I Colori della Speranza

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Una piccola storia. Colpito dalla sventura un ebreo della Polonia aveva deciso di fuggire. Si era disfatto dei suoi pochi averi, aveva preso commiato da parenti e amici e si era recato dal rabbino per riceverne l'ultima benedizione e una parola di conforto.
“Così la vostra scelta è fatta?”, chiese il buon rabbino. E dopo un poco: “E ditemi: andate lontano?”
“Lontano da dove?”, rispose l'ebreo.

Conversione? Con l’inizio della quaresima diventa un tema ricorrente l’invito alla conversione. Il gesto dell’imposizione delle ceneri è solitamente accompagnato dalle parole: “Convertiti e credi al vangelo”. Le letture bibliche esprimono il medesimo invito. Si tratta di un tema ricorrente e comune, ma che sembra, a volte, non lasciare tracce. Vale dunque la pena soffermarsi un po’ su questa parola – conversione.

Nel linguaggio corrente il termine “conversione” è inteso con tre diversi significati. Innanzitutto, viene ad indicare il passaggio da una comunità di fede a un’altra. È il cambiamento di religione. Il secondo significato fa riferimento a un cambiamento di vita di una persona (o anche di una comunità) che sceglie di abbandonare la “via dei peccatori”. Ed infine si intende un cambiamento di mentalità, un impegno di purificazione e rinnovamento della propria vita spirituale.

La storia è piena di vicende riguardanti persone o gruppi che “cambiano idea”, anche in maniera molto radicale. Ma di per sé non ci si converte ad una ideologia. Affrontiamo subito un problema non indifferente: per molti studiosi del comportamento umano – ed anche per autori che riflettono sui temi della vita spirituale – non sarebbe corretto parlare di conversione. La persona umana, infatti, sostengono costoro, tende ad essere abitudinaria e conformista. Quello che impariamo nei primissimi anni della nostra infanzia – anzi nelle primissime settimane –, ci struttura in permanenza ed influenza la nostra crescita. E così siamo segnati da ciò che apprendiamo: nel nostro modo di intendere le relazioni familiari e sociali, nei nostri gusti, nelle nostre consuetudini e abitudini. Siamo cioè soggetti che non sono protagonisti di cambiamenti radicali nella propria vita. Capaci anche di sperimentare la libertà, ma nelle consuetudini della routine. Tuttavia l’essere umano è un animale particolarmente curioso – ed è la curiosità a far muovere i nostri passi. Mentre l’immagine del cammino contiene elementi propri della nostra identità: la tensione in avanti e l’apertura al futuro.

La conversione – così come solitamente la intendiamo – comporta l’idea di un cambiamento radicale, totale, della vita. Ma ciò sembrerebbe umanamente impossibile – o quasi. E, a ben vedere, se si volesse considerare con attenzione la storia religiosa e spirituale si dovrebbe concludere che probabilmente le persone che hanno sperimentato una vera conversione siano state veramente poche. Anzi, c’è chi giunge ad affermare che forse – almeno dal punto di vista biblico – soltanto un personaggio si sia convertito – Saulo divenuto in seguito Paolo. Il racconto della conversione di Paolo lo conosciamo bene. È narrato nel libro degli Atti (9,1-19).

Alcuni biblisti, tuttavia, fanno osservare che neppure in questo episodio si possa parlare di una vera e propria conversione. Paolo viene chiamato, infatti, da Dio per svolgere un compito. Gli viene affidato l’incarico di portare il vangelo ai pagani. E Paolo accoglie nella libertà questo incarico. A ben vedere, quando Saulo parte per Damasco è già un uomo in crisi. Una crisi, di lungo corso – iniziata forse già al momento del martirio di Stefano. E la caduta da cavallo è soltanto la goccia che fa traboccare il vaso. È il momento in cui la crisi, che Saulo attraversava, inizia a risolversi.

Ho letto da qualche parte che secondo una filosofa femminista gli uomini, a differenza delle donne, non sarebbero capaci di convertirsi… Non voglio entrare nella questione. Ci si può chiedere se il periodo della quaresima sia caratterizzato da un appello per un buon proposito che, si sa, non può essere mantenuto. Si tratta soltanto di un invito formale che la liturgia propone?

Eppure nella nostra vita sperimentiamo dei cambiamenti. E questi cambiamenti avvengono quando siamo motivati da due opposte ragioni. La prima ragione è quella che ci porta a cambiare (lavoro, casa, partner, amici, ecc. ma anche associazioni, religioni…) per gli evidenti vantaggi che vediamo insiti nella nuova situazione. Si cambia lavoro perché meglio retribuito, più vicino a casa e con migliori opportunità di carriera, ad esempio. L’opposta ragione che ci porta ad attuare un cambiamento nella nostra vita è quella della disperazione: si è allora disposti a tutto pur di non continuare a prolungare la situazione di malessere e di disagio che ci ritroviamo ad attraversare.

Ma se vogliamo iniziare a comprendere cosa possa significare conversione, dobbiamo farlo alla luce del testo biblico. La tradizione ebraica ha mantenuto in maniera maggiormente fedele il significato più profondo del termine. La tradizione ebraica parla infatti di teshuvah. È l’invito a ritornare a Dio. “Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno” (Gioele 2,13). Le strade umane tendono ad allontanarsi da Dio. È questo il significato più profondo dei primi capitoli di Genesi. Anzi, sono gli esseri umani a nascondersi, a sottrarsi allo sguardo di Dio. I passi – i progetti – sono volti a mettere sempre maggiore distanza tra l’essere umano e Dio. Teshuvah: ritorna verso Dio, volgi i tuoi passi verso Dio. “Esaminiamo la nostra condotta e scrutiamola, ritorniamo al Signore” (Lam 3,40). Ed i primi racconti di Genesi non fanno che presentare questa prospettiva: la persona umana vuole vivere senza fare i propri conti con Dio. Anzi, vuole superare quell’unico scoglio che lo rende limitato nel suo comprendersi: la morte. La tentazione del serpente – voi sarete simili a Dio – non fa che concretizzare il desiderio umano di vivere senza Dio.

Caino e Abele, Lamech, i vari personaggi che iniziano a popolare la terra, i giorni di Noè, la costruzione della torre di Babele… sono tutte narrazioni che presentano questo progressivo allontanamento da Dio. Finché non c’è una persona che si mette in ascolto di Dio: Abramo. Abramo è il primo a fare teshuvah – a fare ritorno a Dio. “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1). E questo ritorno a Dio avviene in una maniera paradossale: uscendo dalla propria terra. Abramo non ha una casa da lasciare perché è nomade: si sposta con il clan familiare, con le tende e gli armenti. E la sua teshuvah si compie nel continuare il suo viaggio, nel lasciare dietro di sé i pascoli ed i pozzi che gli sono noti e abituali, per andare in cerca di nuovi.

A ben considerare, Abramo non compie chissà quale grande azione. Al pari di tanti altri nomadi anch’egli è in cerca di pascoli adatti al suo bestiame. I trasferimenti vengono fatti in base ai cicli delle stagioni – alle piogge e ai periodi di siccità. Eppure il viaggio di Abramo diventa emblematico poiché si rivela essere un ritorno nelle vie di Dio. Con Abramo il cammino di allontanamento da Dio intrapreso dal genere umano cambia direzione. Non si tratta, però, di un cammino di ritorno sui propri passi, ma verso un nuovo orizzonte. “Per fede Abramo, chiamato da Dio, (…) partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).

Teshuvah: il ritorno a Dio diventa il cammino su di una nuova strada. E per iniziare a camminare su di una nuova strada non servono scelte radicali. Basta deviare di poco. È noto il cosiddetto “effetto farfalla”: il batter d’ali di una farfalla in Brasile può alterare in un altro luogo del pianeta il corso del clima per sempre. Ed il noto matematico e logico inglese Alan Turing affermava che “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato”, potrebbe significare la differenza tra il fatto che un uomo è ucciso oppure no da un valanga un anno dopo. Possiamo così considerare che la teshuvah – il ritorno a Dio – inizia a compiersi attraverso un piccolo, piccolissimo cambiamento attuato in una vita che è caratterizzata da consuetudini e abitudini.

Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di rendere il concetto di teshuvah con la parola metanoia. Il termine greco μετάνοια è composto dalla preposizione μετά (ciò che va oltre, comprende, si pone sopra) e dal verbo νοέω (percepire, pensare), e significa "cambiamento di vista" o "cambiamento di sguardo". Nell'antica Grecia, metanoia significava “assumere una condotta diversa, possibilmente migliore”. In alcuni testi del Nuovo Testamento metanoia significa andare al di là di noi e si riferisce a un movimento mediante il quale la persona umana si volge verso Dio, si apre a Dio. Le beatitudini evangeliche (Mt 5, 3-12) sono l’espressione migliore della metanoia cristiana. Anche l’inizio della predicazione di Gesù è contraddistinto dall’invito alla metanoia: “Dopo che Giovanni Battista fu consegnato, venne Gesù nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio e dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo””. (Mc 1, 14-15).

“Il tempo è compiuto”. Significa: è giunto il momento; è adesso. Mentre noi solitamente attendiamo sempre dopo… Convertirsi – seguendo questa prospettiva biblica – non consiste tanto nel compiere grandi cose, ma semplicemente nell’aggiungere quella goccia che fa traboccare l’intero vaso. È un cambiare il modo di vedere le cose. È quella piccola deviazione nel cammino della nostra vita che si rivela essere un ritorno sulle vie del Signore. Vuol dire iniziare a vedere le cose in modo diverso.

Papa Francesco insiste nell’affermare che il tempo è superiore allo spazio. Lo ha fatto in diversi documenti. Ed aggiunge che ciò che conta è avviare processi. Non sono le grandi decisioni a cambiare la storia – la storia universale come la storia personale – ma la capacità di dare avvio a piccole cose che si manifestano capaci di influenzare significativamente il futuro. “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada” (Is, 43,19). Come il piccolo seme di senape che germoglia, dando origine ad un’intera pianta. Sembrerebbe, a prima vista, una semplice cosa, un’operazione dai facili costi. Ma non è proprio così. Sono le piccole cose che si rivelano essere le più difficili da realizzare. Provo a fare un esempio.

