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Mercoledì, 04 Febbraio 2009 22:18

Grazie Silvio

Grazie Silvio

di François Vidal
da Les Echos

Come si dice “enfin” in italiano? Dopo più di due anni di un feuilleton caratterizzato da sviluppi inattesi, e da progetti velleitari poi falliti, di interventi politici intempestivi e colpi di scena dell’ultimo minuto, Air France-KLM è riuscita finalmente ad entrare nel capitale di Alitalia. La tenacia del suo presidente,Jean Cyrill Spinetta, ha ottenuto lo scopo. Anche se non si tratta di un matrimonio secondo le regole, la data di tale accordo dovrà essere segnata con una pietra bianca.

Ecco in che cosa consiste l’essenziale: con questa partecipazione del 25%, la compagnia franco-olandese pone al sicuro le sue posizioni in quello che è il quinto mercato aereo europeo, e inoltre uno dei più redditizi. Essa assicura un accesso prioritario ad un vasto bacino di più di 24 milioni di passeggeri di cui, quasi 11 milioni viaggiatori internazionali. Con Roma, ottiene poi un nuovo punto di approdo sul continente, complementare alle sue piatteforme (“hubs”) di Amsterdam e di Parigi. Si trova perciò avanti di una lunghezza nei confronti dei suoi rivali, nel processo in corso, per il consolidamento dello spazio aereo europeo. Con questo accordo Air France–KLM taglia l’erba sotto i piedi di Lufthansa, che avrebbe voluto costituire per sé la dorsale Berlino-Vienna-Milano. Nella corsa alla supremazia il gruppo accorpa anche British Airways, che fa fatica a concludere la sua alleanza con la compagnia spagnola Iberia. Tanto più che, a partire dal 2013 il gruppo franco-olandese potrà accrescere la sua partecipazione in Alitalia e costituire così un vero insieme paneuropeo integrato. Non male, per un’operazione il cui prezzo, limitato a 300 milioni di euro può essere considerato del tutto ragionevole. Col senno di poi, ci si può inoltre chiedere se Silvio Berlusconi non abbia reso un servizio insigne a Air France–KLM nell’aprile 2008 quando ha mandato a monte, in nome dell’”italianità” il progetto di riscatto di Alitalia per1,5 miliardi di euro.

Dopo tutto, la compagnia con la quale si è unita il gruppo franco-olandese ha fin d’ora operato una buona parte della sua ristrutturazione. Non è più il vettore malato che perdeva 1 milione di euro al giorno, ma un gruppo che si è liberato della zavorra dei suoi debiti e si è rinforzato dopo la sua fusione con il suo rivale transalpino Air One.

Rimangono da gestirei rapporti con i sindacati e i particolarismi regionali della Botte. Ma trasformando questa sua creazione in un vero e proprio successo, il gruppo franco–olandese ha dato la prova di saper dominare anche questo genere di imponderabilità.

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IL BONAPARTISMO DI BERLUSCONI, IL BERLUSCONISMO DI SARKOZY

di Christophe Ventura
Carta Settembre 2008

Christophe Ventura è un vecchio amico di Carta che ha lavorato a lungo in Attac France ed è oggi impegnato, con Bernard Cassen e lgnacio Ramonet, nella rivista Mémoire des luttes. Questo suo articolo è stato pubblicato in Francia nel sito del settimanale Marianne (www.marianne2.frl) e comparirà nelle edizioni in lingua spagnola di le Monde diplomatique. Ci è parso un utile sguado sull’Italia da un paese, la Francia, dove ci si chiede in modo sempre più allarmato in cosa Sarkozy assomigli a Berlusconi.

Come in Francia, la standardizzazione neolibèrista dello spazio politico - ormai dominato da due grandi blocchi e con la sinistra politica scomparsa dalla scena istituzionale - si traduce nell’avvento ideologico ed elettorale di una destra di nuovo genere, fenomeno che si può misurare dai decreti sulla sicurezza.

Una miscela di bonapartismo economico e sociale che attinge ai registri della personalizzazione nell’esercizio del potere, dell’autoritarismo, così come del nazionalismo liberaI-economico integrato nel quadro di funzionamento dell’unione europea e del capitalismo mondializzato

Un regime inedito, che prende in prestito dal neoliberismo le logiche di sottomissione della società agli imperativi del mercato, e dal patriottismo conservatore un discorso di tipo nazionalista che dovrebbe rassicurare le classi medie: qui si vedono le convergenze con il sarkozysmo francese

Alcuni media francesi si interrogano sul senso della decisione del governo di Silvio Berlusconi di dispiegare tremila soldati in diverse città del paese. Nuova facezia comunicativa? Giro di vite sulla sicurezza? Secondo il ministro degli interni italiano, Roberto Maroni, questa decisione mira a «dare ai cittadini un senso di sicurezza». In realtà, si iscrive in un progetto politico molto più ampio e inquietante. Secondo il settimanale Carta, il governo Berlusconi, alleato alle forze post-fasciste, è profondamente diverso rispetto a quello che il cavaliere guidava nel 2001, e sarebbe sul punto di condurre una «guerra-lampo» contro la società italiana. Per Pierluigi Sullo, questo governo «non impersona la faccia feroce di un neoliberismo ridanciano, come voleva presentarsi nel 2001. È peggio di così, molto peggio. Non abbiamo ancora iniziato a capire la sua vera natura».

