A oltre trentacinque anni dalla promulgazione del decreto conciliare sull'ecumenismo - Unitatis redintegratio (21.11.1964) - si nota che è ancora faticosa la sua recezione da parte della Chiesa cattolica nella sua universalità, come del resto accade per gli altri documenti: costituzioni, decreti e dichiarazioni. Il Card. John Henry Newman diceva che occorre per lo meno un secolo perché un concilio porti i suoi frutti! Questo ci fa comprendere che dobbiamo continuare a lasciarci penetrare dall'insegnamento del Vaticano II, con pazienza e perseveranza, ma senza perdere tempo nell'attuarlo, perché anche chi verrà dopo di noi possa raccogliere qualche ulteriore frutto e nuova sollecitazione. C'è addirittura chi sta pensando a un nuovo concilio, perché i tempi corrono veloci e le nuove situazioni esigono adeguate riflessioni e risposte, subito. Eppure si stenta ancora nell'applicare le direttive del precedente, soprattutto in campo ecclesiologico, che attendono di essere realizzate e che contengono già delle indicazioni risolutive per il cammino della Chiesa nel mondo attuale. Con questo non nego l'urgenza degli incontri collegiali al più alto livello al fine di rispondere insieme alle nuove problematiche emergenti, comprese quelle ecumeniche. In tale senso l'Arcivescovo di Westminster, card. Murphy O' Connor, durante il sesto Concistoro straordinario (Roma, 21-25 maggio 2001), ha proposto la convocazione di "un concilio ecumenico speciale", presieduto dal Papa nella carità, con la partecipazione di "un vasto gruppo di confratelli cristiani delle comunità ortodosse, anglicane, luterane e delle Chiese libere..., a Gerusalemme o a Compostela, o eventualmente ancora più in là, in Inghilterra, ritenuta 'terra ecumenica '" (cf Il Regno-doc. 46/2001/340). È una proposta certamente importante, anche se non nuova, che esprime ancora una volta la volontà di camminare insieme, anche se la sua realizzazione richiederà tempo, discernimento e pazienza. Di un "concilio ecumenico che sia il rappresentante spirituale di tutta la cristianità" aveva già parlato l'Arcivescovo luterano svedese Nathan Söderblom nel 1919, a Oud Wassenaar, in Olanda, e lo stesso appello era riemerso con chiarezza nelle assemblee del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) a Uppsala (1968) e a Nairobi (1975), sollecitato anche dalle ricerche della commissione Fede e Costituzione (FC).
La magna charta dell'impegno ecumenico cattolico
Tra i documenti del concilio spicca certamente, per la sua novità, il decreto Unitatis redintegratio (UR) perché è il primo grande documento, definito giustamente magna charta, dell'impegno della Chiesa cattolica nel campo dell'ecumenismo moderno, movimento che, dalla sua fondazione (1910), per decenni era stato visto con sospetto, ostacolato e per vari motivi considerato pericoloso. Ovviamente nella Chiesa cattolica prima del Vaticano II non si parlava di ecumenismo nel senso attuale, ma di movimento pancristiano o interconfessionale (cfr. ad esempio l'enciclica di Pio XI del 1928, Mortalium animos, 4, 8 e il Monitum del Sant'Uffizio del 1948): i cattolici non potevano favorirlo con la loro azione, né partecipare agli storici congressi di Losanna (1927) e di Amsterdam (1948) senza il previo consenso della Santa Sede. Il momento storico non lo permetteva, esigeva un'adeguata maturazione. Con la successiva istruzione del Sant'Uffizio, Ecclesia catholica (1949), nonostante la serie di prescrizioni e messe in guardia dai pericoli dell'indifferentismo. e dell'irenismo, sempre in agguato, si apre uno spiraglio all'ecumenismo che finalmente è definito: "opera magnifica da fecondare e promuovere", anche se sempre nel senso del ritorno a Roma. Occorrerà attendere il concilio voluto da Giovanni XXIII e condotto a termine da Paolo VI per giungere a una chiara determinazione dell'impegno della Chiesa cattolica nell'unico movimento ecumenico.
Insieme a tutti i costi
Nato soprattutto per volontà di alcuni giovani non cattolici, "per impulso della grazia dello Spirito Santo", come riconoscerà più tardi il concilio (cf. UR 1), il movimento moderno per l'unità dei cristiani ha percorso un faticoso e gioioso cammino, per tappe, all'insegna di una spiccata volontà dichiarata dall'inizio, cioè dalla Conferenza universale delle società protestanti di missione, tenutasi a Edimburgo nel giugno 1910, data che simbolicamente ne segna l'avvio, anche se il vero inizio del movimento ecumenico moderno coincide effettivamente con la prima conferenza mondiale del movimento di Fede e Costituzione, tenutasi a Losanna nel 1927.
