I Colori della Speranza

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Lunedì, 18 Maggio 2015 22:08

L'amore di Dio, fondamento della speranza cristiana (Rm 8,15-16 e 31-39) (P. Stanislao Lyonnet)

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San Paolo invoca l’amore del Padre per noi, inseparabile d’altronde dall’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per noi.

Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. (Rm 8,16  )

Lo Spirito mette sulle nostre labbra e nel nostro cuore la preghiera stessa del Figlio che si rivolge al Padre: “Abba!”. Il termine, nella lingua di Gesù e degli Apostoli, è quello di cui si serviva il bambino ebreo per rivolgersi a suo padre, al suo “papà” e designava esclusivamente una paternità in senso proprio. L’audacia di una simile preghiera da parte di un uomo del quale non si sapeva ancora in qual senso pieno egli fosse il “Figlio di Dio”, sembra che abbia persino scandalizzato gli Apostoli quando Gesù lo adoperò davanti a loro per la prima volta; tanto che provò il bisogno di giustificarsi evocando la relazione del tutto unica che esisteva fra lui e il Padre dei cieli: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.  Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Mt 11,26-27).

Pronunciata dai cristiani, nel cuore dei quali Dio ha mandato lo Spirito di suo Figlio (cf., Gal 4,6) essa affermava dunque che essi erano, in virtù di un dono gratuito del Padre, proprio quello che il Figlio unico è per la sua propria natura, e di conseguenza che essi sono amati dal Padre non solo come un bambino è amato da colui che gli ha dato vita, ma come il Figlio è amato dal Padre.

In Rm 5,8, san Paolo aveva anche evocato un’altra prova dell’amore di Dio, fondamento della nostra speranza: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Una prova oggettiva, questa, irrefutabile, visibile agli occhi di tutti, tanto più che si tratta dell’amore più disinteressato che si possa concepire, l’amore verso dei “nemici”; Paolo lo precisa al v. 10: “Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. Come la prospettiva delle tribolazioni non può scuotere la fiducia del cristiano (Rm 5,3-4), così neppure quella del giudizio potrebbe spaventarlo: “giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui” (Rm 5,9).
L’Apostolo svilupperà questo concetto nell’inno all’amore di Dio con cui termina il capitolo 8.

Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?" (Rm 8,31-34).

San Paolo invoca l’amore del Padre per noi, inseparabile d’altronde dall’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per noi. Come un tempo Abramo, che fu lodato dal Signore perché non gli aveva “rifiutato” il figlio che amava (Gn 22,16), così Dio “non ha risparmiato il proprio Figlio”. Non deve stupirci l’asserzione se ricordiamo che la tradizione giudaica non solo aveva identificato il monte Moriah dove Abramo compì il suo sacrificio con la montagna del Tempio di Gerusalemme dove Cristo avrebbe compiuto il suo, ma ne aveva persino fissato la data al 15 di Nisan, il giorno della Pasqua. Se “lo ha consegnato per noi”, come si legge nella traduzione greca del canto del servo del Signore in Isaia 53,6, l’espressione richiede di essere criticata, o come si dice oggi, “demitizzata”. Lo ha fatto san Tommaso commentando questo passo. ..... Mai infatti come al Calvario, nel momento in cui raggiunse “la perfezione dell’amore” (cf. Gv 13,1), Cristo fu di più “colui nel quale il Padre si compiace”.

Di quali ostacoli non potrebbe trionfare un simile amore? Mantenendo la terminologia del tribunale divino, san Paolo enumera come altrettanti possibili accusatori, tutto ciò che potrebbe scuotere la nostra fiducia, lasciarci credere che Dio ci abbia abbandonati, insomma ispirarci qualche dubbio su questo amore di Cristo e di Dio o almeno sulla sua efficacia.

Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati”. (Rm 8,35-37).

