppo di firmatari di A Common Word. Ma chi è il principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal? Classe 1966, studi a Princeton e al Trinity College di Cambridge, Ghazi è il figlio del principe Muhammad, il fratello di Hussein. Dunque è il cugino di re Abdallah Il, l’attuale sovrano di Giordania, di cui è consigliere per gli affari tribali e le politiche culturali. Come membro della famiglia hashemita, vanta il titolo di appartenente alla quarantunesima generazione dei discendenti diretti del Profeta. Docente di filosofia islamica presso la Jordan University di Amman, Ghazi è soprattutto dal 2000 presidente dell’ Aal aI-Bayt, l’istituto di studi islamici della corona giordana. In questa veste ha lavorato a un’altra importante iniziativa inter-musulmana, il «Messaggio di Amman», pubblicato nel 2005. Si tratta di un documento che mira al riconoscimento reciproco tra le diverse correnti Islamiche e alla definizione di alcuni criteri precisi su chi abbia autorità per emettere una fatwa. In quel caso furono oltre 500 I leader islamici che aderirono. E le loro riflessioni vennero raccolte da Ghazi nel libro «Il vero islam e il consenso islamico nel messaggio di Amman», opera definita da Muhammad Sayyid Tantawi, lo shaykh di Al-Ahzar (il più importante centro di studi sunnita) «il migliore aiuto per quanti vogliono camminare sulla retta via con le parole e con le azioni, e nella vita spirituale e religiosa». Il principe Ghazi non è dunque una figura marginale, ma una personalità con una fisionomia ben precisa nel mondo islamico. E non è un caso che il sito internet di A Common Word rimandi proprio a quello di The Message of Amman: è quello stesso consenso tra correnti islamiche diverse che ora questo discendente del Profeta sta provando a spendere sul piano dei rapporti tra cristiani e musulmani.
(g.b.)