Nel resoconto generale dello storico evento di Edimburgo si legge che "i membri della Conferenza avevano riconosciuto il dovere di restare insieme nell'amore, nel consiglio, nella preghiera e in quella collaborazione pratica che sarebbe apparsa desiderabile nel doveroso riconoscimento delle loro diversità di fede e di pratica". Memorabili rimangono le parole pronunciate in quella circostanza da Karl Brent: "dobbiamo dare, prima de morire, il nostro contributo alla realizzazione di questo ideale e, di fronte a tutto questo, il cuore umano grida a Dio: "Chi avrà la forza di compiere queste cose?" Ma da Dio viene la risposta: "Io sono la vostra forza: voi potete fare tutto ciò"... Pensate al nostro ideale, come esso è nelle nostre menti, di conseguire una perfetta unità, non soltanto l'unità di quelle varie porzioni del cristianesimo che sono qui rappresentate, ma dell'intera famiglia cristiana". Ciò sarà possibile rimanendo insieme a tutti i costi, come anche il Vaticano II dichiarerà di "essere consapevole che questo santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell'unità della Chiesa di Cristo, una e unica, supera le forze e le doti umane. Perciò ripone tutta la sua speranza nell'orazione di Cristo per la Chiesa" (UR 24). E Giovanni Paolo II, all'apertura dell'assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, confermerà quella storica origine: "È proprio a loro - anglicani, luterani e riformati - che dobbiamo in modo particolare il rilancio dell'impegno per l'unità dei cristiani nell'epoca moderna. Annunciando Cristo e il Vangelo, essi sperimentarono ben presto quanto le divisioni confessionali ostacolassero la loro missione evangelizzatrice... Si fecero perciò promotori dell'attività ecumenica per il superamento di tale divisione e la ricomposizione dell'unità dei cristiani" (10 aprile 1994).
La parola d'ordine del movimento ecumenico, riproposta regolarmente dai suoi inizi fino ai nostri giorni, risulta essere proprio quella espressa volontà di procedere insieme verso l'unità, con tenacia, a qualunque costo. Come un filo d'oro o di porpora indeformabile e incorruttibile, essa attraversa tutto l'itinerario quasi centenario della tradizione ecumenica, la tiene salda al principio fondamentale e la richiama alla perseveranza. È bene ricordarne alcune tappe con gli interventi più significativi in tale senso, anche per riprendere coraggio nei momenti di incomprensione e di smarrimento e riconfermare l'impegno nelle attuali difficoltà, senza dimenticare i notevoli passi compiuti con risultato positivo e riconoscendo l'aiuto del "Signore dei secoli che con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori" (UR 1).
Il cammino del movimento ecumenico
Nel gennaio 1920 il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli aveva espresso, in una lettera enciclica indirizzata "a tutte le Chiese di Cristo dovunque esse si trovino", la sua adesione al movimento ecumenico in questi termini: "Siamo disposti ad entrare, allo scopo di rafforzare i principi cristiani e di lavorare insieme contro qualsiasi sistema che militi contro tali principi", proponendo così la formazione di una comunione di Chiese allo scopo di riunire il popolo di Dio disperso e impegnarlo a operare per l'unità della Chiesa, "in modo da procedere tutti insieme alla realizzazione di quegli obiettivi che avremo fissato di comune accordo".
Dopo le due guerre mondiali, che avevano rallentato il cammino, ma anche reso possibile la condivisione di tanta sofferenza stabilendo profondi contatti tra i cristiani, finalmente ad Amsterdam (agosto-settembre 1948), dove confluiranno i movimenti del Cristianesimo pratico (Stoccolma 1925) e di Fede e Costituzione (Losanna 1927), rimanendone quest'ultimo l'anima teologica, con la convocazione di una prima assemblea generale nascerà il Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), che fisserà la sua sede in Ginevra. Dal primo paragrafo del messaggio conclusivo, nella comune preoccupazione circa il problema della Chiesa, nella quale lo Spirito Santo fa riscoprire l'unità reciproca in rapporto a colui che è il Signore e Capo della Chiesa, si legge: "Alla luce di questa unità, vogliamo camminare insieme nella fede in 1ui l'Uno... Abbiamo stretto un'alleanza... Noi siamo decisi a rimanere insieme... Bisognerà imparare di nuovo a parlare insieme, con coraggio, nel nome di Cristo... Dobbiamo di nuovo ricercare insieme quale sia il dovere di ogni cristiano" (Enchiridion oecumenicum, EO 5,1-3). Pur prevedendo le difficoltà del difficile cammino ecumenico, l'assemblea ha confermato di "poterle affrontare sempre insieme". Dal 1969 la Chiesa cattolica a tutt'oggi è impegnata seriamente nel movimento ecumenico, soprattutto come membro della commissione FC, sezione teologica del CEC.