Una vita democratica ridotta

L’analisi merita un approfondimento. La situazione italiana è caratterizzata da una doppia evoluzione politica ricca di insegnamenti per il resto dell’Europa, in particolare per la Francia. Innanzitutto, il sistema politico ha appena subito una mutazione profonda; la scomparsa dalla scena istituzionale della sinistra «di sinistra» di partito e, più oltre, il declino delle forme storiche di organizzazione del movimento operaio del diciannovesimo e ventesimo secolo, e quindi delle vecchie forme di. rapporti sociali.

Allo stesso tempo, si sta consolidando in modo durevole un bipartitismo fondato su un consenso ideologico liberista, che riduce la vita democratica in modo quantitativo - diminuzione del numero degli attori nello spazio politico a favore della costituzione di blocchi che assorbono i partiti minori - e qualitativa: restringimento delle opzioni politiche e ideologiche offerte ai cittadini.

Come in Francia, questa standardizzazione neoliberista si traduce nell’avvento ideologico ed elettorale di una destra molto particolare quanto alle sue forme di espressione e al suo programma politico, economico e sociale. Identificare il pacchetto di misure prese quest’estate con i «decreti di emergenza» permette di misurare la dimensione del fenomeno, essendo il ruolo del parlamento limitato alla ratifica delle decisioni dell’esecutivo.

Sul piano finanziario e fiscale, il ministro dell’economia Giulio Tremonti ha elaborato un piano triennale 2009-2011 che punta al ridimensionamento delle spese pubbliche, prevede una diminuzione a tutto spiano dei bilanci dello stato per la salute, le pensioni, l’ambiente (più il rilancio della scelta nucleare), l’educazione, ecc., a favore dell’aumento della partecipazione del settore privato. Prima dell’ipotetico arrivo di qualcuno in grado di rilevare Alitalia (questo articolo è scritto prima della costituzione della cordata italiana, ndt) il salvataggio della compagnia di bandiera è stato garantito grazie a tagli netti ai fondi della sicurezza stradale, della cultura, dei piani di riforestazione, ecc. Il piano Tremonti dà inoltre nuovi privilegi fiscali alle categorie sociali più agiate: abbattimenti diversi di tasse, facilitazione dell’evasione fiscale per le imprese...

Decreti in ogni campo

Sul piano sociale, il decreto 112 è un’ode alla «flessibilità» definita e promossa dall’Unione europea: smantellamento del contratto a tempo indeterminato, aumento dell’orario di lavoro, rafforzamento del diritto delle imprese a licenziare senza indennità, complicazione e limitazione delle possibilità di ricorso alla giustizia da parte dei dipendenti, ecc.

In materia di sicurezza, quattro decreti permettono alle forze armate di intervenire direttamente:

- nel campo della sicurezza civile [sorveglianza dei luoghi pubblici, aeroporti, stazioni, partecipazione alle pattuglie di polizia, ecc.];

- nel campo dell’attuazione dello «stato di emergenza in materia di immigrazione», decretato il 25 luglio in piena campagna anti-rom. Questo stato di emergenza prevede il rilancio delle politiche di quote [che equivalgono ad affidare alla Confindustria la gestione diretta dei permessi di soggiorno nel paese], il rafforzamento delle politiche di espulsione, la penalizzazione dello statuto di «clandestino» [circa un milione di persone sono interessate], e l’aumento della durata di detenzione amministrativa dei migranti a 18 mesi;

- A Napoli, nella molto mediatica vicenda dei rifiuti.

In materia di educazione, è previsto un abbassamento dei finanziamenti pubblici di 1,3 miliardi di euro in cinque anni. Il governo conta di compensare facilitando l’ingresso massiccio di fondazioni private nelle università.

Per quanto riguarda il diritto all’informazione, è stato deciso di ridurre di metà il contributo pubblico all’editoria, rafforzando così l’iper-concentramento del settore dei media italiani. Numerose pubblicazioni e giornali di informazione e di opinione non sopravviveranno a questa decisione.

Retorica economica patriottica [Alitalia e critiche della Banca centrale europea]; apertura di un mercato dell’educazione; mobilitazione del settore padronale; stigmatizzazione della figura del migrante; rafforzamento della liberalizzazione del lavoro e della concorrenza tra lavoratori; arricchimento delle categorie più agiate; inquadramento ideologico e sottomissione della popolazione alle logiche private e della competitività [media e educazione]; ricorso al tutto-securitario [esercito nello spazio pubblico]: questi sono gli assi di un nuovo tipo di regime politico nazionale. Questa miscela di neo-bonapartismo politico e sociale attinge ai registri della personalizzazione dell’esercizio del potere, dell’autoritarismo, della repressione e della reazione, così come del nazionalismo liberal-economico integrato nel quadro di funzionamento dell’Unione europea e nel capitalismo mondializzato.

