Lectio divina su Apocalisse 12
La Donna dell'Apocalisse
e la spiritualità ecumenica
di Bruno Forte *
L’Apocalisse è una sorta di teologia della speranza sotto forma di teologia della storia: attraverso un susseguirsi drammatico di messaggi e di visioni essa intende annunciare la fede nella finale vittoria del Dio della promessa, invitando alla fiducia la comunità delle origini - provata dalle prime avvisaglie della persecuzione e dalla lacerazione in atto con la Sinagoga - e i discepoli d’ogni tempo. Quando la missione della Chiesa sarà compiuta e l’alba del Regno di Dio tutto in tutti spunterà sull’orizzonte della storia, allora la grande lotta svoltasi nel tempo giungerà alla fine e la vittoria del Signore risplenderà nei cieli nuovi e nella terra nuova delle Gerusalemme celeste. È nello scenario di questa battaglia che si colloca anche il dramma della divisione dei cristiani ed è nella luce della speranza del trionfo dell’Eterno, fondata sulla resurrezione del Crocifisso, che si fonda l’impegno ecumenico al servizio dell’unità per la quale Cristo ha pregato (cf. Gv 17,21). Proprio perché di questo scenario e di questa speranza si fa voce l’Apocalisse, è illuminante rivolgersi ad essa per approfondire le motivazioni e le caratteristiche di una spiritualità ecumenica.
In questa prospettiva, assume un particolare rilievo il capitolo 12, sintesi simbolica dell’intera storia della salvezza, dove viene presentato un “segno grandioso”, che “appare” nel cielo (la forma verbale usata è “ófthe”, propria delle teofanie e delle apparizioni del Risorto: cf. 1 Cor 15,5-8), la Donna (v. 1), a cui è contrapposta un’altra figura imponente, il Drago (v. 3), altrettanto densa di significato simbolico (come indica l’uso del medesimo verbo “ófthe”). Si tratta del “serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (v. 9). La Donna fugge nel deserto, simbolo ricchissimo nella tradizione biblica, dove Dio le ha preparato un rifugio (cf. v. 6), mentre si sviluppa la lotta fra Michele e i suoi angeli contro il Drago (cf. vv. 7ss), che, sconfitto e precipitato sulla terra, si avventa contro la Donna e il Figlio da lei generato (cf. vv. 13 e 17). La Madre e il Bambino non soccomberanno, riportando anzi la vittoria (cf. vv. 14 e 16).
È anzitutto lo sfondo veterotestamentario del racconto ad aiutarci a coglierne il significato: si avverte l’eco di Genesi 3,15, il testo che annuncia l’inimicizia perenne fra la Donna e il serpente, fra il seme di questi e il seme di lei. È poi evocato il contesto dell’Esodo, col tema del deserto (v. 6) e col motivo delle ali di aquila date alla Donna per volare verso di esso (cf. v. 14 e Es 19,4: “Vi ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me”). L’immagine della terra asciutta che assorbe il fiume delle acque suggerisce quindi quella del passaggio del Mar Rosso (cf. vv. 15-16 e Es 14,9 e 15,2). La figura della Donna richiama la nuova Gerusalemme, madre del popolo messianico (cf. Is 66,7), e in generale il popolo eletto (cf. Os 1-3; Is 26,17s e Ger 31,4.15): ella è “vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (v. 1). L’essere vestita di sole - fonte della luce, immagine della sovranità e trascendenza di Dio, “avvolto di luce come di un manto” (Sal 104,2) - avvicina la Donna alla figura di Sion, che sarà “rivestita di magnificenza” (Is 52,1) e “delle vesti di salvezza” (Is 61,10) nel tempo escatologico. Poiché la luna è l’astro su cui si misurano i tempi (cf. Gn 1,14-19), il fatto che la Donna abbia la luna sotto i piedi significa che a lei è assicurata la vittoria sull’avvicendarsi delle stagioni: ella, cioè, non soccomberà alle vicissitudini terrene. La corona di dodici stelle, infine, richiama sia le tribù dell’antico Israele (cf. il sogno di Giuseppe in Gn 37,9), che “i dodici apostoli dell’Agnello” (Ap 21,10.12.14), fondamento della nuova Gerusalemme. Questo insieme di simboli autorizza a vedere nella Donna il popolo di Dio delle due alleanze, l’Israele dell’attesa e la Chiesa dell’avvento messianico. Come quello della Donna, il destino del Popolo dell’alleanza sarà segnato dalla lotta col Drago, di cui certamente il dramma della divisione è un frutto.
La Donna partorisce “un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro” (v. 5): è la madre del Messia, generato nel dolore come indica il fatto che la Donna “gridava per le doglie e il travaglio del parto” (v. 2). Il Figlio è oggetto della feroce avversione del Drago (cf. v. 4b), del quale tuttavia sarà vittorioso, come mostra il fatto di essere “subito rapito verso Dio e verso il suo trono” (v. 5). Il parto doloroso congiunto all’immediata esaltazione è chiara figura del mistero pasquale: è peraltro propria del quarto Vangelo l’immagine del parto applicata al passaggio dalla tristezza alla gioia dei discepoli nell’esperienza della morte e resurrezione del Signore: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,21-23; cf. pure At 13,32-34).