Nel rapporto finale della terza conferenza mondiale di FC, tenutasi a Lund nel 1952, si afferma con coraggio che "le Chiese devono fare insieme tutto quello che può essere fatto insieme, e non fare separatamente che quello che non può essere fatto altrimenti". Due anni dopo, ad Evanston, la seconda assemblea del CEC sottoscriverà che "tutti dobbiamo sapere ascoltare insieme, nelle nostre divisioni il nostro Signore che ci parla per mezzo della Sacra Scrittura. Questo è difficile, ma quando siamo pronti a intraprendere insieme lo studio della Parola di Dio, decisi ad obbedire a quanto essa dice, ci troviamo sulla strada della realizzazione dell'unità della Chiesa in Cristo", facendo notare che "la preoccupazione per l'unità è misurata dall'intensità della preghiera per essa, costosa e purificatrice. Pregare insieme vuol dire essere attratti gli uni verso gli altri... Non basta stare insieme. Dobbiamo andare avanti" (EO 5,88).
La terza assemblea del CEC, a New Delhi (1961), ha esortato le Chiese a "ricercare insieme e in ogni luogo l'assistenza dello Spirito Santo, per ricevere il potere di essere insieme i testimoni fedeli del Cristo presso il loro prossimo e presso tutte le nazioni... Ricerchiamo ciò che possiamo fare insieme fin d'ora, dovunque ci troviamo" (EO 5,213). Col messaggio della quarta assemblea mondiale del CEC, a Uppsala (1968), dove per la prima volta la Chiesa cattolica è presente con una delegazione ufficiale di quattordici osservatori, si riafferma l'alleanza "per sostenerci e correggerci a vicenda" con la volontà di "ricercare insieme e con maggiore risolutezza l'unione delle nostre Chiese e una comunione più profonda" (EO 5,413). A Montreal, nella quarta assemblea di FC (1963), si insisterà sulla necessità di studiare insieme e di approfondire insieme, per sentirsi trascinati e spinti insieme a compiere nuovi passi verso l'unità, ammettendo che "possiamo parlare insieme e accrescere così la comprensione scambievole".
A Nairobi (1975), quinta assemblea del CEC, è riemersa l'urgenza di "incamminarsi insieme verso la meta dell'unità visibile, in una sola fede in Cristo, verso una sola comunità eucaristica, perché il mondo possa credere" (EO 5,850), affermazione che verrà ripresa a Vancouver nel 1983, sesta assemblea del CEC, per "crescere sempre più insieme, lottare insieme e vivere in Cristo" (EO 5,1089), mentre nella successiva assemblea del CEC a Canberra, nel 1991, l'appello inviterà ad "ascoltare e imparare gli uni dagli altri, a pregare e lavorare insieme, nonostante le diversità... uscendo dall'isolamento per entrare in una comunità solidale" (EO 5,1474). A Nairobi, il Segretario generale del CEC, Philip Potter, nel suo rapporto aveva espresso la convinzione che "non solo resteremo insieme, ma cresceremo insieme, avanzeremo insieme e soffriremo insieme sotto il segno della Croce e nella forza del Signore risorto" (EO 5,1074), quasi riprendendo il messaggio della conferenza di Stoccolma (1925), dove già si affermava che "più ci avviciniamo al Crocifisso, più ci avviciniamo fra noi... Sotto la Croce di Gesù Cristo ci tendiamo a vicenda la mano", confermato successivamente a Lund (1952) nel rapporto finale della terza conferenza mondiale di FC (n. 2).
A proposito del rimanere insieme per consultarsi, assistersi, mantenere relazioni fraterne e dinamiche, rifiutando l'isolamento per pregustare l'unità, si tenga presente anche quanto il CEC ha condiviso nella Dichiarazione di Toronto (1950; EO 5, 2383-2386). Né va dimenticato che il fondamento della Costituzione del CEC recita: "Il Consiglio ecumenico delle Chiese è una comunione di Chiese che confessano nostro Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture e cercano perciò di realizzare insieme la loro comune vocazione a gloria dell’unico Dio, Padre, figlio e Spirito santo" (EO 5,2301).