Leggiamo nel Vangelo che un modo per fare ritorno a Dio è quello di riconciliarsi con il fratello prima di compiere la nostra offerta (Mt 5,23-24). A volte ci capita di comprendere che le nostre relazioni familiari – o con i vicini di casa –, ad esempio, siano ingessate e in qualche modo bloccate. Magari non sono in corso conflitti evidenti, ma ci si rende conto che nelle consuetudini – che automaticamente si perpetuano – c’è qualcosa che non va. E sappiamo che basterebbe ben poco per cambiare le cose. Forse, semplicemente trovare il coraggio per parlarne insieme. Oppure, nel compiere un’azione di poco conto – un saluto, una telefonata, un invito… – ma che produrrebbe un significativo cambiamento. Ma non si riesce a fare ciò che riteniamo andrebbe fatto per migliorare le nostre relazioni. Oppure può capitare che si continui a rimandare ad un prossimo futuro… Finché giunge la morte per rendersi conto che ciò che si avrebbe voluto/dovuto fare o dire non può più essere compiuto.

C’è un altro aspetto da considerare quando parliamo di teshuvah/metanoia. Nella prospettiva biblica ciò non si compie per un buon proposito o per una risoluzione presa. Ma è nell’agire che tutto ciò si manifesta. C’è un passo molto importante che si legge nel libro del Deuteronomio: “Noi faremo e ascolteremo” (Deut 5,27). Noi siamo abituati a considerare l’ascolto precedere l’azione. La conversione si compie prima nell’azione e poi nell’ascolto – poiché l’azione manifesta che si è attuato l’ascolto. Potremmo portare molti esempi di questa diversa comprensione temporale. “I magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella ma, videro la stella perché si erano messi in cammino”. Così scrive san Giovanni Crisostomo. E per fare un altro esempio, un simile tipo di lettura lo ritroviamo anche in san Giovanni della Croce, quando osserva a riguardo dei testimoni della risurrezione (Maria Maddalena, i discepoli, i due di Emmaus e Tommaso): essi non videro il Signore e perciò credettero, ma prima credettero e per questo poi lo videro.

Riprendiamo la figura di Abramo. Il racconto delle sue vicende inizia con queste parole: “Lascia la tua terra” (Gen 12,1). Lekh lekhà! Espressione che si può tradurre anche con “Vai a te stesso”. Vale a dire: entra in te stesso, lascia dietro di te la monotonia delle solite cose, datti il tempo sufficiente, prendi il cammino del tuo tempo… Quale significato ha per noi l’ascolto di questa voce interiore? È possibile mettersi in ascolto nella misura in cui possiamo assicurarci un po’ di intima interiorità, dandoci il tempo ed il silenzio sufficienti. A ben vedere, ci dicono gli autori spirituali, il viaggio più difficile e duro, più lungo e affascinante è quello che si compie nel nostro intimo.

E torniamo al racconto iniziale. Lontano da dove? Chiede l’ebreo in partenza. Lontano da dove – quando l’invito è di andare a se stessi, nella propria intimità? A mettersi in cammino per lasciarsi avvicinare a Dio.

Un’altra storia. Un rabbino polacco aveva sognato di trovare un tesoro sotto un ponte della città di Praga. Egli si mise subito in cammino, affrontando a piedi il lungo viaggio. Arrivato a destinazione, non poté soddisfare il desiderio di mettersi a cercare il tesoro poiché il ponte – il famoso ponte Carlo – era custodito da un numeroso drappello di guardie. Il capo delle guardie lo notò e gli chiese ragione del suo aggirarsi irresoluto. Il rabbino iniziò, allora, a raccontare del sogno fatto. Il capo delle guardie si mise a ridere: non c’era da prestare fede ai sogni. Anche lui, infatti, n’aveva fatto uno simile. Aveva sognato che nei pressi di una certa casa – che descrisse con precisione – era nascosto un tesoro. Il rabbino capì che l’uomo stava parlando proprio della sua abitazione. Ritornò a casa e, scavando secondo le indicazioni ricevute, trovò il tesoro. Forse, anche a noi capita di cercare lontano quello che invece c’è molto vicino?

È possibile convertirsi? Nella misura in cui riusciremo ad andare a noi stessi. Poiché lì, ci insegnano i maestri spirituali, in qualche angolo nascosto del nostro cuore, è presente Dio. E questo nostro tornare a Dio si compie, allora, nella discesa dell’intimo del nostro cuore. “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria… Colei che viene indicata come la “prima in cammino”.

Faustino Ferrari

 

Prima domenica del Tempo di Quaresima - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dt 26, 4-10

Dal libro del Deuteronomio
 
Mosè parlò al popolo e disse:
«Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all'altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: "Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato". Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
 

Salmo Responsoriale Sal 90

Resta con noi, Signore, nell'ora della prova.

Chi abita al riparo dell'Altissimo
passerà la notte all'ombra dell'Onnipotente.
Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido».

Non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.
Egli per te darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutte le tue vie.

Sulle mani essi ti porteranno,
perché il tuo piede non inciampi nella pietra.
Calpesterai leoni e vipere,
schiaccerai leoncelli e draghi.

«Lo libererò, perché a me si è legato,
lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.
Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell'angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso».

Seconda Lettura Rm 10, 8-13


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
 
Canto al Vangelo (Mt 4,4)


Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

Non di solo pane vivrà l'uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

Vangelo Lc 4,1-13
 
Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l'uomo"».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto"».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e anche: "Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"». Gesù gli rispose: «È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

OMELIA

Nell’episodio denominato delle ‘tentazioni’, a Gesù viene chiesto: ‘vuoi essere felice?’ e al contempo gli viene indicata la via per esserlo: ‘fa’ questo e lo sarai’.
Il ‘diavolo’ dovrebbe imparare che ‘la felicità è una direzione, non un luogo’ (Sydney Harris).
La felicità (Gesù preferiva parlare di beatitudine) è sempre l’effetto collaterale di un cammino sul sentiero del bene. Si può essere felici solo come conseguenza, retrogusto di un ‘modus vivendi’ buono.
Ecco perché Gesù rifiuta la ‘via direttissima’ sulla parete nord della felicità, prospettatagli dal diavolo. Troppo rischiosa. La vita è complessa, e la sua bellezza risiede proprio in questa complessità. Non si danno scorciatoie per il compimento del cuore. La strada va percorsa tutta, con le sue fatiche, le cadute, i fallimenti, i limiti accogliendo, passo dopo passo, ciò che lei, la vita, e solo lei, ha deciso per noi. Non si danno vie di fuga per la felicità, altrimenti rischieremmo di pensare che questa consista nella semplice assenza di problemi e d’ostacoli.
La felicità, o meglio la beatitudine – insomma – ci verrà incontro quando smetteremo di cercarla. Magari impegnandoci a favorire quella degli altri. Sempre nella consapevolezza che il bene dell’altro, il vivere relazioni sane, e la pace son qualcosa di affermabile solo a caro prezzo, e con tempi molto lunghi; quelli dell’amore.

 
Paolo Scquizzato
 

È forse opportuno, prima di venire a trattare di alcune interpretazioni rabbiniche relative alla figura del profeta Isaia, ricordare che per il giudaismo le tre parti che compongo­no la Bibbia, ossia Torah o Legge di Mosè contenuta nel Pentateuco, Nevi'im o Profeti distinti in anteriori e posteriori, e Ketuvim o scritti sapienziali noti come Agiografi (le cui iniziali danno origine all'acronimo Tanak con cui gli ebrei indicano la Scrittura), non rivestono tutte la stessa importanza ed autorevolezza, riflettendo con gradi diversi di intensità lo splendore della rivelazione. Il primato assoluto spetta alla Torah nella sua duplice forma di scritta e orale; essa è la pura e diretta rivelazione data da Dio a Mo­sè sul monte Sinai e risplende di luce pro­pria come il sole. Profeti e Agiografi svol­gono un ruolo complementare, di integra­zione dovuta alla dura cervice di Israele: se infatti questo avesse accolto in maniera per­fetta la Torah, degli altri due gruppi di scrit­ti non ci sarebbe stato bisogno. Essi sono come una esplicitazione degli insegnamenti della Torah, sono ad essa funzionali ed han­no un valore subordinato ed inferiore, in quanto splendono della luce riflessa che su di essi emana dalla prima. Inoltre, ad esem­pio, i profeti hanno gradi diversi di lumino­sità, a seconda della fonte stessa della loro profezia.

In questo senso in un passo del Levitico Rabba, un grande midrash redatto in Pale­stina nel V secolo, leggiamo: «Lo Spirito Santo, che risplende sui profeti, non ri­splende che con misura. Alcuni profetizzarono per 1'estensione di un libro, altri per due libri» (15,2). Non solo la misura dello Spirito si calcola quantitativamente, ma anche qualitativamente. In effetti, secondo al­cuni maestri, il più grande profeta, natural­mente dopo Mosè, fu Isaia. Nello stesso mi­drash leggiamo: «Tutti gli altri profeti rice­vettero le loro profezie uno dall'altro, ma Isaia le ricevette direttamente dal Santo, egli sia benedetto» (ibid., 10,2). Un testo del Talmud così caratterizza la sua superio­rità rispetto ad Ezechiele: «Tutto ciò che vi­de Ezechiele, lo vide anche Isaia· ma Eze­chiele a chi è simile? È paragonabile ad un contadino che guarda il re. A chi è simile Isaia? È paragonabile ad un cittadino che guarda il re» (trattato Chaghigah 13b). Il senso di questo passo è che, non essendo Ezechiele abituato alla visione di Dio, quando ne ebbe una fu colto dalla meravi­glia e si dilungò in maniera molto dettaglia­ta nella sua descrizione, come un campa­gnolo che resta meravigliato al vedere il re in città, non vedendolo mai. Al contrario, Isaia era abituato ad avere la visione di Dio. per cui nel suo libro la menziona semplice­mente in forma breve.

Un altro passo del Talmud elenca gli scritti profetici e gli altri libri della Bibbia, in una baraita databile al II secolo d.C. che costi­tuisce uno dei primi passi in cui si elenca il canone completo della Bibbia ebraica. L'e­lenco, contenuto nel trattato Brava batra 14b, è diverso da quello presente nella Bib­bia ebraica - nella quale Isaia precede Ge­remia - e rispecchia probabilmente un di­verso ordine precedente alla sistemazione masoretica. In questo elenco la successione è: libro dei Re, Geremia, Ezechiele e Isaia. Eccone la spiegazione secondo il passo tal­mudico menzionato: «Poiché Isaia fu ante­riore a Geremia ed Ezechiele, avrebbe do­vuto precedere nell'ordine. Ma, poiché il li­bro dei Re termina con la distruzione del tempio, Geremia tratta tutto quanto relativa­mente alla distruzione, Ezechiele comincia con la distruzione e termina con un messag­gio di consolazione, ed Isaia tratta tutto quanto di consolazione, facciamo seguire distruzione a distruzione e consolazione a consolazione» .