Su quest’ultimo punto bisogna segnalare un’altra proposta, sintomatica, del ministro Tremonti, fatta il 6 luglio alla vigilia del Consiglio Ecofin [riunione dei ministri dell’economia e delle finanze dell’Ue], nell’ambito di un discorso virulento contro la speculazione finanziaria (che si appoggiava su alcune dichiarazioni di papa Benedetto XVI), il «globalismo» e l’invasione delle merci cinesi: la creazione di una tassa sui superprofitti dei giganti petroliferi, delle banche e delle assicurazioni, oramai chiamata «Robin tax» nei media - proposta poi ripresa da Silvio Berlusconi durante la riunione del G8 in Giappone. Il governo recupera così, in modo demagogico e in nome di una pretesa difesa del popolo contro gli eccessi dei mercati, il riferimento simbolico alla Tobin tax promossa dal movimento altermondialista contro il capitalismo finanziario e per il finanziamento dello sviluppo.

Silvio Berlusconi, il cui vero programma mostra a che punto si preoccupa delle categorie popolari, distrae così l’attenzione, e pratica, in modo strutturale e con la collaborazione di un enorme apparato mediatico, la politica dell’«effetto annuncio».

Una comunicazione distato privata

Questo regime è inedito. Prende in prestito dal neoliberismo le logiche di sottomissione della società agli imperativi dell’economia e dei mercati, e dal patriottismo conservatore un discorso di tipo nazionalista che dovrebbe lusingare e rassicurare le classi medie e la piccola borghesia. Dà impulso anche a una forte mobilitazione securitaria delle istituzioni dello stato che deve permettere, all’occorrenza, il controllo della società e di eventuali disordini sociali.

Infine, per mezzo di una «comunicazione di stato privata» resa possibile dall’influenza di Silvio Berlusconi sui media, sviluppa una «privatizzazione dello spazio pubblico» - secondo l’espressione di Marco Revelli - in modo da controllarlo meglio e manipolarlo. In un contesto di rallentamento economico e di esplosione delle disuguaglianze sociali - amplificate dall’onda d’urto della triplice crisi finanziaria, energetica - e alimentare mondiali - l’offensiva berlusconiana potrebbe testimoniare un’evoluzione più generale delle forme del neoliberismo in Europa: più nazionale, più intimamente gestito da uno Stato dalle tendenze repressive, e condotto da un esecutivo forte, nell’ambito di una “democrazia limitata”.

E questo accade nel momento in cui il capitalismo malato amputa - per la prima volta da decenni - i guadagni di diverse frazioni delle classi dominanti e dei dirigenti nazionali, e in cui produce sempre più povertà, malcontento sociale, rimesse in discussione intellettuali, concorrenza tra i dipendenti, i lavoratori poveri e gli esclusi dal lavoro, etc.

Le convergenze con Il sarkozysmo

Si tratta di una ricomposizione/riconfigurazione di borghesie nazionali o di interessi di classi borghesi nazionali nell’ambito della mondializzazione? Sarebbe avventuroso trarre conclusioni troppo affrettate. Tuttavia questo tipo di potere, di cui si vedono le convergenze con il sarkozysmo e con le politiche dell’Unione europea, conferma che anche se sviluppano il corso mercantile e devastatore della mondializzazione, le élites europee non si trovano più nella situazione degli anni novanta e dell’inizio degli anni 2000. Non applicheranno più esattamente lo stesso neoliberalismo, né allo stesso modo. Bisogna tornare agli anni trenta, per trovare un riferimento storico che sostiene il paragone con le dimensioni della crisi attuale del capitalismo. Non sarebbe serio vedere nell’emergenza del «sarkocapitalismo» la ripetizione dell’ascesa del fascismo in Europa. Tuttavia, questo fenomeno è significativo di una nuova tendenza autoritaria in seno alle élites europee, alle prese con un modello in crisi al quale non hanno alternative da opporre, per via del suo fallimento economico, finanziario, sociale e morale.

Il regime «sarkoberlusconista» conferma anche, senza volerlo, l’urgente necessità di organizzare una riposta politica e sociale progressista e democratica che può rendere le mosse sulla crisi di questo modello neoliberista. Essa è oramai evidente, al punto di dividere le classi dominanti. Si apre una nuova fase storica.

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Sabato, 17 Gennaio 2009 13:03

COLPI DI SOLE

Riscaldamento globale ed informazione
COLPI DI SOLE

di Paolo Miola
MC Settembre 2008

L’Amazzonia è sempre presa come esempio di disastro ambientale inarrestabile. Ma - purtroppo - non c’è soltanto il polmone del mondo in pericolo. Secondo un recente libro fotografico dell’agenzia Onu per l’ambiente (United Nations Environment Programme, Unep), negli ultimi 30 anni l’Africa ha subito mutamenti devastanti: ghiacciai che scompaiono (ad iniziare dal Kilimangiaro in Tanzania), deforestazione selvaggia, biodiversità a rischio. Ma occorre andare lontani per vedere i disastri prodotti dal riscaldamento climatico (global warming): il Trentino, terra di montagne innevate (almeno fino a qualche anno fa) e boschi, da anni vede i propri ghiacciai (sono 83) assottigliarsi (uno per tutti, l’Adamello, il più esteso delle Alpi italiane). A tal punto che la provincia di Trento ha messo in campo iniziative di studio e ricerca per affrontare il problema.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Sabato, 17 Gennaio 2009 13:00