I sì e i no da dire insieme.
A cinquant’anni dalla sua fondazione è iniziato per il CEC un cammino nuovo e l’ottava assemblea, avvenuta nel dicembre 1998 ad Harare nello Zimbabwe, ha tentato di indicarlo. Guardando in avanti si percepisce sempre meglio l’urgenza di "ricostruire insieme un nuovo CEC, cioè una nuova forma di comunità fraterna di Chiese come era nelle intenzioni dell’Assemblea di Amsterdam". Tra gli interrogativi a cui le Chiese erano state chiamate a rispondere in preparazione a quella assemblea, erano emersi i seguenti: come impegnarci insieme in quanto Chiese nella missione e nell’evangelizzazione? Come unire insieme le nostre risorse, la nostra testimonianza e le nostre azioni per l’avvenire del mondo? Come camminare insieme sulla via che conduce all’unità visibile? Il tema dell’assemblea era: Volgiamoci a Dio. Esultiamo nella speranza. I partecipanti hanno riconfermato alla lettera il messaggio di Amsterdam (EO 5,1-3), cioè la volontà di continuare a rimanere insieme, facendo eco al rapporto del Segretario generale del CEC, Konrad Raiser, che l'aveva ribadito: "Occorrerà chiedere a Dio di ispirarci i 'sì' e i 'no' che dobbiamo dire insieme in tutta verità, superando le esitazioni nel dire 'no' a tutto ciò che divide e 'sì' a tutto ciò che favorisce un'unità più grande... con la volontà di imparare grazie al contatto degli uni con gli altri" (EO 5,2087; cf anche 1339, relativo all'assemblea di Vancouver). Nel constatare, anche tra le difficoltà, una crescente comunione tra i cristiani, è esplicito l'impegno nel volere essere insieme in una continua crescita verso l'unità visibile, non solo nelle assemblee, nei congressi e nei vari incontri ecumenici, ma dovunque ci si trovi a vivere, nel quotidiano: "l'attività ecumenica deve essere a servizio, a tutti i livelli, di questo essere insieme... Il movimento ecumenico ha bisogno di ricuperare il senso del popolo di Dio pellegrinante, il senso di Chiese che sono in cammino insieme, pronte a trascendere i confini della loro storia e tradizione, ascoltando insieme la voce del Pastore" (EO 5,2078).
Ad Harare il CEC ha posto in evidenza ancora una volta tale ferma volontà nonostante la complessità del momento presente, con i suoi segnali di incertezza, delusione e divergenze: "1ntendiamo restare insieme... Abbiamo cercato di comprendere meglio che cosa significhi 'essere insieme'... (EO 5,1926 e 1930)... Il Dio che ci ha chiamati a restare insieme ci condurrà al compimento di tutte le cose in Cristo (EO 5,1932)... Affermiamo che ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide. Né fallimenti né incertezze, né timori né minacce possono indebolire la nostra intenzione di continuare a camminare insieme sulla strada dell'unità, accogliendo tutti coloro che vorranno unirsi a noi in questo cammino, allargando la nostra comune visione, scoprendo nuovi modi di testimonianza e azione comune nella fede. Rinnoviamo il nostro impegno" (EO 5, 2100-2101). Il Presidente del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Aram I, Catholicòs di Cilicia, aprendo l'assemblea aveva dichiarato: "Per 500 anni abbiamo viaggiato insieme sulla barca ecumenica. Abbiamo affrontato molte tempeste...ma nessuna è stata abbastanza forte da deviare la rotta della barca ecumenica. Siamo avanzati insieme... La barca ecumenica è contrassegnata dalla croce... Il mondo ci ascolterà se rimaniamo insieme e agiamo insieme nell'obbedienza al Vangelo e nella fedeltà al comando di Cristo. Insieme le Chiese dovranno diventare un segno di speranza in un mondo attanagliato dalla mancanza di senso e dalla disperazione" (EO 5,2012 e 2052). E nella conclusiva Litania per il rinnovo dell'impegno ecumenico si è proclamato: "Dio dell'unità, Dio dell'amore... facci avanzare, facci avanzare insieme. Aiutaci a compiere la tua volontà" (EO 5,2102). È molto chiaro il testo che il concilio aveva già posto alla conclusione del decreto sull'ecumenismo: "Questo sacrosanto sinodo instantemente desidera che le iniziative dei figli della Chiesa cattolica procedano congiunte (incepta coniuncta progrediantur) con quelle dei fratelli separati (seiuncti = non in piena comunione), senza che sia posto alcun ostacolo alle vie della Provvidenza e senza che si rechi pregiudizio ai futuri impulsi dello Spirito Santo" (UR 24). Né vanno dimenticate le numerose affermazioni della dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione (1999): "insieme siamo convinti ... insieme confessiamo...insieme perseguiamo un unico obiettivo". Nel resoconto del convegno promosso dalla Conferenza delle Chiese europee (KEK) e dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) a Santiago de Compostela nel 1991, si legge che "è necessaria un'evangelizzazione insieme fra le Chiese piuttosto che una competizione di fronte alle nuove minacce alla loro unità e comunione", con l'impegno di "parlare insieme di tutto ciò che costituisce un problema e tenendosi per mano", perché "senza la pace ecumenica non ci sarà in Europa né evangelizzazione, né testimonianza comune". A proposito del Consiglio delle Chiese cristiane di Milano, in atto dal 1998, il Card. Martini ha constatato come "le nostre Chiese hanno incominciato a parlare insieme nel confessare la comune fede e proclamare l'Evangelo". Pure nella diocesi di Venezia è nato questo Consiglio dal 1993, il primo in Italia, nello stesso anno della promulgazione del Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo, documento nel quale la Chiesa cattolica, sottolineando ancora una volta l'importanza della formazione al dialogo per una più efficace collaborazione tra le Chiese, incoraggia a "fare insieme tutto ciò che è consentito dalla fede" e a "mettere insieme le proprie risorse" (nn. 161-162). Con soddisfazione possiamo dire che la volontà di lavorare e camminare insieme è in crescendo ovunque e non mancherà di dare dei nuovi frutti, a cominciare dall'Europa, nella quale sono nate le divisioni cristiane. L'Europa in particolare o sarà ecumenica o non sarà cristiana. Anche Giovanni Paolo II l'ha ribadito recentemente, facendo notare come "l'identità europea è inconcepibile senza il Cristianesimo", mentre la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea l'ha purtroppo dimenticato.
Un cammino irreversibile
Tra le conseguenze degli indimenticabili incontri ecumenici europei di Basilea (1989) e di Graz (1997), organizzati dalla KEK e dal CCEF, che si sono rivelati come vere esperienze di ecumenismo di popolo, nella gioia di stare insieme, spiccava, grazie soprattutto al secondo, la proposta di arrivare a una Charta oecumenica europea con un prospetto di linee-guida sulle responsabilità ecumeniche da affrontare insieme e con la definizione di stili di vita e di regole per l'assunzione di alcuni impegni delle Chiese in Europa. La firma della Charta, dopo varie bozze e consultazioni tra le Chiese, è avvenuta a Strasburgo il 22 aprile 2001, cui seguirà il tempo della ricezione. È interessante notare come nel documento, che traccia le "linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa", per venti volte si ribadisce che occorre "annunciare, operare, contribuire, dibattere, diffondere, rielaborare, pregare, riflettere, promuovere, proseguire, impegnarsi... insieme".
Come si può vedere si tratta di continuare a percorrere con fiducia un cammino ripetutamente definito da Giovanni Paolo II "irreversibile" e che trova la motivazione fondamentale nella preghiera di Cristo al Padre prima della sua passione: "che tutti siano uno, perché il mondo creda" (Gv 17,21), ma che forse non risuona come dovrebbe tra le nostre invocazioni quotidiane. Quella preghiera invece, che è "rivelazione e invocazione", come si è espresso nella lettera apostolica Novo millennio ineunte (NMI, Epifania 2001), "è insieme imperativo che ci obbliga, forza che ci sostiene, salutare rimprovero per le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore" (n. 48). Ricordo sempre con commozione le pagine ingiallite e consumate del piccolo Vangelo della giovane monaca trappista Maria Gabriella dell'unità (1914-1939), ora beata, corrispondenti alla preghiera di Gesù per l'unità dei discepoli (Gv 17).
Insieme verso l'unità piena
Il grave problema della separazione tuttora esistente proprio tra noi cristiani non può lasciarci indifferenti o freddi, né trovarci assenti alle iniziative che generano comunione, perché "non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma anche è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo ad ogni creatura" (UR 1). In un mondo già lacerato per diverse cause da guerre e discordie e che tra le tensioni stenta a raggiungere una pace duratura, il fatto a tutti noto della divisione dei discepoli di Cristo, che si trascina ormai da secoli, è piuttosto scoraggiante: neppure i cristiani sono capaci di stare insieme?