La Pesiqta Rabbati, una raccolta omiletica la cui redazione medievale presenta diverse stratificazioni, afferma che, quando Isaia ebbe la visione di Dio, si rammaricò con se stesso di non aver adeguatamente rimprove­rato il re per distoglierlo dalla sua via mal­vagia. Il profeta si duole di non aver unito la sua voce a quella degli angeli, poiché se lo avesse fatto sarebbe divenuto immortale. Allora egli si scusa con le note parole: Sono un uomo dalle labbra impure e vivo in mezzo ad un popolo dalle labbra impure (Is 6,5). A questo punto Dio gli risponde rico­noscendo che egli è il maestro e lo elogia, ma lo rimprovera chiedendogli chi gli abbia dato il permesso di calunniare i suoi figli chiamando gli israeliti gente dalle labbra impure. A questo punto un serafino gli toc­ca la lingua con un carbone ardente e Isaia impara la lezione: che cioè era suo compito difendere e sostenere Israele e non accusar­lo. Per questo egli divenne il profeta della consolazione che, dopo aver all'inizio an­nunciato la disfatta, in seguito nel suo libro si impegna a consolare il popolo di Dio e a descrivere più di ogni altro profeta il suo splendido destino futuro.

Nel trattato talmudico sulle benedizioni Be­rakot (10a) si narra di come il profeta ebbe un dialogo con il re Ezechia gravemente ammalato. Egli venne da lui e gli disse: «Così ha detto il Signore "Dai disposizioni per la tua casa, perché morirai e non vi­vrai" (Is 38,1). Che cosa significa perché morirai e non vivrai?; "Perché morrai", in questo mondo e "non vivrai" nel mondo av­venire. Allora egli chiese: "Perché una pu­nizione così severa?". "Perché non hai adempiuto all'obbligo di procreare figli". Ezechia gli disse: "Ho visto, con l'aiuto dello Spirito Santo, che sarebbero usciti da me figli indegni". Isaia gli replicò: "Che hai tu a che fare con i segreti del Misericordio­so? Ciò che ti è stato comandato dovevi fa­re e il Santo, egli sia benedetto, faccia ciò che gli piace"».

Altri testi ci parlano della relazione del pro­feta con il re empio Achaz, figlio di Yotam, i cui peccati furono i più gravi perché peccò contro Dio conoscendo la sua grandezza e il suo potere. Isaia gli disse: «Chiedi un segno da Dio, come ad esempio che un morto ri­sorga dicendo: "Korach, sali dallo Sheol!", oppure chiedendo che Elia discenda dal cie­lo»; Allora il re rispose: «Io so che tu hai il potere di fare ciascuna di queste cose, ma io non voglio che il nome di Dio sia glorifi­cato per mezzo mio» (Midrash Tanchuma, Buber 1, 153).

Alcuni testi parlano di un samaritano, di­scendente del falso profeta Sedecia, che ac­cusò Isaia di fronte al re sacrilego Manasse, il quale lo condannò a morte. L'accusa con­tro il profeta fu che le sue profezie contene­vano cose in contrasto con la legge di Mo­sè. Infatti nella Torah si legge che Dio disse a Mosè: «Tu non puoi vedere la mia faccia, poiché un uomo non può vedere il mio vol­to e restare in vita», mentre, al contrario Isaia afferma: «Ho visto il Signore assiso su un trono alto ed eccelso» eppure è rimasto in vita. I principi di Israele e gli empi abi­tanti di Sodoma e Gomorra si presentano ad accusare il profeta, ma questi sceglie di non pronunciare la sua difesa, preferendo che Manasse agisse per ignoranza piuttosto che per malvagità. Quando gli accusatori gli si avvicinano, Isaia pronuncia il nome di Dio e all'improvviso un albero di cedro lo in­ghiottisce. Il re ordina che l'albero venga segato a pezzi e, quando la sega taglia la corteccia sotto la quale si nascondeva la bocca del profeta, egli muore. La bocca, in­fatti, era l'unica parte vulnerabile del corpo di Isaia, poiché quando egli venne chiamato a compiere la sua missione, aveva usato un'espressione di spregio verso i figli d'I­sraele dicendo: Sono un uomo dalle labbra impure e vivo in mezzo ad un popolo dalle labbra impure (Is 6,5). Quando morì, se­condo il Midrash Aggadat Be-reshit 14,32 Isaia aveva centoventi anni; egli, come Ab­dia, aveva profetizzato in 71 lingue, numero pari a tutti i popoli della terra, che sono set­tanta, più i Filistei.

Un altro testo rabbinico afferma che il pro­feta Isaia non menziona Isacco fra i padri, per il fatto che egli concesse il potere della spada ad Esaù, simbolo di Roma (Genesi Rabba 67,7, con riferimento a Is 63,16: Poiché Abramo non ci riconosce e Israele [= Giacobbe] non si ricorda di noi, dove il profeta omette Isacco).

I Rabbi ritengono che all'epoca di Isaia, la Shekinah o divina presenza la quale, secon­do il Midrash Aggadah su Numeri 30,15 era ritornata nel tempio all'epoca del nostro profeta dopo una lunga assenza, pure lasciò il tempio a causa del peccato di Manasse sempre all'epoca di Isaia.

Concludiamo questa carrellata con un'idea assai curiosa che mostra come la fantasia del midrash sia davvero senza limite nel cercare di cogliere ed enfatizzare il signifi­cato religioso delle realtà spirituali. Secon­do una tradizione rabbinica attestata in varie fonti, fra cui Avot de-Rabbi Natan (2,2) e il Midrash Tanchuma, Buber (1,32), Isaia eb­be il raro privilegio di nascere già circonci­so, avendo fin dal seno materno impresso nel suo corpo il segno dell' alleanza con Dio. Gli fanno compagnia nel gruppo di questi privilegiati Adamo, Set, Enoc, Noè, Sem, Terach, Giuseppe, Mosè, Balaam, Sa­muele, Davide, Geremia e Zorobabele.

Mauro Perani

(tratto da Parole di Vita, n. 3/1999)

 

 

 

 

Cet article reprend en le résumant le propos d’un livre écrit par le P. Olivier Laurent, mariste : «  La vie religieuse au risque de l’avenir. Entre extinction ou renouveau » En attente de son édition espérée, l’auteur présente ici le contenu de ses réflexions et propositions.

Faut-il en finir avec la vie religieuse ?

Pourquoi oser une réponse à cette question posée par un éditeur pour donner un titre à ce projet d’écriture ?

Arrivé au soir de ma vie, j’ai désiré prendre le temps d’en faire la relecture et de partager quelques réflexions sur cette question qui m’habite.

Né à Paris, en octobre 1942, au cœur de la seconde guerre mondiale, je suis entré en religion dans la Congrégation des Pères Maristes que j’ai connue durant mes études secondaires. Nous étions à l’aube du Concile Vatican II, portés par un fort désir de renouveau dans l’Eglise. J’ai eu à traverser les crises qui ont vidé les maisons de formation après 1968. J’ai effectué mes études de théologie aux Facultés Catholiques de Lyon, après avoir terminé une maîtrise en géographie. Puis je me suis spécialisé dans l’étude des banlieues populaires dans les villes africaines. Pendant 10 ans, j’ai animé, avec une équipe de jeunes cadres sénégalais, un projet conjoint au Gouvernement du Sénégal et au Programme des Nations Unies pour l’environnement, consacré à l’amélioration des conditions de vie dans un bidonville suburbain de Dakar. J’y ai vécu, au quotidien, la rencontre et le travail avec des collaborateurs en majorité musulmans.

Après une année sabbatique à Paris, où j’ai pu travailler au Centre Sèvres avec des Pères Jésuites sur le dialogue interreligieux, je suis reparti au Sénégal pour mettre en place et prendre en charge la formation des premiers jeunes pères Maristes africains. Pendant une vingtaine d’années, j’ai eu à créer, puis à diriger le Centre Saint Augustin, pour l’enseignement de la philosophie aux séminaristes de trois congrégations. Puis, après trois ans dans cette fonction, je suis devenu Maître des novices pendant 8 ans, puis responsable de la candidature et enfin supérieur majeur du District Mariste d’Afrique.

De retour en France, au seuil des années 2000, j’ai travaillé à Paris, pendant 4 ans au Forum 104 qui est un lieu de rencontre et de dialogue entre des chrétiens et des personnes engagées dans les nouvelles quêtes spirituelles, ou vivant dans d’autres traditions religieuses. Et, par la suite, j’ai été envoyé à Toulon, pendant treize ans. Là, j’ai crée, en cœur de ville, un centre culturel et spirituel.

Tout au long de ce parcours les questions n’ont pas manquées. Et celles-ci m’ont sans cesse renvoyées à cette interrogation fondamentale : Comment la vie religieuse incarne-t-elle, aujourd’hui, la suite du Christ et le service des personnes dans ce monde en pleine mutation ?

Pour tenter d’y répondre, je me dois de dire que mon propos restera fortement limité parce que la plupart des consacrés sont aujourd’hui des femmes et que je suis héritier, non de la tradition monastique, mais de ce qu’on a appelé les congrégations actives, engagées dans divers apostolats et ne vivant pas sous le régime de la clôture monastique.

Vivre les yeux ouverts dans ce monde en mutation.

Nous sommes au cœur de la tempête et certains se demandent si nous ne vivons pas la fin du monde, tandis que d’autres préfèrent dire que c’est aujourd’hui, la fin d’un monde. Si nous sommes dans un moment de refondation du monde, d’engendrement d’une nouvelle civilisation, que deviennent nos grandes traditions religieuses et leurs institutions ?

Nos sociétés sont de plus en plus fracturées et inégalitaires. Elles luttent entre elles pour s’approprier les ressources de la terre, nécessaires pour continuer de se développer selon un modèle consumériste, menacé d’obsolescence.

Les grandes religions du monde sont interpellées, particulièrement l’Eglise Catholique, traversée par de nombreuses crises, notamment celle des abus sexuels et celle de ses modes de gouvernance.

L’Agnosticisme et l’indifférence gagnent un grand nombre de personnes et une profonde crise de la foi affecte particulièrement les vieilles chrétientés de même que la vie consacrée.

Les congrégations religieuses connaissent un vieillissement accéléré ; ce qui entraîne une forte diminution de leurs effectifs, insuffisamment compensée par une relève venue des pays du Sud. Mais ces jeunes ne doivent pas être considérés comme des faire valoir qui permettraient aux congrégations de se maintenir en l’état, encore pendant quelques temps.

Les entreprises d’aggiornamento qui ont suivi le Concile Vatican II ont-elles portés leurs fruits ? Il convient de se demander si les renouveaux, alors entrepris, ont suffi à redonner un élan durable à la vie religieuse ? Il y a une grande diversité des situations et des contrastes entre vieilles chrétientés et jeunes églises, mais il me semble que les grands changements du monde qui nous affectent tous ne peuvent être éludés. Et que perdrait-on si la vie religieuse venait à disparaître ?