Tenendo conto del duplice simbolismo della Donna e del parto, il messaggio di Apocalisse 12 può allora formularsi così: la Chiesa, nuovo Israele, nell’attuarsi della sua missione nel tempo, conosce le doglie ed è oggetto degli attacchi del Drago, di cui sono segno evidente non solo le persecuzioni dall’esterno, ma anche e specialmente le divisioni interne, frutto del peccato e dell’ostinazione in esso. Come, però, il suo Signore è stato vincitore della morte e dell’Avversario diabolico con la sua Pasqua, così la comunità messianica non soccomberà alla prova e sarà salvata dalla potenza di Colui, che è già presso il trono di Dio. Il trionfo pasquale del Figlio della Donna è anticipo e promessa del trionfo escatologico della Chiesa, anche se essa vive al presente la sua missione fra le doglie e il travaglio del parto, attraversando il suo “deserto”, che è tempo di prova e di grazia analogo a quello dell’esodo di Israele. L’azione del discepolo per realizzare il disegno di unità che Dio Padre ha per la Sua Chiesa può essere pertanto sostenuta da una speranza più forte di ogni disincanto e di ogni sconfitta.
Nella Donna, che genera il Messia Re, può essere vista anche la figura concreta di Maria, la Madre di Gesù, chiamata col titolo di Donna da Giovanni sia quando parla della sua presenza presso la croce (Gv 19,25-27), sia nel racconto delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12). Questo riferimento conferma come nella Chiesa delle origini la figura della Madre di Gesù era evocata quale densa immagine della vocazione e della vicenda dell’intero popolo di Dio e avvertita come motivo di conforto e di speranza di fronte al dolore presente. In questa luce è possibile leggere anche meglio il valore dell’ambiente in cui si svolge la drammatica lotta: il deserto. Combinando i significati vetero-testamentari del deserto a quelli legati alla figura della Donna - che è inseparabilmente la Chiesa e Maria - è possibile individuare quattro condizioni rilevanti per la vita e la missione del popolo di Dio, in particolare per il servizio alla causa dell’unità dei cristiani. Si delinea una spiritualità caratterizzata dall’ascolto contemplativo della Parola di Dio, dalla carità perseverante sotto la Croce, dalla fiducia incondizionata nella fedeltà divina e dalla speranza più forte di ogni delusione o apparenza contraria nella realizzazione della preghiera di Gesù “che tutti siano uno”.
Il deserto nella Bibbia è anzitutto il luogo della memoria dell’amore e dell’ascolto della Parola dell’Amato: secondo quanto è detto nel libro del profeta Geremia, esso richiama il primo amore fra Dio e il suo popolo: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (2,2). Al tempo stesso, il deserto (in ebraico: “midbar”) è simbolo dell’ascolto accogliente della Parola (in ebraico: “dabar”), la sola forza che può trasformarlo nel meraviglioso giardino della nuova creazione: perciò, al centro della fede ebraica c’è l’ascolto - lo “shema” -, il silenzio accogliente in cui la Parola viene, come in un silenzioso deserto, a suscitare la vita. Secondo la meditazione dei Padri, Maria è il “deserto fiorito”: in quanto Vergine dell’ascolto ella è il silenzio in cui risuona la Parola di Dio, il “deserto” delle possibilità umane che si lascia totalmente abitare e plasmare dalla Grazia. Riconoscendosi nella Donna dell’Apocalisse condotta nel deserto e riconoscendo parimenti in essa la Vergine Maria come suo modello, la Chiesa apprende a “fare deserto”, a vivere cioè l’ascolto religioso e fecondo della Parola di Dio, da porre alla base della sua missione. Si profila così il primo tratto di una spiritualità che aiuti il popolo di Dio a sostenere la battaglia escatologica e essere vittorioso nella vittoria divina: il primato della dimensione contemplativa della vita spesa al servizio della causa dell’unità e nutrita dall’ascolto perseverante della Parola di Dio, come sorgente che sempre di nuovo convoca la Chiesa e la unifica nella comunione della fede e del servizio.