Questo è vero in parte, perché l'unità della Chiesa esiste già, è già in atto, in quanto la Chiesa è opera dello Spirito (professiamo: credo la Chiesa una...) e l'unità dei cristiani è fondata sulla realtà dell'unico Battesimo, ma non è pienamente manifestata come dovrebbe, anche se molteplici elementi della vita cristiana, del culto, della dottrina, della disciplina e della struttura sono già comuni. Il movimento ecumenico lavora per la realizzazione della pienezza visibile dell'unità voluta da Cristo per la sua Chiesa, nella verità e nella carità. Infatti non si contano più i progressi nelle relazioni, i congressi, le assemblee, le riunioni, le commissioni, gli incontri di dialogo bilaterale o multilaterale a livello nazionale e internazionale, le dichiarazioni congiunte, le visite, i contatti, i gesti simbolici, le fraterne collaborazioni..., nella preziosa riscoperta dell'ecclesialità altrui: tutto questo dimostra che i cristiani, a differenza di altri tempi, nei quali ciascuno se ne andava per le proprie strade in un reciproco estraneamento, finalmente riescono a incontrarsi, a ritrovarsi insieme, sanno parlare insieme, sanno studiare insieme e confrontarsi, nonostante sussista qualche tensione, superando le sterili polemiche e le incomprensioni del passato, nel comune desiderio di mettere in rilievo tutto quello che già li unisce, pur nelle diversità che si rivelano quanto mai arricchenti quando sono legittime, per poi proseguire insieme di tappa in tappa verso la meta dell'unità piena.
Il grande ecumenismo della santità
Dopo la fase degli entusiasmi ecumenici dell'immediato post-concilio, ora è giunto il tempo dello scioglimento concreto dei nodi ecumenici che sta avvenendo in un clima di dialogo franco e di discernimento tra vero e falso ecumenismo, evitando di confondere la fedeltà con il fanatismo, l'apertura con la disgregazione dell'identità. Il cammino rimane faticoso e richiederà forse tempi lunghi, ma sempre sostenuto dalla speranza che viene dallo Spirito di Colui che vuole l'unità e che è "capace di sorprese sempre nuove" (NMI, n. 12). Stiamo passando, infatti, dalla competizione alla cooperazione, dalla solitudine alla solidarietà, dalla co-esistenza alla pro-esistenza, dalla verità confessionale alla verità universale, dall'identità generata dalla separazione all'identità donata dalla santità.
Sarà infatti "il grande ecumenismo della santità" (NMI, n.48) a dire l'ultima parola dell'impegno ecumenico, se come cristiani avremo il coraggio di "camminare insieme nell'unità della fede e nel rispetto delle legittime diversità" (ibid.), accogliendoci e sostenendoci a vicenda come membra dell'unico Corpo di Cristo. L'unità cristiana germinerà dalla santità cristiana, per fede e per grazia. Solo la santificazione e la maturazione nella fede e nell'amore fraterno, alla luce e nel fuoco del mistero trinitario, potranno generare l'unità, come è stato evidenziato nella commemorazione ecumenica dei martiri cristiani, presso il Colosseo (7 maggio 2000).
La santità è l'azione più efficace in vista dell'unità e ci fa scoprire che le barriere confessionali non salgono fino al cielo. I santi abbattono i muri delle separazioni. Qui sta la ragione della speranza cristiana, ecumenica, che cresce in un contesto di preghiera umile e di riforma perseverante. A Canberra, Partenios III, patriarca greco ortodosso di Alessandria, aveva ricordato: "Non scordiamo che dobbiamo diventare santi o avvicinarci a questo stato... Senza la santità, niente può portare frutto. Tutto, e soprattutto l'unità delle nostre Chiese, ha bisogno di santità, pentimento, perdono, preghiera, amore e verità" (EO 5,1491). Con la sua ardente preghiera al Padre per l'unità dei discepoli, Gesù ci ha fatto comprendere che l'unità visibile si realizzerà essenzialmente attraverso la preghiera continua, e non certo di una sola settimana all'anno. Accogliendo le sollecitazioni del concilio sarà bene insistere nel "pregare insieme" (UR 4 e 8) con fede e regolarità lungo tutto il corso dell'anno per questa santissima causa, rimanendo nella preghiera di Cristo, perché l'unione avvenga come e quando lui vorrà. Nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente (1994) Giovanni Paolo II ha fatto notare che "bisogna impegnarsi di più nella preghiera ecumenica. Essa s’è molto intensificata dopo il Concilio, ma deve crescere ancora coinvolgendo sempre più i cristiani" (n. 34). Come teologi, docenti e studenti degli istituti ecumenici a maggiore ragione dovremmo attuare tale invito con più creatività, generosità e regolarità, mettendolo in pratica personalmente e comunitariamente, per fede, coinvolgendo quanti ci accostano e condividono la nostra passione, anche insieme ai fratelli delle altre Chiese, dove ciò risulta possibile.