Peut-on regarder cette réalité en face et faire place aux questions qu’elle nous pose ?

Un confrère Néo-Zélandais, le Père Justin Taylor, historien et exégète de l’Eglise des temps apostoliques avait été invité à animer une retraite dans les diverses unités de notre congrégation, en s’appuyant sur la pensée de notre fondateur, Jean Claude Colin.

Et il avait intitulé cette retraite :   « Repartir à zéro. » Et pour ce faire il nous proposait une relecture de nos sources et textes fondateurs.

Nous vivons dans une société de l’immédiat et des réponses binaires : oui/non. Il n’y a plus de place pour la nuance et le temps long. Or l’histoire de l’Eglise nous apprend que l’incarnation du message évangélique ne peut faire l’économie de l’espace et du temps. La diversité des lieux et des sociétés interpelle nos tentations d’uniformité et nos prétentions universalistes. Alors, il nous faut consentir aux germinations lentes et renoncer à vouloir tout maîtriser en croyant que tout dépend de nous et de notre seule volonté. Il s’agit de se laisser conduire par l’Esprit qui, comme le vent, souffle où il veut et nul ne sait d’où il vient ni où il va.

Accueillir dans la patience l’inattendu, l’inouï, l’ailleurs, l’autrement. L’important, c’est de prendre la route, habités par l’espérance qui fait marcher plus loin que sa peur.

Regarder avec bienveillance et lucidité ce monde nouveau qui s’enfante dans la douleur et l’espoir.

Les deux crises, économique et climatique, que nous traversons actuellement se renforcent et menacent l’avenir de notre humanité.

Et dans ce monde global en genèse, les espaces géopolitiques sont en pleine reconfiguration. Le monde Occidental n’est plus le seul acteur déterminant et doit de plus en plus céder sa place aux nouveaux pays émergeants du Sud.

Dans ce contexte, les grandes traditions spirituelles sont profondément interpellées, voire remises en question. Les chrétiens n’échappent pas à cet ébranlement et ne peuvent pas faire l’économie d’un bilan et d’un renouveau.

Devant ces nouveaux défis, les tentatives de repli, de retour à un passé idéalisé, d’un arrêt sur image ou au contraire de fuite en avant sont nombreuses, mais souvent vouées à l’échec, car elles n’apportent pas de réponses satisfaisantes aux questions nouvelles.

Cela est d’autant plus difficile que les mots pour dire la foi sont usés et que le fossé culturel se creuse entre les tenants de la post modernité et les chrétiens, héritiers d’un message qui n’est plus bien reçu dans ses anciennes formulations.

S’enraciner dans une histoire.

Depuis des siècles et avant même son existence dans le christianisme, des femmes et des hommes se sont engagés dans une démarche spirituelle que l’on a appelé la vie consacrée. Citons, pour mémoire, les expériences chamaniques, le monachisme hindouiste ou bouddhique puis plus tard celles des soufis dans l’Islam. On y constate l’adoption d’un mode de vie ascétique, pratiqué en soutien d’expériences mystiques pour entrer en communion avec l’invisible, celui qui est à l’origine des mondes et de la vie.

Cet héritage est encore vécu aujourd’hui par des femmes et des hommes dans des sociétés asiatiques, africaines, ou sud américaines. Il existe donc diverses formes de vie consacrée dans notre société mondialisée.

A l’origine, dans le Christianisme, la vie religieuse s’est développée selon le modèle monastique et elle concerne aussi bien les femmes que les hommes. Au fil de l’histoire et des évolutions sociales et culturelles, notamment avec l’émergence des villes, cette vie monastique ne convenait plus aux nécessités du temps. Alors sont apparues des congrégations organisées pour fournir des missionnaires et annoncer l’Evangile au Nouveau Monde et aux peuples de l’Asie, pour prêcher, en itinérance, l’Evangile dans les villes et les campagnes. Et se rendre disponibles pour accomplir les œuvres de miséricorde, notamment le service des pauvres, l’éducation des enfants et le soin des malades.

Ainsi sont nées de très nombreuses congrégations de femmes et d’hommes. Et aujourd’hui, les religieuses constituent la majorité des personnes consacrées.

Parmi les religieux, certains sont prêtres et ils représentent un groupe particulier. Dans le passé, ils ont pu être considérés comme l’élite des consacrés, avec une prééminence sur les religieux non clercs et les religieuses. Mais la vie consacrée et le sacerdoce sont deux réalités distinctes. La première est un état de vie, le second est un ministère.

La vie religieuse ébranlée.

La vie religieuse n’échappe pas à la crise et se trouve profondément ébranlée. Les effectifs des congrégations, tant masculines que féminines, connaissent une diminution qui avoisine souvent plus de 50% de leurs membres. Le vieillissement de ces derniers et la faible relève- qui peut être parfois inexistante depuis des décennies- les conduisent à l’extinction, sinon, à une forte diminution de leur présence active dans la vie ecclésiale. Certains diocèses n’ont plus de religieux.

L’insistance sur la liberté individuelle et la nécessaire autonomie personnelle remettent en question la nécessité d’appartenance à un groupe, à un corps, à une institution. Elles renforcent la tendance de chacun à se fabriquer une religion, une spiritualité à la carte, en puisant dans diverses traditions d’Orient ou d’Occident, interprétées à sa convenance.

Quant aux grandes intuitions du Concile Vatican II qui ont permis le bel aggiornamento du XXème siècle, elles se trouvent à nouveau interpellées aujourd’hui, car depuis 60 ans, notre monde a profondément changé. Le Pape Benoît XVI en faisait lui-même le constat en déclarant que : « le Christianisme aujourd’hui n’est plus la matrice de notre culture et chacun construit son propre univers de sens. »

Tous les baptisés sont appelés à la sainteté.

Toutefois ce Concile nous a légué le renouveau de la théologie de l’Eglise. Celle-ci est présentée comme le Peuple de Dieu en marche où tous les baptisés sont appelés à vivre en disciples et témoins de l’amour de Dieu manifesté en Jésus-Christ. De ce fait, il convient de se demander à quoi bon la vie religieuse. Si tous sont appelés à la sainteté, à devenir messagers de la Bonne Nouvelle et à manifester l’amour de Dieu pour les petits et les pauvres, est-il encore besoin de s’engager dans la vie religieuse, considérée hier comme la meilleure part et la voie royale pour assurer son salut ?

Reprendre la route

Le pape François dans son homélie pendant la messe de clôture du Synode sur la synodalité a déclaré : « Face aux questions des femmes et des hommes d’aujourd’hui, aux défis de notre temps, aux urgences de l’évangélisation et aux nombreuses blessures qui affligent l’humanité, nous ne pouvons rester assis. Nous avons besoin d’une Eglise qui accueille le cri du monde et qui se salit les mains pour le servir. Pas une Eglise assise mais une Eglise debout…Pas une Eglise statique mais une Eglise missionnaire, qui marche avec le Seigneur sur les routes du monde. Déposons le manteau de la résignation, confions notre cécité au Seigneur, levons-nous et portons la joie de l’Evangile sur les chemins du monde. »

Le fondateur des Pères Maristes, Jean-Claude Colin, s’adressant à ses premiers compagnons, pendant les troubles politiques de son époque leur disait : « Messieurs, messieurs, les temps sont mauvais… alors animons-nous » Et il était convaincu que la Sainte Vierge avait suscité, la Société de Marie comme une petite armée, engagée sous sa bannière pour « Recommencer une nouvelle Eglise. En faisant le bien, mais Inconnus et comme cachés. Sans tambours ni trompettes.

Les congrégations religieuses devant l‘urgence d’une réforme.

Le monde dans lequel ont vécu un grand nombre de religieuses et de religieux, de la génération du Concile Vatican II, connaît de si profondes transformations qu’ils ne peuvent continuer à vivre et à envisager l’avenir en maintenant, coûte que coûte, les formes et les pratiques qui ont donné corps à leur engagement à la suite du Christ.

Pour avancer sur la voie d’une réforme et d’un renouveau, il est nécessaire de quitter ses habitudes, un certain confort social et spirituel, et aussi, d’aller à la rencontre de celles et ceux qui, en des lieux divers, inventent des réponses alternatives et promeuvent de nouveaux modes de vie où sont réconciliés les processus de production et de consommation des biens sans exploitation des personnes, sans gaspillage des ressources, tout en les partageant avec tous.

Si les chrétiens, et parmi eux, les religieuses et les religieux, veulent être au rendez-vous de l’histoire qui s’écrit sous leurs yeux, ils ne peuvent rester campés sur leurs anciennes postures mais, en se laissant conduire par l’Esprit, ils doivent oser les ruptures nécessaires et entrer dans l’aventure, avec celles et ceux qui ouvrent des chemins d’espérance dans la famille humaine et qui inventent le projet évangélique dont ont besoin nos sociétés en genèse.

Il est également important de considérer que notre rapport au temps et à l’espace s’est profondément modifié, de même que notre mobilité et nos moyens de communication. Cela implique, en conséquence, un décentrement et une ouverture à d’autres univers culturels, religieux, géographiques, démographiques et à des modes de vie différents.

Le philosophe Bruno Latour propose une démarche pour avancer dans cette invention de l’avenir. Il s’agit de partir de la description de ce que je vis et de ce qui ne fonctionne pas ou plus, là où je suis. Ensuite, d’examiner, à mon niveau, comment je peux inventer une alternative, une solution pour sortir de ce disfonctionnement et redonner de la cohérence et de la pertinence aux choix que j’ai faits pour incarner, dans ma vie, le projet évangélique proposé par la vie religieuse. Me demander par exemple comment renouveler notre engagement à vivre le vœu de pauvreté en prenant en compte l’urgence d’adopter de nouveaux modes de vie, nécessaires pour conserver à notre planète son habitabilité pour tous. (cf. Laudato Si). Il me parait nécessaire de susciter des communautés qui adoptent des nouvelles pratiques de consommation, de communication, de dialogue intergénérationnel, d’accueil des étrangers.

Et que les candidats qui nous rejoignent aient fait une immersion durant plusieurs mois dans des tiers lieux ou des associations où s’invente concrètement des alternatives à nos modes de vie actuels, tel que l’éco hameau de la Bénissons Dieu ou le Campus de la transition, crée par la Sœur Cécile Renouard.

Diverses stratégies de réforme.

Il existe diverses stratégies de réforme dans l’Eglise qui est « Semper reformanda » toujours en train de se réformer. L’histoire nous apprend que ces stratégies ne sont pas toutes porteuses des réponses adéquates, pour relever les défis du temps considéré.

Nous pouvons les classer en trois grandes catégories.

