Non si poteva parlare di unità nella diversità, ma solo di chiese e di confronti alternativi. Il dialogo era considerato possibile soltanto all'interno delle aree alternative e contrapposte politicamente o confessionalmente, per esempio con il cattolicesimo del dissenso. Ciò spiega anche il ritardo sulla maturazione della discussione ecumenica portata avanti dal Consiglio Ecumenico delle Chiese. Quando uscì l'enciclica Mater Magistra fu preoccupazione protestante contrapporle radicalmente l'ecclesiologia espressa dalla formula: filia et discipula. Non si poteva far richiamo alla pienezza della teologia dei Riformatori e soprattutto ricordare che per Calvino la chiesa è la nostra madre che ci nutre dalla nascita fino alla sepoltura.
Tuttavia all'inizio del Concilio Vaticano II Giovanni Miegge aveva messo a fuoco il dialogo con la cultura cattolica auspicando che la Chiesa di Roma si avviasse finalmente verso un rapporto d'integrazione (1 Cor 12) con gli altri settori del cristianesimo anziché attardarsi sul suo integrismo altero e tradizionale. Era il suo testamento spirituale in materia. Ma per circa trent'anni il discorso non fu ufficialmente recepito, ripreso e portato avanti in sede ufficiale.
Intanto entravano in gioco altri fattori, quelli del '68 e degli anni di piombo che seguirono. I valdesi, per quanto si può giudicare dalle zone dove rappresentano o la maggioranza dei comuni o una forte minoranza, esprimevano il loro voto politico in gran parte nella direzione del partito socialista. Tuttavia prendeva il sopravvento una corrente di estrema sinistra, più influenzata da Pechino che da Mosca, che occupava tutti i centri direzionali delle chiese protestanti. Il discorso sul dialogo non aveva possibilità di sopravvivere. Calava un silenzio altezzoso sugli "interclassisti" del dialogo. Veniva emarginato chi cercava invano di richiamare l'attenzione sulle aperture intraprese dal Consiglio Ecumenico e dai massimi esponenti stranieri della teologia contemporanea. Non serviva rifarsi al Barth del dopo Concilio, non serviva richiamare Tillich, del tutto sconosciuto in Italia, non valeva neppure la pena citare Vissert'Hooft, Cullmann, Moltmann. Il testamento spirituale di G. Miegge non veniva ripreso ufficialmente, ma sopravviveva.
Eppure i papi del Concilio avevano dato il via ad un nuovo cattolicesimo animato da un grande desiderio di aggiornamento e di riforma. L'entusiasmo ha certamente aperto anche strade che, con la loro componente di curiosità, non potevano durare se messe in contrapposizione con la rigidità delle posizioni tradizionali. Ma l'atmosfera era cambiata. Contrariamente a quanto avveniva in ambito protestante il cattolicesimo imparava rapidamente a dialogare con tutti e sui temi più disparati. La chiesa cattolica ebbe a soffrire la perdita di un buon numero di sacerdoti che scelsero il matrimonio. Una maggiore cautela non tardò perciò a farsi sentire. Ma nel frattempo un nuovo senso di fraternità veniva estendendosi là dove, prima, non c'era che contrapposizione e rifiuto.
Le case editrici cattoliche s'affrettarono a tradurre in italiano il materiale scientifico prodotto all'estero come frutto della ricerca e dello studio di grandi nomi protestanti. Lo stesso accade a livello di riviste interessate a problemi culturali o teologici.
Chi, in ambito protestante, non aveva dimenticato le intuizioni di Giovanni Miegge trovava finalmente lo spazio necessario per segnalare le discussioni, i metodi e le prospettive che si andavano formulando nell'ambito del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Gli restava il rammarico di non poter fare altrettanto nel contesto della propria chiesa per poterla impegnare seriamente anche in Italia. Le Facoltà di Teologia cattoliche diedero per prime l'esempio d'invitare, tra i loro docenti, esperti di altre confessioni cristiane per affidare loro la presentazione delle posizioni diverse dal cattolicesimo e godere così di un arricchimento culturale più ampio e più promettente per la crescita di un dialogo serio e produttivo. Numerosissimi furono i futuri sacerdoti che sostennero esami sulle posizioni storiche del protestantesimo e sulla ricerca in atto attraverso il Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Fu possibile in quegli anni avviare la traduzione interconfessionale della Bibbia in lingua corrente. Dal 1968 in poi l'auspicio di avere finalmente bibbie comuni e soprattutto traduzioni per la missione si era realizzato. L'impegno fu enorme, ma lo fu anche il risultato. Le campagne bibliche comuni a cattolici e protestanti per la diffusione della Sacra Scrittura raggiunsero orizzonti mai sperati e portarono l'Italia tra le prime nazioni europee. Eravamo citati ad esempio da tutti e in tutti i settori collegati alle Società Bibliche. Fu possibile soprattutto sostenere insieme la traduzione e la diffusione della Bibbia nei Paesi dell'Est europeo e del Terzo Mondo.