LA RUSSIA NEGLI ANNI DI ZAR PUTIN

LA RUSSIA NEGLI ANNI DI ZAR PUTIN

Bianca Maria Balestra
MC Settembre - 2008

Da anni durante i miei soggiorni moscoviti sono ospite di una coppia di amici che hanno la fortuna di abitare in una posizione invidiabile. Abitano in pieno centro, su uno dei lungofiumi, al penultimo piano di uno degli edifici più alti del quartiere: davanti alle finestre del salotto si stende mezza città.

Per anni il panorama che si presentava ai miei occhi è rimasto, visita dopo visita, pressoché invariato. Ogni tanto compariva qualche piccolo cambiamento, che però non modificava di molto il quadro d’insieme. Verso la fine degli anni ‘90, invece, questo quadro s’è messo in movimento, prima lentamente, poi con sempre maggior dinamismo. Adesso, ogni volta che torno, corro a vedere che cosa è cambiato.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Sabato, 17 Gennaio 2009 12:55

TERRA INDIGENA, TERRA CONTESA

Roraima: continua la lotta per la terra
TERRA INDIGENA, TERRA CONTESA

di Marco Bello
MC settembre 2008

Aprile 2005, dopo tre decenni di lotta degli indios, il presidente Ignacio Lula da Silva, firma il decreto di «omologazione» dell’area indigena nell’estremo Nord dello stato di Roraima (e del paese).

Zona di savana, di circa 17.400 chilometri quadrati, vi abitano oltre 16.000 indios di cinque gruppi principali: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Patamona e Ingarikò. La società civile, come il Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e gli stessi missionari della Consolata, che vi lavorano dagli anni ’50, avevano spinto, alcuni anni prima, l’allora candidato presidente a fare dell’omologazione una delle sue promesse elettorali. Ma Lula, solo durante il secondo mandato riesce a fare un colpo di mano e ad apporre la fatidica firma. Forti gruppi di potere locali, ma anche nazionali, sono contrari a questa operazione. Romero Jucà, senatore di Roraima, è rappresentante del governo al senato. Ha dichiarato di essere contro la politica indigena di Lula.

Con l’omologazione scatta anche il decreto di espulsione di tutti quelli che abitano o sfruttano la terra in zona indigena. Lo stato ha previsto un indennizzo per chi è costretto ad andarsene. Così la polizia federale inizia a mandare via i contadini e fazendeiros non indigeni.

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Lunedì, 08 Dicembre 2008 13:57

Il crac del liberismo - Il casinò e il cantoniere

Il crac del liberismo - Il casinò e il cantoniere

di Laurent Cordonnier
da Le Monde diplomatique – Manièr de voir
dicembre 2008/gennaio 2009

Quali che siano le misure adottate per tentare di “contenere” le malefatte della finanza, come potranno le nostre società voltare la pagina di un “modello di sviluppo” che aveva sapientemente saputo accostare la dinamica dell’economia reale (la produzione, la ripartizione degli stessi utili) alle turpitudini di una finanza sfrenata? Nello spazio di una trentina di anni le nostre economie nel loro insieme sono andate via via rassomigliando tutte a quelle città termali in cui la sopravvivenza del cantoniere dipende strettamente dalla prosperità del casinò locale la quale a sua volta dipende, attraverso le sue macchinette dispensatrici di soldi, dalla vaga malinconia provata dal cantoniere (l’eterno defraudato della storia).

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Giovedì, 04 Dicembre 2008 18:51

CONDANNATI DAL VATICANO

CONDANNATI DAL VATICANO

di Aurelio Mancuso - da "Il Manifesto" di martedì 2 dicembre 2008
(abstract)