Une première stratégie : Le retour au passé : «  c’était mieux avant »

Un passé souvent idéalisé. Cette démarche aboutit à des échecs car elle ne répond pas aux nouveaux défis à relever. Et aussi parce qu’elle fige la vie religieuse dans des modèles, considérés comme immuables, au risque de confondre la forme et le fond et de réduire la sequela Christi à des manières de vivre, héritées d’une tradition séculaire. Or, nous le voyons bien aujourd’hui, la vie monastique, considérée comme la forme la plus ancienne et vénérable de la vie religieuse, connaît de nombreuses évolutions et transformations qui en assument l’héritage, tout s’incarnant dans de nouvelles formes. Car il n’est pas possible de s’ouvrir à un avenir en figeant la vie dans un espace et un temps donné mais dépassé. On ne pourra pas ainsi relever les nouveaux défis de notre temps.

Aujourd’hui, certains jeunes, en quête de certitudes, sont attirés par cette idéalisation du passé et croient y trouver une radicalité et des réponses à leur désir de rupture avec le monde dans lequel ils vivent. Ils sont prêts à tout et veulent s’engager avec enthousiasme et une grande générosité. Au risque de confondre l’idéal et la réalité. De même que la suite du Christ rencontré dans l’intime avec la défense de valeurs et d’un modèle social conservateur.

Une seconde stratégie : Tout Changer, faisons table rase du passé.

Dans le sillage des années soixante qui ont marqué un grand tournant dans nos sociétés et qui sont celles du Concile Vatican II, nous avons vu se développer de nombreuses initiatives qui ont donné naissance à des « communautés nouvelles. » Celles-ci se sont souvent présentées comme des alternatives au déclin des congrégations anciennes. Elles ont réuni, le plus souvent, des jeunes, hommes et femmes, vivant dans divers états de vie, consacrées ou non, et sous différentes modalités de vie commune. Par la suite, certains sont devenus clercs et d’autres ont repris la vie monastique, en s’installant dans d’anciennes abbayes. Après avoir connu un développement rapide, plusieurs de ces communautés nouvelles se sont trouvées confrontées à de graves crises de croissance, liées à une gouvernance inappropriée ou à des abus, constatés chez leurs fondateurs ou certains de leurs membres. Celles qui ont pu traverser ces crises sont celles qui, le plus souvent, ont su puiser dans la tradition et la spiritualité des vieilles congrégations une assise et des fondements. Par exemple, la Communauté charismatique du Chemin Neuf qui s’appuie sur la spiritualité ignatienne.

S’affranchir de la tradition vivante de la vie consacrée peut conduire à des impasses et à des désastres et avoir de graves conséquences pour les personnes, tout jetant le discrédit sur l’Eglise et la vie religieuse.

Une troisième stratégie : le renouvellement par la conversion personnelle et de nouvelles initiatives missionnaires.

C’est le chemin emprunté par un grand nombre de congrégations qui ont pu s’appuyer sur les grands textes post conciliaires comme Perfectae Caritatis, la déclaration sur la vie fraternelle en communauté et bien d’autres promulguées sous l’impulsion des papes et de la Curie romaine. Les congrégations religieuses ont été invitées à réviser, voire à réécrire leur Règle de vie ou leurs Constitutions et à mettre en place les réformes décidées au cours de leurs chapitres généraux. Cela s’est fait généralement dans les premières années de la décennie soixante-dix. Mais aujourd’hui, ces congrégations, longtemps portées par ce grand renouveau de la vie religieuse, se trouvent à nouveau interpellées par les profonds changements contemporains. Il leur faut reprendre, à nouveau frais, le travail de réforme.

Les périodes de renouveau qui jalonnent les parcours personnels sont particulièrement importantes pour faire la relecture de sa vie, fortifier sa foi et ouvrir à une plus grande disponibilité pour la mission.

Aux sources de l’avenir. Un patrimoine disponible à incarner.

L’Eglise reconnait une nouvelle congrégation quand elle discerne en elle l’Esprit Saint à l’œuvre et suscitant, en un temps et un lieu donné, des hommes et des femmes pour vivre en témoins de l’Evangile et répondre aux besoins des hommes.

Les spiritualités de ces congrégations sont les mille et une facettes d’un kaléidoscope. Elles expriment et incarnent le message évangélique. Reconnues par l’Eglise, elles en constituent le patrimoine. Les congrégations religieuses ont la mission de les incarner, à la suite de leurs fondateurs, dans le temps et dans l’espace. Elles en sont les intendantes et non les propriétaires. Ces spiritualités sont proposées à toutes celles et ceux qui veulent s’en inspirer pour vivre à la suite du Christ et avancer sur le chemin de la sainteté. Ce qui veut dire que ce patrimoine est une ressource qui doit rester disponible et accessible à tous. Et qu’il s’enrichit par l’apport de chaque génération, tout en temps s’acculturant dans de nouveaux espaces sociaux et géographiques. Il s’agit d’une tradition vivante qui peut nourrir l’existence de celles et de ceux qui aujourd’hui la choisissent pour vivre leur vocation de baptisés. Toutefois, les religieuses et les religieux sont en première ligne pour continuer de donner corps à ces spiritualités et en vivre au cœur de l’Eglise et de la famille humaine.

Les acteurs du changement.

Le renouveau de la vie religieuse est une entreprise de longue haleine et il convient de s’interroger sur celles et ceux qui en sont les acteurs et qui en ont la responsabilité.

En se rappelant le propos de Michel Crozier : « On ne change pas la société par décret. » Quelle articulation nécessaire entre les acteurs de terrain, ceux qu’on appelle « la base » et les responsables institutionnels qui exercent la gouvernance aux divers niveaux de la congrégation ? De même qu’entre les différents collaborateurs, engagés et mandatés pour le fonctionnement administratif et financier des communautés, avec les supérieurs religieux majeurs, responsables ? Enfin, quelle est la place et le rôle des personnes laïques associées qui partagent la spiritualité et la mission de la congrégation ?

Le renouveau ne peut s’envisager dans un statuquo ; il implique des changements qui doivent, notamment, s’inspirer des initiatives portées par quelques communautés pionnières, engagées sur de nouveaux chantiers missionnaires. Les Pères Maristes ont crée en Australie, en Thaïlande, en Turquie, des communautés engagées dans l’accueil des réfugiés, des migrants, des aborigènes, nommées communautés « Omnes Gentes » C’est le titre de la bulle pontificale de reconnaissance de leur congrégation par le pape Grégoire XVI : il y évoque le salut de tout le genre humain jusqu’aux extrémités de la terre et leur confie l’annonce de l’Evangile dans les îles d’Océanie.

Chaque congrégation, pour entreprendre sa réforme doit tenir compte de sa situation démographique et en mesurer les forces et les faiblesses. Aujourd’hui, les pyramides des âges sont inversées. Les aînés sont les plus nombreux, les actifs, entre 30 et 65 ans, beaucoup moins, tandis que les jeunes sont en petit nombre. Ces derniers viennent, le plus souvent, des nouvelles unités en développement dans les pays du Sud. Il convient de préciser le rôle des uns et des autres.

Les aînés ont un rôle important de passeur et de transmetteur. Jean Viard écrit que « les anciens ont une dimension de sages, de gardiens de la mémoire… ils sont le lien continu d’une société discontinue »cf : Un juste regard. pp. 251,52.L’aube. Ils peuvent apporter leur soutien et leurs encouragements à celles et de ceux qui seront chargés de la mise en œuvre des changements. Si, ceux-ci ne peuvent être entrepris sans leur participation, ces derniers peuvent être tentés de les bloquer et de vouloir maintenir les choses en l’état. Parfois aussi, il arrive que certains aînés soient habités par une sorte de résignation devant l’extinction de leur congrégation et l’abandon de certaines œuvres auxquelles ils ont consacré leur vie et ils demandent qu’on les laisse finir tranquillement leur vie. La plupart cependant suscitent l’admiration et le respect par leur humble fidélité jusqu’au bout.

Les 30-65 ans sont celles et ceux qui sont « aux affaires ». A la fois, très actifs dans leurs divers engagements et ministères et, en même temps, très engagés dans la gouvernance de leur congrégation. Ils sont très sollicités et souvent surchargés avec des agendas bien remplis, au risque de ne gérer que les urgences, sans avoir le temps de prendre du recul et de penser l’avenir.

Ce sont eux qui auront à engager des décisions difficiles et à faire des choix. Pour cela, il leur faut être spirituellement bien préparés, avoir une vision et une foi inébranlables en l’avenir. Et se laisser conduire par l’Esprit Saint.

Les jeunes.

La plupart des jeunes dans les congrégations viennent des pays du Sud, alors qu’ils sont très peu nombreux à rejoindre les communautés dans les pays de vieille chrétienté.

Nous sommes dans un moment historique pour ces jeunes. Ce rendez-vous, ce Kairos, les interpelle et leur demande de se rendre disponibles pour devenir les bâtisseurs d’un avenir pour la vie religieuse.

Il ne s’agira pas, pour eux, de seulement continuer comme avant, ni de servir de force d’appoint, permettant de poursuivre, encore quelque temps, des œuvres existantes, mais de se préparer à inventer des modes de vie religieuse enracinés dans la tradition vivante et qui répondent aux défis de notre temps. Tout en ouvrant de nouveaux chantiers d’Evangile. A titre d’exemple, Les jeunes africains sont particulièrement attentifs à la vie dans des communautés intergénérationnelles avec les aînés dont ils ont un grand souci. Ils accordent également un grand soin à la qualité des célébrations liturgiques.

Pour devenir ainsi les acteurs du changement et du renouveau, ils devront pouvoir compter sur la confiance et le soutien de leurs aînés. Et il leur faudra renoncer aux conformismes et à certaines de leurs aspirations personnelles. Ils ne pourront accomplir cette mission que s’ils sont y sont bien préparés par une formation humaine, intellectuelle et spirituelle qui les attache fortement au Christ et les enracine dans la tradition vivante de leur congrégation. Leur accueil requiert un grand discernement de la part des responsables et des formateurs qualifiés.

Dans un proche avenir, la plupart des responsables de congrégation seront originaires des pays du Sud. Ils auront la lourde responsabilité d’assumer l’héritage et de faire route avec leurs compagnons ou compagnes pour oser l’aventure de l’invention de l’avenir.

Je suis convaincu que, s’ils sont bien préparés, spirituellement et intellectuellement et capables de vivre en communauté internationale, ces jeunes sont une chance et un don de Dieu, offert aux congrégations pour vivre l’espérance d’un avenir pour la vie religieuse.

Ils doivent aussi pouvoir compter sur le soutien et la contribution de nombreux laïcs associés à la mission avec lesquels ils auront à travailler tout au long de leur vie.