Volutamente o per caso, l’enumerazione raggiunge il numero di sette: “tribolazione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spada”: tutte parole che Paolo ha usato molte volte nel cuore delle sue lettere, sia parlando di tutti i cristiani (perché la tribolazione è la sorte della condizione dei cristiani (1 Ts 3,3), sia, ancora più spesso, parlando delle proprie esperienze apostoliche. La sola parola nuova è la “spada”: la spada del carnefice che pochi anni dopo,in questa Chiesa di Roma alla quale sta scrivendo, lo consacrerà martire e lo congiungerà per sempre al suo Maestro, testimonianza suprema dell’amore di Dio e di Cristo verso il suo Apostolo! Per dare un esempio, Paolo cita le parola del salmista (Sal 44,23) che ricorda le persecuzioni sopportate dal popolo di Israele e che l’esegesi giudaica contemporanea applicava volentieri al martirio dei fratelli Maccabei, sotto Antioco Epifane.

Non si poteva certo tracciare un quadro più oscuro. Ma, lungi dal generare in noi dei dubbi sull’amore di Cristo per noi, tante tribolazione ne sono altrettante prove irrefutabili, proprio a causa della forza che ci è comunicata “da colui che ci ha amati”, forza che ci ottiene non soltanto la vittoria, ma quello che san Paolo chiama, creando una nuova parola, una “super-vittoria”: “In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati”. Più la situazione è disperata, più l’intervento divino appare in tutto il suo splendore. Il cristiano è non soltanto vittorioso “nella prova”, ma in un certo modo “mediante la prova”. Essa costituisce la mediazione di quell’amore che Cristo ci comunica in funzione delle situazioni nelle quali ci troviamo e che egli ha permesso a questo scopo. Così san Paolo poteva scrivere ai Corinzi:

Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.  10 Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”. (2 Cor 12,9-10).

Per proclamare più solennemente ancora la certezza del cristiano san Paolo allarga le prospettive ed evoca tutti gli ostacoli che l’immaginazione superstiziosa degli uomini può inventare:

Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire,  39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall' amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore". (Rm 8,38-39). 

Morte e vita” unito a “presente e avvenire” è il binomio abituale per la cultura greca contemporanea, che Paolo aveva già ricordato in 1 Cor 3, 22: “la morte con le sue angosce, la vita con i suoi pericoli e le sue tentazioni... il presente con la sue instabilità e l’avvenire con le sue incertezze” (J. Huby). Gli “angeli e principati” sono verosimilmente quegli “elementi” che nel pensiero di Ebrei e Greci erano preposti al mondo materiale e di cui appunto "il Cristo ha trionfato” (1 Cor 15, 24; Col 2,15). Quanto ai due ultimi termini “altezza e profondità”, che hanno messo in imbarazzo tanti esegeti, sembrano presi dal linguaggio dell’astrologia in cui “designavano, l’uno la situazione di una stella verso il polo, l’altro lo spazio sotto l’orizzonte da cui sembrano nascere le stelle” (J. Huby): evidentemente perché le diverse posizioni degli astri erano considerate preposte a comandare il destino degli uomini e gli eventi della loro esistenza. Infine, per essere sicuro di non avere omesso nulla, un po’ come in Rm 13, 9, san Paolo dichiara che “alcun'altra creatura”, per quanto la si possa supporre potente, potrà impedire al Cristo di amarci efficacemente.

Il solo ostacolo sarebbe da parte nostra il rifiuto di volere essere amati, perché Dio ci rispetta tanto da non imporci mai il suo amore. Ai cristiani convertiti dal paganesimo e abituati finora a considerarsi esclusi dalle promesse divine riservate soltanto a Israele. l’Apostolo dichiara che queste promesse riguardano anche loro e che l’amore di Cristo è abbastanza efficace per vincere chiunque volesse opporsi alla loro realizzazione.

Questo amore del Cristo non è d’altronde altro che “l’amore stesso di Dio”, amore divenuto  umano e visibile “in Cristo Gesù, nostro Signore”. Alla fine del capitolo san Paolo riprende una formula abituale, ma per lui per niente banale, che definisce l’oggetto del suo vangelo: un personaggio che ha un nome come tutti i personaggi della storia: “Gesù”, la cui funzione è di essere il Messia mandato dal Padre: “Cristo” e che per la sua risurrezione è stato costituito “nostro Signore”.

Si capisce la parola del P. Faber: “Nel giorno del giudizio, preferisco essere giudicato dal Cristo che da mia madre!”.

P. Stanislao Lyonnet

 

Letto 75705 volte Ultima modifica il Lunedì, 18 Maggio 2015 22:26
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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