Ma perché il Vaticano ha deciso di mettersi nel novero dei paesi che concepiscono il reato di omosessualità? Quale ispirazione divina ha consigliato al rappresentante della chiesa presso l'Onu di scagliarsi contro la richiesta presentata dal governo francese, e sottoscritta anche da quello italiano, di depenalizzare l'omosessualità? Circa novanta paesi nel mondo prevedono il reato di omosessualità, una cinquantina di questi lo puniscono con il carcere, le sevizie, la tortura, i lavori forzati, di questi una decina prevedono la pena capitale. Non c'è ragione ideale, religiosa, culturale che possa giustificare una simile presa di posizione vaticana. (...) Siamo davvero raggelati da un papato che ci attendevamo arcigno, antiquato, fedele alla peggior tradizione preconciliare. Ma ora si è andati oltre, si è percorsa una strada senza ritorno. Lo stato teocratico vaticano si è messo pubblicamente allo stesso livello dell'Iran, degli altri regimi islamici, delle peggiori dittature di tutti i colori, passate e purtroppo presenti.
Da sempre l'osservatore vaticano presso l'Onu intriga, preme, blandisce decine di diplomazie del mondo affinché i diritti umani siano negati, quando non confacenti ai dettami della religione cattolica. Sull'ormai tristemente noto Lexicon, edito alcuni anni fa, summa dottrinale della curia sulle libertà e i diritti, alcune organizzazioni internazionali venivano ferocemente attaccate perché lassiste sull'aborto, sulla contraccezione e così via.
Da sempre in alleanza con i peggiori regimi, a volte stringendo pubblicamente la mano a dittatori sanguinari, il papa e i suoi emissari hanno promosso campagne internazionali di inaudita violenza. Nulla a che vedere con il messaggio cristiano e con il Vangelo. Solo pura pratica di potere, conservazione di una eretica storia di dominio sulle terre, invece che di guida spirituale delle anime.
La storia drammaticamente si ripete e se possibile riesce a stupire rilanciando una visione cattolica proprietaria del mondo, di oppressione delle libertà, di giustificazione dell'assassinio di massa, quando questo è coerente con l'impostazione tradizionale della chiesa. Non c'è sentimento di vergogna che sia sufficiente, e ora attendiamo cosa sapranno dire vescovi, sacerdoti, popolo di Dio, da molti anni silenti. Vediamo cosa sapranno inventarsi i nostri politici, soprattutto quelli del variegato centrosinistra.
Quello che è accaduto non ha giustificazione alcuna, non è ammissibile nella comunità internazionale che si dice democratica. Ma il nostro è il paese del tutto è possibile; quindi attendiamo, sperando che vi sia finalmente una reazione degna di questo nome, dentro e fuori la chiesa, nella società civile, per amore della vita, di quella esistenza etero od omosessuale che non può essere violata da nessuno.

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Domenica, 23 Novembre 2008 12:59

LADRI DI CERTEZZE

LADRI DI CERTEZZE

da Nigrizia giugno 2008

La distanza geografica è notevole. Vicinissimi, invece, gli atteggiamenti e il clima sociale. In Italia come in Sudafrica, è sempre l’“altro” a essere percepito come un problema; peggio, come una minaccia. La chiamano xenofobia, che per Adriano Sofri (la Repubblica del 20 maggio) «è anche l’invenzione del diverso e il disprezzo, l’avversione e la persecuzione del diverso».

Le cronache italiche degli ultimi mesi ci dicono di un crescente fastidio nei confronti degli immigrati – colpevoli di venire da fuori e di portare unità culturali “altre” – e di caccia al rom, l’etnia che vive l’ambivalente (e per molti italiani, spiazzante) condizione di essere nomade ed europea. I media raccontano anche di bande giovanili che esprimono violenza (fino all’omicidio) verso chi non è considerato sufficientemente “nella norma”, perché nero o punk, portatore di capelli lunghi d codino.

A Johannesburg, capoluogo del distretto industriale per eccellenza del Sudafrica, sono finiti nel mirino gli immigrati dello Zimbabwe, un paese in preda a una profonda crisi politica ed economica. Ma chi ha ucciso e ferito decine di zimbabweani (l’ondata ha investito anche altri immigrati di origine somala, nigeriana, congolese e pachistana) non si è chiesto per quale ragione questa gente è capitata lì: è gente straniera che può consumare risorse e competere per un lavoro, e tanto basta!

È possibile rintracciare – a Napoli (e a Verona) come a Johannesburg (e a Città del Capo) – uno sfondo comune che consenta una lettura di questi accadimenti in cui l’“altro” diventa bersaglio? C’è una pista che può aiutare a comprendere e che passa attraverso due parole, che spesso intrecciano il proprio territorio: la roba e l’identità.

Il culto della roba, cioè dei beni che si possiedono, con tutto il corollario di status sociale e di consumismo, ha un peso sempre più preponderante e richiede un tale investimento di attenzioni e di energie che tutto il resto – compreso il coltivare criteri di cittadinanza che comprendano condivisione e solidarietà – passa in subordine. E ciò è vero anche in Sudafrica: sono stati, sì, i poveri a far fuori altri poveri, ma, appunto, per non condividere le briciole.

E il possesso della roba fa il paio con lo sbandieramento di identità (nazionali, regionali, etniche, religiose) che si presumono sedimentate e definitive. E che promettono stabilità per omnia secula seculorum. Tutti impegnati «a reimpacchettare il passato» (Rossana Rossanda). È il tipico sogno di un mondo che si vorrebbe immobile, mentre tutt’intorno governa la globalizzazione, con il suo turbinio di uomini e di merci, con le frontiere labili, con visioni del mondo che capitolano, con culture costrette ad annusarsi sempre più da vicino...

In questo contesto, l’“altro” diventa il ladro di certezze. Diventa quello che mette in crisi scenari consolidati. Diventa un sasso che agita la calma apparente del nostro mare di tranquillità e di civiltà.

Eppure, i cristiani non devono fare tanta strada per trovare vie d’uscita. Il Nuovo Testamento ci ammonisce sul ruolo del ladro. «Ecco, io vengo come un ladro» (Ap. 16,15). Il Cristo, una volta venuto “presso i suoi”, provoca una crisi e una divisione: rapisce ai “suoi” le loro sicurezze e i loro privilegi, ma per svelare il dono promesso e accordato a tutti.