In quegli anni, nonostante tutto bisognava far progredire il movimento ecumenico anche da noi. Furono i laici cattolici del Segretariato Attività Ecumeniche ad offrircene la possibilità. Infatti affrontarono il tema con molto coraggio e si aprirono al dialogo facendone un metodo costante per verificare insieme il cammino che si andava tracciando con i documenti del Concilio Vaticano II e con quelli del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Lentamente, ad uno ad uno, approdarono agli incontri annuali pastori di tutti i settori non cattolici e molti esperti cattolici. La maggioranza dei partecipanti era comunque composta da laici (i soli ad avere diritto di voto nelle assemblee). Per i protestanti l'ecumenismo di Giovanni Miegge tornava a rivivere anche se non era facile muoversi all'interno dei condizionamenti che si erano prodotti sia in campo confessionale sia in quello politico. Si poteva riprendere il tema del Regno di Dio della conferenza di Oxford del 1937 e quello della giustizia e della libertà di Amsterdam 1948 in modo da sciogliere le asperità manichee che raccoglievano tutto il positivo dalla parte dell'occidente o da quella dell'oriente contrapponendole. In quegli incontri molti impararono l'arte del dialogo e cominciarono a dialogare nelle loro chiese e nelle loro città. Le occasioni andavano, infatti, moltiplicandosi. Le riviste e i giornali ampliavano gli echi delle assemblee nazionali; non si poteva non tenerne conto. L'arte del dialogo ecumenico doveva comunque progredire e affermarsi sempre in modo indiretto per evitare il più possibile scontri frontali e per convincere con i contenuti anziché con le persone coinvolte.
Il risultato lo si può notare negli ultimi anni di cui le possibilità d'incontro si sono moltiplicate. Molti dei più strenui oppositori si trovano ora ad insegnare negli istituti più disparati. Non si chiedono come siamo giunti a quel punto, ma si rallegrano di esservi giunti. Tra cattolici e protestanti esistono ormai commissioni miste per lo studio di alcuni problemi di attualità come i matrimoni misti. Battisti, Valdesi, Metodisti hanno una commissione consultiva per le relazioni ecumeniche. Il suo compito specifico consiste nell'esaminare i documenti che ci vengono trasmessi dalle organizzazioni ecumeniche e da quelle confessionali mondiali. Qualche decennio fa era impossibile pensare di ritrovarsi intorno allo stesso tavolo per confrontare i problemi posti dall'incontro delle varie confessioni. Preti e vescovi sono stati invitati a prendere la parola ad assemblee protestanti e alla Facoltà Valdese di Teologia.
Tuttavia le difficoltà non sono finite. La caduta del muro di Berlino non ha portato a termine le animosità di un tempo. Al di qua del muro i responsabili di prima sono ancora i responsabili di adesso. Ma l'interesse per la nuova situazione ha assorbito gran parte dell'attenzione che prima si poteva riservare al tema ecumenico. Si parla di un tempo invernale dell'ecumenismo. Da parte protestante si lamenta, a torto o a ragione, che alcune indicazioni del Concilio Vaticano II sono oggi trascurate o interpretate in maniera restrittiva. Non si parla più della distinzione tra la "verità" e la "formulazione" della verità. La "gerarchia delle verità" crea una nuova sorta di casistica che imbriglia sovente la discussione e il progredire della ricerca. Gli ortodossi insistono particolarmente nel dire che il "par cum pari"non è più rispettato da Roma che cede ad un nuovo proselitismo. Che le chiese debbano cambiare se stesse per prime, "in capite et membris" come si diceva al tempo della Riforma, torna sintomaticamente ad essere un problema che riguarda innanzitutto gli altri. Nei commenti ufficiali ai documenti su BEM o sull'ARCIC I si ha l'impressione che la chiesa cattolica esiga sempre più un allineamento, quasi letterale, alle sue posizioni tradizionali. Ma questo è il giudizio di chi guarda dall'esterno e potrebbe far torto a chi ci vive all'interno.
Il fatto è che ci troviamo di fronte ad una nuova generazione. I più anziani scrutano l'orizzonte con cautela, con grande speranza e con qualche preoccupazione. Anche la storia recente è maestra di vita: non va dimenticata anche se non ci deve condizionare.