Per andare oltre
"E noi cosa dobbiamo fare?", chiedevano a Giovanni Battista nel deserto attendendo il Messia. E noi cosa dobbiamo fare nell'attesa della piena unità, quale contributo dare, quali impegni assumere tra le numerose difficoltà ecumeniche che vanno al di là delle nostre reali possibilità? Il concilio ha già risposto che la cura di ristabilire l'unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e ognuno secondo la propria capacità, partendo dalla vita cristiana di ogni giorno che comporta soprattutto l'ascolto della Parola, la preghiera, il compimento dei propri doveri e l'esercizio della carità (cfr. UR 5-12). In una parola, questo è possibile a tutti: ricentrarci su Cristo e ripartire da Cristo con fede per vivere da cristiani con l'energia della sua grazia divina. Il dovere della reciproca conoscenza, della formazione ecumenica e della cooperazione, cioè del saper stare insieme e del lavorare insieme, emergerà come normale conseguenza dell'attenzione riservata alla causa e del cambiamento di mentalità che il contatto diretto con gli altri fratelli cristiani favorisce.
Scriveva Karl Rahner: "Non possiamo diventare una cosa sola se non ci comprendiamo; non possiamo imparare a conoscerci se per diffidenza o indifferenza non coltiviamo i contatti che soli ci permettono di imparare a conoscerci, per poi scoprire alla fine che siamo tutti cristiani". Le occasioni in tale senso sono molteplici e diversificate: vanno accolte e valorizzate. "La cooperazione ecumenica - ha affermato il Papa - è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede" (Ut unum sint, 40). Anche il dovere dello studio teologico e storico fatto insieme, unito a quello dell'impegno diretto del dialogo, fa parte del servizio richiesto dalla volontà di Cristo (UR 4), con fatica e gioia, sempre nella convinzione che oggi "la via ecumenica è la via della Chiesa" (Ut unum sint, 7). Sappiamo che l'ultimo dialogo teologico di Baltimora (luglio 2000) tra le Chiese cattolica e ortodossa (avviato nel 1979), non ha permesso reali progressi, ma malgrado ciò si è deciso di proseguire insieme.
Oltre che a livello dottrinale e universale, le prospettive del dialogo ecumenico teologico oggi sono da ricercare anche e soprattutto sul piano pastorale e locale, sul territorio. Ignorarsi tra fratelli cristiani, è peccato. Programmare e organizzare senza ascoltare gli altri, non è cristiano. Torna con forza l'esigenza dell'ecumenismo dell'attenzione, del contatto, dell'incontro, del volere stare insieme per progettare insieme al fine di operare insieme e rendere testimonianza insieme nel nome del Signore dell'unità. In questo modo si rivelerà la reale ricezione dei frutti del dialogo tra le Chiese, perché il futuro dell'ecumenismo dipenderà certamente solo e sempre più dalla ricezione dei documenti del dialogo: "devono diventare patrimonio comune e coinvolgere il popolo di Dio nel suo insieme" (Ut unum sint, 80). Studiare e dialogare non basta, ci vogliono i fatti. Occorre passare dalla carta alla vita, dalle affermazioni al coraggio dell'attuazione, senza lentezze stancanti che possono diminuire l'interesse e raffreddare la passione ecumenica. Occorrono gesti nuovi e profetici, per andare oltre il grado di comunione che è stato raggiunto. Anche Giovanni Paolo II si è pronunciato in tale senso durante l'incontro ecumenico del 18 gennaio del 2000 nella basilica di San Paolo fuori le Mura per l'apertura di quella porta santa, aperta insieme, a sei mani, rimanendo in ginocchio insieme sulla soglia: "Predisporci al sacrificio dell'unità significa mutare il nostro sguardo, dilatare il nostro orizzonte, saper riconoscere l'azione dello Spirito Santo che opera nei nostri fratelli, scoprire volti nuovi di santità, aprirci ad aspetti inediti dell'impegno cristiano", augurandosi che l'anno di grazia del duemila fosse "per tutti i discepoli di Cristo occasione per imprimere nuovo impulso all'impegno ecumenico, accogliendolo come un imperativo della coscienza cristiana", esprimendo l'auspicio che si possa "tornare a camminare insieme come unico popolo, obbedienti al disegno del Padre". E nel discorso natalizio alla Curia romana dello scorso anno: "di fronte alle persistenti fatiche del cammino ecumenico occorre non perdersi d'animo. Dobbiamo credere che il traguardo della piena unità di tutti i cristiani è realmente possibile con la forza di Cristo che ci sostiene".