Anche l’insegnamento sociale della chiesa – parte essenziale di ogni annuncio evangelico oggi – fornisce indicazioni nitide in tema di attenzione all’altro, di solidarietà, di coesione sociale. Ma, guardando all’Italia, dobbiamo dedurre che il Vangelo non è oggetto di sufficiente riflessione e che le parrocchie e le miriadi di associazioni cattoliche non danno adeguata eco all’insegnamento sociale della chiesa?

«Mai senza l’altro», ci ammonisce il teologo gesuita francese Michel de Certeau (1925-1986): «L’Altro è colui senza il quale vivere non è più vivere… Tragedia non è il conflitto, l’alterità, la differenza, bensì la confusione e la separazione. In questa stagione, dobbiamo imparare ad accettare il mistero e l’enigma di chi non conosciamo, di chi appare come l’estraneo, e non solo lo straniero. La sofferenza e la fatica della ricerca dell’unione nella differenza permangono, ma la tragedia incombe sull’uomo soltanto quando rinuncia all’altro e se ne separa. Gli altri non sono l’inferno: sono la nostra beatitudine su questa terra».

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Martedì, 23 Settembre 2008 22:31

UN PASSO AVANTI

UN PASSO AVANTI

di Camillo Ballin
Nigrizia – maggio 2008

Non nascondo di essere rimasto quasi scioccato quando ho letto nei titoli di Rai News 24: “Benedetto XVI battezza il giornalista Magdi Allam”. Non mi sarei mai aspettato che un Papa battezzasse un musulmano il Sabato Santo e davanti alle televisioni di tutto il mondo! Dire che Benedetto XVI ha fatto un passo gigantesco è dire troppo poco. Dobbiamo ammettere che ha avuto un coraggio che non viene da nessuna natura umana: può venire solo dall’Alto.

Vorrei fare qui alcune osservazioni personali. Non intendo presentare l’argomento in tutti i suoi aspetti, ma solo enucleare qualche punto. Magdi Allam non era un musulmano praticante, almeno da vari anni. Tuttavia era un musulmano, ma non accettava il fondamentalismo e lo rifiutava a voce alta. Troppi musulmani, cosiddetti “moderati”, sono “maestri di doppiezza”, come li definisce un noto musulmano arabo che sta pagando per le sue interpretazioni liberali dell’islam. Magdi Allam mise la sua moderatezza in pubblica piazza, anche se questo gli costa il dover essere continuamente protetto dalla polizia. Dobbiamo riconoscergli questo coraggio e questa sofferenza di essere sempre sorvegliato.

Alcuni lo hanno fortemente criticato per essere troppo filo-Israele. Non intendo discutere le sue scelte politiche. Ognuno deve avere la libertà di pensiero e saper rispettare la libertà degli altri. Idee politiche che non sono contrarie alla dottrina cattolica non impediscono una conversione al cristianesimo e, in particolare, alla chiesa cattolica. Dalla sua lettera di Pasqua al direttore del Corriere della sera si capisce chiaramente che la sua conversione è frutto di un lungo cammino personale e di un serio confronto con persone che per lui significavano una luce nel suo percorso verso Cristo. Non è stata una conversione immediata, né richiesta e nemmeno proposta da alcuno.

Ho partecipato a parecchi colloqui internazionali sul dialogo interreligioso. Si è sempre affermato che l’islam è tollerante. Anzi, al Cairo nel 2006 si gridò che la tolleranza era entrata nel mondo con l’islam. Papa Benedetto XVI ha voluto superare questo linguaggio statico, che tradisce molta falsità, e dare un segnale fortissimo a tutti, cristiani e musulmani. Ha voluto dire che dobbiamo mettere in pratica la libertà religiosa, che è uno dei principi fondamentali dei diritti dell’uomo.

Voglio far notare che non si tratta di libertà di culto (il poter pregare in una chiesa costruita con il permesso del governo), ma di libertà religiosa, cioè di poter scegliere tra una religione e un’altra. Il Pontefice ha voluto mettere alla luce del sole quello che avviene, nell’ombra, nella chiesa cattolica. In Francia, per esempio, si contano ogni anno tra le 150 e le 200 conversioni di musulmani al cristianesimo, ma moltissimi di questi convertiti rimangono nascosti. Mentre non fa problema che, sempre in Francia, oltre 3.000 persone passino ogni anno dal cristianesimo all’islam.

Il Papa ha voluto dire ai musulmani che la libertà religiosa, che molti governi islamici affermano, a parole, di rispettare nel loro paese, non consiste nella limitata e controllata libertà di culto ma nella libertà di scegliere tra islam e cristianesimo. E l’ha fatto nel momento più solenne dell’anno cristiano – durante la celebrazione della Pasqua – e davanti al mondo intero!

