Il Dio delle benedizioni
nella tradizione d’Israele (Numeri 6,24-27)
di Giuseppe Laras
Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano
Siamo qui questa sera, all’uscita del sabato, per celebrare insieme la giornata dell’ebraismo del 17 gennaio. Già l’anno scorso abbiamo celebrato con analoga cerimonia questa giornata: è stato un momento molto emozionante e molto ricco, e quindi vogliamo proseguire questa esperienza all’insegna di una riflessione che farà da filo conduttore, e che è: "Il Dio delle benedizioni nella tradizione d’Israele". Faremo un percorso all’interno e intorno alla benedizione; speriamo che ci possa aiutare nei nostri rispettivi cammini, nelle nostre esperienze comuni, nelle nostre vite, in vista di una sempre maggiore e pacifica collaborazione nel nome del Dio unico e della pace.
La Berakhà - benedizione - è un bene universale di cui tutti abbiamo bisogno. Leggiamo nel libro di Rut che quando Boaz arrivava nel campo per visitare i suoi mietitori, si rivolgeva loro con: Ha-Shem ‘immakhem - "Il Signore sia con voi!" - e i mietitori gli rispondevano: "Ti benedica il Signore!". Abbiamo tutti bisogno di Berakhà. E’ una parola importante, ma nasconde un contenuto difficile, di difficile attuazione. Molti hanno parlato, parlano e parleranno di benedizione, ma forse sono stati e sono lontani dalla benedizione. C’è la benedizione che rivolge l’uomo a un altro uomo, c’è la benedizione che rivolge l’uomo a Dio, e c’è la benedizione che rivolge Dio all’uomo, al mondo. Sono tutte benedizioni, ma sono benedizioni diverse, perché sicuramente la benedizione autentica, sicuramente vera, è la benedizione di Dio. Tutte le altre sono benedizioni, ma potrebbero essere dei simulacri di benedizioni, potrebbero non essere portatrici di risultati perché, se ci mettiamo nell’ottica umana, è molto difficile immaginare un risultato sicuro, continuo, automatico da parte della benedizione pronunciata.
E’ scritto nel Trattato delle benedizioni del Talmud babilonese che chiunque goda di qualcosa di questo mondo senza aver detto la benedizione commette peccato di appropriazione. Il riferimento è a colui che mangia qualche cosa senza aver recitato la benedizione. "Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che hai creato, che hai fatto…" (a seconda o dei frutti o delle cose che vengono mangiati). E perché questa affermazione così categorica? Perché nel momento in cui noi godiamo delle risorse del mondo dobbiamo subito collegare queste risorse a Colui che le ha date, al padrone di queste risorse; e quindi, goderne senza aver benedetto, ringraziato Dio è un qualche cosa che viene definito come appropriazione indebita.
Ovviamente il presupposto per la benedizione è la disponibilità a sentire e a vedere Dio come padrone del mondo, a cui noi dobbiamo un ringraziamento e una benedizione. E’ chiaro che ci muoviamo all’interno del difficile percorso della religiosità: benedire Dio, avere fede in Dio, sentire Dio, sentirlo vicino anche se è lontano. Sono dei percorsi molto difficili ma, se condotti bene, ci portano alla comprensione autentica della benedizione. In fondo, quando l’uomo benedice l’uomo, intende auspicare che su quella creatura scenda la grazia di Dio, scenda lo Spirito, scenda la benedizione di Dio, il consenso di Dio. Ma, dicevo, la vera benedizione, sicura, autentica, è quella che scende dall’alto, che scende da parte di Dio nei confronti dell’uomo.
Vorrei, a proposito di benedizioni umane, attirare la vostra attenzione su uno strano episodio raccontato nella Torà, nel libro dei Numeri, che ebbe come protagonista il mago Balaam, che Balak re di Moab aveva convinto a tentare di risolvere il suo problema, che era rappresentato dagli ebrei, attraverso la forza contraria alla benedizione, cioè attraverso la maledizione. In sostanza Balak aveva pagato Balaam perché distruggesse con la maledizione il popolo di Israele. Sappiamo che sebbene Balaam, per così dire, ce la mettesse tutta (anche perché, se avesse fatto quello che il suo committente richiedeva, ne avrebbe ricavato delle ricchezze), nonostante i suoi sforzi, invece delle maledizioni uscivano dalla sua bocca delle benedizioni, delle bellissime benedizioni, tra le più belle benedizioni che mai su Israele siano state pronunciate. In alcuni profeti viene ricordato e sottolineato questo stupefacente evento: il Signore che ha trasformato la maledizione in benedizione.