Oser l’avenir et redevenir pèlerins.

Le renouveau de la vie religieuse ne peut s’opérer en respectant scrupuleusement une série de consignes et de procédures, comparables à une recette de cuisine qui, si elle est bien exécutée, produira un excellent résultat.

Il s’agira plutôt d’une aventure de la confiance, en espérant contre toute espérance. C’est à un nouveau pèlerinage que nous sommes conviés. L’entreprise exige de partir léger, sans trop de bagages, juste l’essentiel et de consentir à l’imprévu et à l’inattendu. Comme Abraham, notre père dans la foi, quitter son pays, se quitter soi-même et prendre la route, habités par la Parole et conduits par l’Esprit qui fait avancer dans la nuit.

Il n’y a pas de formule. Il n’y a pas de recettes, mais il y a un chemin.

Au commencement, un appel de Dieu qui attend notre réponse. Au commencement, une invitation à prendre la route. Le Christ nous accompagne sur le chemin. Il est venu nous apprendre à aimer à la manière de Dieu. Il nous invite à sa suite : «  Suis- moi. Venez et voyez. »Comme les premiers compagnons, laissons nos barques et nos filets.

En consentant à l’imprévu, aux surprises, à l’inespéré, à l’inouï.

Olivier Laurent

 



Domenica, 02 Marzo 2025 08:38

Ottava domenica del tempo ordinario. Anno C

Ottava domenica del tempo ordinario. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Sir 27,4-7

Dal libro del Siracide
 
Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti;
così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace,
così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo.
Il frutto dimostra come è coltivato l'albero,
così la parola rivela i pensieri del cuore.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini.
 

Salmo Responsoriale Sal 91

È bello rendere grazie al Signore.

È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.

Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.

Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità.

Seconda Lettura 1 Cor 15, 54-58


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
«La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov'è, o morte, la tua vittoria?
Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?»
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
 
Canto al Vangelo (Fil 2,15d-16a)


Alleluia, alleluia.

Risplendete come astri nel mondo,
tenendo salda la parola di vita.

Alleluia.

Vangelo Lc 6,39-45
 
Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: "Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio", mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d'altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

OMELIA

«Ogni albero si riconosce dal suo frutto» (v. 44).
Occorre vivere come le radici degli alberi, avendo l’ardire di riposare nella solitudine, nel silenzio e nel buio della propria terra interiore. E lì stare. Radicati.
Troppo spesso viviamo da sradicati. Ci manca il contatto silenzioso con noi stessi, con la nostra interiorità e profondità, trovandoci alla fine soli e infecondi. “Dov’è la vita che abbiamo perduta vivendo?” si domanda T.S. Eliot.
“Non vi è albero cattivo che produca un frutto buono” ci ricorda il vangelo di oggi.
Non è esclusiva dell’essere religioso, credente, magari cristiano di dare ‘frutti buoni’. Ciò che conta è il frutto, è il bene seminato, l’amore donato, la vita condivisa, la cura prestata. E ciò è sufficiente per mostrare che l’albero da cui proviene è esso stesso buono.
Una coppia irregolare, chi vive un amore ‘diverso’, un senza dio, il seguace di una tradizione spirituale che non sia quella cristiana cesseranno d’essere agli occhi di alcuni pseudo-religiosi, ‘alberi cattivi’ alla prova dei fatti, proprio per quell’amore che sanno donare e donarsi; e se questo amore sarà capace di trasformare, fecondare una vita, significherà che l’albero da cui quel bene è scaturito, è di per sé buono, senza se e senza ma, con radici talmente profonde d’attingere direttamente al cuore stesso del Mistero insondabile.
Ma occorre stare attenti, perché può accadere il contrario, ossia ritenersi alberi buoni solo perché appartenenti al sottobosco della consuetudine religiosa, cresciuti all’ombra delle pie pratiche di pietà, e dell’osservanza di sterili precetti, per poi scoprirsi dispensatori di frutti acerbi, cattivi e velenosi. E magari, alla fine della vita, ritrovarsi fatti solo di spine e rovi (cfr. v.44). Ma questo potrebbe comunque rivelarsi una benedizione: se prendessimo veramente coscienza d’essere fatti di spine, potremmo ancora essere posti come corona in testa al Cristo crocifisso (cfr. Mt 15, 17), realizzando così il detto di Isaia: «Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio» (Is 62, 3). Ed essere finalmente guariti dalla nostra presunzione, ritrovandoci nell’abbraccio di un Amore che tutto copre (1Cor 13, 7) e lasciandosi accarezzare da una misericordia che rigenera e manda avanti la vita.

 
Paolo Scquizzato
 
Sabato, 22 Febbraio 2025 21:29

Settima domenica del tempo ordinario. Anno C

Settima domenica del tempo ordinario. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura 1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23

Dal primo libro di Samuele
 
In quei giorni, Saul si mosse e scese nel deserto di Zif, conducendo con sé tremila uomini scelti d'Israele, per ricercare Davide nel deserto di Zif.
Davide e Abisài scesero tra quella gente di notte ed ecco, Saul dormiva profondamente tra i carriaggi e la sua lancia era infissa a terra presso il suo capo, mentre Abner con la truppa dormiva all’intorno. Abisài disse a Davide: «Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo». Ma Davide disse ad Abisài: «ANon ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?».
Davide portò via la lancia e la brocca dell’acqua che era presso il capo di Saul e tutti e due se ne andarono; nessuno vide, nessuno se ne accorse, nessuno si svegliò: tutti dormivano, perché era venuto su di loro un torpore mandato dal Signore.
Davide passò dall’altro lato e si fermò lontano sulla cima del monte; vi era una grande distanza tra loro.
Davide gridò: «Ecco la lancia del re: passi qui uno dei servitori e la prenda! Il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà, dal momento che oggi il Signore ti aveva messo nelle mie mani e non ho voluto stendere la mano sul consacrato del Signore».
 

Salmo Responsoriale Sal 103

Il Signore è buono e grande nell’amore.

Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome. 
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe, 
guarisce tutte le tue infermità, 
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.

Misericordioso e pietoso è il Signore, 
lento all’ira e grande nell’amore.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Quanto dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe.
Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono.

Seconda Lettura 1 Cor 15, 45-49


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.
Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.
Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l'uomo celeste, così anche i celesti.
E come eravamo simili all'uomo terreno, così saremo simili all'uomo celeste.
 
Canto al Vangelo (Gv 13,34)


Alleluia, alleluia.

Vi do un comandamento nuovo, dice il Signore:
come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.

Alleluia.

Vangelo Lc 6, 27-38
 
Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

OMELIA

Sii luce nella tenebra e compassione nell’odio; rialza chi è caduto, credi sempre che la sconfitta e la violenza non sono l’ultima parola; da’ e non pretendere in cambio; ama gli altri come ‘vuoti a perdere’. Non giudicare, e fai dono del più grande dono: il perdono. Se ti scoprirai ad agire così, ossia ‘da Dio’, sappi che sei della sua medesima sostanza: ‘sarate figli dell’Altissimo’ (cfr. v. 35).
‘Porta avanti la vita’, spezza le catene di chi si sente sbagliato, inadatto, sempre fuori luogo, irregolare. E se “la Chiesa scomunica, il cristiano continua ad andare a braccetto con chi è scomunicato. La Chiesa può condannare, dichiarare peccatore uno, metterlo sul rogo, ma il vero cristiano brucia sul rogo con colui che è condannato. Perché il cristiano deve unicamente e solamente portare la vita” (Giovanni Vannucci).
Questa è dunque è la vocazione dell’umano: essere trasparenza al divino che ci abita, dandogli forma nel quotidiano, elargendo Vita, diffondendo luce, iniettando nel mondo antidoti alla morte.

«La divinità si incontra laddove l’umanità diventa integra e profonda, quando si vede una persona senza difese e senza potere che è capace di darsi totalmente. Questo è il momento in cui il Gesù umano ci apre gli occhi a tutto ciò che significa Dio e ci permette di vedere tutto ciò che Dio è» (John Spong).

 
Paolo Scquizzato
 
Sabato, 22 Febbraio 2025 21:23

Sesta domenica del tempo ordinario. Anno C

Sesta domenica del tempo ordinario. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Ger 17, 5-8

Dal libro del profeta Geremia
 
Così dice il Signore:
"Maledetto l'uomo che confida nell'uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamarisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,
dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l'uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d'acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell'anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti".
 

Salmo Responsoriale Sal 1

Beato l'uomo che confida nel Signore.

Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.

È come albero piantato lungo corsi d'acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.

Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.

Seconda Lettura 1 Cor 5, 12. 16-20


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?
Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
 
Canto al Vangelo (Lc 6,23)


Alleluia, alleluia.

Rallegratevi ed esultate, dice il Signore,
perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.

Alleluia.

Vangelo Lc 6, 17. 20-26


Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
"Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti".

OMELIA

Ogni grande tradizione spirituale si rifà ad una sorta di ‘manifesto programmatico’ in grado di racchiudere in poche parole l’essenza del proprio messaggio.
L’ebraismo col Decalogo dice ai suoi ‘Osserva e sarai salvo’. Nel discorso di Benares il Buddha ai suoi dice: ‘Fuggi dal mondo dell’impermanenza e sarai salvo’. Sul monte delle Beatitudini Gesù consegna una parola che può essere così riassunta: ‘trasformati e sarai salvo’. Ossia, lavora sull’essere, trasforma il tuo modo di pensare – significato autentico di ‘conversione’-, non allinearti alla mentalità del mondo: non credere che l’avere, il potere e il successo ti possano rendere umano. Fai della tua vita una questione di ‘qualità’ e non di ‘quantità’.
Piangi con chi piange, perché solo gli occhi che hanno pianto potranno vedere altro oltre le apparenze, finanche ciò che tu chiami Dio.
Condividi il pane con gli affamati della storia, e saprai che solo facendoti pane per la fame altrui si estinguere la tua.
E sii povero, ovvero spogliati del tuo falso sé; distaccati dall’io e dal mio, dai tuoi pregiudizi, pre-comprensioni, attese e desideri egoici. Liberati dal giudizio degli altri, dal bisogno di avere sempre ragione, dal volere rimanere a galla a tutti i costi magari affondando gli altri solo per vincere, non fosse altro perché ‘i vincitori non sanno ciò che si perdono’ (Gesualdo Bufalino).
Guarda il tuo mondo interiore, e da’ un nome alle tue ombre, ai tuoi mostri interni e sappi che tutto ciò ha origine dalla medesima fonte che ti abita. E ricordati che guardare significa essere d’accordo con ciò che vedi, e che la verità non ha nulla a che fare con i fatti, ma solo con la luce.
Vincerai così la paura, perché ‘quando non si ha più nulla, non si ha più paura’ (Patriarca Atenagora).