Il deserto è poi percepito nella Bibbia come il luogo della prova: nel Deuteronomio è scritto: “Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire” (8,14-16). Queste parole evocano le prove conosciute da Israele nel cammino dell’Esodo, ma si adattano anche alla terribile prova della lotta che secondo l’Apocalisse si scatena nel deserto contro la Donna da parte della Bestia. A sua volta, la donna Maria ha conosciuto la prova della fede (cf. la spada di cui parla Lc 2,35), fino ai piedi della Croce (Gv 19,25-27). Da Lei la Chiesa impara a sostenere la prova, fiduciosa in Dio e nella sua fedeltà, attraversando il deserto in tutta la sua ambiguità di luogo di rifugio e di spazio della lotta, dove si sperimenta la protezione dell’Altissimo e la ferocia del Drago. Da questa ricchezza simbolica, viene alla Chiesa la consapevolezza di non poter vivere la propria missione fino al tempo della fine senza essere sottoposta alla crisi ed alla prova, ma le giunge anche la certezza che il Dio che ha salvato la Donna nel deserto custodirà e salverà anche Lei, Madre nella grazia dei figli resi tali nel Figlio. Una spiritualità ecumenica, protesa al superamento delle lacerazioni che l’azione del Drago induce nella vita della Chiesa, è in tal senso anche un cammino sotto la Croce, che sa vivere ed offrire le prove come prezzo dell’amore per la causa dell’unità voluta dal Signore.
Continuando a percorrere la tradizione biblica, il deserto si presenta come il luogo della fedeltà divina: è ancora il Deuteronomio ad assicurarci che nel deserto Israele fa esperienza della fedeltà dell’Altissimo: “Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero” (32,10-12). Come Israele, così la Donna dell’Apocalisse sperimenta nel deserto la tenerezza della protezione divina, la fedeltà dell’Eterno all’alleanza. A sua volta, la Madre del Messia, la donna Maria, canta le meraviglie del Dio fedele: il Suo Magnificat ci insegna a credere nell’impossibile possibilità di Dio in ogni situazione. Da questo insieme di significati risulta per la Chiesa la certezza di non essere mai lasciata sola nella prova legata alla sua missione: il suo Signore è per lei il custode, che manifesta proprio nelle sfide dell’azione missionaria le riserve inesauribili della fedeltà al suo popolo. La spiritualità ecumenica si fonda sulla certezza della fedeltà di Dio, che non abbandona mai chi in Lui confida e porta a compimento le sue promesse, a cominciare da quella della finale riconciliazione di ogni creatura in Cristo, perché sia Lui a consegnare tutto al Padre e Dio sia tutto in tutti.
Il deserto, infine, è nella concezione biblica il luogo della sete del volto di Dio: il Salmo 63 lo testimonia: “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua” (vv. 2.7-8). Nel Salmo 143 il deserto è simbolo dell’attesa di Dio: “A te protendo le mie mani, sono davanti a te come terra riarsa” (v. 6). La Donna dell’Apocalisse è portata nel deserto per esservi nutrita dall’Eterno, segno di una fame e sete che solo Lui può colmare. Maria, la Madre di Gesù, è la credente che cammina verso il Volto nascosto e ci insegna a desiderare sempre la visione del Volto divino con fede umile e abbandonata all’Altissimo. Da questa simbologia ricchissima, la Chiesa impara a vivere la propria missione nel segno della sete di Dio, attraversando il deserto del tempo nella ricerca del Suo Volto, che solo sazia l’attesa, contagiando agli uomini questa sete salutare, di cui l’arsura del deserto è metafora. Una spiritualità ecumenica vuol dire in questa luce l’incessante sete dell’unità voluta dal Signore e invocata da chi si pone nella Sua sequela e la speranza, più forte di ogni delusione o apparenza contraria, nel compimento della preghiera di Gesù affinché tutti siano uno. La spiritualità ecumenica è spiritualità della speranza!
La ricchezza dei simboli condensati nella figura della Donna dell’Apocalisse e della lotta di Lei e del Figlio suo con la Bestia sullo sfondo del deserto converge dunque per far riconoscere alla Chiesa la sua vocazione di popolo dei pellegrini in cammino verso la patria fra le immancabili prove, di cui la prima e forse la più dolorosa è proprio quella della divisione che può determinarsi al suo interno. Chiamata ad attraversare il deserto del tempo con lo sguardo rivolto all’ultimo tempo ed ai segni anticipatori di esso, la Chiesa contempla Maria, Madre del Signore, Donna dell’ottavo giorno, e, confidando nella sua vicinanza materna, Le chiede aiuto per vivere la sua missione di Chiesa della speranza, testimone credibile della carità e della fede, al servizio dell’unità che Cristo vuole, come e quando egli la vorrà. “La dolce Madre di Dio - invoca Lutero all’inizio del Commento al Magnificat da lui scritto nel 1521 - mi procuri lo Spirito, affinché io possa spiegare con giovamento e bene questo suo canto, in modo che tutti ne possiamo trarre un’intelligenza che ci porti alla salvezza e a una vita degna di lode, sì che poi nella vita eterna possiamo celebrare e cantare questo eterno Magnificat”. “Che questo canto - prega ancora il Riformatore in chiusura del suo commento - non soltanto illumini e parli, ma arda e viva nel corpo e nell’anima. Cristo ce lo conceda per l’intercessione e il volere della sua diletta madre Maria!”.
* Arcivescovo di Chieti-Vasto