Mi torna alla mente la lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI nell’aula magna dell’università di Ratisbona, il 12 settembre 2006, in un “incontro con i rappresentanti della scienza”, durante il viaggio apostolico in Germania. In seguito a quella lezione, il mondo islamico s’infiammò e tutti esigevano le sue scuse. Ma il Papa sa dove vuole arrivare, e con il battesimo pubblico di Magdi Allam ha messo un altro paletto sulla via del vero dialogo interreligioso. Subito dopo la lezione a Ratisbona, un professore musulmano egiziano mi disse: «Benedetto XVI ha messo fine all’ipocrisia nel dialogo tra le religioni e ha iniziato il vero dialogo». E la storia gli sta dando ragione. Del resto, un mese dopo le tanto contestate parole del Papa all’università tedesca, ci furono una prima lettera, firmata da 38 personalità musulmane di differenti paesi e orientamenti che accoglievano e apprezzavano i chiarimenti fatti dal Papa, quindi una seconda, intitolata “Una parola comune tra noi e voi”, con 138 firme di leader islamici. Cose mai successe prima!

È mia opinione che il battesimo di Magdi Allam è un altro passo in avanti – e che passo! Si ha quasi l’impressione che il Papa stia guidando non solo la chiesa cattolica verso il vero dialogo, ma anche l’islam.

È normale che parecchi musulmani abbiano condannato sia Allam che il Papa. Ma molti non hanno voluto commentare niente, forse anche per non confermare negli europei l’idea che l’islam è violento e non rispetta la libertà di religione. Sempre dopo la lezione di Ratisbona, in Kuwait ci fu una dimostrazione contro la chiesa cattolica: un corteo di protestatari marciò dalla Grande Moschea alla cattedrale, dove tennero discorsi il cui contenuto si può facilmente indovinare. Ma bisogna dire che i manifestanti non erano più di cento: meno dei poliziotti che li scortavano. Seguì la distribuzione nelle strade di due opuscoli velenosi contro i cristiani e, soprattutto, contro vari Papi. Dopo la diffusione del secondo opuscolo, scrissi una lettera alquanto ferma al ministro degli interni.

Dopo il battesimo di Magdi Cristiano Allam, in Kuwait non c’è stata – almeno finora – nessuna reazione particolare, né sui giornali né per le strade. D’altra parte, mi sarei meravigliato che un paese che vuole essere aperto al dialogo come il Kuwait prendesse posizioni violente contro chi vuole mettere in pratica la libertà di religione. Mi auguro che il paese continui su questa via dell’apertura verso gli altri e dell’accettazione di idee e fedi diverse. Una prova che il Kuwait intende percorrere tale strada è data dal fatto che, dopo la lezione di Ratisbona, l’Università del Kuwait organizzò un Colloquio su “Il futuro del dialogo tra le culture, dopo la Lezione di Benedetto XVI”. Io stesso fui invitato a parlare. L’iniziativa ha fatto onore all’Università e al Kuwait stesso.

Dobbiamo essere riconoscenti al Papa per il coraggio e la coerenza. Non escludo che in qualche terra islamica questo battesimo possa creare gravi problemi. Ma sono convinto che si deve rispettare la libertà di ciascuno e che la chiesa deve essere fedele a Dio. Questo vuol dire che, quando una persona è convinta che Gesù Cristo è il suo Signore e il suo Dio, la chiesa deve accoglierla.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Martedì, 23 Settembre 2008 22:29

PAESE DA RICOSTRUIRE - RD Congo

PAESE DA RICOSTRUIRE - RD Congo

di François Misser
Nigrizia aprile 2008

Una delle difficoltà è fotografare esattamente la situazione. La Banca centrale dell’Rd Congo ha stimato per il 2008 una crescita del Pii del 6,5%. Ma cosa significa questo dato? Nel corso di un convegno, organizzato a Bruxelles dal Centro belga di riferimento per le specializzazioni in Africa centrale (Cre-Ac), il professore Eric Tollens, dell’Università cattolica di Lovanio, ha sottolineato come non esistano statistiche affidabili. Per dimostrare ciò, ha preso in esame il caso dell’agricoltura, un settore trascurato dal governo: il bilancio statale destina ad esso solo l’1,8% del totale e, secondo quanto afferma lo stesso titolare del dicastero, Nzanga Mobutu, il denaro serve solo per pagare i Funzionari del ministero. Ma è un settore abbandonato anche dai paesi donatori, che assegnano non più del 10% dei loro aiuti al Congo a quel comparto. Fino a poco tempo fa, nessuno di loro era interessato a finanziare una banca dati affidabile sulle produzioni agricole. La motivazione: «Non si mangia con le statistiche».