Ecco, qui stiamo parlando del confronto fra la benedizione vera e la benedizione presunta, o addirittura il contrario della benedizione. C’è un passo del Deuteronomio, al cap. 26, a proposito della decima (la decima è una parte del prodotto agricolo che gli agricoltori di Israele ogni terzo anno dovevano devolvere ai leviti, ai forestieri, agli orfani, alle vedove per sovvenirli). Dopo che l’agricoltore aveva separato la decima e l’aveva data a chi di dovere, doveva pronunciare una formula che affermava che lui aveva fatto secondo la prescrizione che Dio gli aveva comandato, e quindi continuava: hashqìfa mimmeòn qodshekà min ha-shamàim - “guarda dalla sede della tua santità, dal cielo, e benedici il tuo popolo Israele e la terra che ci hai dato". Viene fatto notare che qui è l’unica volta in cui l’espressione hashqìfa, che vuol dire "guardare dall’alto verso il basso", è in senso di Berakhà, positivo e di benedizione. In tutti gli altri punti della Torà in cui ricorre questa espressione essa è in senso negativo. Una simile espressione che subito viene in mente è quella collegata alla contemplazione della distruzione di Sodoma: allora lo sguardo era dall’alto verso il basso. I Maestri dicono che l’espressione "contempla, o Signore” (cioè dall’alto verso il basso) è qui in senso positivo perché si tratta di un soggetto che ha attuato i suoi doveri, ha eseguito la volontà di Dio e quindi chiede un segno di consenso da parte della divinità.
Si chiedono però anche un’altra cosa i Maestri a proposito di questo verso: "e benedici il tuo popolo e Israele". Bastava dire “il tuo popolo”; era chiaro che si trattava di Israele. Oppure “il tuo popolo Israele”; ma non et ‘ammekhà et Israel. Deve esserci un perché. I nostri Maestri sono curiosi. Essi in qualsiasi espressione non usuale vedono un segnale che vuole trasmettere un insegnamento. Ebbene, l’insegnamento è questo: “benedici il tuo popolo”; il popolo nella sua interezza e globalità deve essere benedetto. “Israele” vuol dire: anche se i singoli del popolo non sono tutti osservanti della volontà di Dio, cioè se sono peccatori. Il popolo è meritevole sicuramente di benedizione; Israele, tutti individualmente, anche quelli che forse non la meriterebbero, indicati midrashicamente nel testo stesso come la “terra”. Dio ama la terra d’Israele. Quindi la benedice nel suo insieme senza privarla della benedizione, anche se c’è qualche cosa che può non piacere. La terra è la terra. Così il popolo è benedetto e i figli di Israele, anche se presentano delle macchie, sono coinvolti comunque nella benedizione. La benedizione è qualcosa che aiuta a colmare i limiti e i difetti di alcuni singoli rispetto alla maggioranza della comunità del popolo che segue la volontà di Dio. Quindi coinvolgimento di tutti nel segno della benedizione.
Un punto centrale della Torà in cui si parla espressamente e solennemente di benedizione è in Numeri (6, 22-27) a proposito della benedizione sacerdotale. La benedizione che i sacerdoti dovevano impartire al popolo viene così annunciata: ko tevarekhù et benè Israel amòr lahèm - " così benedirete i figli di Israele dicendo per loro”; e incomincia la formula della triplice benedizione, composta cioè di tre versi. Il primo verso è composto di tre parole, il secondo di cinque, il terzo di sette. Quindici parole: è difficile non vedere un riferimento a un qualche cosa di importante, che, sviluppato nel suo valore numerico, ammonta a 15, cioè Ja, che vuol dire Dio, il Nome di Dio. Questa benedizione ci coinvolge e ci avvicina alla presenza di Dio. E come deve essere espressa e recitata? La benedizione dei sacerdoti deve essere espressa e recitata solo in quel preciso modo stabilito dalla Torà. Ci sono altri modi, è vero, per esprimere e porgere la benedizione - quella dell’uomo verso l’uomo, come abbiamo detto; ma i sacerdoti tuttavia sono delle persone particolari, che vivono un rapporto intenso di religione e di particolare vicinanza con la divinità, e quindi appaiono più qualificati per poter accompagnare il popolo in questo cammino verso la benedizione. La triplice formula è rigida:
"Ti benedica il Signore e ti protegga.
Illumini il Signore il Suo viso e ti conceda la grazia.
Rivolga il Signore il Suo viso verso di te e ponga su di te la pace".
Questa la traduzione della formula della benedizione sacerdotale; come tutte le traduzioni è una traduzione sommaria; in realtà il testo della Berakhà dei Cohanim nasconde un’infinità di preziosi ammaestramenti ed è stata oggetto di attenta riflessione e analisi. Vediamo di ricavarne qualche insegnamento.