Col coraggio della profezia
Abbiamo proprio bisogno di imparare a stare insieme perché la Chiesa è comunione e tale comunione è il cuore del suo mistero, comunione che, nonostante tutto - spes contra spem (cf Rm 4,18) - va continuamente ricercata e vissuta. Sinceramente dobbiamo dire che nel movimento ecumenico la volontà e il progetto di stare insieme, lavorare insieme, programmare e decidere insieme c'è ed è continuamente ribadito. Nonostante tante realizzazioni importanti e accordi, pare che sia proprio carente, ora, il coraggio di continuare ad attuare con perseveranza ciò che è stato concordato insieme, cioè di fare reali esperienze ecumeniche insieme. L'invito di Lund alle Chiese a "operare insieme in tutte le aree, tranne in quelle in cui profonde divergenze di convinzione le costringono a operare separatamente" (n. 67), è quanto mai sempre più vero e ancora in attesa di attuazione. Anche Paolo VI l'aveva ripreso a Bombay (1964) aggiungendo che "le nostre iniziative non devono essere prese isolatamente". E allora ben vengano le proposte di provare a vivere insieme con altri fratelli cristiani, con discernimento, per mettere in atto la profezia dell'unità nella diversità, senza paura. Ben venute allora, ad esempio, le delibere degli ultimi Capitoli generali del mio Ordine religioso (Chierici Regolari di San Paolo, detti Barnabiti) recepite in parte dai Capitoli provinciali, con l'augurio che possa crescere la passione per questa causa, non solo, ma in concreto si manifesti la possibilità, oltre quella della preghiera, anche dell'accoglienza ecumenica e dell'eventuale costituzione di una comunità interconfessionale, appunto "come profezia della vita religiosa in una nuova forma, come via dinamica verso l'unità" (delibera n. 98, Capitolo generale 2000), superando paure e perplessità che non hanno più senso in un clima di speranza che proprio dagli Ordini e dalle Congregazioni sta emergendo con forza, nell'attesa di tutta la Chiesa. Ed è proprio ancora Giovanni Paolo II a chiedere come profezia ai Religiosi "l'esplorazione di vie nuove per mettere in pratica il Vangelo" (Vita consecrata, n. 84), mettendo in luce "il profondo legame della vita consacrata con le causa dell'ecumenismo e l'urgenza di una testimonianza più intensa in questo campo... Gli istituti di vita consacrata hanno un particolare dovere di coltivare questo impegno. È urgente, pertanto, che nella vita delle persone consacrate si aprano spazi maggiori alla orazione ecumenica ed alla testimonianza autenticamente evangelica (ibid., n. 100). Nessun istituto di vita consacrata deve sentirsi dispensato dal lavorare per questa causa" (ibid., 101). La vita religiosa può in effetti favorire il movimento ecumenico in modo singolare ed efficace, data la sua estensione tra tutti i popoli, con le occasioni di contatto, conoscenza e dialogo con le altre Chiese e Comunità ecclesiali, oltre l'esperienza della vita comune che già di per sé è ecumenica perché nelle comunità si sforza di realizzare l'unità-comunione nella diversità, con le sue gioie e le sue fatiche.
Il secondo millennio ha visto la dolorosa storia delle separazioni tra i cristiani, ma anche la nascita consolante, nell'ultimo secolo, del movimento ecumenico moderno, grazie all'azione dello Spirito. Nel terzo millennio appena iniziato i cristiani ritroveranno insieme la piena unità nel rispetto delle legittime diversità? Ce lo auguriamo tutti e beati coloro che la potranno vedere, finalmente, ma beati anche noi se fin d'ora avremo contribuito nel favorirla. Purtroppo c'è ancora chi per varie ragioni ostacola il cammino ecumenico o lo rifiuta, lo sottovaluta o lo ignora con indifferenza. Nella sua ultima intervista, che ha il sapore di un testamento, il p. Jean-Marie Roger Tillard O.P. (1927-2000), gioioso teologo ecumenico, non aveva esitato ad affermare in proposito: "sarei meno esitante a definire peccato contro lo Spirito il rifiuto di lavorare perché scompaia lo scandalo della divisione dei cristiani". Ma le basi sono gettate perché nel nuovo millennio le Chiese possano riuscire a ristabilire l'unità visibile con l'aiuto della Trinità.