Il risultato è che le stime sono distanti dalla realtà e le conclusioni che si tirano possono rivelarsi false. Tollens ritiene che la situazione sia migliore di quella che esce dalle statistiche ufficiali congolesi o da quelle dei finanziatori, secondo cui il 72% della popolazione vive con una razione giornaliera di 1.610 calorie a persona. «Non è realistico: con tale assunzione calorica nessuno sarebbe in grado di lavorare», commenta il professore belga. Tollens, partendo dagli 1,8 milioni di tonnellate di manioca commercializzate in quattro città, arriva a stimare per l’intero paese una cifra pari a 21 milioni di tonnellate, di molto superiore ai dati ufficiali. E spiega: l’RD Congo, settima potenza agricola mondiale in termini di potenzialità, potrebbe facilmente nutrire due miliardi di persone l’anno. Infine aggiunge: le produzioni attuali di olio di palma o di caffé non rappresentano che una parte di quanto erano prima dell’indipendenza. Il ministero britannico per lo sviluppo internazionale (Dfid), in un rapporto intitolato Il commercio per la pace, ha messo in evidenza divari considerevoli tra le esportazioni registrate dalle dogane congolesi e quelle reali: nel 2005, l’export reale di rame rappresentava circa il doppio dell’ammontare dichiarato alle dogane (117.315 tonnellate); l’anno successivo, la cifra ufficiale per l’oro era di 609 kg, contro le 10 tonnellate reali; nel caso della cassiterite (minerale di stagno), lo scarto è di uno a dieci in favore delle esportazioni reali nel 2006 (16.870 tonnellate); lo stesso fenomeno si registra anche per le esportazioni del legno; meno confusa è la situazione per quanto riguarda i diamanti, grazie al meccanismo di controllo messo in piedi dal Processo di Kimberley.

Le potenzialità, dunque, ci sono. Il problema è sfruttarle. Per fare ciò, il presidente della Federazione delle imprese del Congo (Fec), Albert Yuma, avanza diverse proposte. Secondo lui, bisogna assolutamente dare la priorità all’agricoltura. Avvisa: «Se non saremo in grado di raggiungere la sicurezza. alimentare, non potremo calmare le tensioni sociali». Poi aggiunge: «Non ci sarà il decollo del settore minerario, se le compagnie non avranno accesso a elettricità a buon mercato e disponibile». Yuma pensa che il megaprogetto per la riabilitazione della diga di Inga, sul fiume Congo (saranno necessari 20 miliardi di dollari!), non deve rappresentare la sola priorità del ministero dell’energia.

È necessario, inoltre, garantire la sicurezza giuridica dei contratti, in particolare dei patti minerari “leonini” (quelli che avvantaggiano una sola parte, firmati durante le due guerre del 1996-97 e 1998-2003), oggi in corso di revisione. Il viceministro delle miniere, Victor Kasongo, aveva rivelato che nessuno dei contratti in corso di revisione era ritenuto vitale dal governo. Il ministro della pianificazione, Olivier Kamitatu, invece, desideroso di tranquillizzare gli investitori irrequieti, ha precisato: «Non ne pretendiamo una revisione brutale. Valuteremo caso per caso, contratto per contratto, Il Congo non è uno stato pirata che non mantiene i suoi impegni. Vogliamo che gli investitori continuino a lavorare, ma con un obbligo preciso: la trasparenza. Chiediamo di sapere esattamente quanto queste aziende contribuiscono al bilancio dello stato. Non c’interessa urtare la sensibilità del mondo degli affari. Ci preme solo ristabilire certi equilibri». Per Alberi Yuma, la ricostruzione comincia, innanzitutto, dalla rifondazione dello stato. La Fec esige che sia garantita, prima di tutto, la sicurezza giuridica e giudiziaria: «Esigiamo un’amministrazione imparziale, non una realtà che tormenta le imprese dal mattino alla sera». Deve essere garantita la sicurezza fisica dell’investimento. A questo scopo, Yuma chiede la rapida creazione di tribunali commerciali, la stesura di un codice di condotta per i funzionari e l’appoggio della comunità internazionale per programmi di buon governo e corsi di formazione per gli amministratori. Yuma si lamenta pure della mancata applicazione del codice forestale e di quello del lavoro. E, infine, parla di un altro flagello: un «settore informale mafioso», che lavora mano nella mano con una «amministrazione decrepita».

Yuma e molti partecipanti al convegno del Cre-Ac hanno applaudito all’idea d’investire massicciamente nelle infrastrutture. A questo proposito, il responsabile degli industriali ha giudicato positivamente i contratti (per un totale di oltre 8 miliardi di dollari) firmati di recente dai cinesi. Perché, se si realizzano le infrastrutture, l’insieme del settore privato ne dovrebbe beneficiare, comprese le società minerarie che stanno affrontando gravi problemi per mancanza di strade e ferrovie. Tuttavia, Yuma ricorda che, nel memorandum consegnato al governo, le imprese affiliate alla Fec hanno espresso la volontà di venire coinvolte nei lavori di subappalto, nei trasferimenti di tecnologie e nelle attività generate da questi contratti.

Bisogna, infine, sciogliere il nodo della dipendenza dell’Rd Congo dall’aiuto straniero. Se il bilancio del 2008 prevede di essere coperto per un terzo da questo tipo di finanziamento, non va dimenticato che nel 2007 i finanziatori non hanno onorato tutti i loro impegni. Il perché va trovato nel fatto che il paese è in una fase di transizione tra l’aiuto umanitario e quello allo sviluppo, e ciò rende più difficile la ricerca di finanziamenti esterni. L’attendismo dei finanziatori allarma il settore privato: teme che la frustrazione dei cittadini, che tardano a raccogliere i benefici della pace e della democrazia, sfoci in atti di disperazione, come i saccheggi del 1991 e del 1993, che infersero un durissimo colpo all’economia nazionale.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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