"Ti benedica il Signore e ti protegga". La prima osservazione è abbastanza evidente: se il Signore ti benedice, è ovvio che ti protegge. Quindi se c’è la Berakhà c’è tutto. Allora ci chiediamo: che cosa vuol dire: "Ti benedica il Signore"? Vuol dire: ti dia felicità, serenità, prosperità esterna ed interna; ti dia compiutezza di gioia e di felicità e di serenità. In questa espressione c’è anche la felicità materiale, nel senso di serenità per una vita tranquilla. Ma se c’è tutto questo, che cosa vuol dire "ti protegga"? Ebbene, alcuni Maestri dicono: attenzione, perché quello stato di grazia indotto dalla benedizione - "ti benedica" - potrebbe portare la persona a considerare se stessa come artefice di questa benedizione, di questa felicità, di questo successo. E allora è necessario anche che il Signore “ti protegga”. Da che cosa? Dal tuo istinto malvagio, dalla tentazione maligna a cui tutti soggiaciamo che insinua in noi: "sei tu il più grande, sei tu il più bravo, sei tu che crei, sei tu che determini…". Se subentra questa tentazione e questo atteggiamento, è chiaro che quella Berakhà iniziale va riducendosi e perdendo forza. Ecco allora che accanto alla benedizione è necessaria anche l’assicurazione contro l’istinto malvagio, quello che viene chiamato “jetzer-harà”. E’ questa soltanto una piccola riflessione che può essere fatta su questa prima parte della Berakhà dei sacerdoti.
"Illumini il Signore il suo viso e ti dia la grazia". Che cos’è l’illuminazione del volto di Dio nei confronti dell’uomo? E’ il “volto” consenziente di Dio, il volto che trasmette felicità (quando noi guardiamo, sorridendo, una persona mettiamo quella persona nello stato, nella condizione di aspettarsi qualche cosa di buono e di positivo da noi). Si può dire anche: “Il Signore illumini il Suo viso verso di te, trasmettendo al tuo viso un po’ della Sua luce”. Potremmo pensare, in questo contesto di riflessione sulla “luce” divina, facendo ovviamente le debite differenze, alla luce che traspariva dal volto di Mosè dopo essere stato per 40 giorni e 40 notti al cospetto della divinità sul Monte Sinài: quando discese gli risplendeva talmente il volto, che fu necessario coprirlo con un velo perché quella luce splendente non poteva essere vista, contemplata e sopportata. Quindi: che il Signore ti renda, per così dire, partecipe della sua luce.
Wichunnèkka. Abbiamo tradotto: “e ti conceda la grazia". Che cosa vuol dire l’espressione “ti conceda la grazia”? Intanto può voler dire: ti renda grazioso, simpatico, attraente, degno di affettuosa attenzione da parte degli altri. Analogamente a quanto capitava a Giuseppe che, qualunque cosa facesse, riusciva e prosperava, perché egli suscitava consenso e simpatia. Forse anche perché, nonostante le sofferenze e le ansie, risplendeva sul suo viso un po’ della luce di Dio. Ma l’espressione "che il Signore ti conceda la grazia", può anche voler dire “che faccia posare” (dalla radice verbale di chanà che significa posarsi, accamparsi), nel senso che faccia scendere la luce della sua provvidenza su di te. Provvidenza e luce sono bene collegabili fra di loro.
"Rivolga il Signore il suo viso verso di te, e ponga su di te la pace". Assistiamo ad un crescendo: ti benedica, ti protegga, indirizzi il suo sguardo di luce verso di te, ti riempia di grazia e di luce. E infine "rivolga il Signore il suo viso verso di te e ponga su di te la pace”. Che cosa significa: rivolga il Signore il suo viso verso di te? C’è un momento in cui Dio può non guardarci? Forse si, quando noi commettiamo delle colpe, non ci comportiamo bene, agendo come se Dio non ci vedesse: è quello che i teologi chiamano hastarat-panim, nascondimento del volto. Qui si prega Dio che voglia orientare il suo volto in direzione della creatura. E chi è sotto lo sguardo di Dio, è in pace: "e ponga su di te la pace". La condizione per vivere integralmente la compiutezza della pace è di essere sotto lo sguardo di Dio. Sul tema della pace tante sarebbero le cose da dire. La pace è intanto sicuramente un dono che viene dall’alto, ma è anche uno strumento nostro per poter accelerare, aumentare, incrementare la discesa dello Spirito di Dio. C’è una espressione dei Maestri che suona così: “Chi opera per rendersi puro riceve un aiuto dal Cielo. Chi opera per rendersi impuro, riceve anche un aiuto dal Cielo”. In prospettiva dello Shalom è importante l’iniziativa che assumiamo noi. Non si può rimanere in posizione statica, limitandoci ad aspettare la grazia dal Cielo. Noi non conosciamo con esattezza e precisione i misteriosi percorsi della benedizione e della pace. Sappiamo però, in proposito, due cose importanti: che esse ci provengono da Dio, ma che anche noi, nonostante i limiti che ci caratterizzano come creature umane, abbiamo parte - una parte importante - nella discesa della benedizione e della pace su di noi.