 
Paolo Scquizzato
 

1. Il silenzio grembo in cui prende vita la preghiera e l’intera celebrazione

La prima cosa che viene in mente parlando del silenzio è di pensare a un tempo o un luogo caratterizzato dall'assenza della parola, dei rumori e delle relazioni; l'immagine che si accompagna è quella del vuoto, della solitudine... In realtà il silenzio è il grembo da cui nasce la parola carica di verità, da cui sgorga la preghiera. Fare silenzio è accingersi a pregare, è dare inizio alla preghiera.

Possiamo anche dire che il silenzio è il grembo da cui nasce e in cui si sviluppa la celebrazione. Eravamo soliti incominciare il Sal 65 (64) dicendo - seguendo il testo greco -: «A te si deve lode, o Dio, in Sion». La nuova traduzione CEI, facendo riferimento al testo ebraico, ci fa pregare dicendo: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion». Secondo questa formulazione, parafrasando, potremo dire: «Per te il silenzio è eucaristia, o Dio, in Sion (nella chiesa)».

Non fa meraviglia perciò che, a differenza del Ritus servandus in celebratione Missae del Messale tridentino, il nuovo Ordinamento Generale del Messale Romano (= OGMR), frutto della riforma liturgica del Vaticano II, richiami ripetutamente lungo l'intera celebrazione al valore del silenzio: cfr. OGMR 43,45,51,54,55,56, 66, 71,78,84,88, 127, 128, 130, 136, 147,164,165,271. Ripercorrendo queste indicazioni rubricali possiamo parlare di “silenzi dell'eucaristia”.

2. I silenzi dell'eucaristia

La linguistica ci insegna che una parola o un gesto, a seconda del contesto in cui viene a trovarsi inserita, amplia o restringe il suo significato1. Questo avviene anche per il silenzio: a seconda del momento in cui 'si fa silenzio', esso si carica di un particolare significato e contribuisce a dare un senso all'intera sequenza rituale. Ce lo ricorda l'OGMR formulando una indicazione generale:

Si deve anche osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l'atto penitenziale e dopo l'invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l'omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione (OGMR 45).

A prima vista questo testo sembra dare al silenzio un significato puramente funzionale; in realtà è proprio per il suo collocarsi in quel preciso momento, in quella sequenza rituale, che riceve e dà senso a essa. Per rendercene conto prendiamo in esame alcuni dei silenzi che sono previsti per la celebrazione dell' eucaristia.

2.1. Il silenzio della preparazione

Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione (OGMR 45).

Questo silenzio ha come soggetto il luogo e le persone. È un silenzio liminale, cioè che fa da confine, da soglia. Anche chi è entrato nella chiesa, ha cioè varcato fisicamente la soglia, deve intraprendere quel cammino che lo porta dal 'rumore' al silenzio interiore. Questo silenzio dà avvio a un movimento, quello dell'entrata nella celebrazione: movimento fisico è movimento del cuore e della mente. Fa spazio all'attesa dell'incontro con Dio e con gli altri (assemblea).

Attualmente si fa poca attenzione a questo silenzio; in questo modo si pregiudica l'avvio della celebrazione, che nasce da questo primo silenzio.

2.2. Il silenzio dei peccatori

Dopo il saluto iniziale, il sacerdote invita all'atto penitenziale dicendo: «Fratelli, prima di celebrare i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati»; «Dopo una breve pausa di silenzio, viene compiuto da tutta la comunità mediante una formula di confessione generale» (OGMR 51).

Questo silenzio porta a una presa di coscienza di trovarsi davanti ai 'santi misteri' che l'eucaristia racchiude e sta per ripresentare; conseguentemente fa scoprire la nostra situazione di peccatori da cui nasce la domanda di perdono. Infatti quando l'uomo si trova davanti a Dio e al suo mistero, scopre il suo stato di peccatore; avvenne così per Isaia che disse: «Ohimè, sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is 6,5). Lo è stato anche per Pietro; davanti alla pesca miracolosa egli si getta alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8s.).

2.3. Il silenzio che genera la preghiera

Chi viene alla messa porta con sé un mondo inespresso - problemi, aspirazioni, ricerche... - che attende di poter emergere. Per questo l'OGMR dice che, dopo l'atto penitenziale ed eventualmente il canto del Gloria:

Il sacerdote invita il popolo a pregare e tutti insieme con lui stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera. Quindi il sacerdote dice l'orazione, chiamata comunemente 'colletta', per mezzo della quale viene espresso il carattere della celebrazione (OGMR 54).
Il sacerdote invita il popolo alla preghiera, dicendo a mani giunte: Preghiamo. E tutti insieme con il sacerdote pregano, per breve tempo, in silenzio. Poi il sacerdote, con le braccia allargate, dice la colletta; al termine di questa, il popolo acclama: Amen (OGMR 127).

Questo silenzio, in cui è inserita la colletta, è orientato a «prendere coscienza di essere alla presenza di Dio» e a dare la possibilità di «formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera», che vengono poi raccolte (di qui 'colletta') da chi presiede in un'unica orazione, conclusa con la partecipazione di tutti mediante «l'acclamazione Amen».

2.4. Il silenzio dell'ascolto e della meditazione

L'OGMR, descrivendo la sequenza della liturgia della Parola, richiama ripetutamente la necessità del silenzio, prima, durante e dopo la proclamazione; è un silenzio fecondo, perché da esso sgorga la risposta orante, la professione di fede, la preghiera dei fedeli, l'offerta del sacrificio spirituale del credente.

Le letture scelte dalla sacra Scrittura con i canti che le accompagnano costituiscono la parte principale della liturgia della Parola; l'omelia, la professione di fede e la preghiera universale o preghiera dei fedeli sviluppano e concludono tale parte. Infatti nelle letture, che vengono poi spiegate nell'omelia, Dio parla al suo popolo, gli manifesta il mistero della redenzione e della salvezza e offre un nutrimento spirituale; Cristo stesso è presente, per mezzo della sua parola, tra i fedeli. Il popolo fa propria questa parola divina con il silenzio e i canti, e vi aderisce con la professione di fede. Così nutrito, prega nell'orazione universale per le necessità di tutta la chiesa e per la salvezza del mondo intero (OGMR 55).
La liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento, in essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all' assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l'aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera. Questi momenti di silenzio si possono osservare, per esempio, prima che inizi la stessa liturgia della Parola, dopo la prima e la seconda lettura, e terminata l'omelia (OGMR 56).

 Alla fine [della lettura] il lettore pronuncia l'acclamazione «Parola di Dio» e tutti rispondono «Rendiamo grazie a Dio». Quindi si può osservare, secondo l'opportunità, un breve momento di silenzio affinché tutti meditino brevemente ciò che hanno ascoltato (OGMR 128).

Se c'è una seconda lettura prima del vangelo, il lettore la proclama dall'ambone, tutti stanno in ascolto, e alla fine rispondono con l'acclamazione. Poi, secondo l'opportunità, si può osservare un breve momento di silenzio (OGMR 130).

È opportuno, dopo l'omelia, osservare un breve momento di silenzio (OGMR 66).

Il sacerdote... pronuncia l'omelia, al termine della quale si può osservare un momento di silenzio (OGMR 136).

Il popolo invece, stando in piedi, esprime [nella preghiera dei fedeli] la sua supplica con una invocazione comune dopo la formulazione di ogni singola intenzione, oppure pregando in silenzio (OGMR 70).

In questi testi intravvediamo una pluralità di funzioni e di significati del silenzio, a seconda di dove viene a trovarsi inserito.

C'è il silenzio prima della parola: è il silenzio della disponibilità all'accoglienza. Ancor prima di essere possibilità di riflessione, il silenzio è qui spazio per l'ascolto, per l'accoglienza senza pregiudizi, per la disponibilità libera dalla presunzione di sé. Il silenzio, così inteso, può paragonarsi a quel terreno buono di cui leggiamo nel vangelo (Lc 8,8) capace di ricevere il seme della parola di Dio.

C'è il silenzio durante e dopo la parola: è il silenzio della 'meditazione'. Chi ascolta fa come Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19), cioè ricercandone il senso per la vita propria e della comunità.

In questo silenzio matura la riposta a Dio che ci ha parlato: il Credo (OGMR 67s.), la preghiera dei fedeli (OGMR 70), l'offerta (preparazione dei doni), l'azione di grazie (Preghiera eucaristica). L'insistenza dell'OGMR nel sottolineare i momenti di silenzio lungo tutta la sequenza della liturgia della Parola sta a indicare che essa deve essere immersa in un clima di silenzio.

2.5. Il silenzio dell'offerta e della glorificazione

Secondo l'OGMR il popolo accompagna la Preghiera eucaristica con il silenzio:

Il sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell'azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa preghiera è che tutta l'assemblea dei fedeli si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell'offrire il sacrificio. La Preghiera eucaristica esige che tutti l'ascoltino con riverenza e silenzio (OGMR 78).
La Preghiera eucaristica esige, per sua natura, di essere pronunciata dal solo sacerdote, in forza dell' ordinazione. Il popolo invece si associ al sacerdote con fede e in silenzio, e anche con gli interventi stabiliti nel corso della Preghiera eucaristica (OGMR 147).

In questo silenzio il popolo è associato «per Cristo, con Cristo e in Cristo» all'azione di grazie per le 'grandi opere di Dio', all'offerta del sacrifico, alla glorificazione di Dio. È davvero un 'sacro silenzio', il silenzio dell'offerta e della glorificazione di Dio, in un atteggiamento adorante.

2.6. Il silenzio della fede e dell'adorazione

Dopo aver pronunciato le parole dell'istituzione, prima sul pane e poi sul vino, il sacerdote, in silenzio, presenta al popolo le specie eucaristiche, poi genuflette in segno di adorazione e conclude proclamando «Mistero della fede!». L'assemblea resta in silenzio e durante l'ostensione del pane e del vino consacrati, professa la sua fede nella presenza del Signore morto e risorto; vi è un suggerimento al riguardo: guardare le specie eucaristiche nel momento dell'ostensione e fare propria la professione di fede di Tommaso dicendo: «Signore mio e Dio mio!». Al termine della sequenza del racconto dell' istituzione, frutto del silenzio adorante, l'assemblea proclama la sua fede nel ripresentarsi oggi della passione morte e risurrezione del Signore.

2.7. Il silenzio dell'intimità che diventa canto

Anche nella sequenza rituale della comunione, come in quella della liturgia della Parola, ricorre continuamente il richiamo al silenzio, prima, durante e dopo la comunione.