Il concetto di pace è un concetto complesso, articolato, difficile. A questo proposito desidero far osservare che la Berakhà dei sacerdoti deve essere recitata in ebraico: kò tevarekhù, “così benedirete i figli di Israele", cioè: in questa precisa formulazione. A differenza di alcune preghiere del formulario, essa non può essere pronunciata in altra lingua, che non sia l’ebraico. La Berakhà dei sacerdoti è qualcosa di speciale il cui contenuto non può essere reso nella sua sacrale autenticità in altra lingua. Ne è prova il fatto che mentre il testo della Torà è accompagnato, in alcune importanti edizioni, dalla traduzione aramaica (la lingua appresa dai nostri padri in Babilonia) nel punto della benedizione essa non compare. Almeno per quanto riguarda la traduzione aramaica di Jonatàn ben Uzziel. E perché non c’è? Intanto per sottolineare che non ce n’è bisogno, dato che la benedizione deve ritualmente essere pronunciata in ebraico. Ma poi anche per un motivo profondo che è questo: dato che alla fine della Benedizione è invocato lo Shalom, la pace, e la dimensione dello Shalom è illimitata - nel senso che nessuno di noi può coglierne l’infinito potenziale - il termine Shalom non può essere tradotto in nessun’altra lingua, ma pronunciato e sentito nella sua lingua originale. Questo ci aiuta a introdurre anche un’altra considerazione.
La Berakhà dei sacerdoti inizia con la benedizione "ti benedica il Signore…" e finisce con lo Shalom “e ponga su di te la pace". Questo sottolinea che - come affermano i Maestri - il Santo Benedetto non trova veicolo migliore per il trasporto della benedizione dello Shalom, la pace. Questo vuol dire che, se vogliamo attenderci abbondante misura di benedizione dall’alto, occorre che ci provvediamo di un contenitore di trasporto che è lo Shalom. Se non c’è lo Shalom, non può arrivare la benedizione. Posizione dinamica e non statica, quindi, pur lasciando alla Berakhà di Dio tutta la sua valenza di dono, la sua indipendenza e la sua imperscrutabilità. Sicuramente nella formazione e nell’avvento dello Shalom noi sentiamo di avere una parte molto importante. Se non costruiamo dentro di noi e in mezzo a noi lo Shalom, è difficile attenderci la Berakhà. La Berakhà ha bisogno dello Shalom. Senza Shalom la Berakhà rischia di perdersi per strada e, quindi, di non arrivare fino a noi.
Prima di concludere vorrei recitare una preghiera molto breve, ma anche molto intensa, recitata da Salomone nel giorno della inaugurazione del Tempio di Gerusalemme: "Sia il Signore nostro Dio con noi, come lo fu con i nostri padri. Non ci lasci e non ci abbandoni mai". Questa preghiera vorrei che la sentissimo e la recitassimo con la mente e con il cuore tutti insieme, perché è una invocazione di benedizione perpetua per tutti noi nel ricordo dei Padri.
Vorrei infine leggere una preghiera molto semplice scritta da un grande maestro dell’ebraismo della fine del ‘700, il Rabbino Nachman di Breslav, che nella sua vita quotidiana si preoccupava di trasmettere dei valori che esaltassero la sintesi tra etica e religione. Non si può essere religiosi in senso verticale soltanto o in senso orizzontale soltanto. Questo è il messaggio della religione: essere disponibili e aperti con gli altri come condizione necessaria per poter entrare in collegamento verticale con Dio.
"Ti sia gradito, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, Signore della pace, re cui la pace appartiene, di porre la pace nel tuo popolo Israele. E la pace si moltiplichi fino a penetrare tutti coloro che vengono al mondo. E non ci siano più né gelosie, né rivalità, né vittorie, né motivi di discordia tra gli uomini, ma solo amore e pace fra tutti. E ognuno conosca l’amore del suo prossimo in quanto suo prossimo, cerchi il suo bene, desideri il suo amore, agogni al suo costante successo al fine di potersi incontrare con lui e a lui unirsi per parlare insieme e dirsi l’un l’altro la verità in questo mondo. Un mondo che passa come un batter di ciglio, come un’ombra, ma non come l’ombra di una palma o di un muro, ma come l’ombra di un uccello che vola".