Il sacerdote si prepara con una preghiera silenziosa a ricevere con frutto il corpo e il sangue di Cristo. Lo stesso fanno i fedeli pregando in silenzio (OGMR 84).

 Dopo aver purificato il calice, conviene che il sacerdote osservi una pausa di silenzio; poi dice l'orazione dopo la comunione (OGMR 271).

 Stando alla sede o all'altare, il sacerdote, rivolto al popolo, dice a mani giunte: Preghiamo e, a braccia allargate, dice l'orazione dopo la comunione, alla quale può premettere una breve pausa di silenzio (OGMR 165).

 Questo silenzio personale permette il dialogo intimo con lo Sposo venuto per le nozze. Da questo silenzio nasce il canto di tutti gli invitati alle nozze dell' Agnello:

 Terminata la distribuzione della comunione, il sacerdote e i fedeli, secondo l'opportunità, pregano per un po' di tempo in silenzio. Tutta l'assemblea può anche cantare un salmo, un altro cantico di lode o un inno (OGMR 88).
Compiuta la purificazione, il sacerdote può ritornare alla sede. Si può osservare, per un tempo conveniente, il sacro silenzio, oppure cantare un salmo, un altro canto di lode o un inno (OGMR 164).

Da notare che questo canto è l'ultimo previsto dall'OGMR, il vero canto finale. Purtroppo l'inosservanza di questo dettato dell'OGMR e delle dinamiche che vi soggiacciono, hanno portato un po' dovunque a fare un così detto canto finale che finisce per svilire la sequenza rituale della comunione, privandola del suo punto culmine: la preghiera intima che si fa canto.

3. Conclusione

Abbiamo percorso a grandi linee il dettato dell'OGMR in tema di silenzio. Ciò che emerge è che il nuovo rito - checché ne dicano i suoi detrattori - messo in opera da una sapiente regia e da presidenti e animatori competenti, orienta a far nascere dal silenzio la celebrazione dell'eucaristia, un silenzio che assume di volta in volta colori diversi, rende possibile l'ascolto fecondo, carica di significato le parole e i gesti, fa assumere alla preghiera tutte le sue diverse dimensioni, fino a farsi canto.

Gianfranco Venturi

 

 1 Cfr. G. VENTURI, Apporti della linguistica moderna alla comprensione della problematica del linguaggio liturgico, in AA.VV., Il linguaggio liturgico. Prospettive metodologiche e indicazioni pastorali, Dehoniane, Bologna 1981, 63 -117 .

 

(tratto da Rivista di Pastorale Liturgica, anno 2011, n. 289)

 

 

 

 

Ogni suicidio è una storia a sé e non ci sono spiegazioni dinanzi a un gesto che, il più delle volte, lascia sconcertati e interdetti. Non si sa mai quello che passa nella mente e nel cuore di chi sta per togliersi la vita.

Talvolta l'atto suicida contrasta con i valori professati dalla persona; è un tassello che non quadra con la sua storia. In qualche circostanza, il suicidio sopraggiunge proprio quando sembrava che le cose stessero prendendo una piega giusta.

Chi decide di sopprimere la propria vita lo fa per un'infinità di motivi, tra cui: la depressione, il disturbo bipolare, la solitudine, il senso di inutilità, le conflittualità familiari, l'incapacità di tollerare le frustrazioni, i fallimenti, le spigolosità caratteriali, una diagnosi infausta, le perdite. La scelta di chiudere il sipario matura all'ombra di sentimenti o pensieri struggenti, vissuti spesso come monologo. Il suicida rimane avvolto in un vortice di considerazioni che assolutizzano la sua visione catastrofica delle cose e lo convincono che la sua situazione è disperata e irreversibile.

Per chi resta l'impatto è terribile. Non è solo il sentimento di abbandono che sconvolge, ma la drammaticità di un gesto che, razionalmente o irrazionalmente, è percepito come un'accusa.

Lo strazio di chi resta

Familiari e amici si consumano nel tormento di aver fallito nel proprio ruolo di genitore, coniuge o figlio, di non aver amato abbastanza, di non aver prestato sufficiente attenzione a un gesto o a una parola, di non aver saputo decifrare un messaggio, di non poter tornare indietro.

I superstiti si sentono oppressi da una valanga di interrogativi, da tanti "ma" e "se", e da sentimenti contrastanti tra cui predominano il senso di colpa e la rabbia.

Innanzitutto familiari e amici sono sconvolti per non aver potuto prevenire la tragedia: «Vivrò il resto dei miei giorni nel tormento, per non averlo potuto salvare». «Passo le notti insonni, cercando disperatamente di cambiare ciò che è successo». «Sono rammaricata di non aver capito il dolore che si portava dentro».

Alcune famiglie provano vergogna e mascherano le vere cause di morte, attribuendola a fattori circostanziali: «Un infarto se l'è portato via per sempre». «Aveva un tumore al cervello». «Stava pulendo il fucile ed è partito il colpo».

Talvolta il senso di colpa emerge quando i familiari vanno al supermercato o in chiesa e avvertono il sussurro di qualcuno che dice: «Quella è la madre del ragazzo che si è impiccato». «Quello è il marito della donna che si è buttata dal quinto piano». Dietro ai commenti, i superstiti avvertono una silenziosa accusa per quanto accaduto o per aver fallito nel loro ruolo formativo o protettivo.

La presenza del senso di colpa richiede comprensione, ma anche una saggia valutazione nel rivisitare quanto accaduto. C'è il rischio di tormentarsi per colpe o errori non imputabili alla propria conoscenza o responsabilità. D'altro canto, non si può giudicare il passato con la conoscenza di oggi; né si può ritenere di essere l'unica persona di riferimento nella vita del defunto, né lo si può vegliare 24 ore su 24, per impedirne la morte, né si può scegliere per lui/lei. Se così fosse, il proprio caro sarebbe ancora vivo.

L'amore ferito

L'altro forte sentimento è di collera verso il proprio caro per averli lasciati, per aver rinunciato a lottare, per essersene andato senza salutare e aver inquinato l'immagine della famiglia. Per alcuni, la rabbia prorompe dinanzi agli imbarazzanti colloqui sostenuti con i carabinieri o per l'infinità di problemi causati.

Ecco alcune espressioni: «Non aveva il diritto di pensare solo a sé». «Non doveva lasciarci così!». «Perché lo ha fatto?». «Perché non ha pensato ai bambini?». Spesso sono le notti in bianco, il letto freddo, i mille grattacapi della vita quotidiana ad acutizzare l'irritabilità e la tensione.

In qualche modo i superstiti, a differenza del proprio caro che ha deciso di arrendersi, attraverso questa reazione dichiarano la loro volontà di andare avanti e di non lasciarsi travolgere dallo scoraggiamento.

La collera è un sentimento legato all'amore ferito, alla frustrazione per progetti distrutti, attese mancate, opportunità perdute. Non bisogna reprimerla o redarguire quanti la sperimentano con frasi. del tipo: «Non sentirti così!». «Non arrabbiarti!». «Non dire così!». È necessario che chi è in lutto dia spazio alla propria amarezza, quale premessa per maturare successivamente un atteggiamento di comprensione verso chi lo ha ferito, accettandone i misteri e la paura di vivere.

 

Arnaldo Pangrazzi

 

(tratto da Missione Salute, n. 1/2018, pag. 64)

 

Sabato, 08 Febbraio 2025 17:51

Quinta domenica del tempo ordinario. Anno C

Quinta domenica del tempo ordinario. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 6, 1-2. 3-8

Dal libro del profeta Isaia
 
Nell'anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l'uno all'altro, dicendo:
"Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!
Tutta la terra è piena della sua gloria".
Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi:
"Ohimè! Io sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti".
Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall'altare. Egli mi toccò la bocca e disse:
"Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
perciò è scomparsa la tua colpa
e il tuo peccato è espiato".
Poi io udii la voce del Signore che diceva: "Chi manderò e chi andrà per noi?". E io risposi: "Eccomi, manda me!".
 

Salmo Responsoriale Sal 127

Cantiamo al Signore, grande è la sua gloria.

Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.

Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.

Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra,
quando ascolteranno le parole della tua bocca.
Canteranno le vie del Signore:
grande è la gloria del Signore!

La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l'opera delle tue mani.

Seconda Lettura 1 Cor 15, 1-11


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!
A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè
che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
e che fu sepolto
e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.
Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.
 
Canto al Vangelo (Lc 4,18)


Alleluia, alleluia.

Venite dietro a me, dice il Signore,
vi farò pescatori di uomini.

Alleluia.

Vangelo Lc 5,1-11


Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: "Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca". Simone rispose: "Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti". Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: "Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore". Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: "Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini".
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

OMELIA

«Quest’è l’ora in cui nulla / può accadere. / Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara / che l’inutilità» (Cesare Pavese).
Un giorno all’alba ti svegli e t’accorgi d’aver sbagliato tutto; un senso di fallimento ti pervade, pare d’esserti ingannato su te stesso, sull’amore, le scelte fatte, su Dio… E tutto diventa non-senso, inutile.
Tutto questo lo ritroviamo nel vangelo di oggi: dopo una notte di fatica, all’alba non rimane che contemplare reti e mani vuote. Ma poi il giungere dell’inaspettato: una voce ordina ‘duc in altum’, prendi il largo, ossia: “più in alto che puoi, verso il fondo”. Rischia il folle volo. Rischia ancora.
C’è un Amore che sposa le conseguenze del mio male, perché il fallimento non deve inficiare il futuro; per questo mi invita a non rimanere sul bagnasciuga della storia a contemplare la vastità del mare struggendomi in sensi di colpa e recriminando sulle cose fallite. ‘Prendi il largo!’. Tu sei fatto per altezze vertiginose, vai! La vita sta dinanzi, non alle spalle.
Dio è verbo declinato al futuro.
Ma Pietro a tutto ciò non crede: «Signore allontanati da me, perché sono un peccatore». Questo è l’unico ‘peccato’ che possiamo commettere: credere che il proprio fallimento sia impedimento all’Amore. Come Pietro coltiviamo il pensiero che la ‘perfezione’, il farsi trovare adeguati e puliti sia condizione per stringersi all’Amato. E invece no. Il Vangelo afferma proprio il contrario: «Non temere» (v. 10), la tua barca – la tua vita – va bene così com’è, per questo posso salirci sopra (cfr. v. 3). La tua miseria è luogo della mia misericordia, le tue mani vuote prerogativa perché io le riempia, il tuo peccato la tua parte di vangelo. Il tuo nulla condizione perché qualcosa possa accadere.
«D’ora in poi…» conclude Gesù (v. 10). L’amore fa sempre ripartire da dove ci si era fermati.

 
Paolo Scquizzato
 
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